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Un mondo di donne in lotta – I movimenti femminili oggi

Il 6-7 marzo si è svolto il convengo sulla questione femminile “Libere di lottare”, promosso da Sinistra Classe Rivoluzione. Mettiamo a disposizione dei nostri lettori questo articolo scritto da Serena Capodicasa, relatrice del dibattito “Un mondo di donne in lotta – I movimenti femminili oggi”.

La Redazione

di Serena Capodicasa

 

È stata definita la “quarta ondata femminista” l’inarrestabile diffusione di mobilitazioni di donne in tutti gli angoli del pianeta negli ultimi anni: il movimento Ni una menos contro la violenza sulle donne che, partito dall’America Latina, ha animato lo sciopero dell’8 marzo 2017 in oltre quaranta paesi, la Women’s March che negli Usa ha portato in piazza milioni di donne in occasione dell’insediamento di Trump nel 2017, le donne polacche che dal 2016 continuano a lottare per il diritto di aborto, la vittoria nel referendum sull’aborto in Irlanda nel maggio 2018 e quella più recente delle donne argentine nel dicembre 2020.

Un risveglio di lotte sulla condizione delle donne che per estensione, determinazione e ostinazione non si vedeva da tempo, così come è impressionante la somiglianza delle dinamiche e delle parole d’ordine tra i tanti focolai di conflitto che si sono sviluppati. è indubbio che queste lotte si ispirano e si incoraggiano a vicenda ma non esiste un piano concertato, la spinta principale arriva dalla base della società, da centinaia di milioni di donne decise a fare qualcosa per cambiare le proprie condizioni.

La categoria di “ondata” ha tuttavia un limite fondamentale – oggi, così come nei precedenti momenti di ascesa delle lotte delle donne: li descrive come frutto di dinamiche autonome e non spiega come si legano al contesto generale della lotta di classe. Perché questo legame esiste: ad esempio la conquista dei diritti di aborto e divorzio in Italia è avvenuta sull’onda ascendente della lotta di classe smossa dall’autunno caldo. Che non si tratti solo di una concomitanza storica, lo conferma la composizione di classe delle protagoniste di queste lotte: non erano donne generiche, ma prevalentemente donne della classe lavoratrice. Infine, se non si tiene conto del carattere generale di un’epoca storica è impossibile capire come mai solo in determinati momenti esplode la rabbia contro condizioni di oppressione che le donne subiscono ormai da migliaia di anni, quando è emersa la suddivisione in classi della società. (1)

Oggi, all’indomani della crisi scoppiata nel 2008 e soprattutto nel pieno della pandemia del coronavirus, viviamo precisamente in una delle fasi più turbolente della storia del capitalismo, in cui, insieme a una profonda polarizzazione sociale e al risveglio della lotta di classe, vediamo come provocazioni che in passato sarebbero passate sotto silenzio diventino la miccia di fenomeni esplosivi.

Questo articolo vuole contribuire non solo a ripercorrere i principali processi di lotta dell’ultimo periodo, ma anche a entrare nel merito del dibattito che ha animato le organizzazioni che si sono ritrovate alla loro direzione.

Ni una menos e lo sciopero contro la violenza

Fu in Argentina che cominciarono con lo slogan “Ni una menos” le manifestazioni contro la violenza sulle donne, a partire da episodi particolarmente efferati, punta dell’iceberg di un fenomeno dilagante. Il 3 giugno 2015 200mila persone scesero in piazza a Buenos Aires dopo il femminicidio della quattordicenne Chiara Paez, uccisa dal fidanzato perché incinta. Altre manifestazioni si tennero anche in Cile e Uruguay, per ripetersi nella stessa data un anno dopo.

Nell’ottobre 2016 Lucia Perez viene stuprata e impalata a 16 anni. Una nuova ondata di indignazione si scatena. Ancora una volta le manifestazioni dilagano in altri paesi del continente latinoamericano: Cile, Peru, Bolivia, Paraguay, Uruguay, El Salvador, Guatemala, Messico, Brasile, e per la prima volta la protesta si esprime sotto forma di sciopero, il 19 ottobre.

Bastano pochi dati a inquadrare la situazione nel continente. Argentina: un femminicidio ogni 30 ore, 50 aggressioni di natura sessuale al giorno, con un incremento del 78% tra il 2008 e il 2015. Messico: 5 femminicidi al giorno, due terzi delle donne hanno subito una qualche forma di violenza, a Città del Messico, il 65% delle donne tra 15 e i 19 anni. Brasile: una donna stuprata ogni 11 minuti. Solo nel primo mese del 2018 sono state stimate 300 donne e bambine uccise nel continente latinoamericano, ma si tratta di una sottostima.

L’America Latina, dove il fenomeno della violenza sulle donne travolge la quotidianità delle donne appartenenti soprattutto alle classi più disagiate, diventa così l’epicentro di un terremoto mondiale.

Il 25 novembre 2016, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne in alcuni paesi si smarca dal carattere istituzionale divenendo una giornata di lotta: a Roma manifestano in 200mila. Il movimento dilaga, strutturandosi in assemblee e iniziative, fino a culminare nello sciopero globale delle donne dell’8 marzo 2017 in oltre quaranta paesi: una risposta che ha fatto emergere non solo la natura sistemica del fenomeno della violenza, ma soprattutto il carattere di massa di un sentimento di rabbia furente tra le donne, dalle giovanissime nelle scuole alle lavoratrici, in tutti i paesi.

In Italia, sotto la spinta dal basso da parte delle lavoratrici, alcune categorie e camere del lavoro della Cgil furono costrette a convocare lo sciopero, mentre la direzione nazionale, all’epoca con la segreteria Camusso, si rifiutò di convocare lo sciopero generale. L’adesione registrata a quello convocato dai sindacati di base si inchiodò al 2%. Tuttavia, come negli altri paesi, la partecipazione alle manifestazioni fu di massa e capillare, con decine di migliaia nelle città più grandi insieme a miriadi di iniziative anche nelle località meno avvezze ad avere piazze piene di manifestanti.

 

Lo “sciopero femminista”

La discussione sulla forma di lotta dello sciopero, che all’epoca assunse, non solo in Italia, una certa centralità nel movimento, merita un approfondimento perché è un tipico caso in cui un errore teorico ha effetti concreti e tangibili sull’esito di una lotta.

Nel rivendicare il “processo di riappropriazione e risignificazione” della pratica dello sciopero, l’elaborazione politica di Non una di meno fa riferimento alla necessità di “coinvolgere il lavoro produttivo e riproduttivo” e di “unire le molteplici figure del mondo del lavoro e del non lavoro”, (2) rievocando le concezioni elaborate dalle correnti femministe che negli anni ’70 rivendicavano il salario per le casalinghe (Dalla Costa, Federici) e le teorie non-lavoriste alla base della parola d’ordine del reddito di cittadinanza, declinato in questo ambito come “reddito di autodeterminazione”. Entrambe, le une sulla base dell’equiparazione a livello salariale tra lavoro domestico (“riproduttivo”) e lavoro salariato (produttivo), (3) le altre tra “lavoro” e “non lavoro” assumono a priori la sconfitta della lotta contro la disoccupazione, rifiutando di fatto il ruolo progressista dell’ingresso delle donne tra le fila della classe operaia, con conseguenze nefaste per la lotta di classe in generale, e di quella delle donne nello specifico.

Queste due questioni teoriche hanno pesantemente condizionato l’approccio organizzativo nei confronti dello sciopero dell’8 marzo. L’equiparazione dello sciopero dal lavoro riproduttivo e produttivo ha fatto sì che l’elemento simbolico si imponesse come centrale, il grosso delle discussioni delle riunioni preparatorie riguardava le pratiche creative che avrebbero dovuto caratterizzare le manifestazioni: flash mob, ridenominazione di strade, performance teatrali, il colore dei vestiti che avrebbero dovuto essere indossati. In tutto ciò l’appello fatto ai sindacati, in particolare la Cgil, l’unico in grado di dar luogo ad un vero sciopero generale, era meramente ed esplicitamente funzionale a garantire la copertura legale per consentire la partecipazione delle donne alle iniziative.

L’idea che lo sciopero sia una forma di lotta il cui obiettivo immediato è fermare la produzione per arrecare il massimo danno ai capitalisti è stata del tutto derubricata, e con essa la riflessione su come si debba lavorare perché uno sciopero abbia la migliore riuscita possibile: con assemblee e volantinaggi nei luoghi di lavoro per spiegarne le ragioni, con un capillare lavoro militante. Gioco facile ebbe la Camusso a smarcarsi dalla responsabilità di convocare lo sciopero generale di fronte ad un atteggiamento spesso arrogante che in molti casi alienava le stesse lavoratrici di base iscritte al sindacato.

Da più parti si è fatto riferimento come modello allo sciopero delle donne islandesi del 24 ottobre 1975, spesso però omettendo che quell’esperienza fu caratterizzata da un coinvolgimento massiccio del movimento sindacale e che centrale fu la rivendicazione di aumenti salariali per le donne con i salari più bassi. (4)

Quale bilancio

Con questo non vogliamo sminuire le straordinarie manifestazioni dell’8 marzo 2017, ma al contrario evidenziare che il loro potenziale, con metodi e parole d’ordine diverse, avrebbe potuto esprimersi anche in una adesione di massa allo sciopero.

Anche solo le pressioni che si sono prodotte all’interno del sindacato, con le lavoratrici che in diverse categorie chiedevano di scioperare, hanno dimostrato che, volente o nolente, la lotta di classe finisce sempre per imporsi come ambito in cui si scarica lo scontro che riguarda anche le forme di oppressione non direttamente riconducibili alla contrapposizione tra capitale e lavoro.

Il merito della piattaforma di Non una di meno è stato di sviluppare, a partire dalla questione della violenza, delle rivendicazioni che puntano il dito sulle condizioni economiche e sociali che ne sono alla base, assumendo rivendicazioni sul salario minimo, lo stato sociale – scuola, sanità, contro la criminalizzazione dell’immigrazione clandestina, ecc. – anche arrivando a rivendicare una “trasformazione radicale della società”. Ma tutto ciò non è mai giunto alla necessaria conclusione di una lotta contro il capitalismo rimanendo a livello di slogan, confinato quindi in un comodo alveo riformista. Non a caso, quando si è trattato di scendere nel concreto di alcune rivendicazioni, l’ala “radicale” del movimento ha piegato la testa di fronte a quella moderata, ad esempio accettando la derubricazione dal programma dell’abolizione del diritto di obiezione di coscienza dalla legge sull’aborto. (5)

Usa: “femminismo del 99%” vs. “femminismo del farsi avanti”

Il movimento verso lo sciopero dell’8 marzo 2017 andò a convergere con un’altra mobilitazione femminile di massa: la Women’s March che il 21 gennaio dello stesso anno, contro l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, portò in piazza 4 milioni di persone in tutti gli Stati Uniti (quasi mezzo milione a Washington), (6) con una stima di altri 3 milioni di persone in centinaia di manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo. Anche gli Stati Uniti venivano così travolti da un’ondata di indignazione, rabbia e voglia di lottare: in questo caso ad aprire la diga era il concentrato di sessismo incarnato nella figura del nuovo presidente.

Il manifesto “Oltre il farsi avanti: (7) per un femminismo del 99% e uno sciopero militante internazionale l’8 marzo”, che come prima firmataria aveva Angela Davis, storica militante comunista e delle Pantere nere, rivendicava l’azione globale del movimento verso lo sciopero dell’8 marzo e riprendeva, evidenziandola, l’impostazione sociale della piattaforma di Non una di meno:

Il tipo di femminismo che vogliamo sta già emergendo a livello internazionale, nelle lotte attraverso il globo (…). Ciò che colpisce di queste mobilitazioni è che molte di loro combinano la lotta contro la violenza maschile con il contrasto alla precarizzazione del lavoro e alla disparità salariale.” (8)

Ma soprattutto la contrapponeva alla corrente del femminismo borghese del cosiddetto “lean in” (farsi avanti):

La condizioni di vita delle donne, specialmente quelle delle donne di colore e lavoratrici, disoccupate e immigrate, sono costantemente peggiorate da trent’anni a questa parte, grazie alla finanziarizzazione e alla globalizzazione delle multinazionali. Il femminismo del ‘farsi avanti’ e altre forme di femminismo corporativo non sono riusciti a coinvolgere la maggior parte di noi, coloro che non hanno accesso all’auto-promozione e all’avanzamento individuali e le cui condizioni di vita possono essere migliorate solo con politiche che difendono la riproduzione sociale, assicurano la giustizia riproduttiva e garantiscono i diritti sul lavoro.” (9)

Il femminismo borghese all’epoca era incarnato dall’avversaria di Trump, Hillary Clinton, che condusse una campagna rivolta a conquistare i voti delle donne in virtù del suo sesso, con tanto di anatemi per le donne che non l’avessero votata. (10) Questo però non bastò a impedire che venisse identificata in prima battuta non come candidata delle donne, ma come candidata di Wall Street.

Il modo in cui il manifesto della Women’s March si contrappone a questo tipo di femminismo ha però una grave debolezza: andare oltre l’ipocrisia del cosiddetto empowerment significa girare la testa dall’altra parte. È necessario andare apertamente contro, e farlo con la lotta di classe. Il problema non è che l’idea che le donne possano migliorare le proprie condizioni puramente con un po’ di faccia tosta e determinazione a prescindere dalla classe sociale di appartenenza sia insufficiente perché incapace di coinvolgere la maggior parte delle donne, ma che si tratta di uno strumento con cui i nemici e le nemiche di classe delle donne lavoratrici cercano di allontanarle dalla lotta di classe insieme ai compagni uomini.

Che non stiamo parlando di una questione esegetica, di lana caprina, ma di sostanza, lo dimostra la posizione del “voto utile” per i democratici adottata dalle “femministe del 99%” e dalla sinistra statunitense sia nelle elezioni del 2016, che nelle ultime, in cui Kamala Harris ha riportato alla carica il modello delle donne borghesi di successo. Ciò non fa che allontanare l’obiettivo di costruire un’alternativa di classe per i lavoratori e le lavoratrici, un obiettivo che pure, sebbene indirettamente, emergeva come esigenza dal manifesto della Women’s March.

Le lotte ostinate delle donne polacche

Le donne polacche da quattro anni lottano strenuamente per la difesa del diritto di aborto. Il movimento è cominciato nel 2016 contro il tentativo parlamentare di vietare il diritto di aborto anche nei pochissimi casi in cui è consentito da una legge del 1993 (incesto, stupro, gravi malformazioni del feto, rischio di vita per la donna). Passato alla storia come il “lunedì nero”, lo sciopero del 3 ottobre 2016 ha visto una partecipazione di massa nella società. Pur non essendo stati registrati i dati di adesione, l’impatto c’è stato con uffici pubblici e negozi chiusi in molte città, donne vestite in nero (il simbolo della protesta) sui luoghi di lavoro dove non sono riuscite a scioperare e soprattutto una stima di centomila persone scese in strada in decine di città.

Se già quel movimento aveva scosso come un terremoto una Polonia che solo un anno prima aveva visto la vittoria elettorale del partito ultraconservatore Diritto e giustizia, oggi, a distanza di quattro anni, ha dimostrato non solo di non essersi sopito ma di essere in grado di tornare alla ribalta ancora più forte. L’ultima provocazione è stata una sentenza della Corte costituzionale del 22 ottobre 2020 che elimina le gravi malformazioni del feto dalle condizioni in cui è consentito abortire. Questa volta la risposta è stata addirittura superiore in termini quantitativi e qualitativi. Le stime parlano di 430mila partecipanti a 460 manifestazioni nei primi giorni di proteste. È stata presa di mira la Chiesa, con cortei diretti verso chiese e residenze vescovili, scritte sui muri delle chiese, statue del papa polacco vandalizzate, preti aggrediti verbalmente… tutti episodi fino a poco tempo fa inimmaginabili in una delle roccaforti del cattolicesimo europeo. Sono risuonati slogan come “Questa è una guerra!” o “La rivoluzione è donna”, ma soprattutto da un terreno difensivo si è passati all’offensiva con rivendicazioni come diritto di aborto senza restrizioni nel primo trimestre e la caduta del governo. Anche il sostegno da parte della società in generale e del movimento operaio si è espresso in modo più attivo rispetto al 2016 con interi settori della classe operaia, come minatori e infermieri, che hanno espresso il loro sostegno attraverso le loro organizzazioni sindacali e gli autisti dei mezzi pubblici e i tassisti che hanno attivamente contribuito ai blocchi stradali e hanno cambiato i display luminosi delle vetture con la scritta “Siamo con voi ragazze!” Addirittura gli hooligan, che il governo ha mobilitato contro le manifestazioni, hanno subito una spaccatura con una parte che si è rifiutata e ha appoggiato il movimento, una dinamica simile a quella che si è prodotta all’interno delle forze dell’ordine impiegate in una brutale repressione. (11), (12), (13)

Chi dirige il movimento polacco?

Chi ha organizzato tutto questo? Nel 2016 l’iniziativa venne proposta da un piccolo partito di sinistra, Razem, fondato da appena un anno e che non era ancora riuscito ad entrare in parlamento. Tra i sindacati, l’unico ad aderire fu Inicjatywa Pracowniza (Iniziativa operaia), un piccolo sindacato di tradizione anarcosindacalista. In un contesto di rabbia montante nella società, la classica situazione in cui basta una goccia a far traboccare il vaso, è stata sufficiente l’iniziativa di un piccolo gruppo per far partire un movimento di massa. Nel corso della lotta si è poi costituita l’associazione Ogolnopolsky Strajk Kobiet (Osk, Sciopero delle donne polacche) che tuttora dirige il movimento.

Nel 2020 le iniziali titubanze delle dirigenti femministe nel convocare manifestazioni a causa dell’emergenza sanitaria sono state superate da cortei spontanei di migliaia di donne, partite alla volta delle sedi della Corte costituzionale e del partito Diritto e giustizia non appena è uscita la notizia della sentenza. Potremmo dire che Osk oggi si trova alla direzione del movimento suo malgrado. Marta Lempart, fondatrice di Osk e oggi tra i punti di riferimento delle proteste, ha detto di non agire da dirigente ma piuttosto di “fornire un help desk per coloro che vogliono organizzare le proteste (fornendo loghi, suggerendo hashtag e slogan, e aiutando a raccogliere fondi, nda). Fondamentalmente il mio lavoro ora è noioso lavoro d’ufficio.” E ancora: “Ora la protesta è di fatto senza dirigenti. Abbiamo lavorato a questo per tanti anni. Ci siamo liberati della mentalità da Homo sovieticus.” (14)

È un grave errore confondere la cappa burocratica vissuta sotto il regime stalinista con la necessità di dare al movimento una direzione cosciente che agisca come i pistoni di un motore necessari per trasformare l’energia in moto senza disperderla. E comunque, la realtà si impone, il vuoto non esiste in natura così come nei movimenti sociali. Osk è oggettivamente alla direzione del movimento, il problema è dove lo conduce. A poche settimane dall’inizio delle proteste Marta Lempart aveva dichiarato che un “giro di vite repressiva è più probabile della caduta del governo”, (15) questo mentre il movimento incassava una prima vittoria con la decisione di posticipare la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale. Similmente, quattro anni fa, un’attivista di Razem diceva di “dubitare che il movimento impedirà effettivamente l’approvazione della legge”. (16) è l’atteggiamento di chi si pone da osservatore più che da dirigente. Una direzione che esprime sfiducia nella vittoria, quando il sentimento di massa è diametralmente opposto, gioca un ruolo di retroguardia e può avere effetti devastanti sul morale delle truppe.

Dopo due mesi di proteste il tono delle dichiarazioni ha completamente cambiato segno: “Il governo cadrà entro tre mesi”, ha detto Marta Lempart. (17) È un cambiamento importante e necessario, se avviene alla guida, e non all’inseguimento, della determinazione delle donne in lotta, altrimenti il movimento è comunque destinato a ritrovarsi senza direzione.

Con il proseguire delle mobilitazioni, il movimento ha ampliato la piattaforma rivendicativa rispondendo alle sollecitazioni ricevute sui temi dell’antifascismo, i diritti delle persone lgbt, i cambiamenti climatici e i diritti dei lavoratori, si è fatto punto di riferimento delle risposte agli attacchi che vengono dal governo anche su altri fronti, ad esempio con la manifestazione del 20 gennaio, contro un nuovo giro di vite sulle sanzioni amministrative. Ma mentre scriviamo la pubblicazione della sentenza sull’aborto ha riacceso la mobilitazione delle donne e la sfida a porsi ad un livello più alto. Ciò rende ancora più urgente approfondire la partecipazione dei sindacati e del movimento operaio tutto per assicurarsi l’obiettivo della caduta del governo.

Per una prospettiva rivoluzionaria

Assistiamo a livello mondiale a due processi. Da un lato la crisi più profonda in tutta la storia del capitalismo, che con l’aggravante della pandemia sta ricacciando indietro le condizioni delle donne delle classi lavoratrici sotto tutti i punti di vista: i livelli occupazionali, le condizioni di lavoro, i carichi di lavoro domestico, gli episodi di violenza, gli attacchi ai diritti civili… Dall’altro quanto finora scritto rappresenta solo la punta di un iceberg fatto di rabbia, insofferenza, frustrazione ma anche disponibilità e determinazione a lottare per cambiare lo status quo. Entrambi questi processi hanno raggiunto livelli talmente acuti che non è possibile immaginare una via d’uscita compatibile con le esigenze di un sistema votato esclusivamente al profitto di una minoranza della popolazione. Non può esserci una liberazione definitiva della donna sotto il capitalismo, una via d’uscita rivoluzionaria è necessaria e a sua volta richiede di organizzarsi sulla base della chiarezza di questo obiettivo. Lotte come quelle fin qui descritte continueranno a destabilizzare il pianeta per tutto un periodo ma per sradicare i motivi che le rendono necessarie devono essere combattute ostinatamente, colpo su colpo, in questa prospettiva.

Finora nella storia l’unico movimento capace di elaborare e realizzare un programma complessivo per l’emancipazione e la liberazione delle donne è stato quello grazie al quale il capitalismo fu abbattuto in Russia nel 1917 sotto la guida del Partito bolscevico. Parità giuridica uomo-donna, tutela legale della maternità, diritto di aborto, diritto di divorzio, abolizione del concetto di prole illegittima, piano di socializzazione del lavoro domestico (con mense, lavanderie, asili pubblici). (18) Questo programma non è potuto arrivare fino in fondo ma ha subito un’inversione di tendenza con la degenerazione burocratica dello Stato sovietico, ma rimane un faro e un modello per il fatto che le conquiste ottenute nei primi anni dopo la rivoluzione russa furono il frutto di un’azione cosciente e deliberata da parte della direzione bolscevica. è ciò che fa la differenza tra una zattera che viene a ritrovarsi sulla cresta di onda e una barca a vela che sfrutta il moto ondoso per muoversi in una precisa direzione, verso la liberazione della donna dal giogo della sua oppressione e di tutta la classe lavoratrice dalla barbarie del capitalismo.

 

Note

1. Sull’origine dell’oppressione femminile si veda Arianna Mancini, Dove nasce l’oppressione femminile, un’analisi marxista.

2. “Pensiamo sia di assoluta importanza dare continuità al processo avviato lo scorso 8 marzo 2017 con lo sciopero globale delle donne, al processo cioè di riappropriazione e risignificazione di questa pratica come pratica eminente di lotta da una prospettiva femminista: lo sciopero quindi come strumento al servizio di tutt@, e non monopolio delle sole strutture sindacali, capace di coinvolgere il lavoro produttivo e riproduttivo, di andare oltre il corporativismo delle categorie e dei confini nazionali, di unire le molteplici figure del mondo del lavoro e del non lavoro invece di frammentarle ulteriormente”. Non una di meno, Abbiamo un piano, Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, https://nonunadimeno.files.wordpress.com/2017/11/abbiamo_un_piano.pdf, p. 31.

3. Per un approfondimento sulla questione del salario alle casalinghe da un punto di vista marxista si veda David Rey, Il lavoro domestico è lavoro ‘non retribuito’? Come premesse teoriche sbagliate conducono a posizioni reazionarie nella pratica.

4. Lo sciopero delle donne islandesi del 1975 nacque sotto l’impulso di un gruppo femminista radicale chiamato Redstockings per protestare contro le basse paghe femminili. L’appello ad abbandonare anche il lavoro di cura – cucinare, occuparsi dei figli e della casa, aveva l’obiettivo di far emergere il ruolo centrale delle donne nella società, ma fu nei posti di lavoro che la loro assenza ebbe un impatto enorme sui capitalisti, i responsabili dei salari bassi delle donne. Fabbriche, scuole, negozi chiusi, voli aerei cancellati. Tutto questo fu possibile perché il movimento sindacale fu pienamente coinvolto, solo per fare un esempio il giornale del Partito socialdemocratico si rifiutò di far sostituire le centraliniste da dipendenti uomini. Sebbene fu raggiunto un compromesso con l’ala più moderata del movimento per non chiamarlo sciopero ma “giorno libero”, la sostanza dello sciopero si impose nei fatti, con un’adesione registrata all’astensione dal lavoro del 90% e una manifestazione di 25mila persone a Reykjavík (praticamente un quarto della popolazione), numeri che danno l’idea di un coinvolgimento di massa della società. è indubbio che le dimensioni dell’Islanda non sono indifferenti rispetto alle difficoltà che si possono incontrare nell’organizzare uno sciopero generale, rispetto a paesi con decine di milioni di abitanti, ma è plausibile pensare che la riuscita dello sciopero del 1975 non sarebbe stata scontata se non ci fosse stato l’ampio coinvolgimento del movimento sindacale che lo caratterizzò (nda).

5. Si veda a questo proposito: Serena Capodicasa, Non una di meno, un bilancio critico dell’assemblea nazionale del 22-23 aprile, https://www.rivoluzione.red/non-una-di-meno-un-bilancio-critico-dellassemblea-nazionale-del-22-23-aprile/

6. Erica Chenoweth, Jeremy Pressman, This is what we learned by counting the women’s marches, The Washington Post, 7 febbraio 2017.

7. Il riferimento è al libro Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire di Sheryl Sandberg (Mondadori), un testo di riferimento del femminismo dell’empowerment, che difende il perseguimento del successo personale delle donne sulla base dello sforzo individuale per “farsi avanti”.

8. Angela Davis et al., Beyond Lean-in: for a Feminism of the 99% and Militant International Strike on March 8, https://viewpointmag.com/2017/02/03/beyond-lean-in-for-a-feminism-of-the-99-and-a-militant-international-strike-on-march-8/

9. ibidem.

10. Nel corso della campagna elettorale del 2016 suscitò molte polemiche la frase pronunciata da Madeleine Albright in sostegno alla Clinton: ‘‘C’e’ un posto speciale all’inferno per le donne che non si aiutano l’una con l’altra’’.

11. Marsha Gessen, The abortion protests in Poland are starting to feel like a revolution, The New Yorker, 17 novembre, 2020.

12. Magdalena Muszel, Grzegorz Piotrowski, “They’re uncompromising”: How the young transformed Poland’s abortion protests, opendemocracy.net

13. Henryl Kozlowski, Polish working women and men fight back against abortion ban: down with the government!, marxist.com.

14. Marsha Gessen, The abortion protests in Poland are starting to feel like a revolution, The New Yorker, 17 novembre, 2020.

15. ibidem.

16. Interview: Aleksandra Wolke, Mikolj Ratajczak, A black monday strike in Poland, socialistworker.org.

17. Lidia Kurasinska, Poland’s abortion rights protesters prepare for revolution, opendemocracy.net

18. Elisabetta Rossi, L’emancipazione femminile in Russia prima e dopo la Rivoluzione.

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