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La Rivolta della Ragione – Capitolo 12 Il ruolo rivoluzionario del lavoro nell’evoluzione umana – Materia, vita e intelletto

di Alan Woods e Ted Grant

 

L’epoca dei dinosauri: il mesozoico (850-865 milioni di anni fa)

La massa continentale chiamata Pangea, risultato della collisione dei continenti nell’era paleozoica, rimase intatta per circa 100 milioni di anni. Ciò diede vita a nuove condizioni dal punto di vista tettonico, biologico e climatico. Successivamente, nell’era mesozoica, si sviluppò il processo opposto. Il supercontinente iniziò a dividersi. Enormi ghiacciai coprirono la parte meridionale dell’Africa-America-Australia-Antartide. Durante il triassico (250-205 milioni di anni fa) si svilupparono i dinosauri sulla terra e i plesiosauri e gli ittiosauri nel mare, mentre più tardi il rettile alato pterosauro iniziò a popolare i cieli. I mammiferi si evolsero dai rettili traspidi, ma molto lentamente, a causa della crescita esplosiva dei dinosauri, che dominarono le altre forme terrestri vertebrate. Essi rimasero piccoli e pochi per milioni di anni, eclissati dai loro contemporanei giganti e con il problema che potevano procurarsi il cibo solo di notte.

Il giurassico (205-145 milioni di anni fa) vide un importante cambiamento delle condizioni climatiche, determinato dalla ritirata dei ghiacciai, il che portò ad un aumento globale della temperatura verso la fine del periodo. Il livello dei mari si alzò di almeno 270 metri durante il mesozoico.

Occorse molto tempo per arrivare alla frammentazione del supercontinente. La divisione di Pangea cominciò all’inizio del giurassico (180 milioni di anni fa) e l’ultimo continente si separò all’inizio del cenozoico (40 milioni di anni fa). La prima spaccatura avvenne su un’asse est-ovest, dove la formazione dell’oceano di Tetide spaccò Pangea in due, a nord Laurasia e a sud Gondwana. A sua volta Gondwana venne divisa a est in tre parti: India, Australia e Antartide. Durante l’ultimo mesozoico emerse una spaccatura che creò l’oceano Atlantico, separando il Nord America dalla Laurasia e il Sud America dall’Africa. L’India si spostò a nord ed entrò in collisione con l’Asia, mentre anche l’Africa si spostò a nord ed entrò, in parte, in collisione con l’Europa dopo la distruzione dell’Oceano di Tetide. Di questo enorme oceano oggi ne rimane solo una piccola parte, il Mediterraneo. Negli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano periodi di rapida espansione dei fondali aiutarono il movimento dei frammenti continentali.

Durante tutto il mesozoico, i dinosauri furono il gruppo di vertebrati dominante. Nonostante la separazione dei continenti, essi erano stabilmente presenti in tutto il pianeta. Ma alla fine di questo periodo – 65 milioni di anni fa – avvenne una nuova estinzione di massa, che vide i dinosauri sparire dalla faccia della terra. La maggior parte dei rettili terrestri, marini o volanti (dinosauri, ittiosauri e pterosauri) vennero spazzati via. Dei rettili, solo i coccodrilli, i serpenti, le tartarughe e le lucertole sopravvissero. Tuttavia questo spettacolare fenomeno non si limitò ai dinosauri. Infatti si estinse circa un terzo di tutte le specie viventi, inclusi ammoniti, belemniti, alcune piante, briozoi, molluschi bivalve, echinoidi e altri.

Il significativo successo dei dinosauri dipese dalla loro perfetta capacità di adattamento alle condizioni esistenti. La popolazione nel suo complesso raggiungeva il livello di quella dei mammiferi oggi. Ora, ovunque nel mondo, ogni nicchia ecologica disponibile è occupata da un mammifero, piccolo o grande che sia. Possiamo essere certi che 70 milioni di anni fa quegli spazi erano occupati da un’immensa varietà di dinosauri. Al contrario dell’impressione comune che considera i dinosauri soltanto enormi e ingombranti creature, in realtà ne esistevano di tutte le dimensioni. La maggior parte erano relativamente piccoli; molti camminavano eretti sulle zampe posteriori e potevano correre molto velocemente. Molti scienziati oggi credono che almeno alcuni dinosauri vivessero in gruppo, badassero ai loro piccoli e probabilmente cacciassero persino in branchi.

Anche il periodo di passaggio tra mesozoico e cenozoico (65 milioni di anni fa) rappresenta un momento di svolta rivoluzionaria nell’evoluzione delle forme di vita. Le estinzioni di massa avevano creato le condizioni per un enorme balzo in avanti in termini evolutivi, gettando le basi per l’avvento dei mammiferi. Ma prima di trattare questo processo, è utile considerare il perché della scomparsa dei dinosauri.

Perché i dinosauri scomparvero?

Questo tema è stato dibattuto in modo molto acceso negli ultimi anni e, nonostante tante fiduciose affermazioni, particolarmente quelle a favore della teoria della catastrofe meteoritica, non si è ancora trovata una soluzione decisiva. Ci sono infatti molte teorie che hanno tentato di spiegare un fenomeno che, sia per la sua spettacolarità sia per le sue implicazioni, in quanto da lì emerse la nostra specie, ha catturato l’immaginazione collettiva in modo particolare. Tuttavia è necessario ricordare che questo non è stato un evento unico nella catena dell’evoluzione. Non fu l’unica estinzione di massa né la più grande, né necessariamente quella dalle conseguenze evolutive di maggior portata.

La teoria che attualmente incontra maggiori consensi, e che certamente ha ricevuto la pubblicità più sensazionale, si basa sull’asserzione che l’impatto di un enorme meteorite caduto in un qualche posto sulla Terra avrebbe causato un effetto simile all’“inverno nucleare” che seguirebbe ad una guerra nucleare su larga scala. Se l’impatto fosse stato sufficientemente grande, esso avrebbe dovuto gettare grandi quantità di polvere e detriti nell’atmosfera. Le dense nuvole così formatesi avrebbero impedito ai raggi solari di raggiungere la superficie terrestre, provocando un periodo di oscurità prolungata e di abbassamento della temperatura.

Alcuni dati empirici confermano che ci sia stata una qualche esplosione, forse causata da un meteorite. La teoria ha guadagnato terreno negli anni recenti con la scoperta di un piccolo strato di argilla, fra i resti fossili, che apparentemente confermerebbe la caduta di polvere prodotta da un tale impatto. Per esempio l’idea è stata accettata, a quanto pare, da Stephen Jay Gould.

Tuttavia, ci sono domande che non hanno ancora risposta. Innanzi tutto i dinosauri non scomparvero improvvisamente, e neppure in pochi anni. Infatti l’estinzione si protrasse per qualche milione di anni, un periodo molto breve in termini geologici, ma sufficientemente lungo per sollevare dubbi sull’idea della catastrofe del meteorite.

Anche se l’ipotesi del meteorite non si può escludere del tutto, essa presenta un difetto rilevante; come abbiamo detto, ci sono state molte estinzioni di massa sulla strada dell’evoluzione. Come le spieghiamo? Bisogna veramente far ricorso ad un fenomeno esterno come un impatto improvviso di un corpo celeste per capirle? O sarà invece che la nascita e la morte delle specie abbia a che vedere con tendenze che sono insite nel processo stesso di evoluzione? Anche oggi possiamo osservare il fenomeno della nascita e della morte delle popolazioni animali. Solo recentemente ci siamo avvicinati alla comprensione delle leggi che regolano questo complesso processo. Cercando spiegazioni al di fuori del fenomeno rischiamo di abbandonare la ricerca di una comprensione realistica. Inoltre una soluzione che sembra attraente, perché rimuove tutte le difficoltà in un colpo solo, può creare anche difficoltà più grandi di quelle che pretende di risolvere.

Sono state avanzate diverse altre ipotesi. Il periodo in questione è stato caratterizzato da una diffusa attività vulcanica. Questo, e non l’impatto del meteorite, può aver causato il cambiamento nelle condizioni climatiche, che i dinosauri possono non aver retto. È stato anche ipotizzato che la scomparsa dei dinosauri fosse collegata alla competizione con i mammiferi.

C’è un paragone qui con la scomparsa della maggior parte della popolazione marsupiale del Sudamerica sotto le pressioni dei mammiferi del nord. Senza dubbio è possibile che l’estinzione di queste specie possa essere stata il risultato di queste circostanze: attività vulcanica, distruzione dell’ambiente esistente, eccessiva specializzazione e competizione per le ridotte risorse di cibo con una specie meglio attrezzata per reggere la nuova situazione. È improbabile che l’attuale disputa si risolverà nel breve periodo. Quello che non è in discussione è che alla fine del mesozoico alcuni importanti cambiamenti hanno messo fine al dominio dei dinosauri. Il punto principale è che non è necessario introdurre fattori esterni per spiegare questo fenomeno:

“Non è necessario ricorrere alle macchie solari, a cambiamenti di clima o ad altre singolari considerazioni per spiegare la scomparsa dei dinosauri – proseguiva Lovejoy – I dinosauri si trovarono bene finché ebbero il pianeta a loro disposizione, finché non emerse una strategia riproduttiva migliore della loro. Si conservarono oltre cento milioni di anni; anche gli esseri umani dovrebbero durare così. Ma una volta consolidatosi un nuovo radicale adattamento, una volta che i dinosauri ebbero a confrontarsi con animali in grado di riprodursi con successo tre o quattro volte più rapidamente, fu la loro fine.”28

Il terrorista cosmico, ovvero come non fare un’ipotesi

Il problema si chiarisce se poniamo in questo modo la domanda: accettiamo pure che l’estinzione dei dinosauri sia stata causata da un fattore accidentale nella forma di un improvviso impatto di un meteorite. Come spieghiamo tutte le altre estinzioni di massa? Furono tutte causate da meteoriti? La domanda non è così inutile come può sembrare; si sono fatti dei tentativi per dimostrare che tutte le estinzioni su larga scala sono state il risultato di periodiche tempeste di meteoriti che vengono dalla cintura degli asteroidi. Questa è la sostanza della cosiddetta “teoria della nemesi” avanzata da Richard Muller dell’Università della California.

Alcuni paleontologi (Raup e Sepkoski) dicono che estinzioni di massa si sono verificate a intervalli regolari di circa 26 milioni di anni, ma altri, basandosi sugli stessi dati, non hanno trovato la stessa regolarità in questo fenomeno. C’è una divergenza simile fra i geologi, alcuni dei quali sostengono che ci sia una regolare periodicità nella formazione di grandi crateri, mentre altri non sono d’accordo. In breve non c’è una prova definitiva né degli intervalli regolari né degli stermini di massa, né dei bombardamenti regolari subiti dalla Terra da parte di comete o meteoriti.

Un tale terreno si presta facilmente alla speculazione più arbitraria e inutile. Inoltre sono proprio simili “teorie” sensazionalistiche che tendono ad avere maggior pubblicità, indipendentemente dal loro merito scientifico. La “teoria della nemesi” ne è un esempio. Se accettassimo, come fa Muller, che le estinzioni di massa avvengono regolamente ogni 26 milioni di anni e se accettassimo inoltre, come fa lui, che esse sono causate da tempeste di meteoriti, ne dovrebbe conseguire che la Terra sia stata importunata da meteoriti ogni 26 milioni di anni, regolarmente come un orologio.

La scarsa credibilità di tale assunto è piuttosto chiara anche per Muller, il quale scrive:

“Trovavo incredibile che asteroidi colpiscano [la Terra] precisamente ogni 26 milioni di anni. Nella vastità dello spazio anche la Terra è un obiettivo molto piccolo. Un asteroide che passi vicino al sole ha poco più di una possibilità su un miliardo di colpire il nostro pianeta. Quegli impatti che si verificano sarebbero distanziati in modo casuale, e non regolare, nel tempo. Cosa poteva farli colpire secondo un programma regolare? Forse qualche terrorista cosmico prendeva la mira con una pistola ad asteroidi. Risultati assurdi necessitano di teorie assurde.”

Ma Muller ha proceduto a sviluppare esattamente tali teorie assurde, per giustificare l’idea preconcetta che tutte le estinzioni di massa fossero causate dalla caduta di meteoriti e che questo succedesse ogni 26 milioni di anni. Egli descrive una discussione accesa con Luis Alvarez, l’ideatore della teoria originale secondo la quale i dinosauri sarebbero stati spazzati via dalla caduta di un asteroide sulla Terra, che però era scettico sulla validità delle idee di Muller. Il seguente estratto da questo dialogo ci offre uno spaccato interessante della metodologia con la quale nascono certe ipotesi:

“‘Supponiamo che un giorno troveremo il modo di far colpire la Terra da un asteroide ogni 26 milioni di anni. Non dovresti ammettere di aver sbagliato e che si dovevano usare tutti i dati?’

‘Qual è il tuo modello?’ chiese. Pensavo stesse evadendo la mia domanda.

‘Non c’entra questo. È la possibilità di un tale modello che rende la tua logica sbagliata, non l’esistenza di un determinato modello.’

C’era un leggero tremito nella voce di Alvarez. Egli pure sembrava si stesse arrabbiando. ‘Guarda, Rich’ ribatté, ‘è da molto tempo che lavoro nel campo dell’analisi dei dati e molta gente mi considera piuttosto esperto. Non puoi avere un approccio non ragionato e trascurare cose che sai.’

Stava invocando la sua autorità. Non è permesso agli scienziati agire così; tieniti calmo, Rich, mi son detto, non dargli l’idea che sei seccato.

‘L’onere della prova sta in te’ – ho continuato con una voce artificialmente calma – ‘io non devo elaborare un modello; a meno che tu non dimostri che tali modelli non sono possibili, è la tua logica ad essere sbagliata.’

‘Come possono gli asteroidi colpire la terra periodicamente? Qual è il tuo modello?’ domandò ancora. La mia frustrazione mi aveva portato vicino alla rottura. Perché Alvarez non capiva quello che stavo dicendo? Era il mio scienziato eroe. Come poteva lui essere così stupido?

Accidenti! pensai. Se devo, lo conquisterò sul suo terreno; inventerò un modello. Ora mi scorreva l’adrenalina. Pensai un altro momento e dissi: ‘Mettiamo che ci sia un gruppo di stelle che orbitano attorno al sole. Ogni 26 milioni di anni questo gruppo si avvicina alla Terra e succede qualcosa, non so bene cosa, ma esso produce asteroidi che colpiscono la Terra. Forse gli asteroidi se li porta dietro.'”

Salta all’occhio la natura completamente arbitraria del metodo usato per arrivare ad un’ipotesi senza la più pallida base nei fatti. Con un tale approccio, dobbiamo proprio lasciare il regno della scienza per abbracciare quello della fantasia, nel quale tutto è legittimo. Infatti, Muller stesso è abbastanza onesto da confessare:

“Non volevo che il mio modello fosse preso così sul serio, anche se credevo che il mio punto di vista si sarebbe chiarito se il modello avesse resistito all’assalto almeno per pochi minuti.”29

Ma noi viviamo in un’epoca di credulità. La “teoria della nemesi”, che chiaramente non fa riferimento ad un modello scientifico, ma è una congettura arbitraria, è ora presa con la massima serietà da molti astronomi che stanno spazzando i cieli alla ricerca di indizi dell’esistenza di questa invisibile “stella della morte”, questo terrorista cosmico che ha eliminato i dinosauri in poco tempo e che potrebbe tornare sulla scena del delitto per farci fuori tutti!

Il problema qui è di metodo. Quando Napoleone chiese a Laplace dove avesse sistemato Dio nel suo sistema meccanico dell’universo, egli gli diede la famosa risposta: “Sire, je n’ai pas besoin de cette hypothèse” (Sire, non ho bisogno di una simile ipotesi). Il materialismo dialettico vuole scoprire le leggi inerenti al movimento della natura. Anche se il fattore accidentale gioca un ruolo in tutti i processi naturali, e non si può in principio escludere che, per esempio, l’estinzione dei dinosauri possa essere stata causata da un asteroide vagante, è completamente fuorviante e controproducente cercare le cause dello sterminio di massa in generale in fenomeni esterni, totalmente scollegati dal processo in considerazione. Le leggi che governano l’evoluzione della specie vanno cercate e trovate nel processo di evoluzione stesso, che comprende sia i lunghi periodi di lenti cambiamenti, sia periodi in cui i cambiamenti sono enormemente accelerati, dando luogo alla scomparsa di alcune specie e all’emergere e al rafforzarsi di nuove.

È l’incapacità di afferrare l’insieme del processo, capire il suo carattere contraddittorio, complesso, non lineare – cioè la mancanza di un approccio dialettico – che porta a questi tentativi arbitrari di risolvere i problemi ricorrendo a fattori estranei, come il deus ex machina o il proverbiale coniglio che esce dal cappello del mago. Su questa strada si trova solo un vicolo cieco. Inoltre la straordinaria propensione ad accettare gli scenari più fantastici – quasi tutti che implichino l’idea di una qualche catastrofe cosmica, ovvero, in ultima analisi, la fine del mondo – è una tendenza che la dice lunga sull’assetto psicologico della società nell’ultimo decennio del ventesimo secolo.

La rivoluzionaria nascita dell’uomo

L’era denominata cenozoico inizia con un’estinzione di massa 65 milioni di anni fa e continua fino all’epoca attuale. Durante questa era, i continenti hanno continuato a spostarsi, separarsi e a collidere. Questo creò nuove condizioni ambientali. Nei primi 20 milioni di anni la temperatura continuò ad aumentare e fece la sua comparsa una zona tropicale, in cui, per esempio, le condizioni della Gran Bretagna rassomigliavano a quelle della giungla malese. Lo sviluppo più importante nell’evoluzione, in questa era, fu la crescita straordinariamente rapida dei mammiferi, che occuparono gli ambienti lasciati vuoti dai rettili. Circa 40 milioni di anni fa apparvero primati, elefanti, maiali, roditori, cavalli, leoni marini, delfini, balene e pipistrelli, così come molte famiglie degli uccelli attuali e molte famiglie di piante.

L’ascesa dei mammiferi si potrebbe raffigurare come una sorta di processione trionfale, in cui il processo evolutivo procede sempre in avanti, seguendo una linea ininterrotta, per culminare con la nascita della specie umana, l’incoronazione gloriosa della creazione. Ma questo è lontano dalla realtà. L’evoluzione non ha mai seguito una linea retta, come abbiamo visto. Periodi di crescita intensa, anche in questo periodo, vengono seguiti da inversioni drammatiche, morte ed estinzioni. I due principali periodi di estinzione sono collegati a bruschi cambiamenti nelle condizioni ambientali. Circa 40-30 milioni di anni fa, osserviamo gli inizi di un processo di raffreddamento. La temperatura crolla nei 25 milioni di anni successivi, stabilizzandosi ai livelli attuali solo 5 milioni di anni fa. Quell’epoca ha visto il primo di quei periodi recenti di estinzione che hanno interessato i mammiferi.

I primati, avi delle scimmie e degli umani, si diffusero in tutto il mondo. L’estinzione dei dinosauri ebbe un effetto su molte di queste famiglie. Le nuove condizioni ambientali portarono allo sviluppo di una nuova specie adattatasi meglio al cambiamento delle condizioni. È importante ricordare che le nuove condizioni influenzarono principalmente l’Africa e non l’America. In quel tempo, l’Antartide raggiunse il Polo sud e iniziò a ricoprirsi di ghiaccio. Per i successivi 10-20 milioni di anni ci fu un ulteriore periodo di crescita esplosiva dei mammiferi – la più grande – in cui apparvero molte specie di scimmie.

Tuttavia, i tratti fondamentali delle scimmie rimasero intatti durante tutto questo periodo, fino a quando un altro brusco cambiamento nelle condizioni climatiche portò ad un’altra trasformazione. Ci sono considerevoli divergenze fra i paleontologi riguardo al momento e al modo in cui gli ominidi si sono separati dalle scimmie. In base allo studio delle ossa ci sono indicazioni, che risalgono a 14 milioni di anni fa, che dimostrano che già allora esistevano specie che ricordano le moderne scimmie. Gli scienziati credono che queste ossa appartengano ad una specie vissuta sia in Africa che in Eurasia fra 14 e 7 milioni di anni fa. Sembra che sia stata una specie di grande successo, un avo comune degli umani, delle scimmie e dei gorilla. Poi, fra 10 e 17 milioni di anni fa, ci fu un nuovo drammatico cambiamento ambientale.

L’Antartide era già coperta di ghiaccio. Ora il manto ghiacciato si diffuse non solo al sud, ma anche al nord, dove coprì l’Alaska, il nord America e il nord Europa. In questo modo sempre più acqua veniva intrappolata nel ghiaccio e il livello del mare iniziò a calare. È stato stimato che il calo del livello del mare fu di oltre 150 metri. Apparvero nuove terre che univano i continenti; si formarono ponti di terra che collegavano l’Europa all’Africa, l’Asia all’America e la Gran Bretagna all’Europa, rendendo possibile un’ulteriore migrazione delle specie. Il mar Mediterraneo sparì completamente. Il clima attorno all’equatore divenne molto asciutto, causando una desertificazione estensiva, insieme alla fine della giungla e della foresta, e permettendo l’avanzata della savana e delle terre aperte. A quel tempo l’Asia era divisa dall’Africa dal deserto, separando le scimmie africane dai cugini asiatici. Inevitabilmente questo fu un periodo di morte ed estinzione, ma fu anche un periodo di nascita di nuove specie. A un certo punto, probabilmente 7 milioni di anni fa, lo sviluppo dei mammiferi fece emergere i primi ominidi (primati dalle sembianze umane).

È ora generalmente accettato che l’umanità ha trovato origine in Africa. 5,3 milioni di anni fa, il Mediterraneo aveva l’aspetto che ha ora e in Africa si sviluppò una nuova specie di scimmie, la quale nel corso di un milione di anni si è evoluta in tre diverse direzioni, dando vita agli scimpanzé, agli ominidi e ai gorilla. La separazione di queste tre branche si verificò a causa delle pressioni ambientali nell’Africa orientale: un forte impoverimento della foresta, causato dalla riduzione delle piogge e dal clima in generale più secco. Questa fu probabilmente la forza motrice che ha portato alla separazione delle tre specie di protoscimmie. Finora esse avevano vissuto sugli alberi. Ora avevano tre possibilità:

1) Una parte di esse rimaneva nella foresta. Queste dovevano essere le più capaci di estrarre cibo da risorse sempre più limitate. La riduzione della foresta deve aver severamente ridotto il loro numero.

2) Un altro gruppo, costretto a spostarsi ai margini della foresta, con un numero minore di alberi e di fonti di cibo, fu alla fine obbligato ad allargare il proprio campo d’azione per la raccolta del cibo, spostandosi sul terreno, pur tenendosi vicino agli alberi per proteggersi. Questo gruppo è rappresentato dai moderni scimpanzé.

3) Un terzo gruppo, probabilmente costituito dalla parte più debole e meno abile, fu costretto ad un’intensa competizione per le scarse fonti di cibo e a un trasferimento fuori dalla foresta. Dovettero così non solo spostarsi sul terreno, ma coprire lunghe distanze per trovare il cibo necessario alla loro sopravvivenza. Essi si trovarono a sviluppare interamente un nuovo modo di vivere, radicalmente diverso da quello degli altri primati.

In Asia le pressioni ambientali causate dai cambiamenti climatici portarono gruppi di scimmie ai margini della foresta. Da esse si svilupparono i moderni babbuini, che si spostavano sul terreno in cerca di cibo, tornando poi sugli alberi per proteggersi.

I primati possono ricorrere a una gran varietà di modi di locomozione. Il tarsio salta e si tiene aggrappato; il gibbone dondola da un arto all’altro; l’orangutan ha “quattro mani”; il gorilla cammina appoggiando le nocche delle mani per terra; la scimmia è un vero quadrupede; solo gli ominidi si sono avventurati a diventare completi bipedi.

Altre specializzazioni si accompagnarono allo sviluppo delle mani. Se é necessario saltare e afferrare una preda, allora é opportuno essere in grado di valutare accuratamente le distanze. Altrimenti, nella migliore delle ipotesi, l’animale resterà a mani vuote, nel peggiore, mancherà il ramo e cadrà a terra. Una valutazione precisa delle distanze presuppone la visione binoculare: cioè mettere a fuoco entrambi gli occhi su un oggetto per conseguire la percezione della profondità. Il che richiede che gli occhi siano posizionati nella parte frontale del cranio e guardino in avanti, non ai lati della testa, come quelli dello scoiattolo. Gli antenati primati svilupparono questo tipo di visione. Il loro cranio divenne arrotondato per accogliere gli occhi nella nuova posizione, questo cambiamento di forma fu accompagnato da un ampliamento della capacità cranica e dalla possibilità di avere un cervello più sviluppato. Al tempo stesso, la mandibola divenne più piccola. Avendo le mani, un animale non deve svolgere tutto il lavoro alla ricerca del cibo e di caccia con i denti; può essere fornito di una mandibola più corta e di un minor numero di denti. Tutte le moderne scimmie sia antropomorfe sia comuni – e gli esseri umani – hanno sedici denti per arcata dentaria. I loro antenati ne avevano ventidue.30

Lo psicologo Jerome Bruner, nei suoi scritti sullo sviluppo mentale dei bambini, ha sottolineato come il comportamento complesso abbia molto in comune sia con la produzione del linguaggio che con la soluzione di problemi. Le abilità più semplici implicano quasi tutte l’uso di una o due mani e la guida visuale. Sullo sviluppo della mano umana, Bruner ha fatto la seguente considerazione:

“Le mani dell’uomo sono un sistema a crescita lenta, e passano molti anni prima che l’uomo sia in grado di esibire il tipo di intelligenza manuale che ha distinto la nostra specie dalle altre, e cioè l’uso e la costruzione di strumenti. Storicamente, in realtà, le mani sono state considerate senza particolare interesse persino dagli studiosi dell’evoluzione dei primati. Wood Jones riteneva che ci fosse scarsa differenza morfologica tra la mano della scimmia e quella dell’uomo, e che la differenza stesse nel loro diverso rapporto funzionale con il sistema nervoso centrale. Come Clark e Napier hanno messo in evidenza, invece, proprio l’evoluzione morfologica della mano, da quella del sorcio di campagna a quella dei tarsi attraverso quella delle scimmie del Nuovo mondo e del Vecchio mondo fino all’uomo, può rivelare il modo in cui la sua funzione è cambiata, e con essa, il tipo di strumentazione dell’intelligenza umana. Questo cambiamento è andato costantemente in direzione di una particolare forma di despecializzazione. La mano si è liberata dalla sua funzione locomotoria, dalla funzione di arrampicarsi sui rami, e da altre operazioni specializzate quali quelle soddisfatte da unghie o polpastrelli di forme esotiche. L’evoluzione verso funzioni meno specializzate significa la possibilità di adempiere a funzioni più variate. Senza perdere la possibilità di divaricare le falangi per portare dei pesi, quella di raccogliere le dita a coppa per cibarsi, la capacità di prensione per afferrare e arrampicarsi, senza perdere la opponibilità – tutti aspetti che costituiscono eredità dei primi primati – nella più tarda evoluzione dei primati la mano sviluppa diverse nuove capacità, subendo anche appropriati cambiamenti morfologici. Fatto nuovo, ad esempio, è la capacità di combinare forza e precisione della presa. Aumenta la flessibilità del palmo e del pollice attraverso cambiamenti delle ossa unciformi e trapezoidali e delle loro articolazioni. Le falangi terminali si estendono e si rafforzano, particolarmente nel pollice. Napier può apparire esagerato quando dice: ‘I dati in nostro possesso fanno pensare che gli utensili di pietra dell’uomo preistorico erano buoni (o cattivi) quanto la mano che li fabbricava’. Poiché è certo che mani inizialmente stupide diventano più abili allorché vengono impiegate in un programma intelligente elaborato dalla cultura.”31

I primi fossili di ominidi sono stati trovati nell’Africa orientale e appartengono alla specie denominata Australopithecus Afarensis, la quale visse intorno a 3,5-3,3 milioni di anni fa. Questa creatura simile alla scimmia era capace di camminare eretta e aveva mani con il pollice pienamente opponibile e quindi capaci di manipolare utensili. La loro capacità cranica era maggiore di quella delle altre scimmie (450 centimetri cubici). Finora non si sono trovati utensili collegati a questi primi ominidi, ma sono messi in netta evidenza quando arriviamo al primo della specie chiaramente identificabile come umana, l’Homo habilis (“uomo capace”) il quale camminava eretto, era alto 1 metro e venti e aveva una capacità cerebrale di 800 centimetri cubici.

In quale momento avviene la separazione fra gli umani e le scimmie antropomorfe? I paleontologi hanno discusso a lungo su questo tema. La risposta ci arriva da Engels con il suo saggio capolavoro La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia. Ma la risposta è stata anche largamente anticipata da Marx ed Engels nel loro ben precedente lavoro pionieristico, L’ideologia tedesca, scritto nel 1845:

“Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.”32

Il ruolo della costruzione degli utensili

Nel tentativo estremamente superficiale di screditare la visione materialistica dell’origine della specie umana, spesso si dichiara che gli esseri umani non sono gli unici animali che “usano attrezzi”. Tale argomentazione è completamente priva di sostanza. Sebbene per alcuni animali (non solo scimmie e scimpanzé, ma persino uccelli e insetti) si possa dire che usano certi “strumenti” per determinate attività, questi sono limitati ai materiali naturali che hanno a portata di mano: rametti, pietre, ecc. Inoltre tale uso può dipendere o da un’azione accidentale, come quando una scimmia getta un bastone per far cadere i frutti da un albero,

oppure da azioni limitate che possono anche essere molto complesse, ma che sono esclusivamente risultato del condizionamento genetico e dell’istinto. Le azioni si ripetono sempre uguali; non c’è traccia di pianificazione intelligente, dovuta a previsione o creatività, se non limitatamente nelle specie di mammiferi più evolute, ma anche i più progrediti tra i primati non hanno niente che assomigli all’attività produttiva, nemmeno a quella sviluppata dagli esseri umani più primitivi.

La questione essenziale non è che gli esseri umani “usano attrezzi”, ma il fatto che gli esseri umani sono gli unici animali a fabbricare attrezzi, non come azione isolata o accidentale, ma come condizione essenziale per la loro sopravvivenza dalla quale dipende tutto il resto. Perciò, sebbene gli esseri umani e gli scimpanzé siano quasi identici da un punto di vista genetico e il comportamento di questi animali per certi aspetti appaia notevolmente “umano”, lo scimpanzé più intelligente non è capace di costruire persino gli strumenti in pietra più rudimentali prodotti dall’Homo erectus, una creatura che si colloca all’esordio evoluzionistico dell’umanità. Nel suo ultimo libro, The Origin of Humankind (L’origine dell’umanità), Richard Leakey spiega:

“Gli scimpanzé utilizzano abitualmente strumenti, poiché si servono di bastoncini per pescare le termiti, di foglie come spugne e di sassi per rompere il guscio delle noci. Ma, almeno fino ad ora, non si è mai osservato uno scimpanzé che, nel suo ambiente naturale, si costruisse un’utensile di pietra. L’uomo iniziò a fabbricarsi strumenti dal bordo tagliente circa 2,5 milioni di anni fa percuotendo una pietra con un’altra, e in tal modo avviò una lunga tradizione tecnologica che ci ha aiutato a far luce sull’evoluzione umana.”33

Confrontiamo questo con ciò che scrisse Engels nel 1876:

“Con le mani, molte scimmie si costruiscono nidi sugli alberi o addirittura, come lo scimpanzé, tettoie tra i rami per ripararsi dai temporali. Con le mani afferrano randelli per difendersi dai loro nemici, o pietre e frutta per bombardarli. Con esse compiono in prigionia tutta una serie di piccole operazioni imitando gli uomini. Ma proprio in quest’ultimo caso si vede quanto è grande la differenza tra la mano non sviluppata della scimmia, anche della più simile all’uomo, e la mano dell’uomo altamente perfezionata dal lavoro di centinaia di migliaia di anni. Il numero delle articolazioni e dei muscoli, la loro disposizione generale sono, nei due casi, gli stessi; ma la mano del selvaggio più arretrato può compiere centinaia di operazioni che nessuna scimmia riesce ad imitare. Nessuna mano di scimmia ha mai prodotto il più rozzo coltello di pietra.”34

Nicholas Toth ha impiegato molti anni nel tentare di ricostruire i metodi con cui i primi esseri umani producevano gli attrezzi ed è giunto alla conclusione che persino i procedimenti più elementari per sfaldare le rocce avevano richiesto non solo una considerevole attenzione e una grande destrezza manuale, ma anche una certa capacità di previsione e di pianificazione.

“Per poter lavorare proficuamente occorre scegliere una roccia che presenti una data forma e un certo angolo in corrispondenza del quale dare il primo colpo, il cui stesso movimento richiede una grande pratica perché bisogna calibrare bene la forza e il punto preciso d’impatto. ‘È evidente che gli esseri protoumani che iniziarono a costruire strumenti avevano una buona conoscenza intuitiva dei rudimenti della tecnologia litica’ affermò Toth in uno scritto nel 1985. ‘Non vi è dubbio che possedessero capacità mentali superiori a quelle delle scimmie antropomorfe’, mi ha detto recentemente. ‘La manifattura di strumenti richiede l’uso coordinato di capacità motorie e cognitive non trascurabili.'”35

Esiste una stretta correlazione tra mano, cervello e tutti gli altri organi del corpo. La parte di cervello collegata alle mani è molto superiore a quella riservata ad ogni altra parte del corpo. Già Darwin aveva colto il fatto che lo sviluppo di certe parti dell’organismo è legato allo sviluppo di altre parti che non hanno alcuna relazione apparente con le prime. Egli denominò questo fenomeno legge della correlazione della crescita. Lo sviluppo della destrezza manuale per mezzo del lavoro ha fornito lo stimolo per un rapido sviluppo cerebrale.

L’evoluzione della razza umana non è dovuta ad un caso fortuito, bensì è il prodotto della necessità. La postura eretta dei primi ominidi era necessaria per permettere loro di muoversi liberamente nella savana alla ricerca di cibo. La testa doveva necessariamente essere in posizione più elevata rispetto al corpo per individuare la presenza di predatori, come rileviamo in altri abitatori della savana, come il meerkat. Le limitate risorse alimentari determinavano la necessità di raccoglierlo e di trasportarlo; ciò costituì la forza motrice per lo sviluppo della mano.

Le scimmie non sono strutturate per camminare su due gambe e lo fanno in modo piuttosto goffo; invece l’anatomia dei primi ominidi rivela già una struttura ossea chiaramente adattata all’andatura eretta. La postura eretta presenta seri svantaggi sotto molti aspetti: è impossibile, ad esempio, correre altrettanto velocemente su due gambe come su quattro; sotto molti aspetti, inoltre, il bipedismo è una postura innaturale, il che spiega la diffusione di dolori alla colonna vertebrale che ha afflitto l’animale umano dall’epoca delle caverne ai giorni nostri. L’enorme vantaggio del bipedismo è invece di aver liberato le mani per il lavoro; in questo appunto consiste la grande innovazione umana. Il lavoro è, insieme alla natura, la fonte di ogni ricchezza, ma allo stesso tempo, come osserva Engels, è infinitamente più di questo:

È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo.

Lo sviluppo della mano per mezzo del lavoro è strettamente connesso allo sviluppo del corpo nel suo complesso.

“La mano non è quindi soltanto l’organo del lavoro: è anche il suo prodotto. La mano dell’uomo ha raggiunto quell’alto grado di perfezione, sulla base del quale ha potuto compiere i miracoli dei dipinti di Raffaello, delle statue di Thorwaldsen, della musica di Paganini, solo attraverso il lavoro: attraverso l’abitudine a sempre nuove operazioni, attraverso la trasmissione ereditaria del particolare sviluppo dei muscoli, dei tendini e, a più lungo andare, anche delle articolazioni, per questa via acquisito: attraverso la sempre rinnovata elaborazione dei perfezionamenti così ereditati per mezzo di nuove, e sempre più complicate, operazioni.

Ma la mano non era isolata. Essa era soltanto un singolo membro di un organismo completo, estremamente complesso. E ciò che era acquisito dalla mano era acquisito anche da tutto il corpo, al servizio del quale la mano lavorava, e invero in duplice modo.”36

Lo stesso si può dire per il linguaggio. Sebbene le scimmie siano in grado di produrre una gamma di suoni e gesti che si possono considerare una sorta di “linguaggio” a livello embrionale, tutti i tentativi di insegnare loro a parlare sono falliti. Il linguaggio è, come spiega Engels, il risultato della produzione collettiva e può svilupparsi solo in una specie le cui attività principali dipendano esclusivamente dalla cooperazione al fine di fabbricare utensili, un procedimento complesso che deve essere appreso in modo cosciente e trasmesso da una generazione alla successiva. Osserva a questo proposito Noam Chomsky:

“Chi si occupa dello studio della natura umana e delle capacità umane deve in qualche modo affrontare il fatto che tutti gli esseri umani normali acquisiscono il linguaggio, mentre l’apprendimento anche dei suoi più semplici rudimenti è proprio al di là delle capacità di una scimmia, per quanto intelligente.

Negli ultimi tempi si è diffusa la tendenza a cercare di dimostrare che il linguaggio non è peculiare degli esseri umani. Se, da un lato, non c’è dubbio che tra gli animali esistano sistemi di comunicazione, sarebbe completamente errato definire tale fenomeno linguaggio. Il linguaggio umano deriva dalla società umana e dall’attività di collaborazione produttiva tra gli uomini ed è qualitativamente diverso da ogni altro sistema di comunicazione riscontrabile nel mondo animale, anche del più complesso.

“Il linguaggio umano risulta un fenomeno unico, privo di un analogo significativo nel mondo animale. Se è così, è completamente privo di senso sollevare il problema di spiegare l’evoluzione del linguaggio umano dai sistemi più primitivi di comunicazione che compaiono ai livelli inferiori delle capacità intellettive.”

E ancora:

“Per quanto ne sappiamo, il possesso del linguaggio umano è connesso con un tipo specifico di organizzazione mentale e non semplicemente con un grado superiore di intelligenza. Sembra inconsistente la concezione che il linguaggio umano è semplicemente un caso più complesso di qualcosa che deve essere reperito altrove nel mondo animale. Ciò pone un problema per il biologo, poiché, se le cose stanno così, questo è un esempio di vera e propria emergenza – cioé l’apparizione di un fenomeno qualitativamente differente a uno stadio specifico di complessità di organizzazione.”37

Il rapido aumento delle dimensioni cerebrali ha creato nuovi problemi connessi in particolar modo alla nascita dei bambini. Mentre un neonato di scimmia ha un cervello di 200 centimetri cubici – circa la metà di quello di un adulto – il cervello di un neonato umano (385 centimetri cubici) è solamente pari ad un quarto del cervello umano adulto (circa 1.350 centimetri cubici). La conformazione pelvica umana, adattata alla postura eretta, limita l’entità della dilatazione pelvica, perciò tutti i bambini umani nascono “prematuramente”, come conseguenza dello sviluppo delle dimensioni cerebrali e delle restrizioni imposte dall’ingegneria biologica del bipedismo.

La totale inermità dei neonati umani è evidente in paragone a tutte le altre specie di mammiferi superiori. Barry Bogin, biologo dell’Università del Michigan, ha ipotizzato che il livello di crescita corporea dei bambini, basso se confrontato con quello delle scimmie, sia connesso al lungo periodo necessario per assimilare le tecniche e le complesse regole della società umana. Persino il protrarsi della diversità di dimensioni tra i bambini e gli adulti è funzionale all’instaurazione del rapporto insegnante-allievo, nel quale il giovane impara dall’anziano, mentre tra le scimmie la rapida crescita porta presto a una rivalità sul piano fisico. Quando il lungo processo di apprendimento è completato, il corpo riguadagna il tempo perso con un balzo improvviso della crescita nel corso dell’adolescenza.

“L’uomo diviene tale, abbiamo detto, interiorizzando a ritmo serrato non solo quanto gli occorrerà sapere per sopravvivere ma anche le consuetudini sociali, i rapporti di parentela e le norme del vivere comune: in sintesi, la cultura cui appartiene. L’ambiente sociale in cui i piccoli vengono allevati e i bambini più grandi vengono educati è molto più caratteristico nell’uomo che nelle scimmie antropomorfe.”38

Organizzazione sociale

La vita nell’aperta savana in presenza di un grande numero di predatori era una faccenda pericolosa. Gli esseri umani non sono dotati di grande forza e i primi ominidi erano molto più piccoli degli esseri umani moderni. Non avevano né forti artigli, né denti robusti e non potevano nemmeno correre più veloci dei leoni e degli altri predatori a quattro zampe. L’unico modo di sopravvivere era quello di sviluppare una comunità altamente organizzata e coordinata per il comune sfruttamento delle scarse risorse di cibo; il passo decisivo fu senza dubbio la produzione di attrezzi, a cominciare dai raschiatoi di pietra, impiegati per gli scopi più svariati. Nonostante il loro aspetto ingannevolmente semplice, questi erano già strumenti altamente sofisticati e versatili, la cui fabbricazione implicava un notevole grado di organizzazione, di pianificazione e, perfino, un certo grado di divisione del lavoro. In ciò riscontriamo il vero esordio della società umana, secondo le parole di Engels:

“Come abbiamo già detto, i nostri antenati scimmieschi erano socievoli; è evidentemente impossibile far discendere l’uomo, il più socievole di tutti gli animali, da un progenitore prossimo non socievole. Il dominio sulla natura, iniziatosi con lo sviluppo della mano, ampliò con il lavoro l’orizzonte dell’uomo, ad ogni passo in avanti che veniva fatto. Egli andava scoprendo, di continuo, nuove proprietà, fino ad allora sconosciute, nelle cose della natura. D’altro lato, lo sviluppo del lavoro ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario l’aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l’utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi. Il bisogno sviluppò l’organo ad esso necessario: le corde vocali, non sviluppate, della scimmia, si andarono affinando, lentamente ma sicuramente, abituandosi a una modulazione sempre più accentuata; la bocca e gli organi vocali impararono a poco a poco a emettere una sillaba articolata dopo l’altra.”39

La produzione di attrezzi, l’inizio di una divisione del lavoro, originariamente tra uomini e donne, lo sviluppo del linguaggio e una società basata sulla cooperazione: furono questi gli elementi che contraddistinsero gli esordi dell’umanità e ciò non avvenne in base a un processo lento e graduale, ma rappresentò un ulteriore balzo rivoluzionario, una delle svolte decisive nella storia dell’evoluzione. Il paleontologo Lewis Binford si esprime in questi termini:

“La nostra specie comparve non come compimento di un processo lento e graduale ma come fenomeno esplosivo, maturato in un periodo di tempo brevissimo.”40

La relazione che intercorre tra il lavoro e tutti gli altri fattori è stata così spiegata da Engels:

“In primo luogo il lavoro, dopo di esso e con esso il linguaggio: ecco i due stimoli essenziali sotto la cui influenza il cervello di una scimmia si è trasformato gradualmente in un cervello umano, molto più grande e perfetto secondo ogni verosimile ipotesi. Al perfezionamento del cervello si accompagnò però di pari passo il perfezionamento dei suoi strumenti più immediati: gli organi sensoriali. Come il graduale sviluppo del linguaggio è necessariamente accompagnato da un corrispondente affinamento dell’organo dell’udito, così più in generale lo sviluppo del cervello è accompagnato da quello di tutti i sensi. L’aquila vede molto più lontano dell’uomo, ma l’occhio dell’uomo scorge molto di più nelle cose che non quello dell’aquila. Il cane ha narici assai più penetranti dell’uomo, ma non distingue fra di loro la centesima parte degli odori che per l’uomo sono ben determinati indici di cose differenti. E il tatto, che nella scimmia esiste solo al suo più grezzo stato iniziale, si è andato affinando solo con la formazione della mano umana, attraverso il lavoro.”

I primi ominidi avevano una dieta prevalentemente vegetariana, nonostante l’uso degli attrezzi, persino di quelli più primitivi come i bastoni per scavare, permettesse loro di attingere a fonti di cibo non accessibili agli altri primati. Tale dieta era integrata da piccoli quantitativi di carne, ottenuta prevalentemente raccattando resti di altri predatori. Si verificò un reale passo in avanti solo quando la produzione di strumenti e di armi permise agli esseri umani di fare della caccia la loro fonte principale di sostentamento. Il consumo di carne portò senza dubbio a un ulteriore rapido aumento delle dimensioni cerebrali:

“L’alimentazione carnea conteneva, quasi bell’e pronte, le sostanze essenziali delle quali l’organismo ha bisogno per rinnovare i suoi tessuti; abbreviò i tempi della digestione e con essa di tutti gli altri processi vegetativi dell’organismo, cioè di quei processi che hanno il loro corrispondente nel regno vegetale; e portò con ciò un acquisto di tempo, di sostanze, di energia, per l’attivazione della vita più propriamente animale. E quanto più l’uomo in divenire si allontanava dalla pianta, tanto più si elevava anche al disopra della bestia. Come l’abitudine al cibo vegetale, accanto alla carne, ha trasformato il cane e il gatto selvaggio in servitori dell’uomo, così l’assuefazione alla carne come cibo, accanto ai vegetali, ha contribuito a dare all’uomo in divenire forza fisica e indipendenza. Ma la nutrizione carnea esercitò la sua influenza più importante sul cervello, al quale pervenivano, in copia molto maggiore di prima, le sostanze necessarie per il suo nutrimento e per il suo sviluppo, e che si poté quindi sviluppare in modo più rapido e più completo di generazione in generazione.”41

Lo stesso tema viene enunciato da Richard Leakey, il quale lo pone in relazione con un cambiamento radicale dell’organizzazione sociale. Nella maggior parte degli altri primati regna una feroce competizione tra i maschi per accoppiarsi con le femmine. Ciò si riflette nelle notevoli differenze di dimensioni tra, per esempio, i maschi e le femmine di babbuino della savana. La stessa differenziazione si può riscontrare nei primi ominidi, come l’Australopithecus Afarensis. Ciò suggerisce una struttura sociale più vicina a quella delle scimmie che agli esseri umani. In altre parole, gli adattamenti fisici come il bipedismo, essenziale in quanto fu indubbiamente un presupposto per l’evoluzione umana, non ci permettono ancora, contrariamente a ciò che Richard Leakey suggerisce, di caratterizzare questi primi ominidi come esseri umani.

Tra i babbuini della savana, i maschi (di dimensioni doppie rispetto alle femmine) lasciano il branco non appena raggiunta la maturità e si aggregano a un altro branco dove immediatamente entrano in competizione con i maschi per conquistare le femmine. In tal modo, in termini darwiniani, questi maschi non hanno (geneticamente) motivi per collaborare tra di loro. Tra gli scimpanzé, d’altro canto, per motivi ancora ignoti i maschi restano nel gruppo dove sono nati, mentre migrano le femmine. Gli scimpanzé maschi, essendo legati geneticamente, in termini darwiniani, hanno una ragione per collaborare, ed è ciò che fanno, sia per difendere il gruppo dagli invasori esterni, sia per coalizzarsi occasionalmente nel cacciare una scimmia e integrare così la propria dieta. La differenza di dimensioni fisiche tra maschi e femmine di scimpanzé è solo del 15-20% e ciò riflette la natura prevalentemente mutualistica di questa società.

Mentre la differenza di dimensioni tra maschi e femmine del gruppo dello Australopithecus Afarensis era talmente grande che inizialmente si era supposto che si trattasse di reperti fossili di due specie completamente diverse, tutt’altra è la situazione dei primi rappresentanti di specie umane, i cui maschi non superavano in misura maggiore del 20% la corporatura delle femmine, come nel caso degli scimpanzé, i nostri parenti geneticamente più vicini. Leakey osserva in proposito:

“Come hanno sostenuto Robert Foley e Phyllis Lee, antropologi della Cambridge University, il cambiamento nella differenza di mole corporea verificatosi all’origine del genere Homo rispecchia certamente un cambiamento intervenuto nell’organizzazione sociale. È molto probabile che fra i primi rappresentanti di Homo i maschi rimanessero nel loro gruppo natale con i loro fratelli e fratellastri e che le femmine si trasferissero in altri gruppi. Le relazioni di parentela, come ho già detto, favoriscono lo spirito di cooperazione fra i maschi.

Non possiamo indicare con certezza che cosa diede l’avvio ai mutamenti avvenuti nell’organizzazione sociale, ma, sicuramente, una maggiore cooperazione fra i maschi doveva comportare notevoli vantaggi. Alcuni paleoantropologi sostengono che in questo periodo la necessità di difendersi dai gruppi che occupavano territori confinanti si sia fatta pressante. È fortemente probabile che si fossero verificati anche alcuni cambiamenti nelle necessità economiche. Numerose testimonianze concorrono a indicare che intervenne un mutamento nell’alimentazione degli individui del genere Homo, e che la carne stava diventando una fonte energetica sempre più importante. I cambiamenti osservati nell’architettura dentaria dei più antichi rappresentanti di Homo indicano che essi si nutrivano di carne, una conclusione confermata dalla complessità raggiunta nello stesso periodo dalla tecnologia litica. Inoltre non possiamo escludere che il considerevole accrescimento encefalico documentato dai resti fossili avesse imposto alla specie di integrare la propria alimentazione con una ricca fonte energetica quale è la carne.”42

È risaputo che il cervello è un organo ad alto consumo energetico, che attualmente nell’uomo assorbe il 20% dell’energia prodotta, nonostante rappresenti solo il 2% del peso corporeo totale. L’antropologo australiano Robert Martin ha spiegato che l’aumento delle dimensioni cerebrali nel genere Homo è stato possibile solo in base a un accresciuto apporto energetico, che poteva provenire solo dalla carne con la sua specifica concentrazione di calorie, proteine e grassi. In origine questo bisogno potrebbe essere stato soddisfatto dalla carne ottenuta dalle carogne integrata da un po’ di caccia (che, come sappiamo, viene praticata persino dagli scimpanzé). Ma per quanto riguarda il periodo successivo non esistono dubbi che la caccia abbia svolto un ruolo progressivamente più importante nel fornire una dieta nutritivamente più varia, con conseguenze evoluzionistiche di grande portata.

Ipotesi sullo sviluppo umano

Negli ultimi anni ha avuto luogo un dibattito controverso sul ruolo della caccia nelle prime società umane. C’è stata la tendenza a sminuire il ruolo della caccia, ponendo più l’accento sul ruolo della raccolta e della ricerca di cibo. Mentre questa problematica non è ancora stata risolta in modo definitivo, è difficile non condividere il punto di vista di Leakey, secondo cui le argomentazioni contro il modello di caccia e raccolta della prima società umana sono eccessive. Inoltre è interessante notare il modo in cui tali controversie tendano a riflettere certi pregiudizi, pressioni sociali o mode passeggere che nulla hanno a che vedere con la questione in esame.

Nei primi anni del XX secolo predominava il punto di vista idealista, per il quale il genere umano divenne tale grazie al cervello, con i suoi pensieri più elevati che erano il propellente di tutto lo sviluppo. Più tardi risorse la visione dell’“uomo fabbricante di strumenti”, sebbene in versione abbastanza idealizzata, secondo la quale gli strumenti, ma non le armi, erano considerati la forza motrice dell’evoluzione. Gli avvenimenti terribili della Seconda guerra mondiale determinarono una reazione a tutto ciò, nella forma della teoria dell’“uomo-scimmia assassina”, suggerita “forse perché sembrava spiegare (o persino giustificare) gli orrori della guerra”, come perspicacemente osserva Leakey.

Negli anni ’60 ci fu un grande interesse per i Kung San – chiamati “Boscimani” (dall’inglese bushman e dall’olandese boschjeman, uomini della foresta, una denominazione inappropriata, visto che vivono nel deserto del Kalahari), che vivono in evidente armonia con il loro ambiente naturale, sfruttandolo in modi complessi. Questo si adattava bene al crescente interesse per la questione ambientale nella società occidentale. Tuttavia nel 1966 a un’importante conferenza antropologica svoltasi a Chicago riemerse con prepotenza l’idea dell’“uomo cacciatore”. Questo però portò a un contrasto con le sostenitrici di “Women’s Liberation” negli anni ’70. Dato che la caccia è normalmente considerata un’attività maschile, si presumeva – in modo piuttosto incoerente – che accettarla avrebbe significato in qualche modo sminuire il ruolo delle donne nelle società primitive. La potente lobby femminista mise in campo l’ipotesi della “donna raccoglitrice”, secondo la quale si dimostrava che la raccolta di cibo, principalmente di vegetali e che poteva dare luogo ad una spartizione, fosse la base dell’evoluzione verso una società umana complessa.

Il ruolo centrale delle donne nelle società primitive è innegabile ed è stato chiaramente spiegato da Engels nella sua opera L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Tuttavia è un grosso errore andare a cercare nelle testimonianze del passato concezioni – o, ancora peggio, pregiudizi – che derivano dalla società attuale. La causa dell’emancipazione femminile non avanzerà di un solo passo tentando di adattare la realtà storica a un modello aderente a certe tendenze del momento, ma privo di reali contenuti. Non renderemmo il futuro dell’umanità migliore dipingendo il passato di rosa, né incoraggeremmo le persone a diventare vegetariane negando il ruolo fondamentale svolto dal consumo di carne, dalla caccia e, sì, persino dal cannibalismo, nello sviluppo del cervello umano.

“Col permesso dei signori vegetariani, l’uomo non si sarebbe formato senza alimentazione carnea; e se è pur vero che l’alimentazione carnea ha prima o poi, per un certo periodo, condotto tutti i popoli a noi conosciuti all’antropofagia (gli antenati dei berlinesi, i Veletabi o Velsi, mangiavano i loro genitori ancora nel X secolo) la cosa ormai non ci tocca più.”43

Allo stesso modo deve essere esistita una divisione del lavoro tra uomini e donne nelle società umane primitive. L’errore, tuttavia, è confondere la divisione del lavoro nella società preistorica, dove non esistevano né la proprietà privata né la famiglia, con quella attuale, con la disuguaglianza e l’oppressione delle donne nella moderna società divisa in classi. Nella maggioranza delle società di cacciatori-raccoglitori note agli antropologi esistono elementi di una divisione del lavoro, nel senso che gli uomini cacciano e le donne raccolgono piante commestibili.

“L’accampamento è un luogo di forte interazione sociale, un luogo in cui il cibo viene diviso” – osserva Leakey – “quando c’è la carne, questa divisione spesso si trasforma in un elaborato rituale, regolato da ben precise norme sociali.”

Ci sono buoni motivi per supporre che una situazione simile esistesse nella società primitiva. Invece di quella caricatura che è il darwinismo sociale, che cerca di estrapolare le leggi della giungla capitalista per applicarle alla totalità della preistoria e della storia umana, tutti i dati a noi noti indicano che la società primitiva si basava sulla cooperazione, l’attività collettiva e la condivisione dei beni. Glynn Isaac dell’Università di Harvard ha fatto un significativo passo avanti nel pensiero antropologico con un importante articolo pubblicato su Scientific American nel 1978. L’ipotesi di Isaac sulla condivisione del cibo pone in rilievo l’impatto sociale della raccolta e della divisione collettiva. In un discorso tenuto nel 1982 in occasione del centenario della morte di Darwin, disse: “L’adozione della pratica di condivisione del cibo avrebbe favorito lo sviluppo del linguaggio, della reciprocità sociale e dell’intelletto.” Nel suo ultimo libro, The Making of Mankind, Richard Leakey scrisse che “l’ipotesi della condivisione del cibo è una buona spiegazione dei motivi che condussero gli uomini primitivi sulla via dell’uomo moderno.”

Gli ultimi due milioni di anni sono stati caratterizzati da un particolare ciclo climatico. Lunghi periodi di freddo intenso e di avanzamento dei ghiacciai sono stati interrotti da brevi periodi di aumento della temperatura e di ritiro dei ghiacciai. Le ere glaciali hanno una durata media di 100.000 anni, mentre i periodi interglaciali durano circa 10.000 anni. In queste difficili condizioni, i mammiferi sono stati obbligati a sviluppare forme più avanzate per non scomparire. Su oltre 119 specie di mammiferi che vivevano in Europa e in Asia due milioni di anni fa, solo nove sopravvivono ancora. La stragrande maggioranza delle altre specie si sono evolute o sono scomparse. Ancora una volta la nascita e la morte sono inseparabilmente legate al contraddittorio, dolce-amaro processo dialettico dell’evoluzione.

L’ultima era glaciale ha ceduto il passo a un nuovo periodo interglaciale che dura fino ad oggi e che avrà un termine. L’Homo erectus ha ceduto il passo a un ominide più evoluto – l’Homo sapiens – circa 500.000 anni fa. La razza umana (Homo sapiens sapiens) rappresenta una linea evolutiva che parte dall’Homo sapiens, separatasi circa 100.000 anni fa. L’altra linea evolutiva – l’Homo sapiens neanderthalensis – scomparì o fu assimilata circa 40.000 anni fa. Così la razza umana si sviluppò in un periodo caratterizzato da un clima molto freddo. Tali condizioni comportarono una dura lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, ci furono altri periodi in cui le condizioni migliorarono, stimolando una crescita massiccia e ondate di migrazioni. Era l’alba dell’era dell’umanità.

Engels e l’origine dell’uomo

Come si accordano le idee di Engels, ne La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, con le più recenti teorie dell’evoluzione?

Uno dei paleontologi più avanzati è Stephen Jay Gould. Nel suo libro Ever Since Darwin, egli commenta gli argomenti di Engels nel modo seguente:

“In verità, il XIX secolo ha prodotto una brillante esposizione da una fonte che senza dubbio sorprenderà la maggior parte dei lettori: Friedrich Engels (un po’ di riflessione diminuirebbe la sorpresa. Engels nutriva uno spiccato interesse per le scienze naturali e cercò di basare la sua filosofia generale del materialismo dialettico su fondamenta ‘positive’. Non visse abbastanza per portare a compimento la sua ‘dialettica della natura’, ma incluse lunghi commenti sulla scienza in trattati come l’Anti-Dühring). Nel 1876 Engels scrisse un saggio intitolato “La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia”. Fu pubblicato postumo nel 1896 e, purtroppo, non ebbe un impatto visibile sulla scienza occidentale.

Per Engels tre sono i passaggi essenziali dell’evoluzione umana: il linguaggio, un cervello più grande e la stazione eretta. Il primo passo, sostiene, deve essere stata la discesa dagli alberi che aveva portato i nostri antenati terricoli ad evolvere la stazione eretta ‘passate a muoversi sul terreno, queste scimmie antropomorfe cominciarono a perdere l’abitudine ad usare le mani e ad assumere un’andatura sempre più eretta. Questo fu il passaggio decisivo nella transizione della scimmia antropomorfa all’uomo.’ La stazione eretta rese disponibili le mani per l’uso di strumenti (cioè il lavoro, secondo la terminologia di Engels); la maggiore intelligenza ed il linguaggio vennero più tardi.”44

Nonostante tutto, le teorie idealiste dell’evoluzione umana sono di retroguardia e portano avanti un’ostinata azione contro il materialismo, come viene evidenziato anche dal seguente passaggio di un libro recente, pubblicato nel 1995:

“La forza che probabilmente ha portato avanti la nostra evoluzione [è…] il processo di evoluzione culturale. Man mano che si sviluppò la complessità delle nostre culture, così fecero le nostre menti, che diressero i corpi verso una maggiore rispondenza e le nostre culture verso una complessità ancora maggiore in un circolo virtuoso. Cervelli più grandi e capaci portarono a culture più complesse e a corpi adatti a trarne vantaggio e avvicendandosi questi fattori si giunse a cervelli ancora più grandi e più capaci.”45

Gli idealisti hanno cercato ripetutamente di affermare che l’uomo si distingue dagli animali “inferiori” per la sua intelligenza superiore. A quanto pare l’uomo primitivo, per ragioni inesplicabili, prima “divenne intelligente”, poi cominciò a parlare, usare attrezzi, dipingere e così via. Se ciò fosse vero, ci si aspetterebbe che tale processo si fosse riflesso in un aumento significativo delle dimensioni cerebrali molto precocemente. Invece i reperti fossili dimostrano che non è così.

Nel corso degli ultimi 30 anni si è verificata una serie di enormi passi avanti in paleontologia, nuove ed emozionanti scoperte di fossili e un nuovo metodo per interpretarli. Secondo una teoria recente, le prime scimmie bipedi comparvero ben 7 milioni di anni fa.

Di conseguenza, in un processo che i biologi chiamano “radiazione adattativa”, c’è stata una proliferazione di specie bipedi (cioè di specie che camminavano su due gambe) con l’evoluzione di molte specie diverse di scimmie bipedi, ognuna adattatasi a diverse condizioni ambientali. 2-3 milioni di anni fa una di queste specie – l’Homo erectus – sviluppò in modo significativo le dimensioni cerebrali. Erano i primi ominidi che usavano il fuoco, che utilizzavano la caccia come un’importante fonte di nutrimento, che correvano come gli esseri umani attuali e che fabbricavano attrezzi secondo un ben definito piano mentale preconcetto. Così l’aumento delle dimensioni cerebrali coincide con le prime attività di fabbricazione di attrezzi, approssimativamente 2,5 milioni di anni fa. In tal modo, per 5 milioni di anni non si è avuta nessuna espansione significativa delle dimensioni cerebrali, e successivamente un balzo improvviso che si identifica chiaramente con la produzione di attrezzi.

La biologia molecolare indica che le prime specie di ominidi apparvero circa 5 milioni di anni fa, nella forma di scimmie bipedi con lunghe braccia e dita ricurve. Il proto-umano Australopithecus non aveva un cervello di grandi dimensioni – solo 400 centimetri cubici.

Il salto qualitativo avvenne con l’Homo habilis, le cui dimensioni cerebrali erano superiori a 600 centimetri cubici – cioè un aumento stupefacente del 50%. Il grande passo in avanti successivo fu con l’Homo erectus, che aveva dimensioni cerebrali tra 850 e 1.100 centimetri cubici.

Solo con la comparsa dell’Homo sapiens, circa 100.000 anni fa, le dimensioni del cervello raggiunsero i livelli attuali: 1.350 centimetri cubici. Dunque i primi ominidi non possedevano cervelli sviluppati. L’evoluzione umana non è iniziata dal cervello. Al contrario, l’aumento delle dimensioni cerebrali è stato il prodotto dell’evoluzione umana, in particolar modo della produzione di strumenti. Il balzo qualitativo delle dimensioni cerebrali ha luogo con l’Homo habilis (“uomo abile”) e si identifica chiaramente con la produzione di attrezzi in pietra. Un altro salto qualitativo ebbe luogo con la transizione dall’Homo erectus all’Homo sapiens.

La mente umana apparve sulla Terra in modo improvviso e sorprendente– scrive John McCrone – “La transizione dei nostri progenitori dalla scimmia astuta all’autocosciente Homo sapiens ha richiesto solamente 70.000 anni, un battito di ciglia in termini geologici.

Dall’altra sponda della divisione evoluzionistica sta l’Homo erectus, una bestia intelligente con un cervello quasi grande come quello degli esseri umani attuali, una cultura degli attrezzi primitiva e la padronanza del fuoco, ma ancora mentalmente carente. Più vicino a noi sta l’Homo sapiens con i rituali e l’arte simbolica – i disegni nelle caverne, le collane e i bracciali, le lanterne decorative e le lapidi – che evidenziano la presenza di una mente consapevole di sé. Qualcosa di improvviso e drammatico deve essere successo, e potrebbe essere questo evento il punto di partenza della coscienza umana.”46

Le scimmie possono fabbricare utensili?

Di recente è diventato di moda minimizzare le differenze tra gli esseri umani e il resto del regno animale fino al punto in cui praticamente esse scompaiono. In un certo senso ciò è preferibile alle sciocchezze idealiste del passato. Gli esseri umani sono animali e condividono un certo numero di caratteristiche con altri animali, in particolare con i loro parenti più prossimi, le scimmie. Le diversità genetiche tra esseri umani e scimpanzé sono solo circa il 2%. Ma anche in questo caso la quantità diventa qualità. Questo 2% rappresenta un balzo qualitativo che ha separato nettamente il genere umano da tutte le altre specie.

La scoperta della rara specie degli scimpanzé bonobo, che sono ancora più vicini agli esseri umani degli altri scimpanzé, ha suscitato molto interesse. Nel loro libro Kanzi, The Ape at the Brink of the Human Mind, Sue Savage-Rumbaugh e Roger Lewin hanno fornito un resoconto dettagliato della loro indagine sulle capacità mentali di un bonobo in cattività, Kanzi.

Non c’è dubbio che il livello di intelligenza dimostrato da Kanzi sia notevolmente più alto di quello riscontrato finora nei non umani, e che per certi aspetti assomigli a quello di un bambino. Soprattutto tale livello mostra la presenza di un potenziale per, diciamo, fabbricare utensili. Questo è un potente argomento a favore della teoria dell’evoluzione.

Tuttavia, il risultato più significativo ricavato dagli esperimenti per far produrre al bonobo un attrezzo di pietra è stato il loro insuccesso. Allo stato selvaggio, gli scimpanzé usano “attrezzi”, come i “bastoni da pesca” per stanare le termiti dai nidi, e usano persino le pietre come “incudini” per rompere le noci. Tali operazioni mostrano un alto livello di intelligenza e dimostrano indubbiamente che i parenti più prossimi degli esseri umani possiedono alcuni dei requisiti mentali necessari per attività più avanzate. Ma come fece notare una volta Hegel, quando vogliamo vedere una quercia, non siamo soddisfatti se invece ci viene mostrata una ghianda. Il potenziale per fabbricare strumenti non è lo stesso che fabbricarli, non più di quanto la possibilità di vincere 10 miliardi di lire alla lotteria sia la stessa cosa di vincerli realmente. Inoltre questo potenziale, ad un’analisi più accurata, si rivela estremamente relativo.

Oggi gli scimpanzé cacciano occasionalmente piccole scimmie, ma per farlo non usano armi o strumenti: usano i denti. Gli uomini primitivi erano abili a macellare grosse carcasse, lavoro per il quale avevano bisogno di attrezzi di pietra affilati. Non c’è dubbio che i primi ominidi usassero esclusivamente strumenti già pronti, come i bastoni per dissotterrare radici.

Questo è proprio il tipo di cose che fanno oggi gli scimpanzé. Se gli esseri umani avessero continuato con una dieta prevalentemente vegetariana, non ci sarebbe stata la necessità di fabbricare attrezzi di pietra. Ma la capacità di produrre attrezzi in pietra permise loro di accedere a una nuova e completa risorsa di cibo. Questo è vero anche se accettiamo il fatto che i primi uomini non erano cacciatori ma principalmente mangiatori di carogne. Avrebbero avuto comunque bisogno di attrezzi di pietra per penetrare la pelle dura degli animali grandi.

I proto-umani della cultura Oldowan (basso e medio Pleistocene) in Africa orientale erano già in possesso di tecniche piuttosto avanzate per produrre attrezzi in pietra attraverso il processo di sfaldatura. Essi selezionavano il giusto tipo di pietra e scartavano le altre, conoscevano l’esatta angolazione per colpire e così via. Tutto ciò denota un elevato grado di sofisticazione e di abilità, che manca al “lavoro” di Kanzi, nonostante l’intervento attivo degli uomini con lo scopo di incoraggiare il bonobo a fabbricare un attrezzo. Dopo ripetuti sforzi, gli sperimentatori furono costretti ad ammettere:

“Finora Kanzi ha dimostrato un livello relativamente basso di finezza tecnologica per ognuno dei [quattro criteri] in confronto ai reperti della prima Età della Pietra.”

E concludono:

“C’è dunque una netta differenza tra l’abilità di Kanzi nello spaccare pietre e i fabbricanti di attrezzi degli Oldowan, la qual cosa sembra implicare il fatto che questi primi esseri umani in realtà non fossero più classificabili tra le scimmie.”47

Tra le altre differenze che separano anche gli ominidi più primitivi dalle più evolute tra le scimmie vi sono importanti cambiamenti nella struttura fisica legati alla postura eretta.

La struttura delle braccia e dei polsi del bonobo, per esempio, è diversa da quella degli esseri umani. Le lunghe dita contorte e il pollice corto non gli permettono di impugnare efficacemente una pietra per assestare un colpo rapido e potente. Questo fatto è già stato notato da altri. La mano dello scimpanzé presenta un pollice opponibile abbastanza ben sviluppato,

“ma è tozzo e tocca l’indice lungo il fianco, anziché alla punta. La mano ominide ha il pollice più sviluppato e più frontale rispetto all’indice. Questa è una caratteristica evolutasi parallelamente alla locomozione bipede, e da cui consegue un considerevole aumento di abilità. Sembra che tutti gli ominidi abbiano posseduto questo tipo, di mano, anche A. afarensis, che è l’esemplare conosciuto più antico. La sua mano è difficilmente distinguibile da quella di un uomo contemporaneo.”48

Malgrado tutti gli sforzi per minimizzare le linee di separazione, le differenze tra le scimmie più evolute e gli ominidi più primitivi sono state chiarite oltre ogni dubbio. Ironicamente, questi esperimenti, che intendevano confutare l’idea che gli esseri umani fossero animali fabbricanti di strumenti, hanno dimostrato esattamente il contrario.

Gli esseri umani e il linguaggio

Allo stesso modo in cui si sono fatti tentativi per dimostrare che la produzione di strumenti non è una caratteristica peculiare dell’umanità, così qualcuno ha cercato di dimostrare altrettanto in relazione al linguaggio. La parte del cervello chiamata area di Broca è associata al linguaggio e si pensava fosse esclusiva degli esseri umani. Ora sappiamo che questa area esiste anche in altri animali. Questo fatto è stato utilizzato per contrastare l’idea che l’acquisizione del linguaggio è prerogativa degli esseri umani. Ma tale argomento sembra estremamente tenue. Resta il fatto che nessun’altra specie, oltre gli esseri umani, dipende dal linguaggio per la propria esistenza come specie. Il linguaggio è essenziale al modo di produzione sociale, che sta alla base della società umana.

Al fine di dimostrare che altri animali possono comunicare fino a un certo punto, non è necessario studiare il comportamento dei bonobo. Molte specie inferiori possiedono sistemi di comunicazione abbastanza sofisticati, non solo mammiferi, ma anche uccelli e insetti. Le formiche e le api sono animali sociali e hanno forme di comunicazione altamente sviluppate; questo però non implica un pensiero intelligente, e nemmeno il pensiero. È un comportamento innato e istintivo, ed è inoltre destinato a scopi piuttosto limitati. Le stesse azioni sono ripetute all’infinito e meccanicamente; non sono per questo meno efficaci, ma pochi considererebbero ciò un linguaggio come di solito lo intendiamo.

A un pappagallo si può insegnare a ripetere intere frasi. Vuol dire che sa parlare? È abbastanza chiaro che, pur imitando abbastanza bene i suoni, non ha nessuna comprensione del loro significato. Invece la trasmissione del significato è l’essenza del linguaggio intelligibile. La questione è diversa per i mammiferi superiori. Engels, che era un appassionato cacciatore, non era sicuro fino a che punto i cani e i cavalli non comprendessero il linguaggio umano e non si sentissero frustrati per non essere in grado di comunicare. Di sicuro il livello di comprensione dimostrato da Kanzi, il bonobo in cattività, è notevole. Nonostante tutto ciò, ci sono ben precisi motivi per cui nessun altro animale oltre l’uomo ha un linguaggio vocale. Solo gli uomini possiedono un apparato vocale che permetta l’emissione delle consonanti; nessun altro animale può emettere le consonanti. Alcuni possono produrre suoni schioccanti e sibilanti, ma in realtà le consonanti possono essere pronunciate solo insieme alle vocali, altrimenti si ridurrebbero appunto a schiocchi e a sibili. La capacità di pronunciare le consonanti è un prodotto della postura eretta, come mostra lo studio su Kanzi:

“Solo l’uomo ha un apparato vocale che permette l’emissione dei suoni delle consonanti. Queste differenze tra il nostro apparato vocale e quello delle scimmie, pur minime, sono significative e possono essere collegate all’affinamento della postura eretta e al bisogno associato di tenere la testa in posizione eretta e bilanciata in allineamento con la spina dorsale. Una testa con una mandibola grande e pesante farebbe camminare il suo possessore inclinato in avanti e inibirebbe la rapidità della corsa. Per ottenere una postura eretta equilibrata è essenziale una regressione della struttura mandibolare così che il caratteristico tratto vocale obliquo delle scimmie si pieghi ad angolo retto. Insieme alla regressione della mandibola e all’appiattimento del viso, la lingua, invece di essere completamente situata nella bocca, si abbassa parzialmente verso la gola per formare la parte posteriore del tratto orofaringeo. La mobilità della lingua consente la modulazione della cavità orofaringea in un modo che non è possibile per le scimmie, la cui lingua è situata interamente nella bocca. In modo simile, la brusca curvatura del canale laringeale superiore significa che la distanza tra il palato molle e la parte posteriore della gola è molto piccola. Sollevando il palato molle, possiamo bloccare i canali nasali, il che ci permette di creare la turbolenza necessaria per creare le consonanti.”

Senza le consonanti non possiamo fare facilmente distinzioni tra una parola e un’altra. Avremmo solo grida e ululati, che possono comunicare una certa quantità di informazioni, ma necessariamente limitata:

“Il linguaggio è infinitamente vario e al momento solo l’orecchio umano è in grado di rilevare con immediatezza le unità di significato in queste configurazioni infinitamente varie. Le consonanti ci permettono di completare quest’azione.”

I bambini sono in grado di classificare le consonanti in un modo simile agli adulti già molto precocemente, come saprà chiunque abbia ascoltato i “discorsi da bambino”. Consiste precisamente in esperimenti ripetuti costantemente con combinazioni di vocali e consonanti; “ba-ba, pa-pa, ta-ta, ma-ma” e così via. Persino a questo stadio precoce, il bambino compie un’azione di cui nessun altro animale è capace.

Allora dovremmo concludere che l’unico motivo per cui agli altri animali manca il linguaggio è di ordine fisiologico? Sarebbe un grave errore. La forma dell’apparato vocale e la capacità fisica di combinare vocali e consonanti sono i presupposti fisici del linguaggio umano, ma niente di più. Solo lo sviluppo della mano, connesso inscindibilmente con il lavoro e la necessità di sviluppare una società altamente cooperativa, ha reso possibili l’aumento delle dimensioni cerebrali e il linguaggio. Sembra che le aree del cervello connesse all’uso degli strumenti e al linguaggio abbiano un’origine comune nello sviluppo iniziale del sistema nervoso del bambino e diventino due zone distinte solo all’età di due anni, nel momento in cui l’area di Broca stabilisce circuiti differenziati con la corteccia anteriore prefrontale. Questa, in sé, è la straordinaria dimostrazione degli stretti legami esistenti tra la produzione di strumenti e il linguaggio. Il linguaggio e l’abilità manuale si sviluppano insieme e questa evoluzione si riproduce nello sviluppo odierno dei bambini.

Persino i primi ominidi della cultura Oldowan possedevano abilità manuali molto prima delle scimmie. Essi non erano semplicemente “scimpanzé eretti”. Persino la produzione dell’attrezzo più semplice è molto più complessa di quanto non sembri; richiede pianificazione e previsione. L’Homo habilis doveva pianificare le sue azioni future, doveva sapere che in qualche momento in futuro avrebbe avuto bisogno di un attrezzo, sebbene non ne avesse necessità al momento della scoperta del materiale adatto. La scelta accurata del giusto tipo di pietra e lo scarto delle altre, la ricerca dell’angolatura corretta con cui sferrare il colpo: tutto ciò dimostra un livello mentale qualitativamente diverso da quello delle scimmie. Sembra improbabile che a questo stadio non fossero presenti almeno i rudimenti di un linguaggio. Ma c’è un dato ulteriore che punta in questa direzione. Gli esseri umani sono unici per il fatto che il 90% di essi usano la mano destra. Una tale preferenza per una mano non si riscontra negli altri primati. Le scimmie individualmente possono usare la mano destra o essere mancine, ma il gruppo complessivamente sarà ripartito equamente tra i due sistemi. Il fenomeno dell’uso preferenziale di una mano è strettamente connesso con l’abilità manuale e il linguaggio:

L’uso preferenziale di una mano è associato alla localizzazione della funzione nell’emisfero cerebrale opposto. La localizzazione delle abilità manuali nell’emisfero sinistro della (maggior parte) di coloro che usano la mano destra si accompagna alla localizzazione in questa zona anche delle abilità linguistiche. L’emisfero destro si è specializzato nelle capacità connesse allo spazio.

Questo fenomeno è assente nell’Australopithecus, ma è stato riscontrato nei primi teschi ritrovati dell’Homo habilis, il primo fabbricante di attrezzi. È molto improbabile che questa sia una coincidenza. Dal momento in cui compare l’Homo erectus, il fenomeno diventa ben evidente:

“Queste tre linee di testimonianze anatomiche – del cervello, dell’apparato vocale e della capacità di usare strumenti – forniscono il sostegno principale alla nozione di cambiamento lungo e graduale verso il linguaggio. Accanto a questi cambiamenti nel cervello e nell’apparato vocale si ebbero in concomitanza cambiamenti graduali nelle mani, cambiamenti che le resero progressivamente gli strumenti più adatti per la fabbricazione e l’utilizzo degli utensili.”

L’avvento dell’umanità rappresenta un balzo qualitativo nell’evoluzione. Qui, per la prima volta, la materia diventa cosciente di sé. L’inizio della storia si sostituisce a un’evoluzione inconsapevole. Nelle parole di Friedrich Engels:

“Con l’uomo noi entriamo nella storia. Anche gli animali hanno una storia: quella della loro discendenza e graduale evoluzione fino al loro stato attuale. Ma questa storia si compie da sé: e nella misura in cui gli animali stessi vi partecipano, lo fanno senza consapevolezza e volontà. Gli uomini, al contrario, quanto più si allontanano dall’animalità intesa nel senso ristretto della parola, tanto più fanno essi stessi la loro storia, consapevolmente; tanto minore diviene l’influsso su tale storia di fatti imprevisti e di forze incontrollate, tanto più esattamente il risultato storico corrisponde allo scopo prestabilito. Ma se noi applichiamo questo criterio alla società umana, anche a quella dei popoli più evoluti nel presente, troviamo che in essa sussiste ancora una colossale sproporzione fra le mete prefissate e i risultati raggiunti; che i fatti imprevisti predominano, che le forze incontrollate sono molto più potenti di quelle messe in movimento secondo un piano. E non può essere altrimenti, finché l’attività storica più essenziale degli uomini, quell’attività che ha sollevato l’uomo dall’animalità all’umanità e che costituisce la base materiale di tutte le sue altre attività – la produzione di ciò che è necessario per vivere (il che significa oggi la produzione sociale) – resta soggetta all’alterno gioco di influenze impreviste di forze incontrollate e realizza solo eccezionalmente l’obiettivo voluto, molto più spesso invece esattamente l’opposto…

Solo un’organizzazione cosciente della produzione sociale nella quale si produce e si ripartisce secondo un piano può sollevare gli uomini al di sopra del restante mondo animale sotto l’aspetto sociale di tanto quanto la produzione in generale lo ha fatto per l’uomo come specie. L’evoluzione storica rende ogni giorno più indispensabile, ma anche ogni giorno più realizzabile, una tale organizzazione. Essa segnerà la data iniziale di una nuova epoca storica nella quale l’umanità stessa, e con essa tutti i rami della sua attività, in particolare della scienza della natura, prenderanno uno slancio tale da lasciare in un’ombra profonda tutto ciò che c’è stato prima.”50

Capitolo 13 La genesi della mente

Indice dei Capitoli

Note

28. D. Johanson, M. Edey. LUCY le origini dell’umanità. pag 315.

29. Citato in T.Ferris. op. cit.. pagg. 262-263, 265,266.

30. D. Johanson, M. Edey. op. cit.. Pag. 308.

31. Jerome S. Bruner. Psicologia della conoscenza, pagg. 350-351.

32. Karl Marx – Friedrich Engels. L’ideologia tedesca, pag. 8.

33. R. Leakey. Le origini dell’umanità, pagg. 50-51.

34. F. Engels. Dialettica della natura, pag. 184.

35. R. Leakey. op. cit., pagg. 52-53.

36. F. Engels. Dialettica della natura, pagg. 183-85.

37. N.Chomsky. Saggi linguistici. pag 208 e 212.

38. R. Leakey. op cit., pag. 59.

39. Engels, Dialettica della natura, pagg. 185-86.

40. citato da R. Leakey. op. cit.., pag. 80.

41. Engels, Dialettica della natura, pagg. 187-89

42. R. Leakey. op. cit., pagg. 68-69.

43. Engels, Dialettica della natura, pag. 189.

44. S.J. Gould, Questa idea della vita, Roma, Editori Riuniti, 1984 pag. 198.

45. C. Wills, The Runaway Brain, the Evolution of Human Uniqueness. Pag. xxii.

46. New Scientist, 29 Gennaio 1994. pag. 28.

47. S. Savage-Rambaugh e R. Lewin. Kanzi, the ape at the brink of the Human Mind. Pag. 218.

48. D. Johanson, M. Edey. op. cit., pagg. 312-313.

49. S.Savage-Rambaugh e R. Lewin. op. cit. Pagg. 226-227, 228 e 237-238.

50. Engels, Dialettica della natura, pagg. 50-51.

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