Un programma per l’alternativa rivoluzionaria
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28 Gennaio 2016Gli anniversari dei grandi avvenimenti politici sono momenti delicati. Lo sta misurando la classe dominante tunisina con la rivolta giovanile scoppiata a Kasserine e dilagata per alcuni giorni in tutto il paese, proprio in coincidenza del quinto anniversario della cacciata del dittatore Ben Ali nel gennaio 2011. Kasserine è una delle zone più povere del paese, la disoccupazione giovanile supera il 50% e la carenza di infrastrutture di base – solo un quarto della popolazione ha accesso all’acqua potabile – ne fa un simbolo della tragedia sociale che colpisce l’area interna della Tunisia.
Mentre scriviamo, la rivolta sembra essersi temporaneamente ripiegata. Tuttavia, per circa una settimana, il governo tunisino ha visto materializzarsi davanti a sé lo “spettro” di una seconda rivoluzione, meno imbevuta di illusioni sulla democrazia borghese in ragione della “palestra” parlamentare di questi anni e dell’acuirsi degli antagonismi sociali. Al culmine della protesta, i giovani hanno occupato con facilità il municipio di Kasserine e di decine di altre città, specialmente dell’area centro-occidentale del paese, la stessa che aveva dato inizio alla rivoluzione del 2010-2011 contro il regime di Ben Ali. La rivolta si è estesa alla città santa di Kairouan ed ai quartieri popolari dell’industrializzata Sfax e di Tunisi. Anche la scintilla della rivolta ha ricordato plasticamente la rivoluzione del 2011: come allora, infatti, il movimento è scoppiato dopo la morte di un giovane disoccupato, Ridha Yahyaoui. Ridha, laureato e membro della forte Associazione dei diplomati disoccupati, era salito su un palo della luce per protestare contro la revoca della sua assunzione come insegnante ed è morto fulminato.
Contro le proteste si è erto il presidente della Repubblica, Caid Essebsi, proclamando un coprifuoco, più volte infranto dai rivoltosi, su tutto il territorio nazionale dalle 20 alle 5 a tempo indeterminato. Il governo di coalizione tra la borghesia presuntamente laica di Appello per la Tunisia e gli islamici di Ennahda si è stretto attorno a Essebsi, fragile perno del tentativo di restaurazione e riciclaggio di molti membri del vecchio regime. Ciò fa immediatamente, e per l’ennesima volta, piazza pulita di quelle posizioni che, a sinistra, cercano col lanternino settori democratici, progressisti o antimperialisti della classe dominante dei paesi ex coloniali.
Le radici sociali del movimento
Per screditare il movimento, il governo lo ha presentato come un alleato “oggettivo” dell’ISIS o addirittura come un disordine ispirato direttamente da agenti del “califfato”. L’incoraggiamento al movimento da parte di un gruppo con base in Tunisia che rivendica il collegamento con l’ISIS non ha fatto altro che aiutare la manovra propagandistica del governo e degli apparati statali. Niente è però più lontano dalla verità della vicinanza di questa rivolta giovanile con l’ISIS. La rivolta giovanile di queste settimane mostra precisamente che gran parte degli oppressi, in primis i giovani, sono alla ricerca di una soluzione collettiva e progressista basata sulla conquista di maggiore “giustizia sociale”. Al contrario, ogni arretramento del movimento di massa dei lavoratori e dei giovani è un “reclutatore” indiretto ma efficace per i fondamentalisti, che prosperano sulla disperazione e sull’assenza di prospettive di cambiamento. Non è dunque sorprendente che molti degli ipotizzati 6mila foreign fighters tunisini provengano dalle zone più povere del paese.
Le ragioni dell’attuale movimento di massa sono da cercare nella permanente crisi sociale che colpisce la Tunisia, aggravatasi negli ultimi anni come conseguenza della crisi mondiale del capitalismo. La disoccupazione ufficiale è al 17%, l’industria mineraria subisce l’andamento dei prezzi delle materie prime, il settore turistico è indebolito dalla minaccia terroristica ed il giogo della finanza internazionale sul paese è sempre più stretto. Il Comitato per la Cancellazione del Debito del Terzo Mondo stima che l’82% dei prestiti concessi oggi dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) serva a ripagare gli interessi sui debiti contratti sotto il regime di Ben Ali; in questo modo, negli ultimi cinque anni il debito estero è raddoppiato. Metà della ricchezza nazionale è concentrata in un pugno di famiglie e l’attuale governo è impegnato a far passare una legge sulla “conciliazione nazionale” che impedirebbe ogni processo contro i politici e gli imprenditori arricchitisi sotto la dittatura. Allo stesso tempo, le famiglie dei “martiri” della rivoluzione del 2011 sono abbadonate e per reprimere giovani attivisti si ricorre frequentemente all’art. 52 del vecchio codice penale che punisce il consumo di hashish o alla legge 230 che prevede il carcere per gli omosessuali. Milioni di tunisini non sopportano di essersi battuti per dover poi vivere tutto questo. Gli slogan scanditi nelle mobilitazioni esprimono bene questo sentimento: “il popolo vuole la caduta del regime”, “lavoro, libertà, dignità”, “il lavoro è un diritto, banda di ladri”, “cittadino, ti hanno ingannato, ti hanno dato povertà e ti hanno dato fame”, o anche “vergogna, vergogna governanti, Kasserine brucia”.
Il movimento operaio al bivio
La rivolta nata a Kasserine pone ancora una volta l’UGTT (Unione generale dei lavoratori tunisini), un sindacato di massa, ed il Fronte Popolare (FP), la coalizione della sinistra politica, davanti ad un dilemma politico fondamentale: proseguire nella linea del dialogo sociale e di una lotta puramente parlamentare o porsi come avanguardia rivoluzionaria di tutti gli oppressi adottando una strategia ed un programma socialista. Il Fronte popolare, ad esempio, ha correttamente sostenuto le proteste e per questo è stato anche accusato di averle fomentate. Tuttavia, l’appoggio in una conferenza stampa non basta. Ci vuole un programma che diventi una bandiera nella testa di milioni di sfruttati e ne orienti in modo più cosciente l’azione spontanea. Rivendicare, come propone il FP, una tassa straordinaria sulle grandi ricchezze è giusto ma se non si accompagna ad un programma transitorio più complessivo, il movimento di massa resterà prigioniero dell’idea di poter ottenere giustizia e dignità nel quadro del capitalismo. Al contrario, è necessario avanzare parole d’ordine quali la nazionalizzazione di tutte le risorse minerarie del paese, a partire dal fosfato, sotto il controllo operaio, la punizione di tutti i colpevoli di repressione e torture sotto Ben Ali e la costruzione di un nuovo apparato statale basato su una rete di consigli operai e di villaggio, la requisizione senza indennizzo delle ricchezze dei clan Ben Ali, Traboulsi ecc.
Una responsabilità forse ancora maggiore è sulle spalle dei dirigenti dell’UGTT. Quel sindacato è oggi, in Tunisia, una potenza politica temuta da ogni governo. Cinque anni fa, l’UGTT ha svolto un ruolo di primo piano nella caduta di Ben Ali e, da allora, le rilevanti mobilitazioni economiche dei lavoratori lo hanno ulteriormente rafforzato. La dirigenza dell’UGTT, tuttavia, ha cercato in tutte le situazioni più tese – come dopo l’omicidio per mano fondamentalista del dirigente di sinistra Chokri Belaid – di attutire le asprezze della lotta di classe mantenendo un sistema permanente di concertazione con l’associazione padronale, l’UTICA. Nelle ultime elezioni, addirittura, gran parte dell’apparato dell’UGTT ha appoggiato elettoralmente Essebsi e Appello per la Tunisia. In linea con la politica di “dialogo sociale”, proprio durante la recente rivolta, l’UTICA e l’UGTT si sono accordate per aumenti salariali generalizzati a tutto il settore privato ma inferiori all’inflazione. Non contenta, con un occhio agli scioperi in giro per il paese l’UTICA ha dichiarato che “se è necessario essere più severi nel campo delle libertà per garantire sicurezza, crediamo che questa scelta vada fatta”.
Insomma, anche in Italia abbiamo visto che la cosiddetta concertazione è servita soltanto ai padroni che si sono fatti sempre più aggressivi. La battaglia per un orientamento classista della UGTT e del suo gruppo dirigente è dunque uno dei fattori chiave per la vittoria della rivoluzione socialista in Tunisia.
Un processo protratto
La rivolta giovanile del gennaio 2016 mostra la capacità di tenuta della rivoluzione tunisina. Questo movimento è parte di un fenomeno di protagonismo più generale degli sfruttati, emerso anche nel picco di scioperi operai (minatori, autoferrotranvieri, ferrovieri) registrato nel 2015. L’unità tra giovani disoccupati e lavoratori sarà fondamentale.
La cacciata di Ben Ali nel 2011 non è stata una rivoluzione democratica, priva di segno di classe, da completare o perfezionare. Nel 2011 si sono sparati i primi colpi di una rivoluzione proletaria sia nel suo motore sociale che nei suoi compiti storici. Il livello insufficiente di organizzazione e consapevolezza della classe lavoratrice ha permesso alla controrivoluzione di confiscare quel processo attraverso le sirene del parlamentarismo borghese e delle promesse vaghe di giustizia, libertà e democrazia. Il processo di fondo in corso in Tunisia è stato colto con una profonda generalizzazione storica formulata da Trotsky in Storia della rivoluzione russa:
“Rovesciare il vecchio potere è una cosa. Prendere il mano il potere un’altra. La borghesia può impadronirsi del potere nel corso di una rivoluzione non perché sia rivoluzionaria, ma in quanto borghesia: dispone della proprietà, della cultura, della stampa, di una rete di posizioni strategiche, di una gerarchia di istituzioni. Ben diversa la situazione del proletariato: non godendo naturalmente di nessun privilegio, il proletariato insorto può contare solo sul proprio numero, sulla propria coesione, sui propri quadri, sul proprio stato maggiore”. (L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Sugarco, p. 654)
Ora la talpa della rivoluzione sociale sta emergendo con più consapevolezza. Lo prova anche la minor simpatia dimostrata dai mass media capitalisti per la rivolta di Kasserine rispetto a quando parlano dell’inizio della “primavera araba”. La costruzione di una forza politica all’altezza del conflitto in corso è il compito urgente per tutti i rivoluzionari. Come internazionalisti, ci sentiamo pienamente impegnati a fornire il nostro contributo alla battaglia del movimento operaio e giovanile tunisino.