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9 Marzo 2021Presentiamo tre testi sulla questione del regime interno di un partito rivoluzionario. Il primo è un testo di Alessandro Giardiello scritto nell’ottobre del 2001 in vista del congresso nazionale di Falcemartello (l’antesignana di Sinistra Classe Rivoluzione). Il secondo è un contributo di Lev Trotskij scritto nel periodo di preparazione del Primo congresso della IV Internazionale a cui abbiamo allegato lo Statuto della Quarta Internazionale. Il terzo è una lettera sempre di Trotskij pubblicata dalla Pravda nel novembre 1923 nel periodo in cui Lenin e Trotskij si accingevano a formare un fronte contro Stalin e la burocratizzazione del partito. Il testo espone chiaramente cosa può esserci alla base delle divergenze in un partito rivoluzionario e, prendendo esempi dalla storia del bolscevismo, spiega come ci si debba comportare. Viene dimostrato come la tradizione bolscevica si sia formata attraverso la discussione aperta su tutte le questioni e non abbia niente a che vedere con la proibizione ufficiale delle frazioni che per lungo tempo è stata invocata come feticcio dalle burocrazie staliniste che strumentalizzavano la comprensibile propensione all’unità dei lavoratori per colpire sul nascere ogni opposizione al predominio burocratico. Per aiutare i compagni a orientarsi tra i continui riferimenti ed episodi della storia del partito bolscevico contenuti nel testo abbiamo ritenuto di corredarlo con un apparato di note.
La redazione
I – I nostri principi organizzativi e lo sviluppo della tendenza marxista nella nuova fase
di Alessandro Giardiello
Nell’ultimo periodo abbiamo sentito più volte il bisogno di riaffermare i fondamenti politico-organizzativi della nostra tendenza, la concezione del partito rivoluzionario e il suo funzionamento. In nessun modo per le nostre dimensioni possiamo considerarci un partito, ma solo un embrione, ma ciò non toglie che dobbiamo avere un atteggiamento serio e scrupoloso sulle questioni organizzative.
In questa discussione ci basiamo sul patrimonio di idee di Marx, Lenin e Trotskij, oltre che sulle tradizioni che la nostra tendenza internazionale ha consolidato dopo la seconda guerra mondiale, con il contributo fondamentale del compagno Ted Grant.
Questi metodi e tradizioni ci distinguono radicalmente dalle altre organizzazioni del movimento operaio. Un patrimonio che è stato trasmesso per molti anni (almeno qui in Italia) per via orale, se non in brevi accenni che comparivano nei bollettini interni o nei documenti organizzativi preparatori ai congressi.
La tendenza non ha mai approvato uno statuto, questo non significa che non esistessero delle norme di funzionamento ma le nostre dimensioni ridotte rendevano superfluo mettere per iscritto delle regole che tutti condividevano in un gruppo dove più o meno i compagni si conoscevano di persona.
Questa situazione sta cambiando, con la crescita che c’è stata e quella che prevediamo per il futuro e questa informalità è sempre meno accettabile, è dunque necessario riprendere in forma scritta le idee, i metodi, le tradizioni organizzative del marxismo sulle quali si basa la nostra organizzazione fornendoci di uno Statuto, di Commissioni di Garanzia, di verifica finanziaria, ecc. Già per il prossimo Congresso è necessario che il Comitato Centrale (Cc) prepari delle proposte in tal senso.
Un chiarimento su questo terreno è necessario, oltre che per la ingente quantità di compagni nuovi che aderiscono all’organizzazione, anche per contrastare le idee movimentiste e antipartito che esistono nel movimento, in Rifondazione Comunista così come tra i disobbedienti.
Il gioco dei riformisti è molto chiaro: dopo aver volgarizzato il leninismo lo demoliscono quotidianamente, ma questo non vuol dire che non possano avere una certa influenza sul movimento e persino tra le nostre fila, se non siamo in grado di opporre una concezione definita e approfondita che spieghi una volta di più che lo stalinismo non ha niente a che vedere con la concezione bolscevica del partito.
Abbiamo quindi il dovere di ribadire la concezione leninista del partito (contro ogni stortura e deformazione) per poi applicarla nel corpo vivo della nostra organizzazione.
Non si tratta di un dibattito astratto ma di una verifica costante tra teoria e prassi; come diceva Marx:
“La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica.” (Marx, Tesi II su Feuerbach)
Il rapporto tra politica e organizzazione
L’organizzazione rivoluzionaria deve essere uno strumento flessibile che si adatta a condizioni storiche e politiche concrete. Questo non significa però che i marxisti non abbiano dei principi da difendere in campo organizzativo, dobbiamo rifuggire da questo come in altri campi dall’eclettismo così diffuso nelle organizzazioni riformiste e settarie.
Siamo consapevoli che l’organizzazione non è separata dalla politica, li unisce un nesso dialettico, inscindibile.
Più volte nella storia del movimento operaio e marxista si è visto come delle deviazioni opportuniste sul piano organizzativo spesso nascondevano e preparavano una deviazione opportunista sul piano politico e viceversa. Per questo è necessario essere scrupolosi su questo terreno.
È indiscutibile l’importanza primaria del programma, della strategia e della tattica, ma limitarsi a questo è insufficiente. Abbiamo bisogno di un modello organizzativo in grado di assicurare la vittoria della classe operaia nella rivoluzione socialista.
Solo nel quadro delle idee bolsceviche sul terreno programmatico e tattico possiamo comprendere la costruzione di un partito di tipo bolscevico sul terreno dell’organizzazione.
Per dirla con Lenin:
“Il programma, in effetti, è più importante della tattica, e la tattica è più importante dell’organizzazione. L’alfabeto è più importante dell’etimologia, l’etimologia è più importante della sintassi, ma che dire di studenti che all’esame siano caduti nella sintassi e ora si diano arie e si vantano di ripetere l’anno? (…) L’unità nelle questioni programmatiche e tattiche è la condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dell’unificazione del partito, dell’accentramento della sua azione (…) Per quest’ultima cosa è altresì necessaria l’unità organizzativa, inconcepibile, in un partito che abbia in qualche modo superato i limiti di un circolo familiare, senza uno statuto ben preciso, senza la sottomissione della minoranza alla maggioranza, senza la sottomissione della parte al tutto”. (Lenin, Un passo avanti e due indietro, Opere Complete, vol. 7, pag. 374-375, Editori riuniti)
Il centralismo democratico
Non c’è dubbio che la concezione di Lenin del partito basata sul centralismo democratico sia uno dei contributi fondamentali che il rivoluzionario russo ha dato al pensiero marxista.
Ovviamente non pensiamo che le regole organizzative su cui si basò il Partito bolscevico siano immutabili nel tempo e nello spazio. Variano in funzione di determinate condizioni quali la situazione politica (nazionale e internazionale) del movimento operaio, la fase che attraversa una forza rivoluzionaria, il consolidamento e la formazione della direzione e dei militanti, ecc.
A tutti coloro che nel movimento dichiarano superate queste concezioni dobbiamo rispondere fermamente che anche se non esistono regole scolpite nella pietra non significa che non siano più validi i principi bolscevichi sull’organizzazione.
Il centralismo democratico può riassumersi in una frase: Massima libertà e democrazia nel momento della discussione, massima unità nel momento dell’azione.
Un lavoratore capisce in modo immediato questa idea basandosi sulla propria esperienza nella lotta di classe. In qualsiasi assemblea operaia ben organizzata c’è molta tolleranza alla ora di esprimere opinioni, ma alla fine della discussione si prendono le decisioni che vengono messe in pratica. In questo momento la minoranza si subordina alla maggioranza e se questo non avviene, la tolleranza dei lavoratori può trasformarsi in intolleranza e in certi casi si può arrivare all’uso di metodi coercitivi contro chi rompe la disciplina comportandosi da crumiro, ignorando le decisioni prese in assemblea.
In tutti gli scioperi inevitabilmente si forma una direzione (che sia eletta o meno), solitamente questa direzione è composta dai lavoratori che si sono distinti in quella lotta o nelle precedenti battaglie. Ovviamente non sempre la direzione rappresenta gli interessi dei lavoratori e quindi ci si pone il problema di revocarla e sostituirla.
Questo processo non è automatico e a volte i lavoratori tollerano per un lungo periodo di anni l’esistenza di dirigenti che non li rappresentano e sono necessari grandi avvenimenti perché questa direzione possa essere sostituita.
La struttura di un partito necessariamente deve essere molto più complessa di un comitato di sciopero. Il suo compito è ben più complicato: trasformare la società in una lotta contro un nemico potente che utilizza la struttura centralizzata dello Stato borghese come la principale corazza protettrice per salvaguardare i propri privilegi e il proprio dominio.
Nel partito è ancora più importante il ruolo della direzione. Un elemento fondamentale per giudicare la solidità di una forza rivoluzionaria è la capacità della direzione di orientare politicamente l’organizzazione e garantirne la stabilità.
Il processo di formazione dei quadri marxisti non è automatico, in determinate fasi della lotta di classe e dell’organizzazione sono inevitabili dei cambiamenti nella direzione.
Spesso c’è una tendenza tra i dirigenti a lasciarsi trascinare dalla routine e dall’inerzia, questi fenomeni possono essere combattuti solo garantendo il più ampio controllo democratico.
Perché questo sia possibile è necessario che circolino le informazioni e ci sia un rapporto regolare alle strutture di base del lavoro e delle decisioni prese dagli organismi di direzione nazionale e locale.
Questa è una responsabilità di ogni compagno. Come disse Trotskij, “Un’organizzazione che è incapace di controllare i propri dirigenti non è degna di chiamarsi rivoluzionaria.”
In un’organizzazione bolscevica spesso la maggioranza delle idee vengono dalla direzione, ma queste devono essere pienamente discusse, criticate, emendate o se è il caso rifiutate dai militanti. Bisogna incoraggiare la partecipazione e l’iniziativa creativa della base. In nessun caso deve essere soffocata la critica e il dissenso.
Sottomettere la parte al tutto
L’organo massimo decisionale è il congresso, che tendenzialmente deve avere scadenza annuale ed essere convocato dopo un ampio e libero confronto democratico. In questi momenti deve primeggiare la democrazia sul centralismo. Quando il congresso, dopo il dibattito, prende delle decisioni sulla linea politica ed elegge una direzione, a partire da quel momento deve primeggiare, salvo situazioni eccezionali, il centralismo sulla democrazia.
Tutte le strutture e le piattaforme dell’organizzazione devono funzionare sotto la direzione del Comitato centrale o dell’organo che lo rappresenta in modo permanente, nel nostro caso il Comitato esecutivo nazionale (Cen). Le decisioni prese dal Comitato centrale sono revocabili solo dallo stesso organismo o dal Congresso. Gli organi eletti a livello locale, lavorano sotto la direzione del Cc e del Cen.
Questo non significa che non possano prendere iniziative o decisioni nei loro rispettivi ambiti. Hanno non solo il diritto ma il dovere di farlo. Lo stesso vale per i Gruppi di base (Gdb), le cellule che costituiscono le strutture fondanti della nostra organizzazione. Ma siamo assolutamente contrari a una concezione federalista che contrappone l’autonomia delle distinte organizzazioni alle decisioni assunte dall’organismo centrale. Il Cc ha il diritto e il dovere di assicurare che la linea politica dell’organizzazione sia portata avanti in tutte le zone.
Spesso accade che decisioni affrettate prese a livello locale possano pregiudicare il lavoro dell’organizzazione nazionale nel suo insieme. Pertanto “la parte deve sottomettersi al tutto” e in caso di conflitto è la decisione del Comitato centrale (o del suo organismo esecutivo fino a quando non si riunisce il Cc) che deve prevalere.
Lenin insisteva sul fatto che il compito delle strutture locali era di: “… lavorare attivamente per creare, appoggiare e consolidare le istanze centrali, senza le quali il nostro partito non può esistere come tale.” (Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi, Opere complete, vol.6, pag. 217).
Lo stesso discorso vale per ogni sezione nazionale rispetto all’Internazionale. Una sezione nazionale deve prendere e prende una enorme quantità di decisioni e di iniziative, ma in caso di conflitto deve subordinarsi a quello che decidono gli organismi superiori, nel nostro caso il Cei (Comitato esecutivo internazionale) e la Si (Segreteria internazionale), che sono gli organismi di direzione tra un Congresso mondiale e l’altro.
Se così non fosse il nostro sarebbe un ben povero internazionalismo e invece di un partito mondiale avremmo una federazione di partiti.
Ovviamente solo in circostanze eccezionali un organismo internazionale può prendere misure disciplinari nei confronti di una sezione nazionale, l’obiettivo deve essere sempre quello di convincere e persuadere utilizzando l’autorevolezza politica e morale del gruppo dirigente.
I marxisti hanno sempre condannato i metodi di Zinoviev che quando era presidente della Terza Internazionale sostituiva dall’alto i gruppi dirigenti delle sezioni nazionali e soffocava il dissenso con mezzi amministrativi.
Trotskij negli anni ‘30 consigliava sempre ai dirigenti della Quarta Internazionale di intervenire con molta sensibilità sulle questioni che riguardavano le sezioni nazionali.
Bisogna saper coniugare la democrazia e il centralismo in funzione di circostanze concrete. Per questo diciamo che il centralismo democratico è come un rasoio ben affilato. In mani esperte può produrre risultati meravigliosi, in mani inesperte può fare una carneficina.
Il partito bolscevico è stato un partito estremamente centralizzato e allo stesso tempo straordinariamente democratico. Il partito più democratico che la storia abbia conosciuto, almeno fino al sopraggiungere della degenerazione staliniana. L’esperienza di Lenin e dei bolscevichi rimane oggi totalmente valida e rappresenta per noi una straordinaria guida nella costruzione del partito rivoluzionario.
L’importanza della direzione
Lenin illustrò in modo profondo il suo modello di partito nel Che Fare?, in Un passo avanti e due indietro e in altri testi che contribuirono a definire il suo progetto organizzativo come Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi e Da che cosa cominciare. Questi testi dovrebbero essere delle letture obbligate per tutti i nostri compagni.
Nel IV capitolo del Che fare? intitolato Il primitivismo degli economisti e l’organizzazione dei rivoluzionari, Lenin definisce alcune delle caratteristiche principali più importanti del suo modello di partito:
“Quante volte i socialisti (tedeschi. NdR) non si sono sentiti irridere in parlamento dai deputati avversari: ‘Bei democratici! Con voi il movimento della classe operaia non esiste che a parole: in realtà è sempre lo stesso gruppo di capi che fa tutto. Ogni anno da decine di anni, sempre lo stesso Bebel, sempre lo stesso Liebknecht! I vostri delegati, che si dicono eletti dagli operai, sono più inamovibili dei funzionari nominati dall’imperatore!’. Ma i tedeschi hanno accolto con sprezzante ironia quei tentativi demagogici di contrapporre la ‘folla’ ai ‘capi’, di risvegliare nella prima gli istinti cattivi e vanitosi e di togliere al movimento la solidità e la stabilità minando la fiducia delle masse in una ‘decina di teste forti’. Essi sono politicamente abbastanza educati, hanno sufficiente esperienza politica per comprendere che senza una ‘decina’ di abili capi (e gli uomini abili non sorgono a centinaia), provati, professionalmente preparati ed istruiti da una lunga esperienza, che siano d’accordo fra loro, nessuna classe della società contemporanea può condurre fermamente la sua lotta… ci occorre un comitato di rivoluzionari di professione. Studenti o operai, poco importa; essi sapranno fare di se stessi dei rivoluzionari di professione.” (Lenin, Che Fare?, Opere Complete, vol. 5, pag. 427).
Lenin attaccava gli opportunisti che dicevano che non bisognava stimolare dall’esterno il movimento operaio. Considerava che chi fomentava nel movimento operaio “la sfiducia verso tutti coloro che portano dal di fuori le cognizioni politiche e l’esperienza rivoluzionaria… operano come demagoghi e i demagoghi sono i peggiori nemici della classe operaia”. (Che Fare? ).
Quale miglior risposta a chi oggi propone di “rovesciare piramidi”, di costruire “organizzazioni orizzontali” e stupidaggini di questo tipo che servono solo a giustificare un ceto politico che dirige senza alcun controllo dal basso come si vede bene tra i disobbedienti, nei centri sociali e nelle strutture dei Social Forum.
In molti si sono spesi negli ultimi anni per dimostrare che la concezione di Lenin sul partito è antitetica a quella di Marx, buon ultimo il compagno Fausto Bertinotti.
In questo non c’è niente di nuovo, la stessa critica veniva rivolta a Lenin dai suoi contemporanei, così come negli anni ‘70 durante le mobilitazioni politiche e sociali che hanno sconvolto le università e le fabbriche del nostro paese.
Nell’introduzione a una delle edizioni del Che Fare? che maggiore diffusione ha avuto in Italia a metà degli anni ‘70 (quella della Newton Compton), riferendosi alla nota polemica della Luxemburg con la posizione di Lenin sul partito, si dice testualmente: “Ci sembra difficile negare che questa concezione della Luxemburg, espressa in aspra polemica con Lenin, rifletta lo spirito e le preoccupazioni di Marx e di Engels a proposito del partito della classe operaia. In realtà la teoria leniniana del partito costituisce non tanto una specificazione, quanto piuttosto una variante sostanziale rispetto al marxismo classico.”
È questa una vecchia posizione trita e ritrita che ritroviamo tra coloro che in un dato momento decidono di rompere con il marxismo per abbracciare il riformismo. Nella misura in cui si rifiuta un partito militante e centralizzato si rifiuta l’idea di rovesciare il capitalismo, in quanto la storia ha dimostrato che solo con un partito del genere è possibile che la classe operaia conquisti il potere.
Bisogna ribadire ancora una volta che la concezione di Lenin in nessun modo contraddice quella espressa da Marx nel Manifesto del Partito Comunista:
“Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme. Non erigono principi particolari, sul quale vogliono modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo.
In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario(…)”
È evidente da queste frasi che Marx vedeva nel partito comunista lo strumento organizzato del settore più avanzato della classe operaia, Lenin ha semplicemente approfondito questo concetto.
Certo nel calore della polemica con gli economicisti, Lenin può aver esagerato alcuni aspetti, come quello che si riferisce alla “coscienza portata dall’esterno” o “alla incapacità della classe operaia di andare autonomamente aldilà di una concezione tradeunionistica”. Lui stesso lo ha riconosciuto in seguito, quando ha affermato di aver “rovesciato il bastone troppo dall’altra parte”.
Ma questo non nega la necessità di avere un partito centralizzato tanto per conquistare il potere quanto per mantenerlo. Ovviamente un’organizzazione bolscevica deve dedicare molta attenzione alla formazione dei quadri trovando le risorse necessarie per permettere ai compagni migliori di dedicarsi a tempo pieno alla costruzione dell’organizzazione.
Controllo democratico dal basso
Mentre insisteva sulla centralizzazione delle decisioni, Lenin enfatizzava anche la necessità di decentralizzazione del lavoro e delle informazioni:
In Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi, sottolineava:
“Siamo giunti a un criterio molto importante per tutta l’organizzazione e l’attività del partito: mentre per la direzione ideologica e pratica del movimento e della lotta rivoluzionaria del proletariato è necessaria la maggior centralizzazione possibile, per l’informazione sul movimento al centro del partito (e quindi anche a tutto il partito in generale) e per la responsabilità dinanzi al partito è necessaria la maggiore decentralizzazione possibile (…) Dobbiamo centralizzare la direzione del movimento. Dobbiamo anche (appunto per farlo, giacché senza informazione non è possibile la centralizzazione) decentralizzare quanto è più possibile la responsabilità di ogni singolo membro dinanzi al partito, di ogni partecipante al lavoro, di ogni circolo che entra nel partito o lo fiancheggia. Questa decentralizzazione è una condizione necessaria della centralizzazione rivoluzionaria e il suo indispensabile correttivo.”
Da questo deriva l’indispensabilità di inviare rapporti dai comitati locali al centro e la diffusione delle informazioni tra il centro e le sezioni. Questo metodo è indispensabile per garantire un regime interno sano, garantendo il maggior controllo possibile della base sulla direzione.
Trotskij insisteva spesso che un’informazione adeguata è alla base del controllo democratico all’interno di un partito. Questo non significa che debba essere negato il diritto bolscevico alla “riservatezza negli organismi dirigenti” e cioè che nella prima fase di un dibattito non escano da un determinato organismo i punti di vista diversi almeno fino a quando la discussione non sia esaurita dando la possibilità a tutti i membri di convincersi tra loro.
Rompere questa misura di autodisciplina, che garantisce il diritto a tutti i compagni ad avere un dibattito strutturato, rappresenta ovviamente una rottura non del centralismo ma piuttosto della democrazia e dei diritti di cui gode ogni militante (dirigente o meno che sia) quando aderisce alla tendenza rivoluzionaria. Su questo piano la nostra tendenza ha ancora molto da imparare e con gli anni nel suo processo di maturazione lo imparerà.
Ma allo stesso tempo è evidente che solo l’esperienza, la qualità politica e morale di una direzione e il controllo della stessa da parte della base permetterà, in ultima istanza, di fare buon uso di questo diritto e non abusare di esso.
È necessario dunque avere con scadenze periodiche delle circolari approfondite che informino i compagni su tutte le questioni veramente importanti che riguardano l’organizzazione, senza perdersi nei dettagli pretendendo che tutti sappiano tutto di tutti; chi rivendica questo sta di fatto chiedendo la paralisi dell’organizzazione impedendogli di sviluppare il proprio lavoro in modo efficace.
Dobbiamo sottolineare che uno dei modi (e non il meno importante) che ha la base di controllare la direzione è la partecipazione costante all’attività dell’organizzazione, dai Gdb, alle assemblee locali e nazionali, all’attività pubblica.
Qualsiasi militante, soprattutto con le dimensioni attuali dell’organizzazione, ha il diritto di rivolgersi verbalmente o in forma scritta a qualsiasi dirigente e compagno che lavora a tempo pieno per manifestare le sue critiche e le sue preoccupazioni, come è sempre stato nella nostra organizzazione. Qualsiasi compagno con posizioni dirigenti deve essere ben disposto alle critiche con un atteggiamento aperto di chi va a imparare ed è disposto a correggersi ascoltando pazientemente e attentamente anche l’ultimo compagno di base entrato nella tendenza.
Dobbiamo rifiutare il dirigismo, le logiche di prestigio, i personalismi e soprattutto gli atteggiamenti capricciosi e arroganti che vigono nelle altre organizzazioni, dove i “capi” mostrano poca disponibilità ad ascoltare i compagni di base, ed è anche su questo criterio che dobbiamo selezionare i nostri organismi dirigenti.
Mentre non è condivisibile ma è tollerabile che un compagno di base si rivolga in termini duri verso un dirigente, non è assolutamente accettabile che un dirigente faccia lo stesso con un compagno di base, perché questo inevitabilmente genera una deformazione dell’organizzazione da cui scaturisce un soffocamento della democrazia interna. A tutti può capitare di perdere la pazienza, ma quando questo avviene bisogna scusarsi alla prima occasione con i compagni oggetto dello sfogo.
Più si hanno responsabilità importanti nella tendenza meno è tollerabile che si verifichino questi incidenti. Chi sottovaluta questi aspetti non commette un errore che si inserisce nel campo della sfera personale ma in quella puramente politica.
Non dobbiamo mai dimenticare che uno dei modi per verificare la correttezza di una linea politica è il giudizio sui risultati della sua applicazione.
Lenin ebbe modo di dire:
“Nessun uomo politico ha percorso la propria carriera senza queste o quelle determinate sconfitte, e se noi parliamo seriamente di influenza sulle masse, di conquista della ‘buona volontà’ delle masse, dobbiamo fare ogni sforzo per ottenere che queste sconfitte non restino celate nel tanfo dei circoli e gruppetti, per ottenere che vengano sottoposte al giudizio di tutti. Ciò sembrerà imbarazzante a prima vista, potrà talvolta apparire ‘offensivo’ per questo o quel singolo dirigente, ma dobbiamo superare questo falso senso di imbarazzo: è un nostro dovere di fronte al partito, di fronte alla classe operaia. Con questo e soltanto con questo daremo a tutta la massa (e non alla cerchia di compagni casualmente assortita di un circolo o di un gruppetto) dei militanti influenti del partito la possibilità di conoscere i propri capi e di porre ciascuno al posto che gli compete. Soltanto la vasta pubblicità può correggere tutte le deviazioni indelicate, unilaterali e capricciose, soltanto essa può trasformare i ‘contra’ talvolta assurdi e ridicoli dei ‘gruppetti’ in utile necessario materiale di autoeducazione.” (Lettera alla Redazione dell’Iskra, Opere Complete, vol. 7, pag. 112).
In passato quando come direzione abbiamo commesso degli errori, li abbiamo sempre riconosciuti e dobbiamo continuare a farlo. Un gruppo dirigente che non è in grado di riconoscere con umiltà i propri sbagli, rivedendo le proprie posizioni quando è necessario, è un gruppo dirigente penoso che non serve alla nostra causa.
La lotta di Lenin contro l’opportunismo organizzativo
“Di tutta la galassia dei grandi rivoluzionari attivi prima della I Guerra mondiale, includendo Trotskij, solo Lenin ebbe una chiara comprensione dei compiti della costruzione del partito rivoluzionario. Questo fu uno dei suoi principali contributi al marxismo e conserva la sua validità nel momento attuale” (Che eredità difendiamo e che eredità rifiutiamo. Bollettino speciale della Tendenza marxista internazionale, 1992).
Questa tesi è stata dimostrata al negativo nel caso di James Connolly, di Antonio Gramsci, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, che non avevano compreso la necessità di costruire il partito prima che arrivasse l’ondata rivoluzionaria, e positivamente solo nel caso della Rivoluzione d’Ottobre.
Abbiamo spesso detto che senza Lenin e Trotskij non si sarebbe preso il potere in Russia. In loro c’era l’essenza delle idee, il programma e la teoria marxista. Ma è anche vero che senza l’apparato e i militanti del Partito bolscevico anche due dirigenti di quel calibro sarebbero stati spettatori impotenti dell’Ottobre.
Come detto anche Trotskij, in un primo momento, non aveva compreso il ruolo del partito leninista. Proprio per questa ragione, a un certo punto, difese una posizione conciliatoria tra i bolscevichi e i menscevichi. Quando nel 1917 rettificò il suo errore, Lenin ebbe modo di commentare che a quel punto non c’era miglior bolscevico di Trotskij.
Il “vecchio”, come lo chiamavano i militanti della Quarta Internazionale, nel 1938 fece un’autocritica molto netta, quando nella polemica con Schachtman e la minoranza piccolo borghese del SWP (la sezione americana della Quarta Internazionale) disse:
“Nella sua ricerca di analogie storiche, Schachtman evita un esempio che invece calza perfettamente con la realtà del suo blocco. Voglio alludere al cosiddetto blocco dell’agosto 1912. Ho partecipato attivamente a questo blocco e in un certo senso l’ho creato. Politicamente divergevo dai menscevichi su tutta una serie di questioni fondamentali. Mi differenziavo anche dai bolscevichi ultrasinistri, i cosiddetti vperyodisti. Tendenzialmente ero assai più vicino ai bolscevichi, ma ero contro il regime leninista perché non avevo ancora imparato a comprendere che per raggiungere il fine rivoluzionario era indispensabile un partito centralizzato e ben saldo. Così formai quel blocco episodico, consistente di elementi eterogenei, diretto contro l’ala proletaria del partito.
Nel blocco di agosto i liquidatori avevano la propria tendenza, e i vperyodisti avevano anche qualcosa che somigliava a una tendenza. La gran parte dei documenti erano scritti da me; tali documenti, cercando di non toccare le divergenze di principio, tendevano a creare una specie di unanimità su questioni politiche concrete. Non una parola a proposito del passato! Lenin sottopose il blocco d’agosto ad una critica spietata e i colpi più duri caddero su di me. Lenin provò che siccome io non ero d’accordo né con i menscevichi, né con i vperyodisti, la mia politica era avventurista. Questo giudizio era severo, ma vero.
Come circostanze attenuanti lasciate che citi il fatto di non essermi proposto come compito di appoggiare le tendenze di destra o ultrasinistre contro i bolscevichi, ma di unire il partito nel suo complesso. Anche i bolscevichi furono invitati alla conferenza di agosto, ma poiché Lenin rifiutò decisamente di unirsi con i menscevichi (e aveva perfettamente ragione) fui lasciato in un blocco contro natura con i menscevichi e i vperyodisti. La seconda circostanza attenuante sta nel fatto che il fenomeno del bolscevismo come partito autenticamente rivoluzionario si stava sviluppando per la prima volta in quanto nell’esperienza della Seconda Internazionale non esistevano precedenti. Non cerco con ciò di discolparmi. Nonostante la concezione della rivoluzione permanente che indubbiamente mi aprì una prospettiva corretta, non mi ero ancora liberato, specialmente in campo organizzativo, delle caratteristiche del rivoluzionario piccolo-borghese. Ero ammalato di conciliazionismo verso il menscevismo e permeato di atteggiamento diffidente verso il centralismo leninista…”
(L. Trotskij, In difesa del marxismo, pag.239-240, Samonà e Savelli)
Lenin data la nascita del bolscevismo alla battaglia contro gli economisti tra il 1900 e il 1902 in Russia. Ma il bolscevismo cominciò realmente a svilupparsi durante il II Congresso del Posdr nel 1903. Un resoconto dettagliato dei dibattiti di questo congresso lo si può trovare nello scritto di Lenin Un passo avanti e due indietro, nella lotta contro gli elementi opportunisti che diedero forma alla nascita del menscevismo.
Nel II congresso ci fu una differenza di opinioni tra Lenin e Martov sull’articolo I dello Statuto. Nella proposta di Lenin “era da considerarsi membro del partito colui che ne accetti il programma e appoggi il partito, tanto con risorse materiali quanto con la partecipazione personale a una delle sue organizzazioni”.
Nella proposta di Martov, che il congresso accettò, si diceva che “era da considerarsi membro del partito colui che ne accetti il programma, e appoggi il partito con risorse materiali e presti la sua collaborazione regolare personale sotto la direzione di una delle sue organizzazioni”.
Apparentemente la differenza poteva apparire non molto importante. Lo stesso Lenin che ancora non comprendeva la portata delle differenze affermò: “non considero che le nostre differenze (rispetto al primo articolo) siano così sostanziali da farne dipendere la vita o la morte del partito. Non moriremo se nello statuto c’è un punto mal posto!”
Per tutta la vita Lenin ha lottato contro il conciliazionismo, questo non significa che il rivoluzionario russo non apprezzasse ogni tentativo per mantenere l’unità della direzione e dell’organizzazione. Era convinto che in certi casi era necessario fare concessioni per evitare mali maggiori; in qualche caso, per la verità, anche dimenticandosi del centralismo e della disciplina. Ma in altri casi insisteva che solo con la fermezza era possibile mantenere l’unità dell’organizzazione.
In ultima analisi è responsabilità di una buona direzione capire quando si può essere “flessibili” e quando no. In questo bisogna tener conto del contesto, dello stato dell’organizzazione, dell’opinione di tutti i compagni.
Lenin ha dimostrato di accettare il centralismo democratico anche quando si è trovato in minoranza, come è avvenuto nel congresso di Stoccolma del 1907. In quel congresso che si celebrò all’inizio di un periodo (che sarebbe durato fino al 1912) di riflusso e di reazione, i bolscevichi si trovarono in minoranza su tutta una serie di punti. Lenin fece una dichiarazione esplicita in cui si impegnava a rispettare le risoluzioni del congresso e agì di conseguenza.
In una tendenza rivoluzionaria, dopo un dibattito ampio e democratico, le differenze conducono a una votazione. La minoranza si subordina alla maggioranza. Entrambe mettono in pratica la linea dell’organizzazione e aspettano che gli avvenimenti, la prova della pratica, con l’esperienza accumulata e l’intervento nella lotta di classe, dimostrino la correttezza di una tesi o l’altra. Come disse Lenin: “Non sottomettersi alla direzione degli organismi centrali equivale a disfare il partito, non è un mezzo di persuasione, ma ne rappresenta piuttosto la distruzione.” (Lenin, Un passo avanti e due indietro)
L’unica risorsa di cui può godere una direzione rivoluzionaria è la sua autorevolezza politica e morale. Come si spiega in Una lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi:
“Tutta l’arte dell’organizzazione clandestina deve consistere nell’utilizzare tutto, nel ‘dar lavoro a tutti’ conservando nel medesimo tempo la direzione di tutto il movimento, conservandola, s’intende, non con la forza del potere, ma con la forza del prestigio, dell’energia, della maggior esperienza, della maggior ampiezza di cognizioni, della maggior capacità.”
In altre parole, Lenin non contrapponeva meccanicamente la necessità di convincere politicamente con quella di ascoltare pazientemente, dando ai militanti il tempo necessario per giungere autonomamente alle proprie conclusioni.
Tutti i militanti devono sapere che nell’organizzazione esistono delle norme a cui tutti devono attenersi, e rompere con queste norme significa rompere con l’organizzazione. Non si può usare la “mancanza di convinzione politica” per giustificare un boicottaggio all’attività.
Nonostante la falsa propaganda della borghesia e dei riformisti, Lenin non ha mai avuto una tendenza all’uso facile di misure disciplinari. Considerava le sanzioni come l’ultima risorsa per risolvere i conflitti e soprattutto per difendere i principi politico-organizzativi del partito rivoluzionario.
Nella nostra organizzazione, la direzione ha tutto il diritto di esigere a qualsiasi compagno in minoranza che non si opponga a che vengano messi in pratica gli accordi presi a maggioranza, anche se normalmente non può esigere che il compagno dissenziente porti avanti personalmente posizioni che non condivide.
Ovviamente fino ad oggi non si è mai posto il problema perché non ci sono state divisioni fondamentali tra di noi. Ma questo non toglie che in futuro ci saranno e tutti i compagni devono comportarsi in modo coerente con i principi organizzativi a cui ci richiamiamo, quelli del centralismo democratico, che hanno dimostrato la loro validità nel corso della storia del movimento rivoluzionario, dalle sue origini fino ai giorni nostri.
II – Sul centralismo democratico
(alcune cose sul regime del partito) (dicembre 1937)
di Lev Trotskij
Ai direttori del Socialist Appeal:
Durante gli ultimi mesi ho ricevuto da diversi compagni, apparentemente giovani, lettere che trattavano del regime interno di un partito rivoluzionario. In alcune di queste lettere si lamentano della “mancanza di democrazia” nella loro organizzazione, del dominio dei “dirigenti” e cose simili.
Singoli compagni mi chiedono una “definizione chiara di centralismo democratico” che impedisca false interpretazioni.
Non è facile rispondere a queste lettere. Nessuno dei miei corrispondenti cerca di dimostrare chiaramente con esempi attuali dove sta la violazione della democrazia. D’altro canto, per quanto mi riguarda, come testimone posso giudicare in base al loro periodico e ai loro bollettini che la discussione nella loro organizzazione si svolge con la più completa libertà. I bollettini sono elaborati principalmente dai rappresentanti di una piccolissima minoranza. Mi hanno detto che lo stesso succede nelle loro riunioni. Tuttavia non sono ancora state prese le decisioni. Evidentemente saranno prese in una Conferenza liberamente scelta. Allora, dove potrebbe essersi manifestata la violazione della democrazia? È difficile da capire. Alcune volte, a giudicare dal tono delle lettere, cioè dal carattere amorfo delle lamentele, mi sembra che coloro i quali si lamentano siano semplicemente scontenti del fatto che, nonostante la democrazia esistente, essi dimostrino di essere una piccola minoranza. Proprio per la mia esperienza so quanto ciò sia sgradevole. Però dove sta la violazione di democrazia?
Non penso nemmeno di poter dare una definizione di centralismo democratico tale da eliminare “una volta per tutte” malintesi e false interpretazioni. Un partito è un organismo vivo e attivo. Si sviluppa nella lotta contro gli ostacoli esterni e le contraddizioni interne. La degenerazione della Seconda e della Terza Internazionale sotto le dure condizioni dell’epoca imperialista crea per la Quarta Internazionale difficoltà senza precedenti nella storia. Non si può trionfare su di queste con qualche formula magica.
Il regime di un partito non cade dal cielo, ma si forma gradualmente nella lotta. La linea politica domina sul regime; in primo luogo è necessario definire problemi strategici e metodi tattici coerenti con l’obiettivo di risolverli. Le forme organizzative dovrebbero corrispondere alle strategie e alle tattiche. Solamente una politica corretta può garantire un regime partitico sano. È sottinteso che questo non significa che lo sviluppo del partito non darà luogo a dei problemi organizzativi. Però indica che il modello di centralismo democratico deve assumere inevitabilmente un’espressione differente nei partiti dei diversi paesi e nei distinti stadi dello sviluppo di uno stesso partito. La proporzione tra la democrazia e il centralismo non è assolutamente invariabile. Tutto dipende dalle circostanze concrete, dalla situazione politica del paese, dalla forza e dall’esperienza del partito, dal livello generale dei suoi membri, dall’autorità che i dirigenti sono riusciti a guadagnarsi. Davanti ad una conferenza, quando il problema consiste nel formulare una linea politica per il prossimo periodo, la democrazia trionfa sul centralismo. Però quando si passa all’azione politica, il centralismo subordina la democrazia.
Questa riafferma di nuovo i suoi diritti quando il partito sente la necessità di esaminare criticamente le proprie azioni. L’equilibrio fra la democrazia e il centralismo si stabilisce nella lotta contingente, in certi momenti è violato e quindi si ristabilisce di nuovo. La maturità di ogni membro del partito si esprime particolarmente nel fatto che non esige dal partito più di quello che può dare. La persona che decide il proprio atteggiamento verso il partito in base ai fatti personali che gli danno fastidio è un rivoluzionario da quattro soldi. È necessario, certamente, lottare contro tutti gli errori personali dei dirigenti, tutte le ingiustizie ecc. Però è necessario valutare queste “ingiustizie” e “errori” non in se stessi ma in relazione allo sviluppo generale del partito su scala nazionale ed internazionale. In politica è estremamente importante saper giudicare correttamente e avere il senso della misura.
La persona che ha la propensione a fare di un granello di sabbia una montagna può causare molto danno al partito e a se stessa. La disgrazia di gente come Oehler, Field, Weisbord e altri consiste nella loro mancanza di senso della misura.
Al momento non sono pochi gli ambienti rivoluzionari dove troviamo uomini prigionieri della stanchezza per le sconfitte, che temono le difficoltà; uomini giovani prematuramente invecchiati, che hanno più dubbi e pretese che volontà di lottare. Invece di analizzare nell’essenza e seriamente i problemi politici, questi individui cercano panacee, si interrogano sempre sul “regime del partito”, esigono meraviglie dalle direzioni o cercano di nascondere il loro scetticismo interiore con un linguaggio da ultrasinistra. Io temo che da simili elementi non usciranno dei rivoluzionari, a meno che non cambino da soli. Non dubito d’altra parte che la nuova generazione di lavoratori sarà capace di valutare il contenuto strategico e programmatico della Quarta Internazionale e si raccoglieranno sotto la sua bandiera in numero sempre maggiore. Ogni vero rivoluzionario, che vede i difetti del regime del partito, deve prima di tutto dirsi: “Dobbiamo attirare al partito una dozzina di nuovi lavoratori”. I giovani lavoratori debbono richiamare all’ordine gli scettici, i pessimisti e i trafficanti di lamentele. Solo così si stabilizzerà un regime sano nelle sezioni della Quarta Internazionale.
III – Statuto della Quarta Internazionale (1938)
I – Tutti i militanti proletari e rivoluzionari del mondo che accettano ed applicano i princìpi e il programma della Quarta Internazionale sono uniti in una singola organizzazione mondiale, sotto una direzione internazionale centralizzata e una singola disciplina. L’organizzazione ha come nome LA QUARTA INTERNAZIONALE (PARTITO MONDIALE DELLA RIVOLUZIONE SOCIALISTA) ed è governata dai presenti statuti.
II – In tutti i paesi i membri della Quarta Internazionale sono organizzati in partiti o leghe, che costituiscono le sezioni nazionali della Quarta Internazionale (Partito Mondiale della Rivoluzione Socialista).
III – Le sezioni nazionali sono costituite in base alla piattaforma e in accordo con la struttura organizzativa definita e stabilita dal congresso di fondazione della Quarta Internazionale (settembre 1938). Nella sua piattaforma la Quarta Internazionale concentra l’esperienza internazionale del movimento rivoluzionario marxista e specialmente quella che nasce dalle conquiste sociali della Rivoluzione russa dell’ottobre 1917. Assimila e si basa su tutte le esperienze sociali progressiste dell’umanità che portano all’esproprio della classe capitalista e in ultima istanza all’abolizione delle classi.
IV – La struttura interna dell’Internazionale, a livello locale, nazionale e mondiale è determinata dai princìpi e dalla pratica del centralismo democratico. Le sezioni devono osservare le decisioni e le risoluzioni del Congresso internazionale e, nella sua assenza, del Comitato esecutivo internazionale (Cei), rappresentato durante gli intervalli fra le sue riunioni dalla Segreteria Internazionale (Si) – pur mantenendo il diritto d’appello di fronte agli organi superiori fino al Congresso internazionale successivo.
V – Le sezioni nazionali devono versare ai fondi della Segreteria internazionale quote regolari (mensili o trimestrali) che sono destinate al funzionamento degli organi internazionali e saranno in proporzione al numero di membri.
VI – In ogni paese ci può essere una sola sezione, cioè una sola organizzazione in ogni paese può essere regolarmente affiliata alla Quarta Internazionale.
Le procedure e le misure pratiche per la formazione o il riconoscimento di nuove sezioni in paesi dove non esistono saranno stabilite dal Comitato esecutivo internazionale in ogni singolo caso e saranno sottoposte al Congresso Internazionale per la ratifica. La fusione fra un’organizzazione che si sta muovendo verso la Quarta Internazionale e una sezione nazionale può essere organizzata dalla Segreteria Internazionale e sottoposta alla decisione del Comitato esecutivo internazionale.
VII – L’organo supremo della Quarta Internazionale a livello mondiale è il Congresso Mondiale, che determina la politica dell’Internazionale e delle sue sezioni su tutte le questioni politiche importanti, adotta risoluzioni e decide in ultima istanza le questioni organizzative e i conflitti interni.
Il Congresso Internazionale deve essere convocato almeno ogni due anni. Normalmente sarà convocato dal Cei e sarà composto dai delegati, o dai loro rappresentati con mandato, di tutte le sezioni. Può essere convocato straordinariamente su richiesta di più di un terzo delle sezioni nazionali.
VIII – Durante gli intervalli fra un congresso e un altro, la direzione internazionale è affidata al Comitato esecutivo internazionale, composto da quindici membri appartenenti alle sezioni nazionali più importanti ed eletti dal congresso.
Il Cei si riunisce almeno una volta ogni tre mesi per esaminare il lavoro della SI e decidere sui problemi più importanti. Contro le decisioni della Si si può fare appello solo davanti al Cei o al Congresso internazionale. Il Cei può essere convocato straordinariamente per decisione della maggioranza della SI o su richiesta di almeno tre direzioni nazionali. Il Cei è responsabile di fronte a tutta l’Internazionale per l’esecuzione delle decisioni e l’applicazione della linea politica adottata dal Congresso.
IX – Una sezione nazionale può proporre la revoca o la sostituzione di un suo membro appartenente al Cei. Tale misura deve essere approvata dal voto della maggioranza dei membri del Cei.
X – Il lavoro amministrativo e politico quotidiano, come pure il collegamento regolare con le sezioni, è assicurato da una Segreteria Internazionale, composta da cinque membri che risiedono alla sede della Segreteria, scelti nella maggioranza fra i membri del Cei da parte dello stesso Cei.
La SI avrà almeno un membro a tempo pieno la cui attività sarà dedicata totalmente al lavoro della Si e il cui stipendio sarà garantito dai contributi delle sezioni. La Si pubblicherà un bollettino mensile regolare, almeno in francese, inglese e tedesco, in nome del Cei.
XI – I membri della SI possono essere sostituiti per decisione maggioritaria del Cei, che avrà anche il diritto di chiamare collaboratori qualificati al suo lavoro.
XII – Allo scopo di assicurare un collegamento migliore e una maggior coesione organizzativa e politica fra i paesi di continenti lontani dalla sede della SI, si provvede alla formazione di sub-segreterie, incaricate degli stessi compiti della Si ma sotto la sua giurisdizione. La formazione di queste sub-segreterie sarà decisa nei casi specifici per deliberazione del Congresso internazionale oppure, quando questo non è in seduta, dal Cei.
XIII – Il Cei ha il diritto, dopo l’esame e la consultazione con le parti interessate, di decidere l’espulsione di sezioni o di singoli membri della Quarta Internazionale. Le decisioni di espulsione hanno effetto immediato, sebbene le parti interessate conservino il diritto di appello di fronte al Congresso internazionale.
IV – Raggruppamenti e formazioni frazionistiche (28 novembre 1923)
di Lev Trotskij
Il problema dei raggruppamenti e delle frazioni ha occupato un posto centrale nella discussione. A questo proposito è necessario esprimersi con la massima chiarezza, perché si tratta di un problema molto acuto e impegnativo. Ed esso viene posto in modo del tutto falsato.
Noi siamo l’unico partito nel paese e non può essere altrimenti nel periodo della dittatura. Le diverse esigenze della classe operaia, dei contadini, dell’apparato statale cercano di trovare, attraverso di esso, un’espressione politica. Le difficoltà e le contraddizioni dello sviluppo, la temporanea sfasatura fra gli interessi di settori diversi del proletariato, o tra quelli del proletariato nel suo insieme e quelli dei contadini, esercitano una pressione sul partito, attraverso le cellule operaie e contadine, l’apparato statale, la gioventù studentesca. Anche disaccordi e sfumature diverse di opinione episodici e transitori esprimono una pressione di precisi interessi sociali, per quanto remoti essi possano essere; in certe circostanze, disaccordi episodici e temporanee aggregazioni di opinione possono trasformarsi in raggruppamenti stabili; ed a loro volta, questi ultimi possono prima o poi trasformarsi in frazioni organizzate. Infine, la frazione così costituita, contrapponendosi alle altre componenti del partito, è perciò sottoposta ancor più alle pressioni che provengono dal di fuori del partito. Questa è la dialettica dei raggruppamenti interni del partito nell’epoca in cui il partito comunista concentra necessariamente nelle proprie mani il monopolio della direzione della vita politica. A quale conclusione giungiamo? Se non si vogliono le frazioni, non ci devono essere raggruppamenti stabili; se non si vogliono raggruppamenti stabili, si debbono evitare i raggruppamenti temporanei, e per difendere il partito dal formarsi di raggruppamenti temporanei, è necessario che al suo interno non vi siano affatto dissensi, perché dove esistono due opinioni diverse, gli uomini tendono sempre a raggrupparsi. D’altro lato, come si possono evitare i dissensi in un partito di mezzo milione di iscritti, che dirige la vita del paese in condizioni eccezionalmente complesse e difficili? Questa è la contraddizione fondamentale, che affonda le sue radici nella stessa situazione in cui si trova il partito della dittatura proletaria e non ci si può sbarazzare di essa con metodi d’approccio puramente formali.
Quei sostenitori del vecchio corso che votano per la risoluzione del Comitato Centrale1, nella convinzione che tutto resterà immutato, hanno in mente un ragionamento di questo tipo: è bastato sollevare appena il coperchio dell’apparato sul partito, che subito si manifestano tendenze ad ogni tipo di raggruppamenti; bisogna richiuderlo subito ermeticamente. Decine di discorsi e di articoli “contro il frazionismo” sono imbevuti di una simile saggezza, tutt’altro che lungimirante. Questi compagni sono profondamente convinti in cuor loro che la risoluzione del CC sia o un errore politico che è necessario rendere inoffensivo, o uno stratagemma dell’apparato, di cui occorre valersi. La mia opinione è che essi compiano il più grossolano degli errori. E se c’è qualcosa che può portare una grandissima disorganizzazione nel partito è proprio il persistere caparbiamente nel vecchio corso, fingendo di accettare ossequiosamente il nuovo.
Le idee che costituiscono un patrimonio di tutto il partito si elaborano inevitabilmente tra contraddizioni e disaccordi. Limitare questo processo al solo apparato, consegnando poi al partito i frutti già maturi sotto forma di parole d’ordine, comandi ecc., significa infiacchire il partito idealmente e politicamente. Rendere tutto il partito partecipe dell’elaborazione delle decisioni significa andare verso la formazione di temporanei raggruppamenti ideali, con il rischio che questi si trasformino in raggruppamenti permanenti e persino in frazioni. Come fare allora? Non c’è dunque via d’uscita? Tra un regime di “bonaccia” ed un regime di spezzettamento frazionistico, non c’è dunque posto per la linea del partito? No, questa linea esiste, e tutto il compito della direzione interna del partito consiste nel ricercarla in ogni situazione, momento per momento, in accordo alle condizioni concrete, soprattutto quando si tratta di compiere una svolta. La risoluzione del CC dice con chiarezza che il regime burocratico nel partito è una delle fonti da cui scaturiscono i raggruppamenti frazionistici. Non credo che questa verità abbia bisogno oggi di essere dimostrata. Il vecchio corso era molto distante dalla democrazia “pienamente sviluppata”, eppure non solo non ha risparmiato al partito formazioni frazionistiche illegali, ma neanche l’esplosione di una discussione che è di per se stessa (sarebbe ridicolo chiudere gli occhi su ciò) gravida di potenziali raggruppamenti temporanei o duraturi. Per prevenire tutto questo, è necessario che gli organi dirigenti di partito prestino ascolto alla voce delle larghe masse del partito, che non considerino ogni critica una manifestazione di frazionismo e non spingano così i membri del partito sinceri e disciplinati verso la rigida chiusura in se stessi e verso il frazionismo. Ma porre in questo modo il problema non significa forse giustificare la “mjasnikovscina”2? – ci sembra di ascoltare dalla voce della sublime saggezza burocratica. Ma davvero?! Eppure, innanzitutto, tutta la frase da noi sottolineata è una citazione esatta tratta dalla risoluzione del CC. Ed in secondo luogo, da quando spiegare significa giustificare? Dire che un ascesso è l’effetto di una cattiva circolazione del sangue, la conseguenza di un’insufficiente immissione di ossigeno, non significa affatto “giustificare” l’ascesso e considerarlo come parte normale, costitutiva dell’organismo umano. La conclusione è una sola: bisogna aprire le finestre, perché l’aria fresca possa depurare meglio il sangue. Il fatto è che l’ala più combattiva del vecchio corso dell’apparato è profondamente convinta del carattere errato della risoluzione del CC, soprattutto di quella parte nella quale si dichiara il burocratismo una fonte di frazionismo. I partigiani del vecchio corso non lo dicono ad alta voce solo per considerazioni di forma, dato che in generale tutta la loro mentalità è imbevuta di formalismo, base ideale del burocratismo.
D’accordo. Le frazioni rappresentano un male grandissimo nelle condizioni in cui ci troviamo, ed i raggruppamenti, anche quelli temporanei, possono trasformarsi in frazioni. Ma l’esperienza dimostra che è del tutto insufficiente dichiarare dannosi i raggruppamenti e le frazioni, per eliminare la possibilità del loro sorgere. È necessaria una precisa politica, un giusto corso, per raggiungere in concreto questo risultato, conformandosi ogni volta alla situazione concreta.
Basta riflettere attentamente sulla storia del nostro partito, almeno sul periodo della rivoluzione (il periodo, cioè, in cui il frazionismo divenne particolarmente pericoloso) e apparirà chiaro che la lotta contro questo pericolo non fu limitata in nessun caso alla condanna ed al bando puramente formale dei raggruppamenti.
Il disaccordo più grave nel partito ebbe luogo a proposito del compito più alto posto dalla storia mondiale, il compito della conquista del potere nell’autunno del 1917. La gravità della situazione, mentre gli avvenimenti si succedevano con un ritmo incessante, quasi fin dall’inizio conferì ai dissensi un carattere acutamente frazionistico: coloro che si opponevano alla presa del potere si trovarono di fatto, pur senza volerlo, a far blocco con elementi non appartenenti al partito, a pubblicare le loro dichiarazioni sulle pagine della stampa non di partito, ecc. L’unità del partito si reggeva sul filo di un rasoio. Come si riuscì ad evitare una scissione? Solo in conseguenza del rapido evolversi degli avvenimenti e del loro epilogo vittorioso. La scissione sarebbe stata inevitabile se gli avvenimenti si fossero protratti per qualche mese e soprattutto se l’insurrezione si fosse conclusa con una sconfitta. Il partito, diretto con fermezza dalla maggioranza del CC, superò d’assalto le esitazioni dell’opposizione; il potere risultò conquistato nei fatti e l’opposizione, numericamente insignificante, ma altamente qualificata sul piano politico, si pose sul terreno dell’Ottobre.3 Il frazionismo e la minaccia di una scissione furono allora vinti non con richiami formali allo statuto, ma dall’azione rivoluzionaria.
Il secondo grande disaccordo sorse con la questione della pace di Brest-Litovsk.4 I sostenitori della guerra rivoluzionaria si costituirono in una frazione vera e propria, con un proprio organo centrale. Non so quale fondamento abbia l’aneddoto diffuso di recente, che Bucharin fosse quasi sul punto di arrestare il governo del compagno Lenin. In linea di massima, mi pare che l’intera vicenda sia più simile ad una brutta avventura, alla storia di un… Pinkerton comunista. Si suppone che l’Istituto di Storia del Partito stabilirà la verità. È tuttavia indubbio che l’esistenza della frazione comunista di sinistra rappresentava un pericolo straordinario per l’unità del partito. A quel tempo, giungere fino alla scissione non sarebbe stato molto difficile e non avrebbe richiesto da parte della direzione… una grande intelligenza: sarebbe bastato semplicemente vietare la frazione comunista di sinistra. Ma il partito adottò metodi più complessi: quelli della discussione, del chiarimento, della verifica sulla base dell’esperienza politica, accettando temporaneamente un fenomeno così anormale e pericoloso quale l’esistenza di una frazione organizzata al suo interno.
Sui problemi della costruzione dell’esercito5 abbiamo avuto nel partito un raggruppamento piuttosto forte e tenace. In sostanza, questa opposizione era contraria alla costruzione di un esercito regolare, con tutte le relative conseguenze: un apparato militare centralizzato, il reclutamento di specialisti, ecc. In certi momenti la lotta assunse un carattere di estrema acutezza. Ma anche qui, come nell’Ottobre, intervenne la verifica delle armi. Alcune goffaggini ed esagerazioni della politica militare ufficiale furono attutite, non senza che l’opposizione influisse in tal senso, e senza danni, anzi col vantaggio della costruzione centralizzata di un esercito regolare. La stessa opposizione fu poi gradualmente riassorbita. Un grandissimo numero di suoi rappresentanti non solo furono chiamati a lavorare per l’esercito, ma vi occuparono posti di responsabilità.
Alcuni raggruppamenti si manifestarono con durezza nel periodo della memorabile discussione sui sindacati.6 Oggi che abbiamo la possibilità di guardare a quest’epoca nel suo complesso e possiamo considerarla alla luce di tutta l’esperienza successiva, è diventato assolutamente chiaro che il contrasto non verteva affatto né sui sindacati, né persino sulla democrazia operaia: attraverso questi contrasti cercava di esprimersi un profondo stato di malessere del partito, causato dal protrarsi eccessivo del regime economico del comunismo di guerra. Tutto l’organismo economico del paese si trovava nella morsa di una situazione senza vie d’uscita. Sotto l’apparenza di una discussione che formalmente riguardava il ruolo dei sindacati e la democrazia operaia aveva luogo, per una via indiretta, la ricerca di nuovi orientamenti in campo economico. Una reale via di uscita fu aperta con la liquidazione del metodo delle requisizioni alimentari e del monopolio del grano e liberando l’industria dalla morsa della glavkokratija.7 Queste decisioni storiche furono approvate all’unanimità e finirono col coprire del tutto la discussione sui sindacati, tanto più che sulla base della NEP8 lo stesso ruolo dei sindacati fu posto in una luce del tutto diversa e fu necessario mutare radicalmente la risoluzione sui sindacati dopo alcuni mesi.
Il gruppo dell’«Opposizione Operaia»9 ha avuto un carattere più duraturo e per alcuni suoi aspetti estremamente pericoloso. In esso trovarono un’espressione distorta le contraddizioni del comunismo di guerra, alcuni errori del partito, come pure fondamentali difficoltà oggettive dell’edificazione socialista. Anche in questo caso non ci si limitò ad un divieto puramente formale. Per quanto riguarda la democrazia del partito, furono prese decisioni formali; ma per quanto riguarda l’epurazione del partito, i passi compiuti furono effettivi, estremamente importanti, nella direzione di quanto vi era di giusto e di sano nella critica e nelle richieste dell’«Opposizione Operaia».10 La cosa più importante è che al X Congresso del partito la proibizione formale di costruire frazioni fu resa possibile, cioè in grado di produrre risultati reali, grazie al fatto che, con le proprie decisioni e misure economiche di eccezionale importanza il partito fece sparire in tutti i loro aspetti essenziali e di fondo i dissensi ed i raggruppamenti che si erano manifestati. Ma è ovvio – sia l’esperienza del passato che un corretto ragionamento politico lo testimoniano – che il solo divieto non comportava la minima seria garanzia che il partito sarebbe stato preservato da nuovi raggruppamenti ideali ed organizzativi. La garanzia essenziale è una direzione giusta, una tempestiva attenzione verso tutte le esigenze dello sviluppo che si rifrangono attraverso il partito; una struttura agile del suo apparato, che non paralizzi ma organizzi l’iniziativa del partito, non si spaventi delle voci di critica e non incuta terrore agitando lo spettro del frazionismo: molto spesso il terrore che si cerca di incutere negli altri è il prodotto della propria paura! La deliberazione del X Congresso che proibisce il frazionismo può avere un carattere solo ausiliario, ma non dà di per sé la soluzione di tutte le difficoltà interne di ogni tipo. Sarebbe feticismo organizzativo del più grossolano pensare che, di per sé, la sola deliberazione – indipendentemente dal corso di sviluppo del partito, dagli errori della direzione, dallo spirito conservatore dell’apparato, dalle influenze esterne, ecc. – sia in grado di respingere da noi i raggruppamenti e i traumi frazionistici. Un simile approccio al problema è già indice di una burocratizzazione profonda.
La storia dell’organizzazione di Pietrogrado offre l’esempio più chiaro di quanto si è detto. Subito dopo il X Congresso, che aveva proibito i raggruppamenti e le formazioni frazionistiche, un’aspra lotta organizzativa divampò a Pietrogrado, portando a due raggruppamenti rigidamente contrapposti. Sarebbe stato facilissimo, a prima vista, dichiarare uno dei due raggruppamenti (almeno uno) dannoso, criminale, frazionista ecc. Ma il CC rifiutò categoricamente un simile metodo, che gli era stato proposto da Pietrogrado. Il CC si addossò il compito di effettuare una mediazione diretta fra i due raggruppamenti ed infine – per la verità, non subito – assicurò non solo la loro collaborazione, ma anche il loro scioglimento nell’organizzazione. Sarebbe bene non dimenticare questo esempio di straordinaria importanza: esso è veramente insostituibile per rischiarare le idee in testa a qualsiasi burocrate.
Abbiamo già detto che nel partito ogni raggruppamento di una certa serietà e stabilità, tanto più una frazione organizzata, tende a diventare espressione di interessi sociali particolari. Ogni deviazione errata che stia alla base di un raggruppamento può diventare, nel corso del proprio sviluppo, l’espressione degli interessi di una classe del tutto o in parte ostile al proletariato. Ma tutto ciò concerne interamente, ed anzi in primo luogo, il burocratismo. Bisogna partire da qui. Che il burocratismo sia una deviazione errata e malsana è, vogliamo sperare, un fatto indiscutibile. Se è così, esso minaccia persino di far deviare il partito dalla via giusta, cioè di classe, nel corso del suo sviluppo. Qui risiede la sua pericolosità. Ma è straordinariamente istruttivo e al tempo stesso molto preoccupante che i compagni, i quali con maggiore risolutezza, insistenza e talvolta rozzezza sottolineano che ogni disaccordo, ogni raggruppamento, anche se temporaneo, rappresenta l’espressione di interessi di classi diverse, non vogliano applicare lo stesso criterio al burocratismo. Tanto più che in questo caso il criterio sociale è più appropriato che altrove, poiché nel burocratismo abbiamo un male ben definito, una deviazione evidente ed indiscutibilmente dannosa, ufficialmente condannata, ma non eliminata affatto. E come eliminarla dall’oggi al domani! Ma se il burocratismo, come dice la risoluzione del CC, minaccia di staccare il partito dalle masse e di indebolire di conseguenza la natura di classe del partito, ne deriva che la lotta contro il burocratismo non può essere identificata aprioristicamente con influenze non proletarie. Al contrario, lo sforzo del partito per conservare la propria natura proletaria deve inevitabilmente far sorgere al suo stesso interno tentativi di resistenza al burocratismo. È chiaro che sotto la bandiera di questa resistenza possono prendere corpo tendenze diverse e tra queste alcune errate, malsane, dannose. Queste tendenze dannose possono essere scoperte solo con un’analisi marxista del loro contenuto ideale. Ma definire la resistenza al burocratismo, in modo puramente formale, come un raggruppamento che servirebbe da canale per influenze estranee, significa essere proprio il “canale” più evidente delle influenze burocratiche.
Non si deve tuttavia interpretare in modo troppo semplificato e rozzo la stessa affermazione che i disaccordi, e tanto più i raggruppamenti nel partito, significhino lotta di influenze sociali diverse. Ad esempio, sulla questione se fosse necessario nel 1920 sondare la Polonia a colpi di baionetta,11 avemmo disaccordi passeggeri. Alcuni si dichiararono per una politica più audace, altri per una più cauta. Erano forse tendenze di classi diverse? È difficile che qualcuno si azzardi ad affermarlo. Si trattava di disaccordi sulla valutazione della situazione, delle forze, dei mezzi. Ma il criterio fondamentale di giudizio delle due parti era il medesimo. I disaccordi sorsero su quale via fosse la migliore, la più breve, la più conveniente. Questo tipo di disaccordi può, a seconda della natura del problema, abbracciare vasti circoli del partito, ma questo non significherà necessariamente che abbia luogo una lotta tra due tendenze sociali. Non si può dubitare che ciò accadrà ancora e più di una volta, come nel passato è accaduto decine di volte, perché il cammino che ci sta dinanzi è difficile e non solo i compiti politici, ma anche le questioni, diciamo, economico-organizzative dell’edificazione socialista creeranno disaccordi e temporanei raggruppamenti di opinione. La verifica politica di ogni impostazione attraverso l’analisi marxista resta sempre, per il nostro partito, una necessaria misura preventiva: ma purché sia una verifica realmente concreta e non un modello inerte, un’arma per l’autodifesa del burocratismo. Verificare e filtrare i contenuti ideali e politici eterogenei che oggi intervengono contro il burocratismo, togliendone tutto quanto vi è di estraneo e di dannoso, sarà possibile con tanto maggior successo, quanto più seriamente ci porremo sulla via del nuovo corso. E questo non è a sua volta realizzabile senza una seria svolta nello stato d’animo e nelle condizioni di salute dell’apparato di partito. Assistiamo, al contrario, ad un nuovo attacco dell’apparato, che respinge senza possibilità di appello ogni critica al vecchio corso, formalmente condannato ma ancora non liquidato, attribuendola a spirito di frazione. Se lo spirito di frazione è pericoloso – ed è proprio così – diventa allora delittuoso chiudere gli occhi sul pericolo dello spirito di frazione della burocrazia conservatrice. Proprio contro questo pericolo è diretta, in primo luogo, la risoluzione del CC adottata all’unanimità.
L’unità del partito è la preoccupazione principale e che più sta a cuore alla schiacciante maggioranza dei compagni. Ma qui è necessario dire chiaramente: se oggi esiste un serio pericolo per l’unità, o almeno per la concordia del partito, questo è il burocratismo senza limiti. Proprio da questo campo risuonano voci che non è possibile chiamare altrimenti se non provocatrici. Proprio di lì si è giunti a dire: non abbiamo paura di una scissione! Sono i rappresentanti di questo campo che frugano nel passato per cercarvi tutto ciò che può introdurre più asprezza nella discussione del partito, rinnovando artificiosamente i ricordi di una vecchia lotta e di vecchie scissioni, per assuefare il partito, in modo inavvertito e graduale, alla possibilità di un crimine così mostruoso e suicida come una nuova scissione. Si cerca di contrapporre l’esigenza di unità del partito a quella di un regime meno burocratico. Se il partito si ponesse su questa strada e sacrificasse gli elementi vitali più necessari della propria democrazia, non otterrebbe altro che l’inasprimento della lotta interna e lo scuotimento delle proprie giunture fondamentali. Non si deve richiedere al partito, in modo ultimativo ed unilaterale, di avere fiducia nell’apparato, quando non si ha fiducia nello stesso partito. Qui è la sostanza della questione. La preconcetta sfiducia burocratica nel partito, nella sua consapevolezza e spirito di disciplina, è la ragione principale di tutti i mali del regime d’apparato. Il partito non vuole le frazioni e non le permetterà. È mostruoso pensare che il partito intenda distruggere o consenta che il suo apparato sia distrutto. Esso sa che fanno parte dell’apparato gli elementi più preziosi, nei quali si incarna una parte enorme dell’esperienza passata. Ma il partito vuole rinnovare l’apparato e gli ricorda che è il suo apparato, da esso eletto e che non se ne deve staccare.
Se si riflette fino in fondo sulla situazione venutasi a creare nel partito, in particolare quale è emersa nel corso della discussione, diventa del tutto chiara la duplice prospettiva dello sviluppo futuro. O il processo di aggregazione ideale ed organizzativa oggi in corso nel partito, sulla base della risoluzione del CC sarà realmente un passo avanti sulla via di una crescita organica del partito, l’inizio (certamente, solo l’inizio) di un nuovo grande capitolo; e questo è l’esito più auspicabile per tutti noi ed il più salutare per il partito. In questo caso esso avrà facilmente ragione degli eccessi della discussione e dell’opposizione, tanto più delle tendenze democratiche volgari. Oppure l’apparato di partito, passando al contrattacco, cadrà in misura più o meno maggiore, sotto l’influenza di propri elementi più conservatori e sotto la parola d’ordine della lotta allo spirito di frazione rigetterà di nuovo il partito sulle posizioni di “bonaccia” del passato. Questa seconda eventualità sarebbe incomparabilmente più dannosa; non impedirebbe naturalmente lo sviluppo del partito, ma costringerà a pagarlo con sforzi e traumi maggiori, perché darà eccessivo alimento alle tendenze dannose, disgregatrici, antipartito. Queste sono le possibilità che si aprono ad un esame oggettivo. Il senso della mia lettera “Nuovo corso” era quello di aiutare il partito a prendere la prima strada, in quanto la meno costosa e la più sana. Ed io continuo a sostenere pienamente le posizioni espresse in quella lettera, facendone notare le interpretazioni tendenziose e false.
Note
1. In questo punto, come oltre, Trotskij si riferisce erroneamente alla risoluzione del 5 dicembre approvata dal Politbjuro come adottata dal Comitato Centrale; essa verrà formalmente approvata dal CC, riunitosi in seduta plenaria, solo il 15 gennaio 1924. Il dibattito intorno a questa risoluzione e la presa di posizione di Trotskij fecero scattare, per la prima volta a livello pubblico, una isterica reazione da parte della “Troika” (Stalin, Zinoviev e Kamenev) cristallizzatasi dopo la morte di Lenin ai massimi vertici del partito. I tre lanciarono contro Trotskij una vera e propria campagna di distorsioni e falsificazioni della storia del bolscevismo, tese a dimostrare l’esistenza di una concezione “trotskista” antitetica al “leninismo”.
2. Mjasnikovscina, termine coniato dal nome di Mjasnikov, operaio di Perm dirigente del «Gruppo Operaio», uno dei gruppi clandestini formatisi dopo la temporanea proibizione delle frazioni sancita dal X Congresso. Mjasnikov era stato espulso dal partito nel febbraio 1922 per aver reclamato “libertà di stampa per tutti, dagli anarchici fino ai monarchici”.
3. È un chiaro riferimento alla defezione di Zinoviev e Kamenev nell’ottobre 1917. Si tratta degli avvenimenti immediatamente precedenti all’insurrezione. Zinoviev e Kamenev si schierarono contro la decisione dell’ampia maggioranza della direzione bolscevica di passare alla fase dell’insurrezione armata. Kamenev espresse pubblicamente questo dissenso intervenendo, anche a nome di Zinoviev, sulla «Novaja Zizn», una rivista esterna al partito.
4. Brest-Litovsk è la cittadina ove fu firmato il trattato di pace tra Germania e Russia nel marzo 1918. Nella discussione sulla pace di Brest-Litovsk il CC bolscevico si spaccò. Lenin era per la firma immediata della pace in base alle dure condizioni indicate dalla Germania. Trotskij si pronunciò inizialmente per la formula «né pace né guerra» volta a guadagnare tempo nella speranza dello scoppio della rivoluzione tedesca; poco dopo, quando iniziò l’offensiva tedesca, Trotskij si astenne nel CC del 23 febbraio 1918, permettendo così alla posizione di Lenin di avere la maggioranza. La posizione di Bucharin, Urickij, Lomov e Bubnov era quella di organizzare una guerra rivoluzionaria contro la Germania. Questo settore, che si autodefiniva «comunista di sinistra», arrivò a pubblicare tra marzo e giugno del 1918 un quotidiano, il «Kommunist», stampato prima a Pietrogrado e poi a Mosca.
5. L’«opposizione militare» si manifestò alla fine del 1918 e culminò nel marzo 1919 nel dibattito dell’VIII congresso sul problema dell’utilizzo degli specialisti militari. Vide schierati contro Trotskij un fronte eterogeneo e con motivazioni diverse che andava da V. Smirnov al «gruppo di Caricyn», con Ordzonikidze e Vorosilov, che faceva capo a Stalin.
6. La discussione sul ruolo dei sindacati, della loro organizzazione e del loro ruolo nella ricostruzione dell’economia sovietica, iniziatasi col IX congresso (marzo 1920) si concluse al X (marzo 1921) con la netta prevalenza della posizione di Lenin, sostenuto da Zinoviev, Tomskij e, tra gli altri, Stalin (336 voti), su quella di Trotskij e Bucharin (50 voti) e dell’«Opposizione operaia» (18 voti).
7. Glavkokratija: tirannia delle amministrazioni economiche centrali (o glavki).
8. La Nuova politica economica (Nep – Nóvaja economíceskaja polítika), fu adottata nel marzo 1921 dal X congresso del Partito comunista.
9. Si riferisce al noto gruppo oppositore, guidato da Sljapnikov, Kollontaj e Medvedev, che ebbe una parte di primo piano nella discussione sui sindacati del 1921, cui partecipò con una propria piattaforma. Una risoluzione proposta da Lenin e votata al X Congresso del partito condannò il gruppo come una “deviazione anarco-sindacalista” e dichiarò la propaganda delle sue idee incompatibile con l’appartenenza alle file del partito.
10. La proposta di un’epurazione anti-burocratica all’interno del partito, presente nella piattaforma dell’Opposizione Operaia al X Congresso, fu accolta nella risoluzione del medesimo congresso intitolata Questioni di costruzione del partito.
11. La campagna di Polonia della primavera-estate 1920 – sostenuta da Lenin, Zinoviev e dalla maggioranza del CC – si concluse con la sconfitta dell’Armata rossa nella battaglia della Vistola ed alle porte di Varsavia. Trotskij era contrario all’inizio della campagna. Ciononostante, Stalin, nelle polemiche seguenti, utilizzò la sconfitta sia per renderlo responsabile della disfatta – come se ne fosse stato partigiano – sia per criticarne l’opposizione.