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5 Agosto 2020La Rivolta della Ragione – Capitolo 13 La genesi della mente – Materia, vita e intelletto
di Alan Woods e Ted Grant
L’enigma cervello
La natura organica sorse da quella morta; la natura vivente ha prodotto una forma dotata di pensiero. All’inizio c’era la materia, incapace di pensare, da cui si sviluppò la materia pensante, l’uomo. Se è così – e sappiamo che lo è dalle scienze naturali – è evidente che la materia è madre della mente, non che la mente è madre della materia. I bambini non sono mai più vecchi dei loro genitori. La “mente” viene successivamente e dobbiamo quindi considerarla prole, non genitrice (…). La materia esisteva già prima della comparsa dell’essere umano pensante; la Terra esisteva da lungo tempo prima della comparsa di qualsiasi tipo di “mente” sulla sua superficie. In altre parole, la materia esiste oggettivamente, indipendentemente dalla “mente”; al contrario il fenomeno psichico, la cosiddetta “mente”, mai e in nessun luogo esiste senza la materia, non è mai stata indipendente dalla materia. Il pensiero è impossibile senza un cervello; i desideri sono impossibili senza un organismo che desideri (…) in altre parole, i fenomeni psichici, il fenomeno della coscienza, sono semplicemente una proprietà della materia organizzata in una determinata maniera, una «funzione» di tale materia.
(Nicolaij Bucharin)
L’interpretazione dei meccanismi del cervello rappresenta uno degli ultimi misteri biologici rimasti, l’ultimo rifugio dell’oscuro misticismo e della discutibile filosofia religiosa
(Steven Rose)
.
Per secoli, come abbiamo visto, la questione centrale nella filosofia è stata quella del rapporto fra il pensiero e l’essere. Ora, finalmente, le grandi conquiste della scienza cominciano a gettare luce sulla vera natura della mente e sul suo funzionamento. Questi enormi progressi costituiscono una brillante conferma della visione materialista.
Ciò è particolarmente vero nel caso delle dispute sul cervello e sulla neurobiologia. L’ultimo rifugio dell’idealismo è minacciato, la qual cosa però non impedisce agli idealisti di condurre un’accanita lotta di retroguardia, come dimostra il seguente passo:
“Nel momento in cui divenne impossibile indagare su questo elemento non materiale della creazione, molti scelsero di ignorarlo. Sono giunti a pensare che solo la materia fosse reale; e quindi i nostri pensieri più profondi sono stati ridotti a mero prodotto di cellule cerebrali operanti secondo le leggi della chimica (…). Possiamo studiare le reazioni elettriche del cervello che accompagnano il pensiero, ma non possiamo ridurre Platone ad impulsi nervosi, né Aristotele a onde alfa (…). La pura descrizione di movimenti fisici non ne rivelerà mai il senso. La biologia può solo esaminare il mondo di interconnessioni di neuroni e sinapsi.”51
Quella che noi chiamiamo “mente” è solo la modalità di esistenza del cervello; si tratta di un fenomeno immensamente complesso, prodotto da milioni di anni di evoluzione. A causa delle difficoltà di analisi dei complessi procedimenti in atto nel cervello e nel sistema nervoso e delle interrelazioni altrettanto complesse fra processi mentali e ambiente, si è determinato un ritardo di secoli nel giungere ad una vera comprensione della natura del pensiero.
Questo ha consentito a idealisti e teologi di speculare sulla presunta natura mistica dell’“anima”, concepita come un’entità non materiale che si degna di risiedere temporaneamente nel corpo.
Ma ora, in base ai progressi della moderna neurobiologia, gli idealisti vengono finalmente stanati dal loro ultimo rifugio. Nella misura in cui cominciamo a svelare i segreti del cervello e del sistema nervoso, diventa progressivamente più facile concepire la mente come il complesso delle attività cerebrali, senza ricorrere ad agenti sovrannaturali. Come dice il neurobiologo Steven Rose, la mente e la coscienza sono “conseguenza inevitabile dell’evoluzione di determinate strutture cerebrali, sviluppatesi nel corso di molteplici cambiamenti evolutivi che hanno accompagnato lo sviluppo umano (…). La coscienza è una conseguenza dell’evoluzione di un determinato livello di complessità e di un determinato grado di interazione fra le cellule nervose (neuroni) della corteccia cerebrale, mentre la forma che essa assume è profondamente determinata per ogni singolo cervello dal suo sviluppo in rapporto con l’ambiente.”52
La mente: una macchina?
Il modo di concepire il cervello umano è cambiato sensibilmente nel corso degli ultimi 300 anni – da quando è nata la scienza moderna e si è affermata la società capitalista – e nel corso della storia è stato pesantemente condizionato dai pregiudizi religiosi e filosofici delle varie epoche. Per la Chiesa, la mente era la “dimora di Dio”, mentre il materialismo meccanicista del XVIII secolo la considerava una macchina perfetta. Più recentemente, è stata definita come una somma improbabile di eventi probabilistici. Nel medioevo europeo, sotto il dominio dell’ideologia cattolica, si diceva che l’anima permeasse tutte le parti del corpo e il cervello; mente e materia erano ritenute indistinguibili. L’avvento di Copernico, Galileo, Newton e Cartesio e la conseguente vittoria di una prospettiva improntata al materialismo meccanicistico, determinò un ulteriore cambiamento di tale concezione.
Per Cartesio il mondo era assimilabile ad una macchina e gli organismi viventi erano solo particolari dispositivi meccanici o idraulici. Questa immagine cartesiana della macchina giunse a dominare la scienza e costituì la metafora fondamentale a legittimazione di quella determinata visione del mondo che prendeva la macchina a modello dell’organismo vivente e non viceversa. Gli organismi viventi sono entità indissolubili che, scomposti, perdono le proprie caratteristiche essenziali; le macchine invece possono essere smontate, studiate e poi rimesse insieme: ogni parte assolve una funzione distinta ed analizzabile e l’insieme opera in una maniera regolare descrivibile come l’azione reciproca delle singole parti.
In ogni epoca, la raffigurazione del cervello ha riflesso fedelmente le limitazioni della scienza del periodo. La visione meccanicistica tipica del XVIII secolo evidenziava il fatto che la scienza più avanzata di quei tempi era la meccanica. Il grande Newton non aveva forse spiegato l’intero universo per mezzo delle leggi della meccanica? Per quale ragione, dunque, il corpo e la mente umana avrebbero dovuto funzionare diversamente? Cartesio fece proprio questo punto di vista quando descrisse il corpo umano come una sorta di automa, ma, essendo un cattolico devoto, non riuscì ad accettare il fatto che l’anima immortale potesse essere parte di tale macchina: essa doveva essere totalmente separata, situata in una zona particolare del cervello, la cosiddetta ghiandola pineale. In questo angolo oscuro del cervello, lo Spirito trovava domicilio temporaneo nel corpo, infondendo vita alla macchina.
“Così si sviluppò una inevitabile ma fatale frattura nel pensiero scientifico occidentale” – afferma Steven Rose – “Il dogma noto nel caso di Cartesio e dei suoi successori come «dualismo»; un dogma che, come vedremo, è la conseguenza inevitabile di qualsiasi tipo di materialismo riduzionista che in ultima analisi rifiuta il fatto che gli esseri umani «non siano altro» che il moto delle loro molecole. Il dualismo era una soluzione al paradosso posto dal meccanicismo, la quale avrebbe permesso alla religione e alla scienza riduzionista di rinviare per altri due secoli l’inevitabile resa dei conti per la supremazia ideologica. Si trattava di una soluzione compatibile con l’ordine capitalista dell’epoca poiché negli affari quotidiani consentiva di trattare gli esseri umani come meri meccanismi fisici, mercificabili e sfruttabili senza contraddizione alcuna, mentre la domenica si poteva rafforzare il controllo ideologico con l’affermazione dell’immortalità e della libera volontà di uno spirito incorporeo libero da costrizioni, non colpito dai traumi a cui il corpo è stato sottoposto nei giorni lavorativi.”53
Nei secoli XVIII e XIX, l’idea della mente quale “fantasma all’interno della macchina” subì un cambiamento: in base all’avvento dell’elettricità il cervello e il sistema nervoso furono concepiti come labirinti elettrici, mentre a cavallo tra Otto e Novecento emerse l’analogia con la centrale telefonica, secondo cui il cervello elaborava messaggi provenienti dai diversi organi; con l’era della produzione di massa si affermò il modello dell’organizzazione aziendale, come tipicamente espresso da questa citazione tratta da un’enciclopedia per bambini:
“Immagina che il tuo cervello sia l’amministrazione di una grande azienda. Esso è diviso, come vedi qui, in molti dipartimenti. Seduto alla grande scrivania nell’ufficio della sede centrale c’è il Direttore Generale – il tuo io cosciente – con linee telefoniche che lo collegano ad ogni dipartimento. Intorno a te ci sono i tuoi principali assistenti, i Responsabili dei messaggi in arrivo, Vista, Sapore, Olfatto, Udito e Tatto (gli ultimi due sono nascosti dietro gli uffici centrali). Lì vicino si trovano anche i Responsabili dei messaggi in uscita, che controllano la parola e i movimenti delle braccia, delle gambe e delle altre parti del corpo. Naturalmente solo i messaggi più importanti raggiungono il tuo ufficio, mentre i compiti di routine, come l’attività del cuore, dei polmoni e dello stomaco, o la supervisione degli aspetti secondari del lavoro muscolare, sono svolti dai Direttori delle azioni automatiche nel midollo allungato e dal Direttore delle azioni di riflesso posto nel cervelletto. Tutti gli altri dipartimenti costituiscono quello che gli scienziati chiamano encefalo.”
Con l’avvento del computer, capace di svolgere calcoli sbalorditivi, divenne inevitabile il paragone fra quest’ultimo e il cervello, tanto che il mezzo con cui i computer immagazzinano le informazioni si chiama memoria. Si costruiscono computer sempre più potenti; fino a che punto il computer può avvicinarsi al cervello umano? Inevitabilmente la fantascienza ci ha portato i film della serie Terminator, in cui i computer hanno superato l’intelligenza umana e lottano per impadronirsi del mondo. Eppure, come spiega Steven Rose nel suo ultimo libro:
“I cervelli non lavorano su informazioni nel senso computeristico, ma su significati. E il significato è il risultato di un processo plasmato storicamente e attraverso lo sviluppo, espresso dagli individui nell’interazione col loro ambiente naturale e sociale. Infatti, uno dei problemi che si presentano nello studio della memoria è proprio il fatto che si tratta di un fenomeno dialettico, dato che, ogni volta che ricordiamo, in qualche modo elaboriamo e trasformiamo la nostra memoria; essa non viene semplicemente richiamata e, una volta consultata, rimessa a posto senza modifiche. Le nostre memorie vengono ricreate ogni volta che ricordiamo.”54
Che cos’è il cervello?
Il cervello umano è il punto massimo raggiunto dall’evoluzione della materia. Da un punto di vista fisico, esso pesa circa 1,5 kg, ed è dunque più pesante della maggior parte degli organi umani; ha una superficie a solchi come una noce e un colore e una consistenza simile al porridge freddo [sorta di soffice pappa di farina d’orzo tipica della cucina scozzese, Ndt]. Dal punto di vista biologico però è estremamente complesso; è formato da un enorme numero di cellule (neuroni) per un totale, forse, di cento miliardi. Ma anche questo numero risulta piccolo quando consideriamo che ogni neurone è sostenuto da una massa di cellule più piccole chiamate glia.
Il cervello è composto in gran parte dall’encefalo, che è suddiviso in due parti uguali. La zona superficiale si chiama corteccia, la cui dimensione distingue gli esseri umani dagli altri organismi. L’encefalo è diviso in regioni o lobi, che corrispondono approssimativamente alle particolari funzioni del corpo e all’elaborazione delle informazioni sensoriali. Dietro all’encefalo è posto il cervelletto, che gestisce tutti i piccoli movimenti muscolari del corpo. Sotto queste componenti c’è un grosso stelo, o tronco encefalico, che è la continuazione del midollo spinale; esso porta le fibre nervose dal cervello lungo la colonna vertebrale e in tutto il sistema nervoso del corpo, collegando ogni parte col cervello.
La maggior dimensione del cervello, che distingue decisamente gli esseri umani dagli altri animali, è dovuta principalmente all’ingrossamento del sottile strato esterno di cellule neurali detto neocorteccia. Tuttavia, questa espansione non si è verificata in modo uniforme. I lobi anteriori, associati alla pianificazione e alla previsione, sono espansi molto più marcatamente del resto. Lo stesso si può affermare per il cervelletto, nella parte posteriore del cranio, che è associato alla capacità di acquisire abilità automatiche, un gran numero di azioni quotidiane che eseguiamo senza pensare, come la capacità di andare in bicicletta, cambiare marcia in auto o abbottonare il pigiama. Il cervello stesso contiene un sistema circolatorio che porta gli elementi nutritivi nelle regioni lontane dalla circolazione sanguigna. Esso riceve una gran quantità di sangue, che porta ossigeno e glucosio. Nonostante il cervello adulto costituisca solo il 2% del peso corporeo, il suo consumo di ossigeno è il 20% del totale, e in un bambino può raggiungere il 50%. Una simile proporzione del consumo di glucosio è riservata al cervello, al quale è destinato anche un quinto del sangue pompato dal cuore.
I nervi trasmettono informazioni per mezzo dell’elettricità. Il segnale che passa lungo un nervo lo fa come un’onda elettrica, un impulso che passa dal corpo della cellula fino all’estremità della fibra nervosa. Il linguaggio del cervello è quindi composto da impulsi elettrici, di cui rileva non solo la quantità, ma anche la frequenza.
“Le informazioni su cui si basano tali previsioni” – scrive Rose – “dipendono dall’arrivo di dati alla superficie del corpo in termini di luce, di suono, di lunghezze d’onda e intensità variabili, fluttuazioni della temperatura, pressione su determinati punti della pelle, concentrazioni di determinate sostanze chimiche rilevate dal naso o dalla lingua. All’interno del corpo tali dati vengono trasformati in una serie di segnali elettrici che passano lungo i nervi fino a raggiungere le regioni centrali del cervello dove i segnali interagiscono gli uni con gli altri producendo determinati tipi di risposta.
Il neurone è composto da diverse parti (dendriti, corpo cellulare, assone) che permettono questa trasmissione delle informazioni (i messaggi arrivano alle terminazioni sinaptiche dall’assone).”
In altre parole, il neurone è l’unità base del sistema cerebrale. Qualsiasi azione muscolare coordinata coinvolge migliaia di motoneuroni. Le azioni più complesse ne interessano milioni, anche se occorre tenere presente che un milione di neuroni rappresenta solo lo 0,01 per cento circa del totale disponibile nella corteccia umana. Tuttavia, il cervello non può essere compreso se lo si considera come l’assemblaggio di parti distinte; se da un lato l’analisi dettagliata della composizione del cervello è vitale, essa può essere utile solo fino ad un certo punto.
“Ci sono molti livelli a cui può essere descritto il comportamento del cervello” – dice Rose – “Si può descrivere la struttura quantistica degli atomi, o le proprietà molecolari delle sostanze chimiche che lo compongono; osservare le singole cellule al microscopio elettronico; il comportamento dei suoi neuroni come parte di un sistema interattivo; la storia evolutiva o dello sviluppo di questi neuroni come una struttura che muta nel tempo; la risposta comportamentale dell’individuo il cui cervello è oggetto di discussione; l’ambiente familiare o sociale di quel determinato essere umano, e così via.”55
Per capire il cervello, occorre afferrare le complesse interrelazioni dialettiche di tutte le sue parti; è necessario fare ricorso congiuntamente a tutta una serie di scienze: etologia, psicologia, fisiologia, farmacologia, biochimica, biologia molecolare e, inoltre, cibernetica e matematica.
L’evoluzione del cervello
Nella mitologia antica, la dea Minerva spuntò con tanto d’armi dalla testa di Giove. Il cervello non poté godere di pari fortuna: lungi dall’essere creato in un solo istante, per divenire il complesso sistema che oggi conosciamo ha dovuto evolversi per milioni di anni. Esso comparve ad un livello evolutivo assai primitivo. Gli organismi unicellulari mostrano determinati schemi comportamentali, come ad esempio il moto in direzione della luce o di principi nutritivi. Con l’avvento degli organismi pluricellulari si determinò una netta divisione fra vita animale e vegetale; pur disponendo di dispositivi interni di segnalazione che permettono alle piante di “comunicare”, l’evoluzione vegetale rimase estranea allo sviluppo di nervi e cervello. Nel regno animale invece il movimento richiedeva una rapida comunicazione fra le cellule delle diverse parti del corpo.
Gli organismi più semplici sono autosufficienti, dato che possiedono tutto ciò di cui hanno bisogno in una singola cellula: inoltre la comunicazione tra una parte della cellula e le altre è relativamente agevole. Gli organismi pluricellulari invece sono qualitativamente diversi e permettono lo sviluppo di una specializzazione delle cellule: alcune possono occuparsi primariamente della digestione, altre forniscono uno strato protettivo, altre permettono la circolazione, ecc.. L’uso di segnali chimici (ormoni) è presente perfino negli organismi pluricellulari più primitivi, nei quali si compaiono già cellule specializzate, e costituisce un primo passo nella direzione di un sistema nervoso. Organismi più complessi, come i vermi piatti, hanno sviluppato un sistema nervoso, in cui i neuroni sono raggruppati insieme in un ganglio. È stato accertato che tale organo rappresenta il legame evolutivo fra nervi e cervello. Questi fasci di cellule nervose sono presenti negli insetti, nei crostacei e nei molluschi.
La formazione di una testa e la localizzazione di organi della vista e di una bocca costituiscono un vantaggio nella ricezione delle informazioni sulla direzione in cui l’animale si sta muovendo. In conformità con tale sviluppo nella testa del verme piatto si trovano riuniti un gruppo di gangli, un fatto che rappresenta, sebbene ad uno stadio molto primitivo, l’evoluzione di un cervello. Il verme piatto inoltre presenta capacità d’apprendimento, proprietà fondamentale del cervello sviluppato, un rivoluzionario balzo in avanti in termini evolutivi.
Più di un decennio fa, alcuni neurologi americani scoprirono che i meccanismi cellulari di base per la formazione della memoria negli uomini sono presenti anche nelle lumache. Il professor Eric Kandel della Columbia University ha studiato l’apprendimento e la memoria della lumaca marina Aplysia californica e ha rilevato la presenza di alcune delle caratteristiche basilari presenti negli esseri umani. La differenza è che, mentre il cervello umano ha circa 100 miliardi di cellule nervose, l’Aplysia ne possiede solo qualche migliaio, ed esse sono di grandi dimensioni. Il fatto che condividiamo tali meccanismi con una lumaca marina costituisce una risposta sufficiente agli ostinati tentativi degli idealisti di presentare l’umanità come frutto di una creazione unica, distinta e separata dagli altri animali; occorre inoltre ricordare che quasi tutte le funzioni cerebrali dipendono in qualche modo dalla memoria. Non si deve affatto ricorrere ad alcun intervento divino per spiegare un tale fenomeno; i processi naturali tendono ad essere molto conservatori: una volta trovato un adattamento utile all’adempimento di determinate funzioni, esso viene costantemente replicato, ingrandito e migliorato nel corso dell’evoluzione, nella misura in cui ciò conferisca un vantaggio evolutivo.
L’evoluzione ha introdotto molte innovazioni nel cervello degli animali, particolarmente nei primati superiori e negli uomini, dotati di cervelli di considerevoli dimensioni. Mentre l’Aplysia è in grado di “ricordare” qualcosa per diverse settimane, l’esercizio della sua memoria comporta solo un livello di attività mentale conosciuto negli uomini come abitudine: una tale memoria è adatta, ad esempio, a ricordare come si nuota. Ricerche condotte su persone con danni cerebrali hanno suggerito che le facoltà di ricordare dati o abitudini sono immagazzinate in posti differenti del cervello. Una persona può aver perso la memoria per i dati, ma allo stesso tempo può essere capace di ricordare come si va in bicicletta. È ovvio, d’altro canto, che i ricordi immagazzinati nel cervello umano sono infinitamente più complessi dei processi che interessano il sistema nervoso di una lumaca.
Il progressivo ingrandimento del cervello richiese un cambiamento drastico nell’evoluzione della vita animale. Il sistema nervoso degli artropodi o dei molluschi non può svilupparsi ulteriormente, a causa di un problema fondamentale di progettazione: i neuroni sono disposti ad anello intorno al tratto digerente e, nel caso si espandessero, lo strozzerebbero. Un tale problema si può riscontrare molto chiaramente nel ragno, il cui tratto digerente è stretto dall’anello di nervi fino al punto che il ragno può ingerire il suo cibo solo dopo averlo liquefatto. Gli insetti non possono crescere oltre una certa misura, poiché la loro struttura si spezzerebbe sotto il suo peso: la dimensione del loro cervello ha quindi raggiunto il suo limite fisico. Gli insetti di proporzioni gigantesche hanno dunque un posto solo nei film dell’orrore o nella fantascienza di serie B.
L’ulteriore sviluppo del cervello è subordinato alla separazione dei nervi dal tratto digerente. La comparsa dei pesci vertebrati fornì il modello per il successivo sviluppo del midollo spinale e del cervello. La cavità del cranio può contenere un cervello più grande e i nervi corrono dal cervello attraverso la colonna vertebrale, lungo il midollo spinale.
Dalle cavità oculari si sviluppò un occhio in grado di formare immagini in grado di trasmettere strutture ottiche al sistema nervoso. Con l’approdo sulla terraferma degli anfibi e dei rettili si registrò un grande sviluppo della regione anteriore del cervello, che avvenne a scapito dei lobi ottici.
Vent’anni fa Harry Jerison dell’Università della California sviluppò l’ipotesi di una correlazione fra le dimensioni del cervello e quella del corpo e ne tracciò lo sviluppo evolutivo. Scoprì che i rettili, che hanno il cervello piccolo, già 300 milioni di anni fa avevano questa caratteristica. Il grafico da lui elaborato delle dimensioni cerebrali dei rettili in relazione alla grandezza del corpo, dà come risultato una linea retta, inclusi anche i dinosauri. La comparsa dei mammiferi primitivi, circa 200 milioni di anni fa, segnò un balzo nella grandezza relativa del cervello. Questi piccoli mammiferi notturni erano dotati di un cervello in proporzione quattro o cinque volte maggiore del rettile medio. Ciò dipendeva in gran misura dallo sviluppo della corteccia cerebrale, che è peculiare dei mammiferi. Questa situazione rimase immutata per circa 100 milioni di anni; poi, circa 65 milioni di anni fa, subì una rapida accelerazione. Secondo Roger Lewin, nell’arco di 30 milioni di anni di sviluppo il cervello “era aumentato di quattro, cinque volte; gli aumenti maggiori erano in coincidenza con l’evoluzione degli ungulati (mammiferi con zoccoli), dei carnivori e dei primati.” (New Scientist, 5 dicembre 1992).
Con l’evoluzione delle scimmie, dei primati e degli uomini, il cervello divenne sempre più grande. Tenendo conto delle dimensioni del corpo, il cervello della scimmia è 2-3 volte maggiore della media dei mammiferi attuali, mentre il cervello umano è circa sei volte più grande. Lo sviluppo del cervello non fu un processo continuo e graduale, ma avvenne con balzi improvvisi e in modo discontinuo.
“Anche se questo quadro approssimativo tralascia dettagli importanti, il messaggio principale è abbastanza chiaro”, afferma Roger Lewin, “la storia del cervello comporta lunghi periodi di stabilità intercalati da raffiche di cambiamento.”
In meno di 3 milioni di anni – un balzo evolutivo – la grandezza relativa del cervello è triplicata, sviluppando una corteccia che costituisce il 70-80 per cento del volume cerebrale. Le prime specie di ominidi bipedi si evolsero in qualche luogo in un periodo compreso fra 10 e 7 milioni di anni fa. Tuttavia il loro cervello era relativamente piccolo, comparabile a quello degli altri primati. In seguito, circa 2.6 milioni di anni fa si verificò una rapida espansione con la comparsa del genere Homo.
“Ci fu un salto nell’evoluzione dei progenitori degli esseri umani moderni”, afferma il geologo Mark Maslin dell’Università di Kiel. “I dati in nostro possesso” spiega Lewin, “suggeriscono che l’espansione del cervello cominciò circa 2.5 milioni di anni fa, un periodo che coincide con la prima comparsa degli strumenti di pietra.”
Con il lavoro manuale, come spiegò Engels, venne la prima espansione del cervello e lo sviluppo della parola. I sistemi di comunicazione primitivi fra animali cedettero il passo al linguaggio: un progresso decisivo. Ciò deve essere stato favorito anche dallo sviluppo delle corde vocali. Il cervello umano è in grado di concepire astrazioni e generalizzazioni che vanno oltre quelle possibili allo scimpanzé, al quale siamo strettamente apparentati.
All’aumento delle dimensioni cerebrali si accompagnò l’aumento della complessità e la riorganizzazione dei circuiti neurali; ne beneficiò principalmente la regione anteriore della corteccia, la zona prefrontale, circa sei volte maggiore di quella delle scimmie. A causa delle sue notevoli dimensioni, questa zona può penetrare con un numero maggiore di fibre nel mesencefalo, spostando lì connessioni da altre regioni del cervello. “Questo potrebbe essere significativo per l’evoluzione del linguaggio”, dice Terrence Deacon dell’Università di Harvard, il quale fa notare che la zona prefrontale del cervello umano è sede di alcuni centri del linguaggio. Per gli esseri umani, la concretezza della coscienza è rivelata dalla consapevolezza di sé e dal pensiero.
“Con l’emergere della coscienza” – osserva Steven Rose – “si è verificato un balzo qualitativo in avanti nell’evoluzione, determinando una distinzione critica fra l’umanità e le altre specie: gli uomini sono diventati capaci di enormi differenziazioni e sono soggetti a interazioni più complesse di quanto sia possibile agli altri organismi. L’emergere della coscienza ha cambiato qualitativamente il modo di esistere degli uomini; con essa si palesa un nuovo ordine di complessità, un ordine più elevato di organizzazione gerarchica. Ma, visto che abbiamo definito la coscienza non come una forma statica ma come un processo che comporta l’interazione fra individuo e ambiente, possiamo vedere come, man mano che i rapporti umani si sono trasformati durante l’evoluzione della società, allo stesso modo si è trasformata anche la coscienza. La nostra capacità cranica o il numero di cellule non sono così diverse da quelle del primo Homo sapiens, ma il nostro ambiente, le nostre forme di società, sono molto differenti e dunque lo è anche la nostra coscienza, e di conseguenza il funzionamento del nostro cervello.”56
L’importanza del linguaggio
L’impatto del linguaggio – in particolare lo sviluppo del “linguaggio interiore” – sullo sviluppo del nostro cervello ha un’importanza decisiva. Quest’idea non è nuova: era già nota agli antichi greci e ai filosofi del XVII secolo, in particolare Thomas Hobbes. Nel suo libro Le origini dell’uomo, Charles Darwin aveva affermato:
“Una lunga e complessa concatenazione di pensieri non può essere svolta senza l’ausilio delle parole, siano esse pronunciate o mute, in modo migliore di quanto un lungo calcolo possa essere risolto senza ricorrere alle cifre e all’algebra.”
Negli anni ’30 lo psicologo sovietico Lev Vygotsky tentò di rifondare tutta la psicologia su queste basi: traendo esempi dal comportamento infantile, egli spiegò le ragioni per cui il bambino passa molto tempo a parlare fra sé e sé ad alta voce: sta esercitando le abitudini di pianificazione che in una fase successiva dovrà dominare dentro sé come discorso interiore.
Vygotsky dimostrò che questo discorso interiore è alla base della capacità umana di richiamare i ricordi. La mente umana è dominata da un mondo interiore di pensieri, stimolato dalle nostre sensazioni e capace di generalizzazione e di prospettiva. Anche gli animali possiedono una memoria, ma questa sembra essere bloccata nel presente, riflettendo l’ambiente immediato. Lo sviluppo del discorso interiore permette agli uomini di recuperare e di sviluppare idee memorizzate; per questo motivo il discorso interiore ha giocato un ruolo chiave nell’evoluzione della mente umana.
Il lavoro di Vygotsky fu troncato dalla sua morte prematura, ma le sue idee sono state riprese ed arricchite, con un importante contributo da parte dell’antropologia, della sociologia, della linguistica e della psicologia educativa. In passato la memoria veniva esaminata come un sistema biologico unitario, comprendente sia la memoria a breve che quella a lungo termine. Poteva essere indagata dal punto di vista neurofisiologico o da quello biochimico o anatomico; oggi invece si sta sviluppando un approccio più dialettico, che coinvolge altre scienze.
“Secondo l’approccio riduzionista” – commenta Rose – “il vero compito delle scienze dell’organismo sarebbe quello di frantumare il comportamento dell’individuo in particolari configurazioni molecolari, mentre lo studio delle popolazioni di organismi viene ridotto alla ricerca di filamenti di DNA che codifichino l’altruismo reciproco o l’egoismo. Casi emblematici di questo approccio nell’ultimo decennio sono stati i tentativi di purificare le molecole di RNA, proteina o peptide, che sono prodotte dall’apprendimento e che “codificano” memorie specifiche; oppure la ricerca da parte dei biologi molecolari di organismi dotati di un sistema nervoso “semplice” che può essere mappato con una serie di sezioni osservabili al microscopio elettronico, per individuare i diversi diagrammi di circuito associati alle differenti variazioni comportamentali.”57
Rose conclude affermando che:
“I paradossi in cui si imbatte questo tipo di riduzionismo sono probabilmente più ostici di quelli dei costruttori di sistemi; essi sono naturalmente palesi fin dai tempi di Cartesio, la cui riduzione dell’organismo ad una macchina animale mossa idraulicamente si doveva conciliare, nel caso dell’uomo, con l’esistenza di un’anima dotata di libero arbitrio residente nella ghiandola pineale. Oggi come allora, il meccanicismo riduzionista prima di concludere la sua opera si confina nel gretto idealismo.”
Nell’evoluzione del cervello poche parti sono state totalmente scartate: nella misura in cui si sono sviluppate nuove strutture, quelle vecchie hanno ridotto la loro importanza e la loro grandezza. Lo sviluppo del cervello è accompagnato da una accresciuta capacità di apprendimento.
Originariamente era stato ipotizzato che la trasformazione da scimmia a uomo avesse avuto inizio con l’accrescimento del cervello: il cervello della scimmia ha un volume che va dai 400 ai 600 centimetri cubi, mentre quello umano è compreso tra i 1.200 e i 1.500 centimetri cubi. Si era convinti che il cosiddetto “anello mancante” sarebbe stato fisicamente simile ad una scimmia, ma dotato di un cervello più grande; era diffusa inoltre la convinzione che il cervello ingrandito avesse preceduto l’adozione della postura eretta.
Questa prima teoria sul cervello fu denunciata decisamente da Engels quale appendice arbitraria della falsa concezione idealista della storia. Il passo decisivo nella transizione da scimmia a uomo fu l’andatura eretta. Fu la natura bipede dei primi ominidi a liberare loro le mani, il che portò successivamente all’espansione del cervello.
“In primo luogo il lavoro” – dice Engels – “dopo di esso e con esso il linguaggio: ecco i due stimoli più essenziali sotto la cui influenza il cervello di una scimmia si è trasformato gradualmente in un cervello umano (…).”58
La successiva scoperta di reperti fossili confermò l’opinione di Engels:
“La conferma è stata completa e oltre ogni dubbio scientifico. Le creature africane che erano state portate alla luce erano dotate di un cervello non più grande di quello di una scimmia, ma avevano camminato e corso come gli uomini. Il piede era poco differente da quello dell’uomo moderno e la mano iniziava ad avvicinarsi alla conformazione umana.”59
Nonostante la crescente mole dei dati a sostegno delle ipotesi di Engels sull’origine dell’uomo, la nozione secondo cui si sviluppò per primo il cervello è ancora viva e vegeta: in un libro recente dal titolo The runaway brain, the evolution of human uniqueness, l’autore Christopher Wills afferma:
“Sappiamo che nello stesso periodo in cui il cervello dei nostri antenati si ingrandiva, la loro postura diventava più eretta, si andavano sviluppando capacità motorie raffinate e i segnali vocali stavano approssimandosi al linguaggio.”60
L’uomo diventa sempre più consapevole del proprio ambiente e di se stesso. A differenza degli altri animali, gli esseri umani sanno generalizzare la propria esperienza; così, mentre gli animali sono dominati dal loro ambiente, gli uomini lo trasformano per adattarlo alle loro esigenze. La scienza ha confermato quanto affermava Engels, ovvero che “la coscienza e il pensiero, per quanto appaiono soprasensibili, sono il prodotto di un organo materiale, corporeo: il cervello. La materia non è un prodotto dello spirito, ma lo spirito stesso non è altro che il più alto prodotto della materia. Questo, naturalmente, è materialismo puro.”61
Mano a mano che si sviluppa il cervello, cresce anche la capacità di imparare e di generalizzare. Nel cervello vengono immagazzinate informazioni importanti, probabilmente dislocate in diverse parti del sistema; esse non vengono cancellate dal ricambio delle molecole che compongono il cervello: nel giro di quattordici giorni, infatti, il 90% delle proteine del cervello si decompongono e vengono sostituite da altre molecole identiche. Non c’è alcun motivo di ritenere che il cervello abbia smesso di evolversi; la sua capacità rimane infinita. Con lo sviluppo di una società senza classi si potrà assistere ad un nuovo balzo in avanti della comprensione dell’uomo. Scienze come l’ingegneria genetica stanno ancora muovendo i loro primi passi. La ricerca scientifica apre enormi opportunità e nuove sfide e il cervello e l’intelligenza umana si evolveranno al livello di queste sfide future. Ad ogni modo, per ogni problema che verrà risolto nasceranno molte altre nuove domande, in una spirale infinita di sviluppo.
Il linguaggio e il pensiero nel bambino
A quanto pare esiste una certa analogia fra l’evoluzione del pensiero umano in generale e lo sviluppo del linguaggio e del pensiero nell’individuo che attraverso l’infanzia e l’adolescenza raggiunge la maturità.
Questa analogia fu utilizzata da Engels nel saggio intitolato Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia.
“Poiché, così come il processo di sviluppo dell’embrione umano nell’utero della madre è solo una ripetizione abbreviata della storia evolutiva del corpo dei nostri antenati, durata milioni di anni, a partire dal verme, così lo sviluppo mentale del bambino umano è solo una ripetizione in forma ancora più abbreviata dello sviluppo intellettuale di questi stessi antenati, almeno di quelli più recenti.”62
Lo sviluppo dell’embrione nell’adulto viene chiamato ontogènesi, mentre l’evoluzione dei rapporti evolutivi fra le specie è denominata filogènesi. I due processi sono curiosamente legati tra loro ma non come rozzo riflesso l’uno dell’altro: per esempio durante il suo sviluppo nell’utero l’embrione umano, che assomiglia dapprincipio ad un pesce, si muta in anfibio e infine in mammifero, come se attraversasse fasi che richiamano alla memoria quelle dell’evoluzione animale. Tutti gli esseri umani si assomigliano sotto molti aspetti, particolarmente negli elementi costitutivi e nelle strutture del cervello; dal punto di vista chimico, da quello anatomico e fisiologico la variazione è sorprendentemente minima. Al momento del concepimento l’uovo fecondato si sviluppa formando due agglomerati sferici di cellule. Il primo sviluppo noto avviene entro diciotto giorni quando il punto di contatto tra i due agglomerati, ingrandendosi, si trasforma nel solco midollare; la parte anteriore si ingrandisce, per svilupparsi successivamente come cervello. Si verificano ulteriori differenziazioni che porteranno alla formazione di occhi, naso e orecchie. Il sistema della circolazione sanguigna e quello nervoso sono i primi a funzionare nella vita dell’embrione; il cuore inizia a battere nel corso della terza settimana dopo il concepimento.
Il solco midollare diventa un canale e poi un tubo. Col tempo si trasformerà nella colonna vertebrale. All’estremità superiore del tubo, compaiono degli ingrossamenti che si trasformeranno nel prosencefalo, mesencefalo e metencefalo. Tutto è predisposto per il rapido sviluppo del sistema nervoso centrale. Assistiamo quindi ad un salto qualitativo nel ritmo della divisione cellulare e ci si approssima alla struttura cellulare finale. Quando l’embrione ha raggiunto i 13mm di lunghezza, il cervello si è sviluppato in un cinque vescicole cerebrali. Emergono i peduncoli che diverranno i nervi ottici e gli occhi. Entro la fine del terzo mese si possono identificare la corteccia cerebrale e il cervelletto, come pure il talamo e l’ipotalamo. Al quinto mese la corteccia rugosa comincia a formarsi. Al nono mese tutti gli organi essenziali sono già formati, anche se ci sarà uno sviluppo ulteriore dopo la nascita, momento in cui il peso del cervello è di soli 350 grammi circa, rispetto ai 1.300-1.500 grammi dell’adulto. Il cervello raggiungerà in sei mesi il 50% del suo peso adulto, il 60% dopo un anno e il 90% dopo sei anni. All’età di dieci anni il suo peso sarà ormai il 95% di quello adulto. La rapida crescita del cervello si riflette nella dimensione della testa che, in confronto all’adulto, nel neonato è più grande rispetto al corpo. Il cervello del neonato è più vicino di qualsiasi altro organo allo stadio adulto dello sviluppo: infatti alla nascita il cervello è il 10% del peso del corpo intero, mentre nell’adulto ne costituisce solo il 2%.
La struttura fisica del cervello (la sua biochimica, l’architettura cellulare e i circuiti elettrici) viene modificata dall’effetto della risposta del cervello stesso al suo ambiente. Le idee e i ricordi vengono codificati nel cervello in termini di complessi cambiamenti nel sistema neurale. Così tutti i processi cerebrali interagiscono per dare origine al fenomeno unico della coscienza: materia consapevole di se stessa. Per lo psicologo canadese Donald Hebb, la chiave risiede nelle congiunzioni sinaptiche fra due neuroni, concetto che è alla base delle teorie odierne. Ammettendo pure che la memoria sia codificata da particolari insiemi di circuiti e configurazioni di impulsi fra le sinapsi, essa non sarà necessariamente circoscritta ad una sola area del cervello, ma può essere codificata in entrambi gli emisferi e può esserlo più volte. Tutto ciò che circonda l’individuo, specialmente nei primi anni di sviluppo, lascia continuamente impronte irripetibili sui processi e il comportamento del cervello.
“Una infinità di cambiamenti dell’ambiente, i più sottili, particolarmente durante l’infanzia”, afferma Rose, “possono determinare cambiamenti duraturi della sua chimica e del suo funzionamento.”
Senza questa interazione dialettica tra cervello e ambiente, lo sviluppo dell’individuo sarebbe semplicemente preiscritto nel codice genetico. Il comportamento degli individui sarebbe precodificato e dunque prevedibile fin dall’inizio, invece l’ambiente gioca un ruolo decisivo nello sviluppo. Un quadro mutato di circostanze può provocare notevoli cambiamenti nell’individuo.
Occhio, mano e cervello
Lo sviluppo del linguaggio e del pensiero del bambino fu sottoposto per la prima volta ad un’analisi rigorosa dal pionieristico lavoro dell’epistemologo svizzero Jean Piaget. Taluni aspetti del suo lavoro sono stati in seguito messi in discussione, particolarmente la mancanza di flessibilità nell’interpretazione del modo in cui i bambini passano da una fase all’altra di quelle da lui ipotizzate. Tuttavia si trattava appunto di un lavoro pionieristico, in un campo che era stato fino ad allora praticamente ignorato, e molte sue teorie conservano una validità notevole. Piaget fu il primo a proporre un’interpretazione del processo dialettico dello sviluppo dalla nascita, attraverso l’infanzia, fino all’adolescenza, e nel suo campo può essere accostato ad Hegel, il primo a fornire un’esposizione sistematica del pensiero dialettico in generale. Nel caso di entrambi, non si deve permettere che i difetti ascrivibili ai loro sistemi possano oscurare il contenuto positivo del lavoro di questi studiosi. Sebbene gli stadi di Piaget siano indubbiamente piuttosto schematici e i suoi metodi di ricerca siano opinabili, essi conservano comunque un valore quale sintesi generale dello sviluppo umano infantile.
Le teorie di Piaget rappresentavano una reazione contro le idee dei comportamentisti, il cui esponente di maggior spicco, Skinner, fu particolarmente influente nel corso degli anni ’60 negli Usa. L’approccio comportamentista è totalmente meccanicistico, poiché si fonda su una concezione lineare di sviluppo cumulativo. Secondo questo approccio, i bambini imparano più efficientemente quando sono sottoposti ad un programma lineare di materiale ideato da docenti esperti e da pianificatori dello studio. Le teorie educative di Skinner si conformano molto bene alla mentalità capitalista; i bambini imparano, secondo questa teoria, solo se i loro sforzi vengono premiati, così come l’operaio guadagna un premio se lavora di più.
I comportamentisti hanno adottato una posizione tipicamente meccanicistica circa lo sviluppo del linguaggio. Noam Chomsky ha fatto notare che Skinner descriveva adeguatamente come il bambino imparasse le prime parole (principalmente sostantivi), ma non spiegava come queste venissero assemblate in un discorso. Il linguaggio non è meramente una concatenazione di parole; è precisamente la combinazione di parole in un determinato rapporto dinamico che fa del linguaggio uno strumento così ricco, efficace, flessibile e complesso. In questo caso è ancora più vero che l’intero è superiore alla somma delle sue parti. Che un bambino di due anni s’impadronisca delle regole grammaticali rappresenta davvero una conquista formidabile, come potrà confermare qualsiasi adulto che abbia tentato di studiare una lingua straniera.
In confronto a questo dogma rozzo e meccanicista, le teorie di Piaget rappresentarono un enorme passo avanti. Piaget spiegò che l’apprendimento è naturale per i bambini; il compito dell’insegnante è semmai quello di portare alla luce quelle tendenze che sono già presenti in tutti i bambini. Inoltre, Piaget ha avuto il merito di spiegare che il percorso dell’apprendimento non è una linea retta, ma è disseminato di salti qualitativi. Anche se si può discutere sugli stadi proposti in origine da Piaget, non c’è dubbio che un tale approccio dialettico fosse in generale valido. La cosa preziosa nel lavoro di Piaget era che lo sviluppo del bambino veniva presentato come un processo contraddittorio in cui ogni fase si fondava su quella precedente, nello stesso tempo superandola e conservandola. Le fondamenta geneticamente condizionate forniscono il materiale grezzo, che fin dal primo momento entra in rapporto dialettico con l’ambiente. Il neonato non è cosciente, ma è spinto da istinti biologici che con urgenza esigono di essere soddisfatti. Questi potenti istinti animali non scompaiono ma rimangono, come substrato inconscio, alla base delle nostre attività.
Per usare il linguaggio di Hegel, si tratta della transizione dall’essere-in-sé all’essere-per-sé, dal potenziale all’effettivo, dall’essere isolato, indifeso, privo di coscienza, in preda alle forze naturali, all’essere umano cosciente. La transizione verso l’autocoscienza, come spiegava giustamente Piaget, è una lotta che deve attraversare diverse fasi. Il neonato non distingue chiaramente fra se stesso e l’ambiente e solo lentamente acquisisce la distinzione fra sé e il mondo esterno.
“Il periodo che intercorre dalla nascita all’acquisizione del linguaggio”, scrive Piaget, “è segnato da uno straordinario sviluppo mentale.” In un altro scritto, egli descrive i primi 18 mesi dell’esistenza come “una rivoluzione copernicana su piccola scala.”63
La chiave di questo processo è la graduale insorgenza della comprensione del rapporto fra soggetto (sé) e oggetto (realtà), che deve essere ancora pienamente indagata.
Vygotsky e Piaget
Il primo e il migliore dei critici di Piaget fu Vygotsky, un pedagogo sovietico che, tra il 1924 e il 1934, aveva elaborato un’alternativa coerente alle idee di Piaget. Purtroppo le idee di Vygotsky furono pubblicate nell’Urss solo dopo la morte di Stalin e solo negli anni ’50 e ’60 vennero conosciute in Occidente, dove si conquistarono una forte influenza su molti studiosi, fra i quali Jerome Bruner. Ancora oggi la loro validità è diffusamente riconosciuta da chi si occupa di pedagogia.
Vygotsky era molto più avanti rispetto agli orientamenti del suo tempo, avendo riconosciuto l’importante ruolo della gestualità nello sviluppo del linguaggio, idee riprese recentemente da coloro tra gli psicolinguisti che cercano di risolvere il mistero delle origini del linguaggio. Bruner ed altri hanno focalizzato l’attenzione sull’enorme influenza che i gesti hanno nella successiva formazione del linguaggio nel bambino. Mentre Piaget aveva dato maggiore importanza all’aspetto biologico dello sviluppo del bambino, Vygotsky s’interessò più a fondo della cultura, e in questa direzione lo seguì poi anche Bruner. Un ruolo culturale importante è rivestito dagli strumenti, siano essi i bastoni o le pietre dei primi ominidi, o le matite, le gomme e i libri dei bambini di oggi.
Ricerche recenti hanno dimostrato che i bambini, ancora molto piccoli, dispongono di capacità che Piaget non attribuiva ad età così precoci: a quanto pare le sue idee sulla primissima età sembrano essere superate, anche se gran parte delle sue ricerche rimane ancora valida. Data la sua formazione di biologo era inevitabile che, studiando lo sviluppo del bambino, egli si fosse concentrato soprattutto su quest’aspetto. Vygotsky invece studiò la questione da un altro punto di vista, ma tra i due vi sono punti in comune: per esempio, nei suoi studi sui primi anni dell’infanzia, Vygotsky tratta del “pensiero non linguistico” come ne parlava Piaget nella sua definizione di “attività sensomotoria” come usare un rastrello per prendere un giocattolo lontano. Accanto a questo vi sono i suoni incomprensibili emessi dai bambini. Nel momento in cui questi due elementi riescono a combinarsi, lo sviluppo del linguaggio diventa esplosivo: ad ogni nuova esperienza il bambino, ancora malfermo sulle gambe, vuole assegnare un nome. Seguendo un percorso diverso, Piaget aveva preceduto Vygotsky.
“Il processo di crescita non è una progressione lineare dall’incapacità alla capacità; perché un neonato possa sopravvivere, deve essere capace di farlo come neonato, non come versione, ridotta nella taglia, dell’adulto che diventerà. Lo sviluppo non è un processo meramente quantitativo, ma un qualcosa di più complesso in cui si hanno trasformazioni qualitative: dal succhiare al masticare cibi solidi, per esempio, o dal comportamento sensomotorio a quello cognitivo.”64
Solo gradualmente, dopo un periodo lungo e difficile di correzione e apprendimento, il bambino smette di essere una matassa di sensazioni e di ciechi appetiti, un essere indifeso, acquista coscienza e si emancipa. È proprio questa aspra lotta per passare dall’inconscio al conscio, dalla completa dipendenza dall’ambiente al dominio su di esso, a suggerirci l’idea dell’evidente parallelismo esistente tra lo sviluppo del singolo bambino e quello della razza umana. Sarebbe sbagliato, naturalmente, pensare che il parallelismo individuabile sia strettissimo, dato che ogni analogia è valida solo entro limiti definiti. Ma è difficile negare la conclusione che tali parallelismi nei fatti esistano, almeno riguardo taluni aspetti: dal più basso al più alto, dal semplice al complicato, dall’inconscio al conscio sono infatti movimenti che ricorrono continuamente nello sviluppo della vita.
Gli animali sono dipendenti dai sensi più di quanto lo sia l’uomo; hanno udito, vista e odorato migliori. È un fatto che richiama l’attenzione che la perfezione nella vista viene raggiunta in genere nell’infanzia avanzata e che, successivamente, diminuisce; invece le funzioni intellettive superiori continuano a svilupparsi per tutta la vita, anche nella vecchiaia inoltrata. Tracciare il sentiero seguendo il quale l’uomo passa dallo stato di non coscienza al livello della vera consapevolezza è uno dei compiti più affascinanti ed importanti della scienza.
Alla nascita il bambino conosce solo riflessi istintivi, ma questo non significa assolutamente che sia passivo. Dai primissimi momenti della sua esistenza, la relazione del bambino col suo ambiente è attiva e pratica: non pensa solo con la testa, ma con tutto il corpo. Lo sviluppo del cervello e della coscienza è strettamente collegato all’attività fisica che il bambino compie. Uno dei primi istinti è quello di succhiare, e perfino qui ritroviamo il processo di apprendimento dall’esperienza; Piaget infatti aveva notato che il bambino comincia a succhiare meglio dopo una o due settimane. In seguito avviene un processo di discriminazione, nel corso del quale il bambino comincia a riconoscere le cose e, col passare del tempo, comincia a trarre le sue prime generalizzazioni, non solo nel pensiero, ma anche nell’azione: non succhia più soltanto il seno, ma l’aria e le proprie dita. In Spagna c’è un detto, “non mi succhio il pollice!”, che significa “non sono ingenuo!”; di fatto, però, mettersi un dito in bocca non è cosa semplice per un bambino, tanto che di solito comincia a farlo solo dopo i due mesi ed è un passo significativo in avanti, che denota un certo livello di coordinazione tra mano e cervello.
Subito dopo la nascita, il bambino ha difficoltà a focalizzare la propria attenzione su oggetti particolari, ma, gradualmente, diventa capace di concentrarsi su oggetti specifici e riesce a muovere la testa per anticiparne la posizione nello spazio. Questo sviluppo, analizzato da Bruner, si verifica nei primi due o tre mesi e coinvolge non solo la vista, ma anche la capacità d’azione in senso generale: l’orientamento degli occhi, della testa e del corpo verso l’oggetto dell’attenzione; allo stesso tempo la bocca diventa il tramite tra la vista e il movimento della mano. Gradualmente si stabilisce la sequenza, guidata dalla vista, del raggiungere-afferrare-riprendere, un processo che si conclude sempre con la mano nella bocca.
Per il neonato il mondo è qualcosa da succhiare e, solo in secondo luogo e dopo, è qualcosa da guardare e da ascoltare e, infine, quando il livello di coordinazione lo permetterà, anche qualcosa da manipolare. Non si tratta ancora di ciò che potrebbe essere definito consapevolezza, ma ne è l’inizio. Perché questi semplici elementi si integrino in un complesso di “abitudini e percezioni organizzate” è necessario un lungo processo di sviluppo, al termine del quale il bambino si succhierà il pollice sistematicamente, girerà la testa in direzione di un suono, seguirà con lo sguardo un oggetto in movimento (il che indica un certo livello di capacità di generalizzazione e di anticipazione). Dopo cinque settimane o più, il bambino sorride e comincia a riconoscere alcune persone piuttosto che certe altre, sebbene questo non voglia dire che il bambino si sia impadronito del concetto di persona o di oggetto. Si tratta infatti del più elementare stadio di percezione sensoriale.
Nei suoi rapporti con il mondo oggettivo, il bambino ha due possibilità: o incorpora le cose (o le persone) nella sua attività, assimilando così il mondo materiale, o aggiusta i suoi desideri e impulsi soggettivi al mondo esterno, cioè adattandosi alla realtà. Già piccolissimo il bambino cerca di “assimilare” il mondo mettendolo in bocca, poi impara ad adattarsi alla realtà esterna e, gradualmente, comincia a distinguere e a percepire i diversi oggetti e li memorizza; acquista, con l’esperienza, l’abilità di svolgere un certo numero di operazioni, come raggiungere un oggetto ed afferrarlo. L’intelligenza logica comincia ad emergere prima dalle azione concrete, dalla pratica, e solo successivamente dalle deduzioni astratte.
Piaget individuò sei “fasi” ben definite nel processo di sviluppo del bambino. La fase dei riflessi, o delle funzioni ereditarie, che comprende le azioni istintive primarie, la nutrizione ad esempio. L’impulso di ottenere cibo è potente ed innato nel bambino e ne determina molti riflessi istintivi. È un elemento che l’uomo condivide con tutti gli animali. Il neonato, che ancora non possiede elementi del ragionamento superiore, è nondimeno un materialista per natura ed esprime la sua ferma convinzione che il mondo fisico esiste esattamente come fanno gli animali: mangiandolo. Occorre un grosso sforzo di sofisticatezza intellettuale perché arguti filosofi possano riuscire a convincere qualcuno che non si possa affermare con certezza se il mondo esterno esiste o meno. Un tale problema filosofico, che a quanto pare sarebbe complesso e profondo, viene in realtà risolto dal bambino nell’unico modo possibile, attraverso la pratica.
Dall’età di due anni il bambino entra in un’importante fase di pensiero simbolico e di rappresentazione preconcettuale. Il bambino comincia ad usare il disegno come strumento per sostituire simboli alle cose reali. Parallelamente a ciò avviene lo sviluppo del linguaggio.
La fase successiva è quella della rappresentazione condizionale, nella quale si assumono altri punti di riferimento nel mondo che consentono di sviluppare un linguaggio coerente. Questa fase è seguita da quella del pensiero operazionale, tra i sette e i dodici anni d’età. Il bambino ora associa tra loro le cose mettendole in relazione ed è in grado di concepire e trattare questioni più astratte.
È proprio la pratica, e l’interazione di istinti innati e geneticamente determinati, la chiave dello sviluppo mentale del bambino. La seconda fase di Piaget è quella delle abitudini motorie primarie, accompagnate dalle prime “percezioni organizzate” e dalle prime “sensazioni differenziate”. La terza è quella della “intelligenza sensomotoria” o, meglio, della “pratica” (che precede il linguaggio). Segue la fase della “intelligenza intuitiva” che riguarda le relazioni spontanee tra gli individui, specialmente quella di sottomissione agli adulti; la fase delle “operazioni intellettuali concrete”, che comprende lo sviluppo di sentimenti morali e sociali, e della logica (dai sette agli undici o dodici anni) e, infine, la fase delle operazioni intellettuali astratte, cioè la formazione della personalità e l’integrazione emotiva ed intellettuale nella società dei grandi: l’adolescenza.
Il progresso umano è strettamente collegato allo sviluppo del pensiero, globalmente inteso, e della scienza e della tecnologia in particolare. La capacità di ragionare in maniera astratta e razionale non è facile da conseguire, se perfino oggi la mente di molte persone si ribella a tipologie di pensiero che si lascino alle spalle il mondo familiare del concreto. Tale capacità compare piuttosto tardi nello sviluppo mentale infantile. Ce ne accorgiamo osservando i loro disegni, che raffigurano quello che il bambino vede veramente, non quello che dovrebbe vedere secondo le leggi della prospettiva ed altre conoscenze grafiche. Logica, etica, moralità, fanno la loro comparsa tutte molto tardi nella crescita intellettuale del bambino. Nel primo periodo ogni azione, ogni movimento, ogni pensiero sono frutto della necessità. La nozione di “libera volontà” non ha assolutamente nulla a che fare con le sue attività mentali. Fame e stanchezza inducono il desiderio di mangiare o di dormire, anche nei più piccini.
La conquista della capacità di pensare in astratto, anche ai livelli più semplici, rende il soggetto padrone degli eventi più distanti, sia nel tempo che nello spazio. Ciò è vero per i bambini come per gli uomini primitivi. I nostri antenati più primitivi non sapevano distinguere chiaramente se stessi dagli altri animali o dalla materia inanimata, tanto che si può affermare che non erano emersi completamente dal regno animale e si trovavano alla piena mercé delle forze naturali. Elementi della coscienza di sé sembra esistano negli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi, ma non nelle altre scimmie. Solo negli umani, però, la capacità di pensiero astratto raggiunge la sua piena espressione. Questo fatto ha molto a che vedere con il linguaggio, uno dei tratti fondamentali che distinguono l’umanità dal resto degli animali.
La neocorteccia, che costituisce l’80% del cervello umano, è la parte dell’organo responsabile delle relazioni con gli altri ed è collegata al pensiero in generale. Esiste una stretta connessione tra vita sociale, linguaggio e pensiero. La natura egocentrica del neonato si trasforma aprendo gradualmente la mente alle circostanze del mondo esterno, della gente e della società, con le sue leggi, gli obblighi e le limitazioni che impone. Poco più tardi, tra i tre ed i sei mesi, secondo Piaget, comincia la fase dell’afferrare, che comporta prima la pressione, poi la manipolazione, che rappresenta un passo decisivo, poiché porta ad un rapido cambiamento delle abitudini del bambino e all’improvvisa moltiplicazione delle sue capacità: l’intero processo di sviluppo viene ad essere bruscamente accelerato. La sua natura dialettica è indicata da Piaget:
“Il punto di partenza è sempre un ciclo di riflessi il cui esercizio, piuttosto che mera ripetizione, si configura progressivamente più ricco di elementi e costituisce con essi dei complessi organizzati ancora più ampi, grazie a successive differenziazioni.
Lo sviluppo del bambino, dunque, si può rappresentare, non tanto con una retta o un cerchio, bensì con una spirale, nella quale lunghi periodi di lento cambiamento sono intercalati da improvvisi balzi in avanti, ognuno dei quali consiste in un miglioramento qualitativo.”
La terza fase di Piaget è detta della “intelligenza pratica” o “stadio sensomotorio in quanto tale”. L’esatta natura e la delimitazione di queste “fasi” può ovviamente essere posta in discussione, ma la forza dell’idea resta intatta. L’intelligenza è strettamente collegata alla manipolazione, allo sviluppo del cervello e all’uso delle mani. A questo proposito Piaget aggiunge:
“D’altro canto si tratta di una questione di sola intelligenza pratica, applicata alla manipolazione degli oggetti e che, al posto di parole o concetti, usa solo percezioni e movimenti organizzati in schemi d’azione.”65
Da questo s’intuisce che la base di tutta la conoscenza umana sia l’esperienza, l’attività e la pratica. Le mani, in particolare, svolgono un ruolo decisivo.
La nascita del linguaggio
Prima che il bambino possa parlare compiutamente, fa uso di una serie di segni, il contatto oculare, il pianto e altre forme di linguaggio corporeo per esternare le sue necessità. Allo stesso modo, sembra chiaro che anche i primi ominidi, prima di sviluppare una capacità di linguaggio, ricorressero a qualche altro sistema per comunicare tra loro. Tali tipi di comunicazione esistono negli animali, specialmente nei primati più sviluppati, ma solo gli uomini hanno la capacità di parlare. La lunga lotta del bambino per dominare la parola, con le sue complesse strutture e le forme logiche sottostanti, è sinonimo dell’acquisizione di coscienza. Qualcosa di simile deve essere successo ai nostri antenati.
La gola del neonato, come quella dei primati e degli altri mammiferi, è fatta in modo che la costruzione della voce avvenga molto in basso, pertanto è capace di emettere suoni che anche altri mammiferi producono, ma non di articolare un discorso compiuto. Il vantaggio di questo fatto è che il bambino può urlare e mangiare senza soffocare. In un momento successivo gli organi vocali si spostano in una zona superiore, ripercorrendo un processo che deve essere avvenuto nel corso dell’evoluzione genetica umana. Non è affatto concepibile che il linguaggio umano si sia sviluppato di colpo, senza passare per innumerevoli forme intermedie. Tutto è avvenuto nel corso di milioni di anni, durante i quali senza dubbio vi sono stati periodi di grande sviluppo, proprio come nell’accrescimento del bambino.
Il pensiero può esistere senza linguaggio? La risposta dipende da cosa s’intende per “pensiero”. Gli elementi del pensiero esistono negli animali, specialmente nei mammiferi più sviluppati, che possiedono addirittura forme di comunicazione di una certa complessità. Tra gli scimpanzé tali forme sono anche abbastanza sofisticate, ma in nessuno di questi casi si può parlare, né nel linguaggio né nel ragionamento, di alcunché lontanamente paragonabile al livello umano. Il complesso deriva dal semplice e, senza quest’ultimo, non potrebbe esistere. Il discorso umano proviene dai suoni inarticolati dei bimbi, ma sarebbe un errore pensarli uguali, così come sarebbe un errore voler dimostrare che il linguaggio sia esistito prima della razza umana.
Analogamente possiamo concludere riguardo alla capacità di ragionamento. L’uso di un bastone per arrivare a prendere un oggetto lontano è un atto d’intelligenza, ma compare abbastanza tardi nello sviluppo del bambino, verso i 18 mesi. Un tale atto comporta non solo l’uso di uno strumento (il bastone), ma anche un movimento coordinato per raggiungere uno scopo prefissato. Si tratta di un’azione deliberata e pianificata. Un tipo di attività presente anche nei primati: l’uso di oggetti a portata di mano – bastoni, pietre, ecc. – come ausilio per ottenere del cibo è ben documentato.
A un anno il bambino ha imparato a fare i suoi primi esperimenti scagliando un oggetto per “vedere cosa succede”. Questo tipo di attività viene ripetuta perché ha uno scopo e darà i suoi risultati, essa implica la coscienza del rapporto causa-effetto (se faccio questo, succederà quello). Nessuna di queste consapevolezze è innata, bensì appresa attraverso l’esperienza. Il bambino ci mette dai dodici ai diciotto mesi per capire la relazione causa-effetto, un potentissimo strumento di conoscenza! La razza umana deve aver impiegato milioni di anni per apprenderne il segreto conquistando, così, le fondamenta del pensiero razionale e dell’agire sensato. È paradossale ed assurdo il fatto che, in un’epoca in cui la nostra conoscenza della natura ha raggiunto livelli sbalorditivi, alcuni scienziati e filosofi vogliano trascinare indietro il pensiero a ciò che non è altro che un livello primitivo e infantile, negando l’esistenza della causalità.
Nei primi due anni di vita avviene una rivoluzione intellettuale, nel corso della quale si formano i concetti di spazio, causalità e tempo; questo processo non scaturisce, come immaginava Kant, dal nulla ma è diretta conseguenza dell’attività pratica e dell’esperienza del mondo fisico. L’intera conoscenza umana e tutte le categorie di pensiero, comprese le più astratte hanno questa stessa origine. Tale concezione materialista è chiaramente provata dal processo di sviluppo del neonato: questi non distingue, inizialmente, se stesso dal mondo, ma ad un certo punto capisce che ciò che vede è qualcosa di separato da sé, e che continua ad esistere anche quando non è sottoposto al suo sguardo. È proprio questa la grande conquista, la “rivoluzione copernicana” dell’intelletto. Quei filosofi che affermano che il mondo materiale non esiste, o che ciò non può essere provato, esprimono un’idea infantile, nel senso letterale del termine.
Il bambino che piange quando la sua mamma esce dalla stanza dimostra di comprendere che se non la vede più è solo perché è uscita dal suo campo visivo: piange per farla tornare. Fino ad un anno il bambino è convinto che ciò che è fuori del suo campo visivo cessa effettivamente di esistere, ma già alla fine del secondo anno di vita sarà capace di riconoscere la nozione di causa-effetto. Allo stesso modo in cui non esiste una muraglia cinese che separi il pensiero dall’azione, non c’è neppure una frattura netta tra la vita intellettiva del bambino e il suo sviluppo emotivo. Pensieri e sentimenti sono, di fatto, inscindibili e costituiscono i due aspetti complementari del comportamento umano. Tutti sanno che nessuna grande impresa può essere compiuta senza l’intervento della volontà: le emozioni rappresentano la leva più forte per muovere il pensiero e l’azione umana e svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo umano. Ad ogni stadio, comunque, lo sviluppo intellettuale del bambino è legato all’attività pratica e, non appena si manifesta il comportamento intelligente, gli stati d’animo emotivi vengono associati ad azioni definite: la felicità e la tristezza sono collegate al successo o al fallimento di azioni intenzionali.
La comparsa del linguaggio ha determinato, da un punto di vista sia emotivo che intellettuale, un profondo cambiamento nel comportamento e nell’esperienza dell’individuo; il salto è di natura qualitativa. Per citare Piaget, la padronanza del linguaggio conferisce “la capacità di ricostruire le azioni passate sotto forma di racconto e di anticipare le azioni future attraverso rappresentazioni verbali”. Grazie al linguaggio il passato ed il futuro diventano per noi reali e diventa possibile prescindere dalle limitazioni del presente per pianificare, prevedere ed intervenire secondo un progetto consapevole.
Il linguaggio è un prodotto della vita sociale. La stessa attività sociale umana è impensabile senza l’ausilio del linguaggio che deve essere stato presente, in una forma o in un’altra, in ogni vera società umana fin dai tempi più antichi del divenire umano. Il pensiero stesso non è altro che una sorta di “linguaggio interiore”. La sua semplice esistenza comporta la possibilità di stabilire relazioni sociali con altri, la creazione di una cultura e di una tradizione che possano essere tramandate o trasmesse oralmente e, più tardi, con la scrittura, come soluzione alternativa a quella dell’apprendimento per semplice imitazione.
Esso rende possibili rapporti umani genuini, in cui i sentimenti di simpatia o di antipatia, di amore, di rispetto, possano essere espressi in maniera coerente e compiuta. I germi del linguaggio sono già presenti nei primi sei mesi di vita per imitazione. Le prime parole vengono pronunciate, di solito nomi isolati; solo in un secondo tempo il bambino impara a mettere insieme due parole. Gradualmente i sostantivi vengono associati a verbi ed aggettivi e infine il bambino s’impadronisce della grammatica e della sintassi, il che implica percorsi estremamente complicati di pensiero logico. Il salto qualitativo è fondamentale per il bambino, come lo fu per il genere umano.
Si può dire che i bambini molto piccoli sviluppino un loro linguaggio “privato”, che non è un linguaggio vero e proprio, ma solo una serie di suoni che rappresentano un tentativo di imitare i discorsi dei grandi. Il discorso articolato trae origine da questi suoni, ma le due cose non vanno confuse. Il linguaggio è per sua stessa natura una cosa sociale, non privata, inscindibile dalla vita sociale e dall’attività collettiva e, in primo luogo, la cooperazione produttiva alla base di qualsiasi vita sociale fin dai tempi più remoti. Il linguaggio rappresenta un enorme balzo. Il processo, una volta cominciato, deve aver inevitabilmente accelerato lo sviluppo della consapevolezza, come si può evincere anche dallo sviluppo infantile.
Il linguaggio rappresentò l’inizio della socializzazione dell’attività umana. Prima di esso gli ominidi potevano comunicare attraverso urla, usando il linguaggio corporeo o altri tipi di gestualità. Persino gli uomini moderni continuano a ricorrere a questi mezzi, specialmente in momenti di grande tensione o emozione; sono evidenti, però, i limiti di tale codice di comunicazione, inevitabilmente impossibilitato a coprire una vasta gamma di situazioni non immediate. Il livello di complessità del pensiero astratto e di pianificazione, necessario anche alle società umane più semplici basate sulla produzione cooperativa, non può essere espresso senza trascendere da tali limitazioni.
Solo grazie al linguaggio si può venir fuori dal presente immediato, richiamare il passato, congetturare sul futuro, stabilire forme veramente umane di comunicazione, condividere la propria “vita interiore” con gli altri. Così si distingue l’animale uomo dagli altri animali “muti”.
La socializzazione del pensiero
Il linguaggio è la chiave che consente al bambino di accedere alla ricchezza della cultura umana. Mentre per gli altri animali il fattore predominante è l’ereditarietà genetica, per l’uomo è la cultura a giocare il ruolo decisivo. Il bambino deve attraversare un periodo molto lungo di “apprendistato” nel quale è completamente subordinato agli adulti che, principalmente grazie al linguaggio, lo iniziano ai misteri della vita, della società, del mondo. Il bambino si trova a confrontarsi con un modello già esistente da imitare in tutto, una situazione che verrà allargata attraverso il gioco, in modo da includere altri bambini e altri adulti nel suo mondo. Un tale processo di socializzazione non è semplice, né tantomeno automatico, ma è la base di tutto lo sviluppo morale ed intellettivo. Tutti i genitori si saranno divertiti a guardare i loro figli che si calano in un mondo tutto loro, “parlando” a se stessi per lunghi periodi mentre sono intenti a giocare per conto loro. Lo sviluppo del bambino è intrinsecamente legato al processo di distacco da questo primitivo stato egocentrico, fino ad acquisire la capacità d’intrecciare relazioni con gli altri e con l’intero mondo circostante.
Nello schema originale di Piaget, il periodo dai due ai sette anni segna il passaggio dalla fase semplicemente “pratica” (“sensomotoria”) dell’intelligenza al vero e proprio pensiero. Il processo è caratterizzato da innumerevoli forme intermedie e transitorie e si rivela, ad esempio, nel gioco. Tra i sette e i dodici anni i giochi cominciano ad avere regole ed implicano obiettivi comuni, in opposizione al giocare con le bambole, che è altamente individualistico. La logica della prima infanzia può essere descritta come intuizione, cosa che esiste anche negli adulti, ciò che Hegel chiama “pensiero immediato”. Lo stadio successivo, come tutti i genitori ben sanno, è quello dei ripetuti perché?. La curiosità ingenua è l’inizio del pensiero razionale: il bambino non vuole più accettare le cose come sono, ma vuole fornire loro una base razionale; non è soddisfatto di sapere che ad “A” segue casualmente “B”, ma vuole capire anche perché questo avvenga. Anche in questo i bambini fra i tre e i sette anni si dimostrano più saggi di molti filosofi moderni.
L’intuizione che tradizionalmente è stata circondata di un’aura magica e poetica è, di fatto, la forma più semplice di pensiero, caratteristica di bambini molto piccoli o di adulti con bassissimo livello culturale. Consiste nel fatto che le impressioni immediate fornite dai cinque sensi, provocano in noi reazioni “spontanee”, cioè non meditate, a fronte di determinate circostanze. Il rigore della logica e del pensiero coerente non c’entra. Tali intuizioni, talvolta, possono riuscire azzeccate in modo spettacolare e l’apparenza spontanea del “lampo d’ispirazione” fornisce l’illusione di una profonda comprensione di origine misteriosa e proveniente “da dentro”, forse divinamente ispirata. Nella realtà, l’intuizione non proviene dalle oscure profondità dell’animo umano, ma dall’interiorizzazione dell’esperienza, non ottenuta scientificamente, ma nella forma di immagini ed altri simboli simili.
È molto probabile che una persona con una certa esperienza arrivi a risolvere puntualmente questioni anche piuttosto complesse sulla base di scarse informazioni. Allo stesso modo un cacciatore può mostrare di possedere una sorta di “sesto senso” a proposito delle proprie prede. Nel caso di menti eccezionali, tali improvvise intuizioni sono considerate un sintomo di genialità: in realtà, in tutti questi casi, quella che sembra il prodotto di una pulsione spontanea è invece il distillato di anni di esperienza e riflessione. Più frequentemente, comunque, la semplice intuizione porta a forme di conoscenza superficiali, distorte e, pertanto, insufficienti. Nel caso dei bambini, la “intuizione” segna la prima, immatura fase di pensiero, prima di essere capaci di ragionare, di definire e di giudicare: talmente inadeguata che gli adulti, il più delle volte, la osservano divertiti, dato che l’hanno superata da molto tempo. In tutti questi casi non c’è bisogno di dire che nulla di mistico è implicato nel processo.
Nel primo periodo di vita il neonato non distingue tra se stesso ed il suo ambiente fisico. Solo gradualmente, come abbiamo rilevato, il bambino acquisisce la capacità di distinguere tra il soggetto (“io”) e l’oggetto (“il mondo fisico”). È con la pratica che tale distinzione diventa possibile, attraverso la manipolazione degli oggetti e altre operazioni fisiche; l’unità primitiva si è rotta ed emerge una moltitudine confusa di immagini, di suoni e di oggetti. Solo successivamente egli capisce le relazioni tra le cose. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che i bambini sono molto più avanzati nel fare che non nell’utilizzare le parole.
Non c’è nei bimbi assolutamente nulla che assomigli a un “atto puramente intellettuale”. Un altro luogo comune è quello di contrapporre la testa al cuore: anche questa contrapposizione è falsa, dato che le emozioni giocano un ruolo importante nella soluzione di problemi intellettuali. Gli scienziati si esaltano per la soluzione delle equazioni più astruse; scuole di pensiero si scontrano ferocemente intorno a problemi di filosofia, di arte e così via. D’altro canto non esistono assolutamente gli atti di puro affetto. L’amore, ad esempio, presuppone un alto livello di comprensione tra due persone, dunque sia l’intelletto che le emozioni hanno un ruolo; l’uno presuppone le altre, si condizionano e si completano, a livelli più o meno definiti.
Mano a mano che si sviluppa il grado di socializzazione, il bambino diventa più consapevole della necessità di ciò che Piaget aveva chiamato “sentimenti interpersonali”, cioè le relazioni emotive tra le persone. Qui notiamo che il legame sociale stesso comporta la coesistenza contraddittoria di elementi d’attrazione e di repulsione. Il bambino lo sperimenta dapprima nei confronti dei suoi genitori, poi forma stretti legami con un numero crescente di persone. Si sviluppano sentimenti di simpatia e di antipatia, legati alla socializzazione delle azioni e dalla comparsa sentimenti di ordine etico-morale: buono o cattivo, giusto o sbagliato, concetti connotati di significato molto più profondo rispetto a “mi piace” o “non mi piace”. Non si tratta di discriminanti soggettive, ma di criteri oggettivi ricavati dalla pratica sociale.
Questi potenti legami sono una parte importante dell’evoluzione della società umana che, sin dall’inizio, era fondata sulla produzione sociale cooperativa e sulla mutua dipendenza, elementi senza i quali l’uomo non si sarebbe mai elevato al di sopra del mondo animale. La tradizione e la moralità s’apprendono attraverso il linguaggio, e vengono tramandate di generazione in generazione. Se paragonati a tali fattori, quelli legati all’ereditarietà genetica sembrano essere piuttosto secondari, sebbene costituiscano la materia prima con la quale si costruisce l’umanità.
Il senso di socializzazione e di cooperazione si rafforza ulteriormente quando il bambino, verso i sette anni, comincia ad andare a scuola; ciò è reso evidente, ad esempio, dai giochi, tutti provvisti di regole: perfino un semplicissimo gioco con le biglie colorate richiede una certa comprensione e l’accettazione di un certo numero di regole che, come le regole del comportamento eticamente corretto e come quelle sociali, debbono essere accettate da tutti affinché siano valide e rispettate. La comprensione delle regole in sé e di come queste vadano applicate si sviluppa nei bambini di pari passo alla comprensione delle complesse strutture grammaticali e sintattiche del linguaggio.
Piaget osserva un fatto importante:
“Ogni comportamento umano è, allo stesso tempo, sociale ed individuale.”
Con questa osservazione ci pone sotto agli occhi un importantissimo esempio di unità degli opposti. Porre in contrapposizione pensiero ed essere, individuo e società, è un’operazione assolutamente falsa, poiché essi sono elementi inscindibili. Nella relazione tra soggetto ed oggetto, tra individuo e ambiente (società), il fattore di collegamento è l’attività pratica umana (il lavoro). La comunicazione del pensiero è linguaggio (riflessione esteriorizzata) mentre, d’altro canto, il pensiero stesso è relazione sociale interiorizzata. A sette anni il bambino comincia a capire la logica, che non è altro che un sistema di relazioni che permette la coordinazione dei punti di vista.
In un bellissimo passo, Piaget paragona questa fase con gli esordi della filosofia greca, quando i materialisti della Ionia rigettarono la mitologia per muoversi nella direzione di una comprensione razionale del mondo:
“È sorprendente notare che tra le prime (nuove forme di spiegazione dell’universo) a comparire, ce ne siano alcune che presentano una notevole somiglianza con quelle date dai greci nel periodo del declino dell’interpretazione del mondo propriamente mitologica.
In questo caso possiamo osservare chiaramente, in che misura le forme di pensiero di ogni singolo bambino nel suo primo sviluppo ci forniscano un’approssimativa analogia con lo sviluppo delle forme di pensiero dell’umanità in generale. Nelle prime fasi ritroviamo somiglianze con l’animismo primitivo: il bambino crede che il sole splende perché è nato. Più tardi il bambino immaginerà che le nuvole siano fatte di fumo, o di aria, oppure che le pietre siano fatte di terra, ecc.; ciò riecheggia i primi tentativi di spiegare la natura della materia ricercando i suoi elementi costitutivi: acqua, fuoco, aria, e così via. Il grande significato di tutto ciò è che si trattava di ingenui tentativi di spiegare il mondo in termini materialisti e scientifici, piuttosto che ricorrere alla religione o alla magia. Il bambino di sette anni comincia ad afferrare le nozioni di tempo, spazio, velocità, e così via, ma avrà bisogno di un certo tempo. Contrariamente alla teoria di Kant, che considerava innate le nozioni di spazio e tempo, il bambino non potrà comprendere tali idee astratte fino a quando non siano comprovate da “esperimenti”.”
L’idealismo dunque si dimostra fallace proprio nello studio dei processi di sviluppo del pensiero umano stesso.
Capitolo 14 Marxismo e darwinismo
Note
51. Blackmore & Page, Evolution: the Great Debate, pagg. 185-6, evidenziatura nostra.
52. Steven Rose, Il cervello e la coscienza.
53. S. Rose, Molecole e menti.
54. S. Rose, La fabbrica della memoria.
55. S. Rose, Il cervello e la coscienza.
56 Ibid., p. 179
57.Rose, Molecole e menti.
58. Engels, Dialettica della Natura, pag. 187
59 Washburn, Sherwood L. Dalla scimmia all’uomo.
60. C. Wills, The Runaway, brain., enfasi nostra.
61. Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, pagina 35.
62. Engels, La dialettica della natura.
63. Piaget, Lo sviuiluppo mentale del bambino.
64. Rose, Kamin & Lewontin, Not in our Genes, pag. 96.
65. Piaget, op. cit.