Rivoluzione n° 59
2 Luglio 2019Sciopero generale? È ora di fare sul serio!
4 Luglio 2019Mettiamo a disposizione dei nostri lettori questa serie di articoli scritti da Fred Weston nei primi anni ’90, che ripercorrono la storia del sindacato in Italia. Il periodo preso in considerazione va dagli albori del movimento sindacale alla fine dell’800 e, passando per il ventennio fascista e l’Autunno Caldo, arriva fino alla fine degli anni ’70, con l’inizio del periodo di riflusso alla vigilia della storica sconfitta alla Fiat del 1980. Siamo convinti che conoscere l’esperienza storica del movimento operaio italiano, possa aiutarci a comprendere quali sono oggi le prospettive per la lotta di classe nel nostro paese.
La redazione
di Fred Weston
I – LA NASCITA DELLA CGIL
Le prime organizzazioni di tipo sindacale furono le Società di Mutuo Soccorso nell’800. Queste erano in gran parte dominate dai Repubblicani mazziniani, i quali rifiutavano il concetto di lotta di classe. Al massimo lo sciopero poteva essere considerato per fare qualche pressione sui padroni, ma in generale essi puntavano sulla collaborazione tra le parti. Tuttavia, man mano che si sviluppava l’industria e con essa la classe operaia, diventava sempre più palese il limite di questo tipo di organizzazione. Con lo sviluppo del Partito socialista nacque una coscienza sindacale più avanzata, e così cominciarono a svilupparsi le Federazioni di categoria. Alcune sorsero negli anni ’90 dell’ultimo secolo, ma la gran parte nacque nel periodo 1900-1904; la più importante, la Fiom (metallurgici), fu fondata nel 1901. Inizialmente queste “federazioni” organizzavano una piccola minoranza dei lavoratori, non più del 5-10 per cento, con qualche eccezione come i ferrovieri, che raggiungevano il 56 per cento di sindacalizzati.
Lotte spontanee
Furono le lotte dei lavoratori a rafforzare il sindacato. Le prime lotte nel 1901 furono in gran parte “spontanee”. I lavoratori organizzavano assemblee dove eleggevano una rappresentanza operaia per andare a trattare coi padroni. Queste “commissioni” rimanevano in piedi per tutta la durata dello sciopero. Nel 1901 tre quarti dei lavoratori che partecipavano a scioperi non erano “organizzati”, cioè non erano guidati dai sindacati.
E, anche nei casi di scioperi “organizzati”, i sindacati spesso intervenivano in scioperi già nati spontaneamente.
Ben presto nacque l’esigenza di una rappresentanza interna permanente per garantire il rispetto degli accordi strappati durante gli scioperi. I padroni inizialmente rifiutarono l’idea di un qualche potere dei lavoratori nelle fabbriche, ma nel 1902, per esempio, alla Pirelli di Milano i lavoratori ottennero il riconoscimento di una “commissione interna”, composta da nove delegati ed eletta da tutti, iscritti e non iscritti al sindacato.
Molti degli scioperi riuscivano a strappare concessioni importanti. I padroni furono colti di sorpresa dalla forza del movimento. Con l’esperienza però, i lavoratori sentivano sempre di più l’esigenza dell’organizzazione sindacale.
I padroni cominciarono ad organizzarsi per affrontare gli scioperi e ci fu la necessità di generalizzare le lotte. Infatti cominciarono a nascere le associazioni di industriali a livello provinciale, fino alla fondazione della Confindustria nel 1910. Così vediamo che, già nel 1904, ormai tre quarti degli scioperanti partecipavano a scioperi organizzati dai sindacati.
Questo processo porterà la Fiom a promuovere la formazione di una “Confederazione”, e così nel 1906 nacque la Cgl, che univa tutte le Federazioni di categoria in un’unica struttura.
Il fatto che fossero appena nate non significava che queste organizzazioni sindacali fossero in qualche modo “rivoluzionarie”. Al contrario, nella maggior parte dei casi erano guidate dai “riformisti”, l’ala destra del Psi. Fra questi spiccavano uomini come Buozzi e D’Aragona.
Era l’epoca giolittiana. Il capitalismo italiano era un capitalismo “giovane”. La borghesia italiana stava cercando di conquistarsi uno spazio in un mercato mondiale già dominato dall’imperialismo britannico e francese, e in parte da quello tedesco. Questo significava che, pur essendoci un boom economico, la borghesia non poteva permettersi di concedere riforme a favore dei lavoratori. La politica di Giolitti comportava una collaborazione con i riformisti del Psi.
Questi ultimi usavano la loro influenza nelle Federazioni per moderare le lotte dei lavoratori. Non a caso Gramsci disse che in quel periodo il riformismo aveva agito alla stregua di “strumento della politica giolittiana”, e questo negli anni 1901-05, anni in cui la polizia sparando sulle manifestazioni operaie uccideva ben 48 lavoratori e ne feriva 432!
Anche se non si usava questo termine, esisteva già il concetto di “compatibilità”, cioè che le rivendicazioni operaie dovessero essere “compatibili” con le esigenze delle aziende. A. Schiavi nel 1902, su Critica Sociale, scriveva che:
“Si impone un esame delle condizioni generali dell’industria e della produzione prima di avanzare domande e suscitare scioperi che potrebbero produrre danni oltrepassanti i limiti dell’industria alla quale sono applicati”.
Sin dalla sua nascita la Cgl era composta da diverse componenti, che andavano dalla destra del Psi (che era in maggioranza) fino ai “sindacalisti rivoluzionari” (anarchici). Al congresso di fondazione nel 1906, questi ultimi chiesero che la decisione di formare una Confederazione venisse messa al voto in un referendum fra tutte le organizzazioni sindacali. La proposta fu sconfitta e così abbandonarono il congresso in protesta.
Prima della nascita delle Federazioni e della Cgl, esistevano le Camere del lavoro. Queste erano strutture territoriali che univano le varie organizzazioni operaie a livello locale, incluse in molti casi anche le organizzazioni bracciantili e contadine. I sindacalisti rivoluzionari erano maggioritari in alcune di queste, ma complessivamente erano in minoranza. Alla Cgl aderivano tutte queste strutture. Per sei anni i “sindacalisti rivoluzionari” rimasero dentro la Cgl, indecisi tra la tendenza a conquistare la Cgl dall’interno e quella di fondare un proprio sindacato. Finché rimasero dentro, riuscirono a dare voce a molto dissenso di base nel sindacato. Ma nel 1912 si decisero per la scissione e fondarono l’Unione sindacale italiana (Usi), che però non superò gli 80mila iscritti. Al momento della scissione le federazioni dei marittimi e dei portuali decisero di uscire dalla Cgl, ma non aderirono all’Usi. Così dalla scissione i sindacalisti rivoluzionari ricavarono ben pochi vantaggi. Da una parte contribuirono ad una frantumazione delle forze sindacali, e dall’altra isolarono una parte dei lavoratori avanzati dalla massa.
Nei primi anni di vita delle Federazioni e poi della Cgl, i dirigenti riformisti rifiutavano i concetti di scioperi di solidarietà e di sciopero generale. L’ironia della sorte per l’Usi fu che, nel 1913, poco dopo la scissione, venne indetto uno sciopero generale a Torino dalla Cgl guidato da Buozzi. La realtà s’imponeva ai dirigenti della Cgl. Più cresceva l’organizzazione tra i lavoratori e più i dirigenti sindacali erano costretti a mettersi alla guida delle lotte.
I risultati della scissione
Il fatto di essersi staccati dalla Cgl metteva in difficoltà i dirigenti dell’Usi. I lavoratori avevano un forte istinto per l’unità, che nasceva dalle loro esperienze nelle lotte contro i padroni. Fu proprio da questo che nacquero le Federazioni e la Cgl stessa. Questa decisione di scindersi sarà determinante nell’isolamento dell’Usi nel periodo 1918-20. La Cgl passò dai 250mila iscritti del 1918 ai 2.150.000 del 1920; l’Usi, pur raggiungendo i 300mila iscritti, non fu mai in grado di esercitare un’influenza decisiva sul movimento, limitando il suo peso ad alcune aree limitate.
La direzione della Cgl rimase in mano ai riformisti. Questi, indisturbati dai “sindacalisti rivoluzionari” dell’Usi, poterono giocare un ruolo tragico per il movimento operaio italiano nel 1920, durante l’occupazione delle fabbriche. Su questo torneremo più avanti; qui possiamo trarre alcune conclusioni. Il movimento spontaneo del 1901-05 portò alla crescita e al rafforzamento delle Federazioni e poi alla nascita della stessa Cgl nel 1906. Una volta costruita, la Cgl diventò l’organizzazione sindacale tradizionale dei lavoratori italiani. L’esperienza ha dimostrato però che non è sufficiente l’organizzazione, ma ci vogliono anche dirigenti con un programma capace di trasformare la società. l riformisti questo non l’avevano. Si limitavano a chiedere quello che era possibile sotto il capitalismo. Nonostante questo l’Usi non riuscì a diventare un’alternativa alla Cgl. Quest’esperienza è preziosa per gli attuali attivisti sindacali che stanno pensando ad una scissione. Ottant’anni dopo stiamo a discutere gli stessi problemi. Come disse Gramsci, “la storia è una maestra senza discepoli”. Tocca a noi imparare dalla storia per non ripeterla.
II – 1909-13: SCONFITTA E SCISSIONE
La nascita della Cgl nel 1906 rappresentò la conclusione logica di un processo iniziato anni prima con la formazione delle Federazioni di categoria. Entro sei anni, nel 1912, ci fu la prima scissione, con la nascita dell’Usi (Unione sindacale italiana).
Negli anni 1896-1907 ci fu un ciclo d’investimenti che portò ad un’espansione dell’industria italiana. Questo comportò anche la crescita della classe operaia. Di conseguenza gli investimenti dei capitalisti furono accompagnati da una conflittualità operaia persistente.
Nel periodo 1909-1913 ci furono un calo degli investimenti e un periodo prolungato di recessione, che portarono ad una contrazione secca dell’occupazione; iniziò così una decisa e capillare offensiva padronale, con l’introduzione di sistemi intensivi di sfruttamento e col rifiuto globale di qualsiasi rivendicazione operaia. Parte di questa strategia fu la formazione della Confindustria nel 1910. Era la risposta organizzata dei padroni alle organizzazioni operaie.
I padroni, prima di passare a un nuovo ciclo di investimenti, volevano sfruttare la recessione; il loro obiettivo era ridurre la conflittualità dei lavoratori. Questo poteva essere raggiunto soltanto passando per una sconfitta generale della classe operaia.
Nasce l’Usi
In tutte le grandi lotte a partire dal 1910 i padroni andarono allo scontro diretto e risolutivo, arrivando fino alla serrata di interi settori o città. Ci fu una resistenza ampia e generalizzata, ma la sconfitta fu netta.
Il vertice della Cgl non fu in grado di sviluppare una strategia per affrontare l’offensiva padronale. Nel 1910 ci fu la sconfitta degli edili, seguita da quella dei vetrai nel 1911 e dei lavoratori automobilistici nel 1912.
In queste condizioni nacque l’Usi (Unione sindacale italiana), una scissione dalla Cgl guidata dai “sindacalisti rivoluzionari”. Questi erano nati come corrente nel Psi dopo il congresso di Imola del 1902. Nel 1904 ottennero la maggioranza insieme alla corrente “rivoluzionaria” di Ferri. La corrente “sindacalista rivoluzionaria” era l’espressione politica della radicalizzazione dei lavoratori nelle lotte dei primi anni del secolo. Questa corrente di sinistra per un breve periodo era riuscita a guadagnare l’appoggio di diverse federazioni provinciali del Psi e della federazione giovanile. Purtroppo la corrente sviluppò la teoria che negava la necessità per i lavoratori “di un partito politico distinto dalle organizzazioni di mestiere.”
La loro teoria portò i “sindacalisti rivoluzionari” a diventare una piccola minoranza. Nel 1906, al congresso di Roma del Psi, ottennero solo il 15%. Nel luglio 1907 si decisero per l’uscita dal partito, perché composto di persone “che non rispondono agli interessi di classe.” Nel novembre dello stesso anno decisero di uscire anche dalla Cgl, e l’anno dopo furono espulsi dal Psi.
Frattura tra operai e Cgl
Di fronte alle difficoltà incontrate stando fuori dalla Cgl, i “sindacalisti rivoluzionari” decisero di rientrarvi nel 1909, per poi uscirne definitivamente nel 1912. Alla nuova organizzazione aderì anche un certo numero di esponenti anarchici, tra cui Armando Borghi, che ne diventò presto uno dei massimi dirigenti.
Nel periodo 1912-13 si era venuta a creare una vera e propria frattura tra la Cgil e le masse in movimento, proprio nel momento in cui la radicalizzazione e lo scontro erano giunti al loro culmine. La Cgl toccò il punto più basso della sua crisi nei suoi rapporti con le lotte operaie e con il movimento operaio nel suo complesso. Si sottrasse alla direzione dello sciopero generale dell’estate del 1913, lo sconfessò e fu costretta ad assistere a quell’estremo tentativo di risposta operaia, venendo attaccata ferocemente dagli operai e dalle altre forze sindacali. L’offensiva padronale aveva logorato il controllo burocratico di massa su cui si era costruito il potere e il ruolo della Cgl: la pesante sconfitta del movimento ne coinvolgeva le strutture stesse. L’Usi aveva diretto le principali agitazioni operaie ed aveva proclamato lo sciopero generale nazionale, ma fu la Cgl a dichiararne la cessazione.
In queste condizioni si sviluppò un’opposizione interna alla Cgl. Il direttivo nazionale non riusciva, per esempio, a imporre alla Camera del lavoro di Milano e ad altre la propria disciplina. Durante lo sciopero generale, la Camera del lavoro milanese si era sforzata per mantenere l’unità dei lavoratori, subordinando a questa, entro certi limiti, i dissensi con l’Usi. La Camera del lavoro di Milano si scontrò duramente con il vertice nazionale, diventando così un polo alternativo nel movimento. Dopo lo sciopero, la Cdl di Milano convocò un convegno di tutte le forze sindacali confederali che non avevano condiviso il comportamento del gruppo dirigente riformista. Numerose Camere del lavoro vi parteciparono. Due punti furono posti al centro del convegno: la riunificazione della classe operaia, la cui assenza era stata all’origine della sconfitta dello sciopero generale, e il problema della disoccupazione, a cui la Cgl non era riuscita a dare un’adeguata soluzione.
Si sviluppa l’opposizione
Su questi due punti si formò una consistente opposizione interna alla Cgl, che metteva sotto accusa “l’indirizzo politico e programmatico e la legittimità stessa dei dirigenti nazionali.”
All’inizio del 1914 si accentuò la scollatura tra i vertici nazionali della Cgl e i lavoratori. Molte Camere del lavoro, come quella di Roma, si erano sottratte alla disciplina confederale e avevano guidato lotte e scioperi generali, apertamente osteggiate e sconfessate dalla direzione nazionale della Cgl. Al congresso della Cgl a Mantova, nel 1914, fu presentato un documento alternativo, dove si legge che:
“La pratica dell’organizzazione non è riassunta da una serie di riforme, ma è invece ispirata ai criteri finalistici del movimento operaio rivoluzionario, che negli scioperi generali rappresentano la massima sintesi finale del movimento operaio.”
Questo sviluppo fu interrotto dall’entrata in guerra dell’Italia. Il movimento operaio si sarebbe ripreso solo verso la fine della guerra, che poi portò alla grandiosa occupazione delle fabbriche nel 1920. Qui però ci fermeremo all’esperienza del 1910-14. L’offensiva padronale mise a nudo il vertice della Cgl. Dopo le sconfitte del 1910-12, i “sindacalisti rivoluzionari” decisero che era necessario un nuovo sindacato. Così, una parte importante dei militanti della Cgl fu separata dalla massa dei lavoratori organizzati. Dopo lo sciopero generale del 1913 si sviluppò un’opposizione interna alla Cgl. Questo fatto storico è la dimostrazione lampante che anche nel sindacato più burocratico può formarsi un’opposizione.
Non basta essere arrabbiati, bisogna anche avere una prospettiva. Gli “arrabbiati” del 1912 se ne andarono senza pensare che, dopo di loro, molti dentro la Cgl sarebbero passati all’opposizione. Se i “sindacalisti rivoluzionari” fossero rimasti all’interno del sindacato, organizzati come componente di opposizione, avrebbero potuto giocare un ruolo importante nel trasformare la Cgl. Uscirne non servì a costruire né un’alternativa alla Cgl, né l’unità dei lavoratori.
III – DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE ALLA NASCITA DEI CONSIGLI
Prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, si era venuto a creare un grosso distacco tra il gruppo dirigente della Cgl e i lavoratori. I dirigenti avevano sconfessato lo sciopero generale del 1913, e si erano impegnati a limitare il movimento pre-insurrezionale che si era venuto a creare dopo che la polizia aveva sparato sui lavoratori in piazza ad Ancona, nel 1914. Quel movimento entrò nella storia come la “settimana rossa”. Rigola, l’allora segretario della Cgl, giustificò il comportamento del gruppo dirigente col fatto che “prolungare lo sciopero non poteva essere conveniente da nessun punto di vista.”
D’Aragona, un altro dirigente riformista della Cgl, che avrebbe sostituito Rigola dopo la guerra, disse:
“Immaginavo che ferrovieri e sindacalisti [i “sindacalisti rivoluzionari” dell’Usi, usciti dalla Cgl nel 1912 – N.d.R.] ne avrebbero approfittato per sollevare l’odio delle folle contro la nostra organizzazione… non potevamo girare per le vie di Milano senza essere accolti da fischi, ci davano dei venduti, dei traditori; e questo era detto non dai sindacalisti… ma da socialisti che ci conoscono… sono andato domenica a votare e quasi sono stato bastonato.”
Nel 1914 pesava sui lavoratori anche l’effetto della crisi economica del 1913, che indeboliva ulteriormente il già scarso potere contrattuale delle organizzazioni sindacali. Gli scioperanti nel 1914 furono solo 141.932, meno della metà del 1913. Gli iscritti alle Federazioni di categoria passavano dai 213.695 del 1913 ai 111.546 dell’anno dopo.
Nel 1914 i dirigenti del Psi e della Cgl avevano minacciato lo sciopero generale nel caso l ‘Italia fosse entrata in guerra, ma quando questo avvenne non reagirono minimamente. Così le masse subirono la decisione dell’intervento come un atto di forza della borghesia.
SinDurante la guerra ci fu un forte calo sia della Cgl che del Psi. Il sindacato assunse un ruolo prevalentemente istituzionale e, di fatto, collaborò allo sviluppo della produzione bellica. Questo distacco tra i dirigenti sindacali e le masse fece sì che, quando le lotte scoppiarono, queste si svilupparono al di fuori degli schemi e del controllo dell’organizzazione sindacale. Questo si dimostrò chiaramente nei fatti di Torino nell’agosto del 1917.
Lo sciopero di Torino
Il movimento fu iniziato dalle donne, che erano entrate in gran numero nelle fabbriche per sostituire gli uomini richiamati in guerra. Il giorno che le donne trovarono i negozi pattugliati dai carabinieri e sulle porte la scritta “pane esaurito”, si sviluppò uno sciopero spontaneo che si allargò in tutta la città. I lavoratori si affollavano davanti alla Camera del lavoro cercando una direzione, ma i dirigenti non sapevano cosa fare. I dirigenti riformisti volevano addirittura diffondere un manifesto per sconfessare il movimento, ma i dirigenti locali riuscirono a impedirlo, e decisero di mandare a Milano una delegazione per chiedere alla direzione del Psi e della Cgl di estendere il movimento: ma questi si rifiutarono.
Così, nell’assenza di una direzione, la rivolta operaia si sviluppò in maniera spontanea per quattro giorni. Nei quartieri operai di Torino sorsero le barricate. Quando le autorità mandarono i soldati contro i lavoratori, le donne si rivolsero a loro con l’invito a non sparare. Un intero reparto di alpini consegnò i fucili agli operai. Le donne riuscivano a fermare anche le automobili blindate, arrampicandosi su di esse sino ad arrivare alle mitragliatrici che vi erano montate.
Purtroppo, a causa dei dirigenti riformisti della Cgl, il movimento rimase isolato a Torino. Il risultato fu un bagno di sangue: 42 i morti ufficiali, ma si calcola che in realtà furono circa cinquecento, e i feriti alcune migliaia. Fu in quel momento che per le vie vennero distribuiti dei volantini che invitavano gli operai a tornare al lavoro, a nome del Psi e della Cgl. Questi erano i “rapporti” che si erano venuti a creare tra i lavoratori e i loro “dirigenti” sindacali alla fine della Prima guerra mondiale. Tuttavia, grazie allo sviluppo industriale, nonostante le sconfitte subite nel periodo precedente, durante la guerra la classe operaia si era rafforzata enormemente in termini numerici, particolarmente in settori come quello metallurgico. Questo fatto, combinato alla crisi economica venutasi a creare subito dopo la fine della guerra, creò le condizioni per un grande conflitto tra le classi.
Esplode il movimento
Il debito pubblico si era gonfiato a causa delle spese belliche: dai 15 miliardi di lire del 1914 era arrivato a 90 miliardi nel 1920. Nel 1919, dopo l’eliminazione del controllo sui cambi, la lira crollò e si svalutò dell’80%. Ciò provocò una forte inflazione, portando il salario medio reale di un lavoratore al 68% di quello che era nel 1914.
La reazione dei lavoratori si vide nelle cifre degli scioperi. Nel 1919 ci furono più di 1.800 scioperi, con un milione e mezzo di scioperanti, mentre nel 1920 ci furono 2.000 scioperi, con 2.300.000 scioperanti. Questo rispetto ai 321.500 scioperanti nel 1907, l’anno di maggiori lotte sociali dell’anteguerra.
In queste condizioni la Cgl riprese a crescere. Dai 250mila iscritti del 1918 passò ai 2.150.000 del 1920. In particolare la Fiom, che nel 1914 aveva poco meno di 11mila iscritti, passò nel 1920 a 160mila. La crescita esplosiva della Cgl e delle sue Federazioni di categoria è la dimostrazione che, quando la massa dei lavoratori si mette in moto, questa si rivolge alle sue organizzazioni sindacali tradizionali.
Nonostante le sconfitte del periodo 1910-1915, dovute alla politica della Cgl, e nonostante l’abbandono dei lavoratori torinesi nel 1917, la classe operaia entrò in massa nella stessa Cgl.
Nascono i consigli
Parallelamente a questo nascevano i Consigli di fabbrica. Il primo sorse nell’agosto 1919 alla Fiat-Centro di Torino, quando la commissione interna in carica si dimise e gli operai decisero di eleggere un “commissario” (il termine di allora per delegato) per ognuno dei 42 reparti della fabbrica. I Consigli di fabbrica erano eletti da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato. Questi organismi suscitarono l’ostilità dei dirigenti della Cgl, perché temevano che i consigli, eletti da una base composta anche dai non iscritti al sindacato e collegati strettamente alla vita di fabbrica, prima o poi esautorassero il sindacato stesso. E questo nonostante il fatto che nel primo programma dei Consigli, preparato nel settembre 1919 dagli operai metallurgici di Torino, leggiamo che:
“Gli operai uniti nel sistema dei Consigli riconoscono l’utilità dei sindacati di mestiere e d’industria nella storia della lotta di classe e la necessità che essi continuino nella loro funzione.”
Il problema per i dirigenti riformisti della Cgl era che i Consigli non si limitavano a riconoscere il ruolo dei sindacati. Andavano oltre:
“Le direttive del movimento devono nascere direttamente dagli operai organizzati sui luoghi stessi di produzione, ed esprimersi per mezzo dei Consigli di fabbrica.”
Allo stesso tempo dai Consigli veniva una forte spinta all’unità sindacale. Proponevano:
“Tutti i sindacati di mestiere e d’industria del proletariato italiano dovranno aderire alla Confederazione generale del lavoro”, in modo da raggiungere “una sola grande Unione di tutte le forze proletarie italiane.”
Così, mentre le sconfitte del 1910-12 avevano portato alla scissione della Cgl, il nuovo slancio del movimento del 1918-20 esprimeva un forte desiderio di unità.
Il problema dei Consigli fu di non riuscire a trasferire la loro lotta all’interno della Cgl, in modo da rimuovere l’ostacolo al futuro sviluppo del movimento che costituivano i dirigenti riformisti.
Lo sciopero dell’aprile 1920
Questo si vide chiaramente nell’aprile del 1920. l padroni torinesi erano arrivati alla conclusione che fosse necessaria una linea dura di fronte alle lotte operaie, che si erano intensificate con la nascita dei Consigli. Verso la fine di marzo la Fiat licenziò i delegati di fabbrica. La reazione degli operai fu lo sciopero, che il 29 marzo si estese a tutte le fabbriche metalmeccaniche di Torino. In palio c’era l’esistenza stessa dei Consigli. La lotta durò dal 29 marzo al 23 aprile, arrivando a coinvolgere 120mila lavoratori. C’era troppo in gioco per i padroni, sicché la loro resistenza fu durissima.
Ed è qui che entra in scena il ruolo dei dirigenti riformisti della Cgl. La direzione della Cgl temeva la vittoria di un movimento che usciva dal quadro tradizionale delle lotte sindacali, e che tendeva a modificare profondamente la struttura stessa del movimento operaio; così non favorì le azioni di solidarietà con gli operai torinesi, sorte qua e là spontaneamente, e si oppose all’estensione dello sciopero ad altre regioni. D’Aragona, il segretario della Cgl succeduto a Rigola nel 1918, si recò a Torino per “seppellire il morticino”, come egli disse. Accettò in pratica le condizioni poste dai padroni, che esautoravano i Consigli e imponevano una regolamentazione restrittiva dei poteri delle commissioni interne. Dopo questa sconfitta, il consiglio direttivo della Cgl approvò un progetto che prevedeva dei consigli d’azienda eletti solo dagli iscritti ai sindacati.
Abbiamo visto come un’organizzazione sindacale burocratizzata come era la Cgl nel 1918 crebbe in maniera esplosiva tra le masse operaie. Allo stesso tempo, nei grandi centri industriali, in particolare Torino, nacquero i Consigli di fabbrica dal basso. Ma pur essendo molto diffusi, questi non riuscirono a contrastare l’influenza della direzione della Cgl sulla massa dei lavoratori. Ciò si sarebbe visto ancora più chiaramente nell’occupazione delle fabbriche nel settembre dello stesso anno.
IV – DALL’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE ALL’ASCESA DEL FASCISMO
Già abbiamo visto come, nell’aprile del 1920, i dirigenti della Cgl si erano impegnati a fare rientrare la lotta dei metallurgici torinesi. Quella lotta fu la prova generale per lo scontro che ci sarebbe stato a settembre. Nei due anni precedenti i padroni avevano dovuto subire le pressioni degli operai attraverso i sindacati e i Consigli di fabbrica. Avendo già messo alla prova i dirigenti sindacali nell’aprile, nell’agosto i padroni erano abbastanza fiduciosi di poter andare allo scontro diretto coi lavoratori. Tra il 10 e il 13 agosto si riunì una commissione interregionale degli Industriali, durante la quale si comunicò ai sindacati:
“Date le condizioni dell’industria, non possono in questo momento essere accolte domande di miglioramenti economici.”
La Fiom rispose convocando un congresso straordinario il 16 e 17 agosto a Milano, dove venne accettato all’unanimità che, a partire dal 21 agosto, si sarebbe applicato “l’ostruzionismo” nelle officine, con lo scopo di ridurre al minimo la produzione senza perdita di stipendio dei lavoratori. Il congresso dichiarò:
“Se la ditta proclama la serrata, occupare l’officina e lavorarvi per proprio conto.”
I lavoratori presero alla lettera le decisioni del congresso: di fronte all’inasprirsi della politica padronale, intensificarono l’ostruzionismo. Il 27 agosto Buozzi (segretario della Fiom) tentò di far sospendere l’ostruzionismo ma non ci riuscì: il movimento ormai aveva assunto una propria dinamica. Sia i padroni che i lavoratori erano decisi ad andare fino in fondo. La “provocazione” avvenne a Milano il 30 agosto, quando i duemila operai della Romeo trovarono i cancelli chiusi e la fabbrica presidiata dalle truppe. La Fiom rispose ordinando l’occupazione delle circa 300 officine metallurgiche della città.
Gli operai occupano le fabbriche
Tra l’1 e il 4 settembre gli operai metallurgici occuparono gli stabilimenti in tutta la penisola, non solo a Milano, Torino e Genova, ma anche a Roma, Napoli, Firenze, Palermo e ovunque ci fosse un’officina metallurgica. In tutto 500mila operai occuparono le fabbriche. Da una lotta puramente “economica” si fece un salto verso un movimento di carattere insurrezionale; a Torino apparirono le Guardie rosse sotto il controllo dei Consigli di fabbrica. Era chiaro che la classe operaia vedeva la possibilità non solo di strappare qualche lira in più ai padroni, ma di abolire il sistema di sfruttamento capitalista. Le forze dell’ordine non erano sufficienti per reprimere il movimento.
Fu proprio nel momento culminante del movimento che si vide chiaramente il ruolo dei vertici sindacali.
Mentre, per esempio, i lavoratori liguri chiedevano in un convegno sindacale di allargare il movimento con l’occupazione di tutti i settori industriali, il 5 settembre la direzione della Fiom si dichiarava disposta ad accettare un aumento di cinque lire invece che di sette! Era su questo tipo di vertice sindacale su cui contavano i padroni.
Il movimento di settembre segnò il culmine di due anni di crisi rivoluzionaria. Lo sciopero di Torino nell’aprile del 1920 aveva dimostrato come fosse necessaria un’azione nazionale che coinvolgesse tutta la classe operaia, ma il movimento era totalmente privo di direzione. Nonostante l’enorme forza numerica delle organizzazioni della Cgl e del Psi, queste non avevano nessun piano di battaglia. Lasciarono che a decidere il momento dello scontro fossero i padroni, e una volta che questo cominciò lasciarono isolati i metallurgici.
Il patto tra Psi e Cgl
Nel 1912 era stato stabilito un patto secondo cui al Psi toccava la direzione delle lotte “politiche”, mentre la Cgl dirigeva il movimento “economico”. Ma questa distinzione non esisteva in una lotta come quella del 1920, e in realtà non esiste in nessun movimento che coinvolga la massa della classe operaia. La lotta di settembre, cominciata come sciopero “economico” per ottenere aumenti salariali, si trasformò in pochi giorni in uno scontro rivoluzionario.
Come spiegò Trotskij nel 1922:
“La lotta dei lavoratori per i loro interessi immediati, in questa epoca di grande crisi imperialista, è sempre l’inizio di una lotta rivoluzionaria.”
Così la “divisione dei compiti” tra Psi e Cgl si trasformò in un gigantesco scaricabarile, in cui i dirigenti del Psi accusavano di tradimento la Cgl, mentre essi stessi non furono capaci di dare nessun tipo di direzione al movimento. È grazie a questi “dirigenti” che subentrò l’apatia tra i lavoratori e il movimento cominciò a disgregarsi nei punti deboli, e tra il 25 e il 30 settembre l’occupazione delle fabbriche terminò.
Da questa sconfitta il movimento operaio uscì drasticamente ridimensionato. La classe operaia con le sue organizzazioni si dimostrava apparentemente impotente di fronte all’offensiva padronale e così ebbe il sopravvento la reazione, preparando il terreno per la crescita delle forze del fascismo.
I comunisti al V congresso della Cgl
Fu quella sconfitta che portò direttamente alla scissione del Psi, da cui nacque il Partito comunista. Nella politica sindacale del Partito comunista alla sua nascita ci sono lezioni preziose per i militanti sindacali di oggi. I dirigenti riformisti della Cgl avevano consegnato alla borghesia la testa della classe operaia su un piatto d’argento! Eppure i comunisti non usarono quell’esperienza per giustificare l’uscita dalla Cgl, anzi, si organizzarono al suo interno. Al V congresso della Cgl, tenutosi a Livorno il 26-28 febbraio 1921, l’ordine del giorno comunista ottenne 432.558 voti, contro i 1.435.873 della maggioranza. I comunisti elaborarono una linea basata sul rovesciamento della direzione riformista, sul rinnovamento democratico delle strutture sindacali, sulla valorizzazione dei Consigli di fabbrica e sulle forme di lotta come lo sciopero generale. Nel loro ordine del giorno si leggeva che i sindacati “possono e devono essere fattori importantissimi dell’opera rivoluzionaria, quando ne sia radicalmente rinnovata la struttura, la funzione, la direttiva, strappandoli al dominio della burocrazia dei funzionari attuali.”
Dopo la sconfitta del 1920, l’iniziativa passò ai padroni: ci fu la grave sconfitta operaia nella vertenza Fiat del 1921 e, a partire soprattutto dal maggio dello stesso anno, ci fu una nuova offensiva fascista. Di fronte alla crescente violenza dei fascisti, la Cgl nel novembre del 1921 si rifiutò di proclamare lo sciopero generale.
Allo stesso tempo si aggravava la crisi economica, la quale toccò il culmine all’inizio del 1922. La diminuzione della produzione portò ad una drastica riduzione della manodopera. L’offensiva padronale s’incentrò, oltre che sulla questione dei salari, sull’aumento del ritmo di lavoro, sull’attacco alle otto ore e sull’inasprimento della disciplina interna di fabbrica. Ciononostante, nella prima metà del 1922 si registrarono scioperi e vertenze di notevole ampiezza e durata. La risposta a queste lotte fu la più assoluta intransigenza degli industriali, i quali fecero intervenire massicciamente le forze dell’ordine, che presidiarono gli stabilimenti. Dopodiché spesso gli stabilimenti venivano riaperti con nuovo personale, e gli scioperanti che si rifiutavano di riprendere il lavoro venivano licenziati.
L’Alleanza del lavoro
Sotto la pressione dei lavoratori, la Cgl, l’Usi, la Uil e i sindacati dei ferrovieri e dei portuali, il 20 febbraio del 1922 costituirono l’Alleanza del lavoro. Purtroppo la direzione bordighista del PCd’I ebbe un atteggiamento ambiguo verso l’Alleanza, dando l’indicazione ai suoi militanti di abbandonarne le riunioni se a queste fossero stati presenti rappresentanti dei “partiti”. Ciò faceva parte del suo rifiuto della politica del “fronte unico” dell’Internazionale comunista. Questo settarismo della direzione del PCd’I, duramente criticato da Lenin, fece sì che il partito non riuscisse a influenzare le masse che vedevano nell’Alleanza l’ultima speranza per combattere la crescente reazione fascista.
Eppure lo scopo dell’Alleanza del lavoro era difendere le conquiste dei lavoratori contro la reazione. Purtroppo lo sciopero generale fu proclamato dall’Alleanza solo alla fine di luglio per il 3 agosto, dopo che diverse lotte avevano già subito forti sconfitte. In quelle condizioni lo sciopero generale fu un completo fallimento. Da quel momento si può considerare praticamente conclusa la spinta rivoluzionaria iniziata nel 1918. La classe operaia subì una sconfitta dalla quale si sarebbe ripresa solo a partire dai primi scioperi contro il fascismo nel 1943.
V – LA CADUTA DEL FASCISMO E LA RINASCITA DELLA CGIL
La vittoria del fascismo significò la completa distruzione del movimento operai organizzato. Il regime fascista mise fuorilegge qualsiasi organizzazione indipendente dei lavoratori, costringendo al carcere, al confino o all’esilio i militanti e i dirigenti operai. La Cgl scese dai 2.150.000 iscritti del 1920 ai 400.000 nel 1922, per scivolare a 200.000 nel 1925. Il 4 gennaio 1927 il direttivo della Cgl decise lo scioglimento dell’organizzazione e la direzione si trasferì all’estero.
Per quasi un ventennio, i lavoratori rimasero privi di una propria organizzazione sindacale. Il fascismo riuscì a cancellare tutte le conquiste del “biennio rosso” (1918-20). Nel 1938 i salari reali dei lavoratori erano tornati ai livelli del 1913, il che significava una riduzione del 25%.
Ma nessuna forza al mondo può tenere soggiogata la classe lavoratrice per sempre. Lentamente guarirono le ferite di quella sconfitta; venne avanti una nuova generazione di lavoratori e, con l’incalzare di una nuova crisi economica, a partire dal 1943 il movimento si risvegliò.
L’appoggio al regime fascista si era progressivamente eroso. Le sconfitte militari, il razionamento, le restrizioni, alimentavano il malcontento. Il costo della vita, fatto uguale a 100 nel 1938, salì a 201 nel 1941. I lavoratori spendevano metà del loro salario solo per mangiare. I manovali in molte industrie metalmeccaniche non guadagnavano più di tre lire l’ora, e i braccianti non superavano le due lire. In più c’erano il razionamento e il malcontento per la guerra.
Il risveglio degli operai nel 1943
I primi segnali di risveglio si videro nella seconda metà del 1942, quando ci furono i primi scioperi nelle fabbriche del Nord. Inizialmente questi erano poco coordinati ma, nel marzo 1943, la classe operaia ritornò a farsi sentire in maniera dirompente. La ripresa delle lotte rinforzò le cellule del Pci clandestino.
Furono queste cellule a dare il necessario coordinamento alle lotte di marzo. Gli scioperi iniziarono alla Fiat di Torino il 5 marzo e poi si allargarono ad altre fabbriche: la Rossetti (100 scioperanti), la Microtecnica (600), la Fiat grandi Motori, la Westinghouse, le Ferriere piemontesi, la Sevigliano, la Fiat Lingotto. Nei giorni successivi il movimento si estese ulteriormente. Il 12 marzo erano già stati arrestati 164 lavoratori. In tutto 100.000 lavoratori parteciparono al movimento. Da Torino gli scioperi si allargarono a Milano, poi al Biellese, ad Asti, a Porto Marghera.
Di fronte a questo impetuoso movimento il governo fascista fu costretto a cedere su alcuni dei punti rivendicati dai lavoratori.
Il movimento dimostrò che il regime fascista aveva perso l’appoggio di massa dei primi anni e si reggeva solo sull’inerzia del movimento dei lavoratori. Farinacci, che aveva osservato le manifestazioni operaie di Milano, in una lettera a Mussolini scrisse:
“Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere (…). Il partito [fascista – N.d.R.] è assente e impotente (…). Ora avviene l’inverosimile. Dunque nei tram, nei caffè, nei teatri, si critica, si inveisce contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le questure rimangono assenti, come se l’opera loro fosse inutile.”
La caduta di Mussolini
Lo spettro di una rivoluzione sociale tornò a tormentare la borghesia e aprì una crisi al suo interno. Essa infine si convinse a mettere fine al regime di Mussolini (che aveva ormai perso la capacità di tenere sotto controllo le masse) e organizzò il colpo di stato del 25 luglio, che portò al potere il maresciallo Badoglio.
Appena ricevuta la notizia della caduta di Mussolini le masse scesero nelle piazze, organizzarono grandi comizi, tirarono fuori dalle carceri i lavoratori arrestati, andarono a caccia dei fascisti e assaltarono gli uffici del Partito Fascista. I partiti antifascisti uscirono allo scoperto.
In tutte le grandi e medie fabbriche i lavoratori crearono spontaneamente le commissioni interne, organismi rappresentativi di tutti i lavoratori, che dirigevano le lotte operaie. Per la borghesia mandare Badoglio al potere non era visto come un passaggio verso la democrazia, bensì verso un regime che potesse meglio tenere sotto controllo le masse.
Infatti, subito dopo la caduta di Mussolini, circa 100 lavoratori caddero sotto il piombo del governo nel corso di scioperi e manifestazioni. Il problema era che le masse interpretavano la caduta di Mussolini come la caduta della dittatura, e i lavoratori in particolare erano coscienti che erano state le lotte operaie a far cadere il fascismo. Badoglio ben presto si rese conto che ormai la repressione non poteva fermare il movimento dei lavoratori.
Rinascono le commissioni interne
Badoglio capì che non si poteva semplicemente decretare l’illegalità delle nuove commissioni interne, ma bisognava introdurre un elemento di controllo su di esse.
In un primo momento cercò di toccare il meno possibile i sindacati fascisti; l’idea che aveva era di nominare dei commissari per ristrutturarli. Fu Piccardi, ministro delle Corporazioni del governo Badoglio, che fece liberare Bruno Buozzi, l’ultimo segretario generale della Cgl prima del suo scioglimento, e convocatolo gli espose la sua idea di nominare dei commissari per le organizzazioni sindacali fasciste. Questi commissari dovevano essere scelti tra gli esponenti del sindacalismo prefascista.
Questo colloquio ebbe luogo il 1° luglio 1943. Buozzi espresse la sua piena adesione all’iniziativa. Aggiunse però che il Partito socialista era ancora da riorganizzare, mentre il Pci aveva già una sua struttura, e per questo i sindacalisti socialisti non sarebbero stati in grado, da soli, di assicurare la riuscita dell’operazione. Ecco perchè era necessario farvi partecipare anche il Pci.
La sua proposta fu accettata, e il 13 agosto entrarono in carica i commissari sindacali Buozzi per i socialisti, Roveda per i comunisti e Grandi per i democristiani. Il 2 settembre fu siglato un accordo tra i commissari sindacali e la Confindustria, che stabiliva che in ciascuna fabbrica fossero riconosciute le commissioni interne elette dai lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati. Prima del fascismo invece le commissioni interne venivano elette solo dagli iscritti. L’accordo del 2 settembre non poteva non riconoscere questo diritto fondamentale a tutti i lavoratori: essi avevano già eletto le commissioni in maniera “unitaria” e non avrebbero accettato una divisione artificiale tra iscritti e non iscritti imposta dall’alto.
I vecchi dirigenti sindacali al servizio di Badoglio
I commissari presto furono messi alla prova. Le notti intorno alla metà dell’agosto 1943 furono quelle dei massicci bombardamenti su Milano, Torino, Bologna.
Dalla caduta di Mussolini i lavoratori si aspettavano che l’Italia sarebbe uscita dalla guerra. Invece i tentennamenti di Badoglio stavano lasciando lo spazio ai tedeschi di organizzarsi in Italia per l’occupazione militare.
Per protesta, il 19 agosto 1943 gli operai dei principali centri del Nord scesero in sciopero. Piccardi si recò al Nord, come poi disse, “per vedere se era possibile indurre i lavoratori a sospendere lo sciopero (…). In quell’occasione ebbi compagni e collaboratori, in piena unità d’intenti, Bruno Buozzi e Giovanni Roveda.”
A Torino trovarono una dura repressione messa in atto dal comandante militare che aveva fatto arrestare 53 scioperanti e fatto disporre le mitragliatrici intorno alla Fiat. I lavoratori chiedevano l’uscita dell’Italia dalla guerra. Piccardi, Buozzi e Roveda fecero rilasciare i 53 arrestati e convinsero i lavoratori a sospendere lo sciopero.
L’armistizio infine fu firmato l’8 settembre da Badoglio, che subito dopo fuggì da Roma verso Sud, lasciando che l’Italia venisse occupata al Nord dai tedeschi e al Sud dalle forze “alleate”. La classe operaia era stata di fatto ingannata da Piccardi, con l’aiuto dei sindacalisti socialisti e comunisti.
VI – 1944-45: LA CGIL DI FRONTE ALL’ASCESA RIVOLUZIONARIA
Con la caduta del regime fascista si era venuta a creare in Italia una situazione pre-rivoluzionaria che la borghesia non era in grado di controllare. Di fatto, con la firma dell’armistizio nel settembre del 1943 e la fuga verso il Sud del governo Badoglio, la borghesia affidava il controllo di reprimere l’ondata di lotte alle truppe anglo-americane nel Sud e alle truppe di Hitler nel Nord.
Al Sud inizialmente l’autorità militare cercò di vietare ogni attività sindacale, ma la pressione dei lavoratori, sollecitata dall’inflazione vertiginosa, portò alla creazione di sindacati in ogni ramo di attività. Questi sindacati furono riconosciuti verso la fine del 1943. Così nacque in Campania una Confederazione del lavoro meridionale, diretta da comunisti, socialisti e membri del partito d’azione. Questa poi confluì nell’unitaria Confederazione generale italiana del lavoro promossa da comunisti, socialisti e democristiani nel giugno 1944.
Gli operai contro l’esercito di Hitler
Al Nord invece vigeva la legge di Hitler. A partire dal novembre del 1943 gli scioperi e la lotta armata assunsero un ruolo di grande importanza in queste zone. Ci furono scioperi in Piemonte, Lombardia, Liguria e Toscana. A Torino gli operai chiedevano aumenti salariali nella misura del 100%, il raddoppio di alcune razioni alimentari (un litro di latte al giorno per ciascun bambino) e il diritto di sospendere il lavoro durante i bombardamenti. Lo sciopero rientrò solo dopo che il generale Zimmermann fece puntare le armi sugli operai di Mirafiori. Ma le rivendicazioni degli scioperanti furono in gran parte accolte.
A Milano si sviluppò un movimento simile. Per farlo rientrare lo stesso Zimmermann promise le medesime concessioni fatte ai lavoratori torinesi. Dalla Germania invece arrivarono a metà dicembre ordini di fucilare gli operai che dirigevano gli scioperi. A Genova, nel gennaio del 1944, di fronte agli scioperi l’autorità militare tedesca eseguiva le nuove direttive, fucilando gli operai per costringere gli altri a tornare a lavoro.
Il regime fascista che si era costituito al Nord aveva tentato di inglobare le commissioni interne nei sindacati fascisti, ma quello che successe alla Innocenti di Milano fece capire che i lavoratori non si lasciavano ingannare: su 5000 operai si ebbero 297 votanti, ma di questi 180 schede risultavano bianche e 103 con richieste di aumenti salariali e di razioni, o con insulti; i votanti regolari favorevoli a una commissione interna fascista furono 14!
La classe operaia stava riscoprendo la propria forza, e questo si vide nel marzo 1944, quando i comitati di liberazione nazionale dell’alta Italia proclamarono uno sciopero in tutto il territorio occupato dai tedeschi. Più di un milione di lavoratori partecipò al movimento, il più grande sciopero mai visto nell’Europa occupata dai nazisti. A Torino lo sciopero durò una settimana. Le autorità fasciste e naziste concedevano aumenti salariali pur di arginare l’ondata di scioperi, ma questo serviva solo a rendere coscienti i lavoratori della propria forza. A questo movimento rispose Hitler in persona: bisognava deportare il 20% degli scioperanti nei campi di concentramento.
Il “Patto di Roma”
L’ascesa delle lotte significò una spinta fortissima all’unità dei lavoratori, sia verso la Cgil sia a livello politico; per tutto il periodo della resistenza si ripropose più volte la prospettiva di una fusione tra Pci e Psi.
Tuttavia, invece di appoggiarsi su questa spinta per togliere definitivamente ogni appoggio ai partiti borghesi, i dirigenti del Psi e del Pci accettarono il “Patto di Roma”. Con questo accordo la direzione della Cgil veniva spartita dall’alto in maniera burocratica. Non erano i lavoratori a decidere chi dovesse dirigere la Cgil; i posti di direzione venivano assegnati in maniera paritetica.
Così Togliatti e Nenni permisero alla Dc di legittimarsi in seno alla classe operaia, gettando un velo sulle compromissioni delle gerarchie ecclesiastiche col fascismo. La presenza della Dc, come partito, nelle strutture dirigenziali della Cgil sarebbe poi servita per frenare le spinte degli operai. I dirigenti comunisti e socialisti della Cgil potevano sempre tirare fuori lo spauracchio della “divisione sindacale” ogni volta che un movimento rischiava di andare oltre il limite stabilito dai vertici sindacali. La realtà era che la Dc rappresentava ben poco nella base operaia.
Le aspirazioni rivoluzionarie dei lavoratori
Il problema per i padroni era che, man mano che nel Nord la lotta acquistava dimensioni più vaste per l’adesione delle masse operaie e contadine, agli operai, molti dei quali erano uniti alle brigate partigiane, diveniva sempre più chiaro che non bastava rovesciare il fascismo, e quindi puntavano all’abbattimento del capitalismo stesso. Purtroppo questa spinta dal basso non trovò una espressione nella direzione del movimento operaio, sia in quella politica che in quella sindacale. La base del Pci puntava chiaramente ad una rivoluzione socialista, ma in un bollettino interno del partito la direzione spiega che questo sarebbe stato un “gravissimo errore (…) anche se ciò può rispondere ai desideri di una parte di massa operaia.”
Il problema era che Togliatti, tornato dall’esilio nel 1944, stava applicando una politica che era una diretta conseguenza del Patto di Yalta tra Churchill, Stalin e Roosevelt. In quel patto l’Europa veniva divisa in due sfere di influenza, e l’Italia ricadeva sotto quella occidentale. Così mentre nell’Europa dell’Est, sotto il controllo dell’Armata Rossa, venivano costituiti regimi stalinisti, nell’Europa dell’Ovest il sistema capitalista veniva difeso anche dai partiti comunisti (fedeli ambasciatori di Stalin). In base a questo il Pci entrò nel governo con la Dc, e di conseguenza la direzione della Cgil cercava di arginare le spinte dal basso degli operai.
Nell’aprile del 1945 ci furono gli scioperi insurrezionali, e con essi ci fu un’incessante crescita delle organizzazioni sindacali. Nell’estate del 1945, la Cgil estendeva la sua influenza in tutto il paese raccogliendo milioni di aderenti, dimostrando per l’ennesima volta nella storia che quando le masse dei lavoratori si muovono queste si indirizzano ai loro sindacati e partiti tradizionali.
Il primo congresso della Cgil
Il primo congresso della Cgil si era già tenuto a Napoli il 28 gennaio 1945; parteciparono 322 delegati, in rappresentanza di un milione e 300mila iscritti. Furono eletti, in base agli accordi del “Patto di Roma”, tre segretari generali: uno Dc, uno Psi e uno Pci! In quel congresso Giuseppe Di Vittorio, segretario generale, disse che:
“Noi dobbiamo conciliare le esigenze elementari di vita dei lavoratori con le esigenze della patria in guerra.”
Già ponendo le basi per quella politica di collaborazione tra le classi che segnerà l’azione dei dirigenti della Cgil durante tutto il periodo del dopoguerra. Questo però urtava contro la volontà della base.
Significativo fu un intervento di un delegato del sindacato elettrici di Napoli, Balsamo:
“(…) Noi dobbiamo risalire alle cause del male, del male di tutti i popoli, e dobbiamo dire allora che è tutto il sistema che deve essere cambiato. I lavoratori, gli impiegati e gli operai, che danno la loro vita e la loro attività nelle aziende, devono diventare essi dirigenti delle stesse. Noi insistiamo, perciò, sulla socializzazione delle industrie e dei pubblici servizi (…). Noi vogliamo un governo più democratico di quello che abbiamo oggi; un governo degli operai e dei contadini.”
Con la caduta del fascismo era, di fatto, crollato lo Stato borghese italiano. Per un breve periodo la piazza era caduta nelle mani dei lavoratori.
I 300mila partigiani armati rappresentavano una formidabile minaccia al potere dei capitalisti. Molte fabbriche finirono nelle mani degli operai. Durante la ritirata delle truppe tedesche, gli operai in molte fabbriche avevano difeso i macchinari delle “loro” fabbriche per non farle portare via in Germania. Questo significava che, alla fine della Seconda guerra mondiale, esisteva un “dualismo di potere” nelle fabbriche italiane. Non a caso Angelo Costa, nuovo presidente della Confindustria, nelle trattative con la Cgil rivendicava due cose: la libertà di licenziare gli operai in soprannumero e una struttura salariale che riducesse al minimo possibile gli scioperi nelle fabbriche.
VII – IL RUOLO DELLA CGIL NELLA SCONFITTA DEL 1948
Liberatisi dal fascismo nel 1945, i lavoratori non si erano però liberati delle conseguenze del capitalismo o, come va di moda dire oggi, dell’economia di mercato. I prezzi al consumo nel periodo 1943-45 crebbero del 775,2%, l’indice dei prezzi all’ingrosso (1938 = 100) passa da 858 nel 1944 a 2.060 nel 1945, e a 2.284 nel 1946. Le condizioni di vita degli operai e dei contadini non corrispondevano alle speranze suscitate dalla caduta della dittatura fascista. Per questo nell’estate del 1945 si videro lotte operaie molto tese, con grandi manifestazioni comuni con i partigiani smobilitati, con i reduci dalla prigionia, con i disoccupati. Questa fase di lotte iniziò con una serie di scioperi generali locali a Milano, Genova, Bologna. In queste lotte molto risalto veniva dato dai lavoratori alla rivendicazione di un controllo popolare sui prezzi e sui rifornimenti alimentari.
Diventò prioritario per i capitalisti trovare un mezzo per calmare le masse operaie, le quali attuavano uno sciopero dopo l’altro nel tentativo di adeguare il potere d’acquisto dei loro salari al continuo aumento dei prezzi. I padroni erano in difficoltà anche per il fatto che non potevano licenziare gli operai “esuberi” a causa dell’enorme forza che aveva assunto il movimento alla fine della guerra.
La Confindustria rivendicava la libertà di licenziare, perchè senza non avrebbe potuto restaurare “ordine e disciplina” nelle fabbriche. Se l’industriale non poteva licenziare, non poteva nemmeno ricattare gli operai che guidavano gli scioperi dicendo che c’erano tanti disoccupati che potevano prendere il loro posto se non stavano tranquilli.
La Cgil accetta i licenziamenti
La possibilità di colpire questi attivisti sindacali nelle fabbriche fu data ai padroni proprio dal vertice della Cgil, quando questo accettò uno sblocco parziale dei licenziamenti nel gennaio 1945 e uno sblocco totale ma graduato nel tempo nel gennaio del 1946. Nonostante questi accordi, gli operai opposero una tenace resistenza ai tentativi dei capitalisti di ristabilire il controllo padronale nelle fabbriche, e in un primo momento non si lasciarono licenziare.
Nel tentativo di conciliare le rivendicazioni di controllo operaio sulla produzione da parte dei lavoratori e quella dei capitalisti di un ripristino dell’“ordine”, il ministro socialista Morandi, nel dicembre del 1946, preparò un progetto di legge per regolamentare i “consigli di gestione”. Ma era un inganno: avevano una struttura paritaria nella quale la maggioranza era assicurata in partenza ai rappresentanti padronali. Nonostante tutto questo la Confindustria respinse duramente il progetto. I capitalisti non potevano accettare alcun controllo da parte dei lavoratori, anche senza poteri reali. Puntavano alla riconquista totale del potere nelle fabbriche.
La prima scala mobile
Fu in queste condizioni che la Confindustria accettò il primo accordo sulla scala mobile, il 6 dicembre 1945 per il Nord e il 23 maggio 1946 per il Centro-Sud. Ai padroni conveniva un meccanismo di adeguamento dei salari agli aumenti dei prezzi, piuttosto che perdere ingenti quote di produzione con continui scioperi per rivendicazioni salariali. Infatti, lo stesso accordo, mentre concedeva la scala mobile, vietava qualsiasi iniziativa di sciopero a livello aziendale e reintroduceva il lavoro a cottimo! Così i padroni puntavano a guadagnare in termini di produttività quello che perdevano con la scala mobile.
Come se tutto questo non bastasse, il 27 ottobre 1946 la Cgil firmò un altro accordo che impegnava il sindacato a rispettare una “tregua salariale” di sei mesi (che fu prorogata con l’accordo del 30 maggio 1947).
Già il 23 settembre del 1945 il direttivo della Cgil, pur dichiarandosi a parole contro i licenziamenti, aveva approvato un documento in cui si dichiarava che:
“Le masse lavoratrici sono pronte ad accollarsi altri sacrifici” (riduzione dell’orario e di paga, accettazione dei trasferimenti, licenziamenti concordati di quanti avessero altre fonti di sostentamento, turni concordati di disoccupazione con sussidi) “per alleviare le condizioni delle aziende aventi personale in soprannumero.”
Raffaele Lungarella (La scala mobile, 1945-1981) spiega bene il ruolo della scala mobile come concepita dai padroni:
“Mancando questo strumento il sindacato sarebbe stato costretto, anche per problemi di tenuta nei confronti della base, a un permanente ricorso allo strumento contrattuale, innescando (…) una conflittualità accesa e diffusa.”
Le preoccupazioni di Di Vittorio
Le preoccupazioni dei vertici della Cgil si possono intravedere nel discorso di Di Vittorio al Direttivo della Cgil del 15 luglio 1946. Egli disse che:
“Una grande organizzazione come la nostra (…) deve ispirare permanentemente l’azione al più grande senso di responsabilità e di equilibrio, anche al più grande senso di moderazione.”
Sul problema dei livelli salariali disse che:
“Dobbiamo tenere conto dello stato d’animo delle masse, che tendono a sfuggire anche dalle mani stesse delle nostre organizzazioni” e ricordò l’impegno della Cgil “per contenere il movimento delle masse, per moderare le rivendicazioni dei lavoratori, per evitare degli scioperi, delle agitazioni.”
Proprio per far fronte ad una situazione simile, già al primo congresso del 1945 la destra della Cgil fece approvare uno statuto fortemente centralizzato, tale da sottrarre ai lavoratori in fabbrica, e in gran parte anche a livello territoriale locale, l’iniziativa contrattuale. In quello statuto si legge che:
“Le Federazioni nazionali sono tenute a sottoporre i propri memoriali all’approvazione della Cgil, prima di inviarli all’organizzazione padronale interessata” e allo stesso modo “i memoriali diretti a modificare o rinnovare i contratti collettivi di lavoro vigenti di carattere provinciale, debbono essere sottoposti, da parte del sindacato provinciale, all’approvazione della rispettiva Federazione nazionale e della Camera del lavoro provinciale.”
Questa centralizzazione era giustificata dai dirigenti con l’idea che bisognava evitare dislivelli nelle rivendicazioni salariali tra categoria e categoria, in modo da raggiungere la massima unità operaia. In realtà l’ultima parola spettava al gruppo dirigente della Cgil, eletto non in base al reale appoggio esistente tra i lavoratori, ma in base alla spartizione a tavolino degli incarichi dirigenziali tra i dirigenti di Pci, Psi e Dc, come sancito dal “Patto di Roma” del 1944.
Il controllo burocratico della base
Non è un caso che anche in quel periodo, come oggi, ci fosse la polemica sulle rappresentanze sindacali aziendali. Il vertice non poteva impadronirsi delle commissioni interne in un sol colpo. Le commissioni interne erano state costruite sull’onda di un movimento rivoluzionario. In esse vigeva la regola di tutti elettori e tutti eleggibili, iscritti e non iscritti ai sindacati. Infatti, l’articolo 100 dello statuto della Cgil diceva:
“La commissione interna non è un organismo specifico del sindacato, in quanto non è di sua emanazione diretta. La commissione interna infatti, emana direttamente da tutti i lavoratori dell’azienda, siano essi organizzati oppure no nel sindacato. Ogni lavoratore può essere eletto membro della commissione interna anche se non organizzato.”
Ma nello stesso articolo poi si legge che i rapporti devono essere tali che “le stesse commissioni interne uniformino la loro attività alle direttive del sindacato.”
Passato il momento di massima mobilitazione dei lavoratori, e con la delusione che incominciava a serpeggiare tra la massa operaia grazie alla politica della direzione della Cgil, i padroni passarono all’offensiva nel 1947 con licenziamenti di massa. Alla fine del 1947 erano in corso 50-60.000 licenziamenti solo a Milano. Nel frattempo i padroni e la Dc stavano preparandosi a spaccare la Cgil. Già nel luglio del 1944 (alla firma del ‘Patto di Roma’!) la Democrazia Cristiana aveva preparato una struttura sindacale parallela, l’Acli (Associazione Cristiana Lavoratori Italiani). Allo stesso congresso del 1947, la componente Dc nella Cgil prese come pretesto l’articolo 9 dello statuto, sul diritto del sindacato di prendere posizioni politiche, per iniziare un processo che avrebbe portato alla scissione democristiana dalla Cgil nel 1948. Quando si fece quel congresso la Cgil aveva 5.735.000 iscritti. Malgrado la politica del suo vertice, i lavoratori avevano bisogno dell’organizzazione sindacale e vi erano confluiti in massa nei due anni dopo la guerra. L’80% degli iscritti partecipò alle votazioni, di cui il 55,8% si schierò con la corrente comunista, il 22,6% con i socialisti e solo il 13,4% con la corrente democristiana.
Le tensioni al congresso erano state accentuate dal fatto che Psi e Pci erano stati appena estromessi dal governo da De Gasperi, un segnale chiaro che la borghesia non sentiva più la necessità di tenerli al governo, in quanto stava cominciando una ritirata del movimento operaio.
Il 30 aprile nacque formalmente la Cisl, dopo essersi chiamata per un periodo la liberaCgil, e poco dopo nacque la Uil. Quella scissione segnava una sconfitta storica della classe operaia italiana, che ne avrebbe risentito per tutto l’arco degli anni ’50.
VIII – L’OFFENSIVA ANTIOPERAIA DEI PRIMI ANNI ‘50
La vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile 1948 era un chiaro indicatore che il movimento rivoluzionario della classe operaia italiana, iniziato nel 1943, era ormai agli sgoccioli; ma ancora non aveva detto la sua ultima parola. La mattina del 14 luglio alle ore 11,40 Togliatti, all’uscita del Parlamento, venne gravemente ferito da quattro colpi di rivoltella sparati da un giovane fanatico anticomunista. Nel giro di poche ore l’Italia era praticamente di nuovo in mano ai lavoratori. Le fabbriche vennero occupate, le piazze si riempirono, vennero devastate le sedi dell’Msi e perfino ufficiali dei carabinieri e della polizia vennero sequestrati dai lavoratori. I partigiani ritirarono fuori le armi che avevano nascosto alla fine della guerra.
La Cgil fece suo lo sciopero generale, che era già un dato di fatto. Ma non per estenderlo, bensì per farlo rientrare. Come disse Di Vittorio il 16 luglio:
“La Cgil, sanzionando lo sciopero spontaneo, voleva tenerlo in pugno.”
I lavoratori di fatto si trovavano senza direzione in quel momento cruciale. Resistettero agli ordini di rientrare al lavoro e in molti casi la direzione locale passò dagli organi eletti agli elementi più combattivi.
Ma l’autorità dei dirigenti del Pci e della Cgil era molto forte e fu sufficiente a disorientare i lavoratori e poi a farli rientrare nei luoghi di lavoro. Secondo le cifre ufficiali, alla fine di quel movimento c’erano 20 morti, 600 feriti e migliaia di arresti, che sarebbero diventati decine di migliaia nei mesi successivi.
Passato il movimento rivoluzionario e con il disorientamento dei lavoratori, i padroni passarono all’offensiva. Tra il luglio 1948 e la fine del 1950 vengono uccisi 62 lavoratori, 3.126 vengono feriti e ben 92.169 vengono arrestati per motivi politici. Di questi 19.306 vennero condannati a 8.441 anni di carcere complessivi. Fu una vera e propria sconfitta del movimento operaio.
È in questo contesto che i padroni riuscirono a spaccare la Cgil, dalla quale nacquero prima la Cisl e poi la Uil. Una delle prime cose che fece la Cisl fu quella di mettere in discussione il metodo di elezione delle Commissioni interne (l’equivalente degli attuali Consigli dei delegati). Sino a quel momento i “commissari” (delegati) venivano eletti da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati. Ora la Cisl rivendicava che venissero eletti in base al sindacato di appartenenza. In questo modo si cercava di dividere quegli organismi di democrazia operaia che erano sorti nei movimenti rivoluzionari del 1943-45.
La rivalsa padronale
Il periodo che si aprì in quel momento è quello dell’offensiva antioperaia del padronato. I capitalisti avevano bisogno di ristrutturare le industrie per adeguarsi alle nuove tecnologie e ai nuovi mercati che si andavano sviluppando dopo la guerra. I governi democristiani (o almeno dominati dalla Dc) tentarono più volte di introdurre leggi antisindacali, assieme ad una dura repressione del movimento operaio; ad esempio, il 9 gennaio del 1950 a Modena i lavoratori delle Fonderie erano in lotta contro i licenziamenti. La polizia sparò sugli operai uccidendone sei e ferendone cinquanta. In Emilia la risposta degli operai fu lo sciopero generale.
Data l’opposizione dei lavoratori i padroni si convinsero a seguire un’altra strada. Sebbene avessero spaccato il sindacato in tre, la Cgil (sotto direzione comunista e socialista) rimaneva di gran lunga il più forte coi suoi 4.782.092 iscritti nel 1950, contro il 1.489.682 della Cisl e i 401.528 della Uil. Per questo i padroni iniziarono ad applicare una politica per ridimensionare la Cgil.
Gli Agnelli danno l’esempio
La Fiat era all’“avanguardia” in questa politica. Nel periodo 1951-52 la direzione Fiat ridusse l’orario di lavoro con una riduzione del salario. Nel marzo dello stesso anno la Fiom-Cgil rispose all’attacco convocando uno sciopero a Torino, Milano e Genova, ma i segni della sconfitta subita nel periodo precedente si fecero sentire e la partecipazione fu scarsa. Dopo lo sciopero i padroni attuarono licenziamenti di rappresaglia. Nel 1953 la direzione della Fiat chiuse le sedi delle Commissioni interne e vietò ai membri ogni possibilità di movimento in fabbrica; limitò il diritto di sciopero; usò il ricatto sul posto di lavoro e la discriminazione politica, e promosse il sindacalismo “giallo” in contrapposizione alla Cgil. Questo non era nuovo per la Fiat: solo allo stabilimento di Mirafiori, tra il 1948 e il 1953 ci furono 164 licenziamenti “politici”, cioè per aver svolto attività politica e sindacale. Di questi 30 erano membri delle commissioni interne.
Non c’è da illudersi però che il motivo per cui la Confindustria voleva indebolire questo sindacato si trovasse nella natura dei dirigenti della Cgil; la diversità della Cgil si trovava nella sua base, quella base operaia formatasi nei movimenti rivoluzionari che avevano portato alla caduta del fascismo. La borghesia doveva sconfiggere questa base e doveva isolare quei militanti più combattivi dalla massa dei lavoratori se voleva riuscire a portare avanti la sua politica.
I dirigenti della Cgil invece proposero il “Piano del lavoro”, un piano di costruzioni di centrali elettriche con la nazionalizzazione di questo settore, un grande piano d’irrigazione, bonifica e trasformazione agraria e un piano di costruzioni edilizie. In sostanza il Piano del lavoro era un vero e proprio patto sociale, in cui i lavoratori avrebbero dovuto sacrificare i propri interessi per quelli della cosiddetta “collettività nazionale”. Al congresso della Cgil nell’ottobre del 1949 Di Vittorio, parlando del Piano del lavoro, disse:
“I lavoratori salariati e stipendiati di tutte le categorie, malgrado le loro condizioni di miseria, saranno felici di fare dei nuovi sacrifici (…).”
Il “Piano del lavoro” della Cgil
Ironia della sorte, ai padroni una collaborazione del genere non interessava. Ormai i capitalisti puntavano alla totale sottomissione della classe operaia, e non ad un “dialogo”. I capitalisti avevano avuto bisogno dei dirigenti della Cgil nel periodo 1943-48, quando i lavoratori erano ad un passo dal potere. Ma una volta fatto rientrare il movimento, una volta che c’era l’inizio del riflusso, essi non servivano più.
Significativo fu l’intervento di Giovanni Roveda, segretario della Fiom, sempre al congresso della Cgil del 1949, in cui spiegava cosa stava succedendo:
“Vi è in Italia da parte di tutte le organizzazioni padronali e dello stesso governo la volontà di bloccare i salari in un modo presso a poco uguale a come furono bloccati durante il periodo fascista… Si vuole creare nelle fabbriche lo stato d’animo per cui anche soltanto discutere quanto ha detto il direttore o il padrone può portare al licenziamento.”
Si stava imponendo un’intensificazione del lavoro in tutte le fabbriche. Ad esempio nel 1951, secondo Teresa Noce, segretaria della Fiot-Cgil (tessili), “si chiede che il lavoro fatto prima da otto operaie venga ora fatto da tre.” La lotta nelle fabbriche contro l’intensificazione del lavoro fu molto dura ma finì per essere sconfitta, perché il sostanziale blocco dei salari portava i lavoratori a “monetizzare” l’intensificazione del loro sfruttamento pur di ottenere qualche miglioramento nella busta paga. Questo non avvenne a caso: i salari dei lavoratori italiani erano molto più bassi di quelli dei lavoratori inglesi o tedeschi. Secondo i dati del Ministero del Lavoro, nel 1951 il guadagno medio mensile di un operaio era di 26.790 lire, mentre il costo della vita per famiglia-tipo era di circa 50.000 lire.
IX – IL BOOM DEGLI ANNI ’50 CREA UNA NUOVA CLASSE OPERAIA
Nel 1945 la Cgil aveva ancora 4.988.271 iscritti, ma già nel 1953 questa cifra era scesa a poco più di 4 milioni. Alla fine degli anni ’50 era calata a 2.500.000 iscritti, in sostanza un dimezzamento. Lo stesso processo colpiva il Pci. Alla Fiat Mirafiori nel 1946 il Pci aveva 7.000 iscritti su 16.000 dipendenti. Nel 1950 questi erano ridotti 4.500 su 22.000 dipendenti.
La Fiom, alle elezioni della Commissione interna del 1949, aveva ottenuto il 75% dei voti, contro il 25% dei cosiddetti sindacati “liberi”. Nello stesso anno il 57% dei dipendenti erano iscritti alla Fiom. Invece dal 1949 al 1953 gli iscritti andavano man mano calando, e questo si sarebbe riflesso nelle elezioni della Commissione interna. Nel 1954 la Fiom aveva ancora il 63,2% (la Fim-Cisl il 25,4% e la Uilm l’11,3%). L’anno dopo la Fiom scese al 36,7%, perdendo per la prima volta nel dopoguerra la maggioranza assoluta in quella fabbrica, mentre la Fim salì al 40,5% e la Uilm al 28,5%. Nel 1957 la Fiom scese addirittura al 21,1%, mentre la Fim arrivava al 50%.
Quello che succedeva alla Fiat rifletteva un processo in atto in tutto il paese. Nel 1946 il Pci aveva 2.068.282 iscritti, di cui il 53% erano operai. Nel 1960 ne aveva 1.800.000, di cui il 37,4% operai. Mentre nei primi anni dopo la guerra furono i giovani ad entrare in massa nel Pci, negli anni ’50 calava drasticamente l’adesione dei giovani al partito. Nel 1951 la Fgci aveva 438.759 iscritti. Nel 1963 questa cifra era scesa a 174.000. Il movimento operaio “organizzato” andava invecchiando. I “vecchi” provenienti dalle lotte degli anni ’40 rimanevano legati alla Cgil, ma i giovani che entravano in fabbrica non vi si avvicinavano. Anzi nelle condizioni di ricatto preferivano la Cisl o la Uil.
L’indebolimento del Pci e della Cgil
La repressione, unita ad un rapporto di “privilegio” che i padroni avevano instaurato con Cisl e Uil, spiega in parte questo fenomeno. Ma un’altra ragione non meno importante si trova nella politica portata avanti dai dirigenti della Cgil. Come dice Vittorio Foa:
“Nella linea della Cgil mancò totalmente la rivendicazione salariale e le spinte che in tal senso venivano dalle fabbriche, e quindi dai grandi sindacati di categoria dell’industria (metalmeccanici, chimici e tessili) e dai loro dirigenti (Roveda, Guidi e poi Lama, Teresa Noce), vennero contenute e talvolta represse dal centro federale.
Continuava nella Cgil la linea della centralizzazione contrattuale, il rifiuto di accettare l’autonoma iniziativa degli operai di fabbrica (…) si pensava che di fronte ad una disoccupazione così estesa convenisse contenere le rivendicazioni salariali in modo da consentire l’accumulazione di profitti per nuovi investimenti e nuova occupazione. Si accettava cioè l’ideologia capitalistica dominante, senza riflettere che non era detto che l’accumulazione di più alti profitti si traducesse in nuovi investimenti e, anche in caso affermativo, non era detto che i nuovi investimenti fossero fatti per dare lavoro ai disoccupati anziché togliere lavoro agli occupati introducendo nuovi macchinari più perfezionati, come avvenne in effetti largamente verso la fine del decennio.
Fra il 1952 e il 1954 la pressione di base costrinse la Cgil a impostare azioni salariali, ma tutte centralizzate, proposte in modo da non portare a una effettiva mobilitazione, prive di una direzione operativa effettiva. Il risultato di questo sostanziale disimpegno salariale fu l’accordo separato che la Confindustria concluse nell’estate del 1954 con la Cisl e l’Uil, accordo che diede una nuova struttura alle retribuzioni, con piccoli miglioramenti salariali, ma chiuse le possibilità di azione della Cgil, che registrò da quel momento un aperto declino.”
È così che la Cisl e la Uil si aprirono uno spazio nelle fabbriche .
Le illusioni create dal boom economico
Contemporaneamente vediamo l’inizio di un forte boom economico. Questo boom iniziava a riportare le masse a illudersi che il capitalismo potesse risolvere i loro problemi. Tipico il commento di M. M. Postan nel suo libro Storia Economica d’Europa, 1945-64:
“Marx e i marxisti hanno spesso argomentato che le crisi economiche appartengono propriamente alla natura del sistema capitalistico e sono destinate a causar il suo crollo finale (…) E veramente l’esperienza dell’epoca interbellica sembrò avvalorare la diagnosi (…) Sia la diagnosi che la prognosi furono smentite dall’esperienza postbellica.”
In realtà quello che stava succedendo non negava affatto l’analisi marxista. Era la sconfitta della classe operaia che permetteva ai capitalisti di aumentare lo sfruttamento. Nel periodo 1948-55 la produzione industriale in Italia cresce del 95%, le ore di lavoro effettuate crescono del 6% e il rendimento del lavoro per ora (cioè la produttività) cresce dell’89%. Di conseguenza, i profitti crescono dell’86%. Dall’altra parte nel periodo 1948-56 i salari reali crescono solo del 6%.
Mentre è vero che in generale il tenore di vita era cresciuto negli anni ’50, questa crescita fu molto bassa se confrontata all’aumento dei profitti.
Dalle campagne, e particolarmente dal Sud, arrivavano braccianti e contadini disposti a lavorare per poco. Ad esempio, nel 1955 il reddito annuo per abitante al Nord era di 550.000 lire, in confronto alle 230.000 nel Sud. L’Italia si stava trasformando da un paese dove ancora il 42,2% della popolazione lavorava la terra (1951) ad un paese prevalentemente industriale. Questo però fornì ai capitalisti un esercito di manodopera a basso costo che continuò ad affluire verso le città per tutto il decennio.
In questo contesto la Cisl assunse la rivendicazione di aumenti salariali in rapporto all’andamento della produttività. Questa rivendicazione, sebbene non colpisse i profitti dei capitalisti, dava alla Cisl una immagine che a molte fasce di lavoratori sembrava più efficace. Così vediamo che a molti di quei giovani lavoratori che entrarono nelle fabbriche durante il boom, privi di ogni tradizione sindacale alle spalle, la Cisl sembrava l’opzione più valida quando cercavano un sindacato. Questo era dovuto anche al fatto che avere la tessera Cisl significava avere meno problemi con il padrone.
Una nuova classe operaia
Tutto questo nasceva dalla sconfitta del movimento del 1943-48. Inevitabilmente gli elementi più avanzati venivano isolati. La prospettiva di un cambiamento rivoluzionario si era allontanata. La Cgil e il Pci perdevano la forza che avevano avuto subito dopo la guerra. Con la sconfitta era più facile per i padroni applicare metodi repressivi nelle fabbriche. Furono liberi di ristrutturare le industrie secondo le esigenze della nuova situazione economica mondiale che si era venuta a creare. Ma questo processo stava preparando quella forza che sarebbe tornata in campo negli anni successivi. L’industrializzazione dell’Italia stava creando una nuova e più forte classe operaia. I giovani venivano assunti in gran numero mentre i licenziamenti dovuti alle ristrutturazioni permettevano di mettere fuori dalle fabbriche gli elementi più organizzati e combattivi.
Allo stesso tempo però i salari e le condizioni di lavoro non si adeguavano al tasso di crescita della produzione e dei profitti. E questa situazione cominciava ad avere i suoi effetti anche sulla base operaia della Cisl. Non è a caso che questo sindacato, a partire dal 1956, cominciò ad allontanarsi dalla collaborazione aziendale, fino alla clamorosa rottura con la Fiat nel 1958. Questo processo sta a dimostrare che anche un sindacato “giallo”, non di “classe”, in determinate condizioni, sotto la pressione dei propri iscritti, può trovarsi costretto ad esprimere posizioni radicali e iniziare a spostarsi a sinistra, come fu il caso dei metalmeccanici della Cisl. Si stava preparando una nuova offensiva operaia.
X – “MIRACOLO ECONOMICO” E LA RIPRESA DELLE LOTTE OPERAIE
La fine degli anni ’50 vide un primo risveglio di lotte operaie dopo gli anni bui incominciati un decennio prima. Questo risveglio era legato strettamente alla trasformazione in atto nell’economia italiana. Il prodotto interno lordo crebbe del 5,5% annuo nel periodo 1951-58 e del 6,3% annuo nel 1958-63. La crescita del settore manifatturiero fu particolarmente forte nel quinquennio 1959-63: 10,1% annuo!
Nello stesso periodo gli investimenti industriali crebbero del 6,6% annuo (1951-58) e del 14% (1958-63). In termini assoluti la classe operaia industriale crebbe dai 3.410.000 individui del 1951 ai 4.800.000 nel 1961. Il periodo 1958-63 è ricordato come il “Miracolo italiano”. Il tasso di disoccupazione, che nel 1959 era ancora al 7%, scese al 3,9% nel 1963, la cifra più bassa mai raggiunta dal dopoguerra a oggi.
L’immigrazione dal Sud
Questo sviluppo economico però avveniva in maniera squilibrata. Era concentrato fondamentalmente nel “triangolo industriale” Torino-Milano-Genova. È così che nello stesso periodo 1958-63, 900mila italiani si spostarono dal Meridione verso il Centro-Nord. A Torino questo fenomeno fu particolarmente evidente; la popolazione della città passò da 719.300 abitanti del 1951 a 1.124.714 nel 1967. Ma le città del Nord non erano attrezzate per questa crescita esplosiva della popolazione. I lavoratori provenienti dal Sud spesso erano costretti a vivere in 4-5 persone per stanza, con un solo bagno per 40-50 persone, nelle cantine o nei soffitti dei palazzi.
I padroni si aspettavano che questa forza lavoro sarebbe stata docile e obbediente, non sindacalizzata. Invece, l’entrata di questi giovani lavoratori nelle fabbriche del Nord creò le condizioni per una nuova ondata di lotte. Questo si vide subito dalle cifre degli scioperi: nel 1959 furono il doppio rispetto alla media annuale di tutti gli anni ’50. Le condizioni di quasi piena occupazione al Nord diedero ai lavoratori una rinnovata fiducia, per la prima volta dagli anni ’40. Particolarmente i lavoratori immigrati impararono presto che per mantenere il posto di lavoro non era necessario chinare la testa. La protesta spesso portava a dei risultati positivi, e anche quando il padrone rispondeva con delle rappresaglie era quasi sempre possibile trovare un altro lavoro in un’altra fabbrica.
La classe operaia riprende fiducia
Allo stesso tempo la produzione di massa con i lavoratori a catena concentrava centinaia e migliaia di lavoratori in grandi fabbriche, costretti a fare un lavoro meccanico e ripetitivo. Man mano che cresceva la fiducia nella propria forza crescevano le rivendicazioni per la riduzione dei ritmi di lavoro, dell’orario di lavoro, per aumenti salariali e per un maggiore controllo operaio sul processo produttivo. A questo si aggiungeva tutto il risentimento dei lavoratori provenienti dal Sud per le condizioni che erano costretti a subire fuori dalle fabbriche.
Furono queste spinte dal basso a imporre lotte unitarie ai sindacati. La Cisl, che era cresciuta tra i giovani lavoratori, subì particolarmente queste pressioni e non è a caso che tale svolta in questo sindacato sia partita proprio dai metalmeccanici della Fim-Cisl, a partire dalla fine degli anni cinquanta. Un altro segnale di cambiamento venne dalle elezioni del 2 aprile 1958; la Fiom (Cgil) riconquistò una parte del terreno perduto mentre la Fim (Cisl) e la Uilm confermarono le proprie posizioni, e tutto ciò a danno del Sida (sindacato autonomo filo-padronale, costituitosi a seguito di una scissione nella Cisl torinese) e della Cisnal (sindacato fascista).
Le prime lotte unitarie furono quelle per la riduzione dell’orario di lavoro nella siderurgia nel 1957. Ogni volta che le lotte partivano direttamente dai lavoratori nella produzione, non potevano che diventare unitarie. Nella sessione dei rinnovi dei contratti di lavoro nel 1959, l’unità d’azione sindacale ottenne i suoi primi successi. Insieme a queste lotte aumentò la democrazia sindacale, grazie ad una maggiore partecipazione dei lavoratori nella vita dei sindacati e alcune embrionali esperienze di solidarietà studentesca con le lotte operaie.
Il Segretario Generale della Cgil, Agostino Novella, disse, rispecchiando le pressioni che provenivano dal basso, nella sua relazione introduttiva al Congresso nazionale dell’aprile del 1960:
“Bisogna lottare, lottare e ancora lottare perché il reddito percepito dai lavoratori aumenti in modo continuo e si trasformi in un potente impulso per l’avanzata del benessere materiale e morale dei lavoratori (…).”
I lavoratori contro Tambroni e l’Msi
La borghesia, che credeva di aver sottomesso una volta per sempre la classe operaia italiana, in un primo momento reagì a questo risveglio di lotte operaie con un tentativo di spostare l’asse politico a destra. Nella primavera del 1960, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi invitò il democristiano Tambroni a formare un nuovo governo, ma il primo voto di fiducia fu ottenuto solo grazie all’appoggio dell’Msi e dei monarchici. In giugno l’Msi annunciò che avrebbe tenuto il suo congresso nazionale a Genova. Annunciò inoltre che al congresso avrebbe partecipato Carlo Emanuele Basile, l’ultimo prefetto di Genova durante la repubblica fascista di Salò, il quale era stato responsabile della morte e della deportazione di molti lavoratori e antifascisti genovesi.
La reazione dei lavoratori genovesi fu immediata: il pomeriggio del 30 giugno decine di migliaia di lavoratori sfilarono per le strade della città. In serata ci furono violenti scontri con la polizia. Il giorno dopo il governo inviò altre forze di polizia nella città. Contemporaneamente la federazione genovese dell’Associazione nazionale partigiani costituì un “Comitato di liberazione permanente” con lo scopo di prendere in mano il governo della città. Tambroni capì che era necessario rinviare il congresso dell’Msi, ma credeva ancora di poter imporre la propria autorità con la forza. Diede il permesso alla polizia di sparare in “situazione d’emergenza”. Il risultato fu un morto a Licata in Sicilia il 5 luglio e 5 morti a Reggio Emilia due giorni dopo. La Cgil rispose convocando uno sciopero generale nazionale che ebbe un appoggio massiccio.
Il dilemma dei padroni
La polizia continuò a sparare uccidendo altri lavoratori l’8 luglio a Palermo e Catania, ma la reazione dei lavoratori fu così decisa che la stessa Dc fu costretta a sostituire Tambroni, il quale diede le dimissioni il 22 luglio.
La borghesia, attraverso la politica del governo Tambroni, aveva creduto di poter ristabilire l’ordine con la repressione. Invece ebbe l’effetto opposto. La classe operaia si era ripresa dalle sconfitte degli anni ’40. Il boom economico l’aveva rafforzata e le aveva dato una rinnovata fiducia.
Questo si è visto poi negli anni 1960 e 1961, che furono caratterizzati da grandi lotte aziendali e di settore: la vertenza degli elettromeccanici del 1960-61, aperta nonostante fosse stato da poco concluso il contratto dei metalmeccanici, fu un successo sindacale. Un’altra conquista importante fu quella dell’accordo interconfederale del 16 luglio 1960, dove per la prima volta si stabiliva la parità delle retribuzioni tra lavoratori e lavoratrici per quanti effettuavano lo stesso tipo di lavoro.
I padroni si trovavano di fronte a lotte unitarie che cominciavano a dare dei risultati in termini materiali ai lavoratori. Ci fu un notevole aumento delle retribuzioni non solo in termini monetari, ma anche di potere d’acquisto reale. A questo si aggiungeva una crescita complessiva del reddito della famiglia operaia media grazie all’aumento dell’occupazione.
Questo risveglio della classe operaia poneva seriamente davanti alla borghesia un dilemma: quale politica applicare per far rientrare le lotte operaie?
XI – 1962-64: LA RECESSIONE INTERROMPE L’OFFENSIVA OPERAIA
I padroni si trovavano di fronte ad una nuova offensiva operaia dopo il riflusso degli anni ’50. Dalle 46.289.000 ore di sciopero del 1960 si passò alle 181.732.000 del 1962.
Dietro queste cifre c’era l’aumentato potere contrattuale dei lavoratori, dovuto all’espansione economica di quel periodo. Nel 1961 il Pil cresceva dell’8% e i disoccupati scendevano al minimo del dopoguerra (800.000 unità, 3,9% della forza lavoro). Alla Fiat la produzione di autovetture passava dalle 339.300 del 1958 alle 941.890 del 1963. Solo nel Piemonte il numero di addetti nell’industria passava dai 633.000 del 1959 ai 780.200 del 1963.
Boom economico e ripresa delle lotte operaie
Non è un caso dunque che nel 1962 tutti i settori del movimento operaio fossero in agitazione. Gli insegnanti attuarono scioperi lunghi chiedendo l’assegno integrativo già conquistato dagli altri statali. A fianco di questi c’erano le imponenti agitazioni dei braccianti. Con il contratto scaduto si trovavano anche i gommai, i conservieri, i poligrafici, i cartai, ecc., mentre i calzaturieri, gli edili e i tessili lottavano per l’integrazione del contratto. I navalmeccanici fecero quattro scioperi. Nel voler sconfiggere questo settore, tradizionalmente combattivo, i governi andarono incontro a scontri durissimi.
Dopo un lungo periodo nel quale si era visto “un sindacato ridotto a testa dirigente priva di corpo militante”, si videro svilupparsi lotte a livello aziendale nel settore metalmeccanico. Si cominciò alla Fiar di Milano e alla Lancia di Torino. A Milano la lotta si allargò rapidamente, ed entro aprile si vinse all’Alfa, alla Cge, alla Fiar, alla Siemens e in altre aziende. Alla Lancia di Torino la lotta iniziata in alcuni reparti si allargò poi agli altri, sfociando in manifestazioni cittadine.
Queste manifestazioni crearono subito un nuovo rapporto fra lavoratori e sindacati; era sempre più la base a imporre le forme di lotta. Fu così che, dopo un mese, gli undicimila lavoratori della Lancia ottennero aumenti di paga, più ferie e l’assunzione dei contrattisti “a termine”.
Importanti conquiste
I padroni decisero che bisognava correre ai ripari e fermare il movimento, altrimenti il prezzo economico e politico del contratto sarebbe potuto salire parecchio. Decisero di proporre la disdetta del contratto in anticipo. Inizialmente diversi padroni tentarono lo scontro duro. Borletti a Milano attuò la serrata, ma alla fine dovette mollare; aumenti salariali, assunzione dei “contrattisti a termine” e revisione del cottimo. Alla Piaggio di Pontedera, dopo nove anni di “silenzio”, ci fu il risveglio e alla fine della lotta, durata 77 giorni, il padrone fu costretto a cedere sul premio e sui cottimi.
Le lotte si diffusero in tutta Italia. La polizia continuava a intervenire pesantemente negli scioperi e alla fine un operaio venne ucciso nella sparatoria davanti al saponificio di Ceccano, in provincia di Frosinone, il 27 maggio. Questi fatti avrebbero portato allo sciopero di 1.200.000 metalmeccanici il 13 giugno.
Risveglio alla Fiat
Un segnale importante fu il risveglio degli operai Fiat: il 23 giugno scioperarono in 60.000, e Valletta (l’amministratore delegato conosciuto per la sua particolare durezza nei confronti degli operai) tentò dei primi approcci con i sindacati. L’Intersind, l’associazione padronale delle aziende del settore pubblico, firmò un primo protocollo, che rinnovava la struttura contrattuale fissando materie negoziabili in azienda da parte del sindacato.
Questa divisione tra Intersind e Confindustria, unita ad una serie di concessioni del settore privato, rafforzò enormemente la fiducia dei lavoratori nelle proprie capacità di strappare concessioni ai padroni. Contemporaneamente le lotte imposte ai vertici sindacali dal basso fecero sì che il sindacato riconquistasse la fiducia dei lavoratori; in particolare gli iscritti alla Fiom continuavano a crescere.
Piazza Statuto
Fu in queste condizioni che la Fiat tentò di raggiungere un accordo separato con Uil e Sida. La risposta dei lavoratori fu uno sciopero di 72 ore, durante il quale scoppiarono gli scontri di piazza Statuto (la sede della Uil) a Torino. Il pomeriggio, dopo le manifestazioni sindacali ufficiali, un numero consistente di giovani affluì nella piazza per contestare l’azione della Uil. Erano soprattutto giovani dai 15 ai 25 anni. Ci fu una vera e propria battaglia che durò tutta la notte. Alla fine furono fermate 291 persone, di cui 150 erano immigrati del Sud; gli arresti furono 38. I sindacati reagirono dichiarando questi giovani una massa di teppisti, “senza partito”, ecc. Pur essendo che alcuni provocatori (anche della polizia) potevano essere presenti, quei fatti rappresentavano il vero stato d’animo di quella nuova generazione di operai entrata in fabbrica durante il boom economico. Era quella generazione di operai che stava scoprendo la lotta di classe, lo sciopero, l’occupazione della fabbrica, il ruolo della polizia e… i limiti dei vertici burocratici dei sindacati. Questa era la generazione che avrebbe poi guidato le lotte sette anni dopo, nell’Autunno Caldo del 1969.
“Preambolo contrattuale”
Le lotte furono grandiose, ma rimaneva il forte limite della burocrazia al vertice dei sindacati. Questo si vide nel famoso “preambolo contrattuale” inserito nel contratto delle industrie metalmeccaniche a partecipazione statale, firmato il 20 dicembre 1962. In quel preambolo c’era una clausola che limitava le materie che si potevano contrattare in azienda. Quel “preambolo” venne poi adottato in tutti i contratti, anche con la Confindustria.
Recessione e riflusso
Quello che rese più facile l’applicazione del “preambolo” fu la recessione che iniziò nel 1963. Nel 1964 il Pil cresceva solo del 2%. Dal 1963 al 1966 i disoccupati erano cresciuti da 800.000 a 1.200.000. Alla Fiat ci fu un primo calo della produzione, e solo nell’industria piemontese in tre anni vennero eliminati 60.000 posti di lavoro. Tutto questo si tradusse in un forte calo degli scioperi, e dal picco del 1962 si passò a 90 milioni di ore di sciopero nel 1963, per poi calare ancora nel 1965 a 60 milioni. Allo stesso tempo la Fiom tornò a perdere iscritti.
In questo contesto, i padroni passarono all’offensiva. Investirono meno, ma ottennero un aumento della produttività attraverso un’intensificazione dei ritmi di lavoro, con la famigerata “riorganizzazione del lavoro”.
Un esempio di cosa significasse questa nuova offensiva antioperaia si vede da un articolo nel giornale di fabbrica della “Pettinatura italiana e Lana Patrizia”, dell’aprile 1964:
“In quasi tutti i reparti è stato applicato l’incentivo e da questo momento è incominciato a regnare il malcontento e il nervosismo fra la massa operaia, il lavoro è diventato massacrante, lo sfruttamento è enormemente aumentato, i guadagni di incentivo sono bassi (…) sono mesi e mesi che [le operaie] lavorano sotto il controllo dei cronometristi (…) che controllano, segnano la capacità delle operaie: vengono cronometrati il tempo di attaccare le file, di fare le levate, persino il tempo che impiegano ad andare a bere un bicchiere d’acqua.”
Una molla pronta a scattare
La recessione rendeva facile il ricatto padronale, ma questa intensificazione dei ritmi di lavoro stava preparando una molla che sarebbe scattata appena l’economia fosse tornata a crescere.
È così che i padroni, cercando di riportare “l’ordine” nelle fabbriche, aumentarono sì lo sfruttamento, ma nello stesso tempo prepararono le esplosioni del 1968-69.
XII – 1965/69: LA RIPRESA ECONOMICA
Il periodo intorno al 1965 per molti aspetti assomiglia a quello di oggi. Si verificavano brevi scioperi di natura difensiva, ma la crisi economica permetteva ai padroni di arroccarsi su posizioni dure, giocando sulla paura dei lavoratori di perdere il posto di lavoro.
Così la lotta per aumenti salariali passava in secondo piano: per i lavoratori era prioritario salvare il posto di lavoro. Circa 500.000 metalmeccanici si trovavano in cassa integrazione.
Il padronato approfittò di questa situazione per ristrutturare le aziende. Tra l’agosto del 1964 e l’agosto del 1965, l’occupazione nell’industria era diminuita del 5,2%, mentre il rendimento del lavoro, la produttività, era aumentata del 14,5%. Nello stesso periodo il salario reale operaio cresceva solo del 2%.
In quelle condizioni i rinnovi contrattuali davano scarsi risultati, mentre i vertici sindacali, pur di mostrare la propria “comprensione” verso il padronato, cercavano di imbrigliare la combattività dei lavoratori. La situazione nel suo complesso non era propizia allo sviluppo di movimenti di grande portata.
La ripresa economica stimola le lotte operaie
La situazione cominciò a cambiare solo quando ci fu un primo segnale di ripresa economica, verso la fine del 1965. Il 1966 si aprì con la lotta dei metalmeccanici, seguiti a febbraio dalle altre categorie. Era evidente che gli operai volessero recuperare quello che avevano perso durante la recessione.
Inizialmente i padroni tentarono di frenare il movimento con la repressione, ma questo ebbe l’effetto contrario: il movimento si rafforzò e si generalizzò. Alla fine di marzo, la morte violenta di uno studente, Paolo Rossi, diede il segnale d’avvio alle lotte degli studenti universitari. La situazione stava diventando esplosiva. Gli edili, i cementieri, gli alimentaristi, i dipendenti delle Poste e di altre categorie si schierarono al fianco dei metalmeccanici. Di fronte a queste forti pressioni il governo intervenne presso la Confindustria, riuscendo così ad ottenere una tregua nella lotta.
In queste lotte i lavoratori spingevano le confederazioni sindacali verso un’azione unitaria. Ad esempio, il 10 febbraio, nel settore edile, Cgil, Cisl e Uil organizzarono uno sciopero nella stessa giornata. Complessivamente il 1966 si chiuse con un numero di ore di sciopero maggiore rispetto al 1965.
I primi Comitati unitari nelle fabbriche
Una novità importante di quell’anno fu la formazione nell’industria metalmeccanica dei primi ‘Comitati unitari di fabbrica’, i precursori dei Consigli di fabbrica del 1969. I lavoratori in lotta cominciavano a superare le divisioni sindacali imposte dall’alto. Le Commissioni interne del settore alimentare organizzarono un primo congresso unitario nazionale, i ferrovieri avevano indetto le elezioni delle Commissioni interne sulla base di intese unitarie.
In questo modo i lavoratori promuovevano iniziative che li portavano a scontrarsi con le loro stesse confederazioni sindacali. Allo stesso tempo queste ultime si trovavano costrette ad aderire a queste iniziative per non perdere il proprio prestigio e la propria credibilità.
Pur con queste novità, le lotte del 1966 rimasero a un livello essenzialmente economico. L’esplosione del 1966 fu seguita da una relativa calma nel 1967; gli scioperi tornarono quasi allo stesso livello del 1965. Ma più che un anno di “pace sociale”, il 1966 rappresenta un periodo di transizione verso le lotte del 1968-69.
Un cambio qualitativo nella situazione
I lavoratori non erano stati sottomessi. Questo si vide nella reazione alle nuove disposizioni anti-sciopero del governo. La principale prevedeva la perdita del salario dell’intera giornata lavorativa in caso di sciopero breve. Quando si sviluppò in quell’anno una lotta unitaria dei lavoratori dei servizi municipali (trasporti urbani, nettezza urbana, gas, luce), visto che lo sciopero di un’ora comportava gli stessi effetti sul salario di uno sciopero di un giorno, gli uffici restavano chiusi un giorno intero.
Dalle lotte puramente economiche si stava passando ad un livello più alto. Le prime lotte dopo la recessione furono inevitabilmente di natura economica. I lavoratori cercavano di recuperare ciò che avevano perso in termini salariali, ma poi cominciarono a reagire anche ai ritmi e agli orari di lavoro imposti nel periodo precedente. I ferrovieri iniziarono una lotta per umanizzare le condizioni di lavoro del personale viaggiante: ottennero un aumento dell’organico. I braccianti conquistarono la riduzione dell’orario di lavoro con aumenti salariali.
Dalle lotte economiche alle lotte più avanzate
Anche se il numero di ore di sciopero nel 1967 non fu alto, era la natura delle lotte a segnalare un cambiamento qualitativo nella situazione: le lotte portavano a conquiste concrete. Queste dimostravano alla grande massa che non sempre le lotte dovevano essere sconfitte. Quando questo concetto penetrò la coscienza di milioni di lavoratori, si ebbe uno dei più grandi movimenti mai visti nella storia del movimento operaio italiano.
L’unità tra studenti e lavoratori
Fu l’autunno del 1967 a dare un segnale importante. Cominciavano a muoversi anche gli studenti: in novembre si svolsero le prime occupazioni delle università a Trento, Milano, Torino, Genova e Cagliari, e ci fu un naturale avvicinamento tra gli studenti e i lavoratori.
Alla fine dell’anno però si vide anche un altro segnale: una prima contrapposizione tra la volontà di lottare dei lavoratori e il freno posto dai vertici sindacali. Avvenne sulla questione delle pensioni; di fronte all’intransigenza del governo le Confederazioni cedettero. Era dal 1964 che i lavoratori chiedevano l’aumento delle pensioni e la riforma del sistema delle pensioni. Il 15 dicembre del 1967 i vertici sindacali avevano annullato lo sciopero, ma le trattative erano a un punto morto e così il 1968 si aprì con una serie di scioperi, manifestazioni, riunioni e cortei che insistevano sulla questione delle pensioni. Il 27 febbraio la Cgil era pronta a firmare una bozza di accordo. Ma in una vasta consultazione tra i suoi militanti venne bocciata. Così la Cgil fu costretta ad indire, da sola, lo sciopero generale per il 7 marzo. Lo sciopero ebbe un successo che gli stessi dirigenti della Cgil non si aspettavano. Aderirono anche molte strutture locali della Cisl e della Uil.
In questo ambiente, all’inizio del 1968 i metalmeccanici ripresero la loro lotta, interrotta l’anno prima, per ottenere una revisione del contratto e porre un freno all’intensificazione dei ritmi produttivi. L’Italsider, la Rex, la Zanussi, la Siemens, l’Autobianchi, la Tosi, la Dalmine, la Lebole, la Marelli entrarono in sciopero.
Entrarono in lotta i lavoratori della Fiat
Ma mancava ancora la partecipazione dei lavoratori della Fiat. Le lotte alla Fiat sono sempre state durissime, sia nelle conquiste che nelle sconfitte. I momenti successivi alle sconfitte più severe sono sempre stati caratterizzati da lunghi periodi di scarsa partecipazione agli scioperi, come successe in seguito al 1980. Ma dall’altra parte le più grandi vittorie dei lavoratori italiani hanno sempre avuto alla testa i lavoratori della Fiat.
Dunque la partecipazione o meno della grande massa dei lavoratori Fiat è in linea generale un buon termometro della qualità delle lotte.
Nel marzo ’68, i sindacati consultarono i lavoratori della Fiat sui problemi dell’orario di lavoro e del cottimo: 20.000 si dichiararono per un’azione immediata. Il 30 marzo, dopo il fallimento delle trattative, 100.000 lavoratori della Fiat entrarono in sciopero. Era il primo sciopero di tale vastità alla Fiat, dopo 14 anni.
Il padronato era impreparato a movimenti di queste dimensioni e cedette un po’ su tutti i fronti. Di fronte a questi cedimenti il movimento dei metalmeccanici si estese a macchia d’olio, di fabbrica in fabbrica.
L’abolizione delle gabbie salariali
È in questo contesto che i lavoratori riuscirono ad abbattere le famigerate “gabbie salariali”. Queste prevedevano livelli salariali differenziati a seconda delle province; quelle del Sud erano le più sfavorite. In alcune categorie i lavoratori del Sud erano riusciti a imporre un allineamento delle proprie retribuzioni con quelle del Nord, ma questo non venne esteso subito anche alle altre.
Nell’autunno ’68 la lotta per l’abolizione delle gabbie salariali e quella per l’aumento delle pensioni si unirono in uno sciopero generale nazionale il 14 novembre. Di fronte a questo movimento massiccio la Confindustria fu costretta, il 18 marzo 1969, ad abolire completamente le gabbie salariali. La classe operaia procedeva di conquista in conquista. Ciò comportava una situazione pericolosa per i padroni: i lavoratori stavano prendendo coscienza della propria forza. Erano così maturate le condizioni per l’esplosione delle lotte nell’Autunno Caldo del 1969.
XIII – AUTUNNO CALDO 1969: ILLUSIONI ESTREMISTE DURANTE LA PRIMA ONDATA DI LOTTE
Gli anni ’50 e ’60, sino all’Autunno Caldo del 1969, avevano visto un invecchiamento degli attivisti sindacali; in molti casi le commissioni interne erano composte da lavoratori che erano entrati in fabbrica già dal 1945. Le strutture sindacali reggevano su quella generazione che si era radicalizzata nelle lotte del 1943-48, ma quella stessa generazione, avendo attraversato anni di sconfitte, era diventata a sua volta un freno alle lotte.
Un esempio ci viene dalla Borletti di Milano. La commissione interna era composta principalmente da operai specializzati maschi, molti dei quali erano entrati in fabbrica nel 1945. Alla fine degli anni ’60 però, la maggior parte dei dipendenti erano giovani donne non specializzate. Le lamentele di queste ultime per l’accelerazione dei ritmi di produzione, per il comportamento dei capireparto e per il cottimo non trovavano ascolto da parte della commissione interna. Gli operai comuni non si sentivano dunque rappresentati dagli organi sindacali.
È naturale dunque che le prime lotte del 1968-69 siano scoppiate non nelle grandi fabbriche dove c’era una struttura sindacale consolidata, ma nelle aree più periferiche, sia dal punto di vista geografico che da quello della produzione.
Lo sciopero alla Marzotto
La più drammatica di queste lotte fu quella della fabbrica tessile Marzotto a Valdagno nel Veneto, nell’aprile del 1968. Negli anni ’60 l’azienda era stata ristrutturata con un’accelerazione dei ritmi di lavoro, i salari reali erano calati e i padroni minacciavano 400 licenziamenti.
Il sindacato era sempre stato debole nella fabbrica, e i lavoratori risposero con un’azione spontanea. 4.000 lavoratori, in gran parte donne, manifestarono nella città. La polizia arrestò 42 persone e il governo fu costretto ad intervenire per far rilasciare gli arrestati e ristabilire “l’armonia sociale”.
Significativo è quello che successe durante un turno di notte qualche settimana prima di questo sciopero: un gruppo di operai aveva assaltato il simbolo vivente del loro sfruttamento, l’ufficio cronotecnici, e distrutto le tabelle dei tempi. Fu una lotta isolata, ma era un segnale importante per quello che doveva succedere a livello nazionale da lì a pochi mesi.
Il movimento dei lavoratori ebbe un effetto sul movimento studentesco, che iniziò ad interessarsi dei loro problemi. Gli studenti uscivano dalle facoltà per andare a picchettare le fabbriche.
La situazione sfugge di mano ai sindacati
Allo stesso tempo, nel periodo che va dall’Autunno del 1968 all’autunno del 1969, le strutture ufficiali del sindacato spesso non riuscivano a controllare la situazione nelle grosse fabbriche del Nord. L’iniziativa passava sovente nelle mani di comitati di base nati spontaneamente.
L’ondata iniziata nella periferia del movimento operaio ora cominciava a farsi sentire nelle avanguardie tradizionali delle grandi fabbriche del Nord. Queste avevano visto come i settori meno organizzati erano riusciti a sfidare i padroni, come alla Marzotto.
L’effetto del Maggio francese
Allo stesso tempo c’era appena stato il grande sciopero generale con l’occupazione delle fabbriche in Francia del Maggio del 1968. Questo evento, sebbene fosse durato poche settimane, dimostrò chiaramente il “potere operaio” una volta messo in campo, ed ebbe un effetto profondo sulla coscienza dei lavoratori italiani.
Quando nelle grandi fabbriche gli operai tradizionalmente sindacalizzati, i quali avevano esperienze di lotta passate, iniziavano gli scioperi, venivano scavalcati dagli ‘operai comuni’ con rivendicazioni che andavano ben aldilà di quelle dei settori più specializzati.
Quello che stava succedendo era che i giovani entrati nelle fabbriche durante il boom economico cominciavano a muoversi. C’era stato un vero e proprio “ringiovanimento” della classe operaia. Questa nuova generazione all’inizio era senza esperienza sindacale. Spesso questi giovani operai vedevano il sindacato come una struttura burocratica e conservatrice che non faceva i loro interessi. Allo stesso tempo però avevano un vantaggio sulla vecchia generazione: non avevano subito le sconfitte del passato che rendevano i vecchi più restii a scendere in lotta.
Quello che successe alla Pirelli Bicocca di Milano è significativo. Alla fine del 1967 era scaduto il contratto nell’industria della gomma. Grazie alla ripresa economica, dopo la recessione del 1964 erano stati assunti da poco 2.000 operai, un fattore importante nel determinare la combattività dei lavoratori. I sindacati nella fabbrica organizzarono tre giorni di sciopero, ma alla fine a febbraio 1968 accettarono aumenti salariali modesti e praticamente nessun miglioramento nelle condizioni di lavoro.
Nasce il Cub alla Pirelli
Come reazione a questo comportamento sindacale, nel giugno 1968, con l’iniziativa di un gruppo di operai ed impiegati insieme al gruppo ‘Avanguardia Operaia’, nacque il Cub (comitato unitario di base), una struttura che doveva servire per continuare la lotta a livello di fabbrica. Gli stessi organizzatori del Cub furono sorpresi della risposta dei lavoratori. Gli “operai comuni” affluivano in gran numero alle sue riunioni, dove i sindacati e il Pci venivano denunciati per la loro eccessiva disponibilità a scendere a compromessi.
Dopo molti mesi di dura lotta gli operai ottennero delle conquiste significative. Quella lotta era una conseguenza di un accumulo di contraddizioni nel periodo precedente. I lavoratori rivendicavano un aumento di 40mila lire per portare i salari al livello dei lavoratori francesi della Michelin, di impedire qualsiasi aumento dei ritmi di lavoro, l’abolizione delle condizioni di lavoro notturno, un aumento delle assunzioni per alleggerire il carico di lavoro, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e il sabato festivo.
L’illusione di poter scavalcare i sindacati tradizionali
Questo iniziale distacco tra la massa operaia e le organizzazioni sindacali tradizionali portò molti a pensare che si fosse aperta una crisi gravissima per il sindacato e che la classe operaia cercasse altre vie di organizzazione. Su questa linea si mossero i gruppi politici di estrema sinistra cresciuti sull’onda delle lotte del 1968-69.
Tipico di questo tipo di discorso è un articolo apparso su Monthly Review (edizione italiana) del luglio 1969. In questo si legge dei sindacati che “sono stati scavalcati dalla iniziativa operaia di base”, della capacità di iniziare le lotte “senza e contro le decisioni sindacali.”
L’articolo finisce dicendo che:
“Non ci troviamo di fronte ad un generico ‘scavalcamento’ del sindacato; ci troviamo di fronte a un rifiuto politico del sindacato come strumento di mediazione della lotta di classe. Dietro questo rifiuto c’è la richiesta, l’esigenza pressante di una diversa organizzazione operaia (…).”
Fu un errore grave che avrebbe avuto conseguenze sui gruppi che lo proponevano. L’articolo fu scritto da un gruppo di operai e studenti di Torino. Era proprio nell’estate del 1969, (e in particolare a Torino!) che il sindacato stava per entrare nella fase di massima espansione nella classe operaia e di ricostruzione dal basso.
I settari di ieri, come quelli di oggi, non davano una grande importanza alla storia del movimento operaio, la quale dimostra che ogni volta che c’è stata una grande mobilitazione dei lavoratori (1900-04, 1918-20, 1943-45 e 1969-1977) l’effetto è stato scuotere le organizzazioni sindacali tradizionali dal basso portando al loro rinnovamento.
XIV – L’AUTUNNO CALDO SPOSTA A SINISTRA IL SINDACATO
Per dare un’idea di quello che ha significato il movimento operaio del 1968-69, basta citare le parole eloquenti di un operaio della Pirelli, che ricordava quell’anno come “il miglior anno della mia vita. Fu l’anno in cui come operaio mi sentivo protagonista e padrone del mio destino. E ho continuato ad avere quella sensazione per i due anni successivi. Era meraviglioso essere vivo.”
E non aveva torto. Negli anni precedenti c’era stata una ristrutturazione selvaggia. I padroni avevano sfruttato la recessione del 1964-65 per passare all’offensiva antioperaia dopo le lotte del 1960-63. La ripresa economica ridiede forza ai lavoratori, che non sentivano la minaccia del licenziamento, e nel frattempo una nuova generazione di giovani operai cominciò a farsi un’esperienza di lotte sindacali.
Rivendicazioni rivoluzionarie
Le rivendicazioni però questa volta non si limitavano alla riconquista di diritti persi, o a qualche aumento salariale, ma fecero un salto di qualità che si può definire solo come rivoluzionario. Nella lotta alla Pirelli e in altre fabbriche vennero formulate delle rivendicazioni che puntavano a cambiare il rapporto tra capitale e lavoro. Come ci ha spiegato un pensionato, all’epoca delegato nell’industria elettromeccanica milanese:
“Nelle fabbriche nel 1969 non discutevamo di riforme, ma della presa del potere.”
Le rivendicazioni andavano dal miglioramento delle condizioni di lavoro, con l’abolizione del cottimo e il rallentamento delle linee, a posizioni ancora più avanzate, come la riduzione delle differenze salariali tra operai ed impiegati, delle differenze tra operai, l’aumento automatico del livello in base all’anzianità. Si puntava a non monetizzare i lavori pericolosi e a lottare invece per il miglioramento delle condizioni.
Allo stesso tempo c’era stata la lotta per abolire le differenze salariali a livello nazionale, le “gabbie salariali”.
Una rivendicazione che sfidava direttamente la logica del capitalismo era che i salari non fossero legati alla produttività, dovevano diventare una “variabile indipendente”. Si puntava così a ridurre lo sfruttamento.
Lo sciopero a singhiozzo
Nacquero anche nuovi metodi per gestire le lotte. L’assemblea di massa diventava la prassi normale.
Negli anni precedenti quando si entrava in trattativa gli scioperi si interrompevano, ora invece continuavano durante le trattative per mantenere la pressione sul padrone.
Si riscoprono lo sciopero a singhiozzo (breve interruzione della produzione ripetuta nel tempo in modo da interrompere la produzione col minimo danno salariale per i lavoratori) e lo sciopero a scacchiera (reparti di una fabbrica che scioperano in momenti diversi).
I padroni e i capireparto dovevano fare i conti con le maestranze, e spesso i lavoratori imponevano lo spostamento di quelli che non gli erano graditi!
I picchetti di massa
Si sviluppò il picchetto di massa, spesso con l’aiuto degli studenti, davanti ai cancelli delle fabbriche; poi si passò al corteo interno, dove gli operai scioperavano e si organizzavano dentro la fabbrica. Spesso il corteo interno puntava direttamente sull’ufficio del direttore, il quale a volte riusciva a fuggire, a volte veniva bloccato nell’ufficio.
Significativo fu il ruolo dei giovani operai, molti provenienti dal Sud, i quali organizzarono una serie di scioperi “selvaggi” alla Fiat Mirafiori. Lottavano per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Nel luglio del 1969 i sindacati convocarono uno sciopero generale nazionale contro il livello eccessivo degli affitti. Questi giovani operai però non erano soddisfatti delle rivendicazioni dei vertici sindacali, e presero nelle loro mani la gestione della lotta.
La battaglia di Corso Traiano
Il 3 luglio partì un loro corteo da Mirafiori con migliaia di operai della Fiat e di altre fabbriche torinesi.
La parola d’ordine ufficiale era “Blocco degli affitti”, mentre quella di questo corteo era “Che cosa vogliamo? Tutto!”. La polizia caricò il corteo e gli operai costruirono barricate in Corso Traiano. La “battaglia di Corso Traiano” fu seguita da assemblee di massa alla Fiat e nelle altre fabbriche di Torino.
Da questo movimento nacquero i Consigli di fabbrica, che spazzarono via le vecchie commissioni interne ormai burocratizzate.
La democrazia operaia ebbe la sua massima espressione in queste strutture. Tutti erano eleggibili e tutti elettori, iscritti e non iscritti ai sindacati.
Nascono i Consigli di fabbrica
I grandi vantaggi dei Consigli di fabbrica erano che rappresentavano tutti i lavoratori, e che i delegati erano revocabili in qualsiasi momento dall’istanza che li aveva eletti.
Per dare un’idea di questa democrazia operaia basti considerare che, nel 1965, il momento di massimo sviluppo delle commissioni interne, questi erano presenti in 1.023 luoghi di lavoro nell’industria metalmeccanica, mentre nel 1972 i Consigli di fabbrica nello stesso settore erano 4.291.
I lavoratori entrano nel sindacato
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, c’erano dei gruppi politici in Italia che vedevano in questo uno scavalcamento del sindacato. Invece successe l’esatto contrario: Cgil, Cisl e Uil, che nel 1968 avevano 4.083.000 iscritti, arrivarono ad averne 5.399.000 nel 1972 e 6.675.000 nel 1975. Nel pubblico impiego la Cgil cresceva del 15% l’anno. Il numero di professori iscritti alla Cgil nel 1968 era di 4.000, mentre nel 1975 si era arrivati a 90.000. Altro che “superamento del sindacato”!
Quello che stava succedendo era che dall’enorme spinta dal basso, dalle lotte “spontanee”, i vertici burocratici dei sindacati sentivano le pressioni e venivano costretti a “cavalcare la tigre”, come si diceva all’epoca.
Questo processo non toccò solo la Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, che sentivano la minaccia di rimanere schiacciate di fronte alla radicalizzazione di massa.
Il primo segnale di cambiamento venne dalla lotta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici nell’Autunno del 1969. I sindacati in diversi momenti convocarono scioperi che coinvolsero quasi un milione e mezzo di operai. Questa entrata dei vertici sindacali nella gestione delle lotte ebbe l’effetto di allargarle a tutte le principali fabbriche metalmeccaniche d’Italia.
I padroni rimasero sorpresi da questa “svolta” sindacale, dall’aggressività dei vertici sindacali e dalla loro disponibilità ad usare nuove forme di lotta sviluppate dagli operai in fabbrica.
Nel dicembre del 1969 fu firmato il nuovo contratto metalmeccanico.
La dura lotta dell’autunno aveva dato i suoi risultati: aumenti salariali uguali per tutti, la riduzione dell’orario di lavoro dalle 48 ore settimanali alle 40 sarebbe stata effettuata nell’arco di tre anni, furono fatte concessioni importanti agli apprendisti ed agli studenti-lavoratori, fu conquistato il diritto di organizzare assemblee nei luoghi di lavoro con un massimo di dieci ore all’anno pagate dal padrone.
Così vediamo che, paradossalmente, lo stesso sindacato che prima aveva cercato di arginare le lotte ora, sotto l’enorme pressione dei lavoratori, era costretto a guidarle.
Ciò, a sua volta, serviva a fargli guadagnare un’enorme autorità tra la maggior parte dei lavoratori.
XV – 1970: I VERTICI SINDACALI COSTRETTI A FARE I CONTI CON IL MOVIMENTO
Nel periodo precedente all’autunno caldo del 1969, l’atteggiamento dei lavoratori nei confronti del sindacato era praticamente di ostilità, dovuta al fatto che i vertici sindacali avevano messo il freno alle lotte che nascevano dal basso. In queste condizioni nascevano le strutture di base non controllate dall’apparato sindacale. Invece la spinta dal basso dell’Autunno Caldo costrinse i vertici sindacali a fare i conti col movimento reale nelle fabbriche.
È così che questi vertici furono costretti ad assumere come proprie le forme di lotta che nascevano nei luoghi di lavoro. Questa “svolta” dei vertici diede una nuova autorità ai sindacati, i quali cominciarono ad attirare una massa di lavoratori privi di precedenti esperienze sindacali. Così vediamo come il movimento di massa dal basso, piuttosto che scavalcare i sindacati tradizionali, li costrinse a spostarsi a sinistra.
Come sempre nella storia del sindacato, un movimento con le dimensioni di quello del 1969 portò la massa dei lavoratori a orientarsi ad organizzazioni che nel periodo precedente, ad un osservatore superficiale, potevano sembrare moribonde.
Una lezione per gli attivisti di oggi
Una delle lezioni più importanti della storia del sindacato si trova proprio in quella esperienza, e sarebbe utile ricordarla all’attuale generazione di attivisti sindacali. Anche oggi c’è chi dà per superato il sindacato tradizionale; anche oggi costoro avranno una sorpresa.
Detto questo, però, bisogna pur capire che, per i vertici sindacali dell’epoca, il movimento nato nelle fabbriche veniva visto come un problema e non come un’occasione per rinnovare davvero il sindacato. Rimaneva la contraddizione tra il potere dei Consigli di fabbrica e la politica dei vertici sindacali. Per poter arginare questo movimento, i vertici sindacali furono costretti a porre davanti ai padroni e al governo rivendicazioni che non si sarebbero mai sognati di fare fino a qualche mese prima.
Il sindacato, esprimendo le rivendicazioni operaie, riuscì a strappare conquiste importanti nel 1970: la riduzione dell’orario di lavoro e del numero dei livelli, la conquista dei diritti sindacali in fabbrica e consistenti aumenti salariali (20% rispetto all’anno precedente, i più alti dal dopoguerra). Il sindacato fu costretto anche a sviluppare un programma di rivendicazioni che uscivano dai limiti delle questioni prettamente sindacali, come i problemi dei trasporti pubblici e della casa.
La democrazia dei Consigli di fabbrica
La realtà era che, malgrado la riconquistata autorità dei sindacati tradizionali, questi non avevano il pieno controllo della situazione. I Consigli di fabbrica erano un’espressione della massa dei lavoratori in lotta, e non emanazioni burocratiche dei vertici sindacali imposti dall’alto.
Le vecchie commissioni interne, espressioni di vera democrazia operaia quando nacquero nel movimento del 1943-48, ormai erano diventate strutture ossificate e distanti dalle esigenze operaie. Furono spazzate via dalla nascita dei Consigli di fabbrica, dove vigevano le norme di tutti elettori, tutti eleggibili, iscritti e non iscritti ai sindacati.
I delegati venivano eletti dalle assemblee di reparto o ufficio, e dovevano tenere uno stretto contatto con i lavoratori dei reparti stessi, oltre ad essere revocabili in ogni momento dall’organismo che li aveva eletti. In ogni caso, dopo un anno dalle elezioni era prevista una verifica. Era contro questo controllo della base sui propri rappresentanti che l’apparato sindacale faceva resistenza, la stessa polemica che si era vista nel movimento del 1900-1904 e in tutti gli altri movimenti di massa di questo secolo.
Questa democrazia operaia poneva un problema ai padroni: come potevano essere sicuri che un accordo raggiunto con i sindacati sarebbe stato rispettato dai lavoratori, quando questi avevano delle strutture di base non pienamente controllate dai vertici sindacali? Parallelamente a questo dilemma dei padroni, i vertici sindacali si diedero l’obiettivo di riassorbire questo movimento e integrarlo nelle strutture “ufficiali” del sindacato.
I dirigenti sindacali si trovavano di fronte ad un dilemma: potevano accettare i delegati come rappresentanti in fabbrica del sindacato, e i Consigli di fabbrica come strutture unitarie di base? Ciò implicava il rischio di non riuscire a imporre la linea dell’organizzazione a lavoratori che non erano iscritti al sindacato, ma che partecipavano ai Consigli e che a volte erano delegati. Oppure i dirigenti sindacali potevano rafforzare le preesistenti commissioni interne e rifiutare i delegati, col rischio di alienarsi l’appoggio di una larga fascia di lavoratori.
Il dilemma dei vertici sindacali
Il dilemma fu risolto per i vertici sindacali dall’imponenza del movimento stesso. Nel dicembre del 1970, la Cgil dichiarò che i delegati, iscritti o no al sindacato, sarebbero stati i suoi rappresentanti in fabbrica. Era il riconoscimento di un dato di fatto: i CdF erano i veri organismi rappresentativi nelle fabbriche.
Anche lo Stato fu costretto a riconoscere un dato di fatto, quando nel maggio 1970 fu approvata la legge conosciuta come lo Statuto dei lavoratori. Questa legge riconosceva una serie di diritti in fabbrica che gli operai avevano conquistato attraverso la lotta: libertà di espressione politica e sindacale, protezione del lavoratore da una serie di possibili arbitri da parte dell’azienda.
Lo Statuto dei lavoratori
Quell’esperienza dimostra una cosa: anche un parlamento dominato da partiti borghesi, come quello del 1970, può essere costretto a cedere dei diritti fondamentali, a condizione che ci sia in atto una forte mobilitazione della massa dei lavoratori. La legge non fu conquistata con raccolte di firme o referendum, ma con la forza reale dei lavoratori in lotta. E la legge veniva rispettata, nei primi tempi, perché c’era quel movimento pronto a costringere i padroni a rispettarla.
Allo stesso tempo lo Statuto dei lavoratori , nel suo articolo 19, introduceva un concetto che doveva servire poi ai vertici sindacali a riconquistare il potere che gli era sfuggito nel periodo precedente nei luoghi di lavoro. Quell’articolo stabiliva che le rappresentanze sindacali aziendali potevano essere costituite su iniziativa dei lavoratori, ma nell’ambito di associazioni sindacali “maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, oppure di quelle che comunque fossero “firmatarie di contratti collettivi nazionali e provinciali.”
All’epoca questo non era vissuto come un problema, perché la grande massa dei lavoratori stava entrando proprio in queste associazioni sindacali e ancora non veniva messo in discussione il concetto di tutti elettori, tutti eleggibili. La forza del Consigli di fabbrica rimaneva ancora intatta.
Un altro risultato importante dell’entrata in massa di milioni di lavoratori nei sindacati era quello di spingere le tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil verso l’unità. I lavoratori in lotta avevano superato, a livello di fabbrica, le vecchie divisioni tra le varie rappresentanze sindacali.
La base impone l’unità sindacale
Questa massa di lavoratori lottava per le stesse cose: aumenti salariali, miglioramenti delle condizioni di lavoro, riduzione dell’orario e dei ritmi di lavoro, e non aveva nessun interesse a dividersi artificialmente in base al sindacato di appartenenza. Anche questa è una lezione preziosa per gli attivisti sindacali di oggi: quando la massa dei lavoratori entra in lotta, si pone inevitabilmente la questione dell’unità sindacale, e non della sua divisione.
XVI – 1971-73: LA BASE PUNTA AL SINDACATO UNICO
I capitalisti risposero alle consistenti conquiste contrattuali del 1969-70 in due modi: il primo fu l’inflazione, che a partire dal 1972 subì una forte impennata (dal 6% del ’72 passò al 19% nel ’74). In questo modo il valore reale del salario del lavoratore veniva ridotto, rimangiando così tutte le conquiste dell’Autunno Caldo. Il secondo modo fu il tentativo di aumentare la produttività del lavoro per compensare gli aumenti salariali.
Questo secondo strumento non si poteva realizzare facilmente, fintanto che i nuovi Consigli di fabbrica mantenevano i loro poteri nelle fabbriche.
La situazione era molto difficile per i capitalisti, che erano sconcertati perché per la prima volta da molti anni, dopo la conclusione di contratti dell’importanza di quelli del 1969-70, la pace non tornava nelle fabbriche. I lavoratori avevano toccato con mano la propria forza, ed erano intenzionati a sfruttarla al massimo.
I sindacati costretti a riconoscere i Consigli di fabbrica
Questa situazione creò anche dei problemi alla burocrazia sindacale che, come abbiamo visto, fu costretta a riconoscere i Consigli di fabbrica come strutture di base del sindacato. La prima confederazione a farlo fu la Cgil, ma dopo un periodo si adeguarono anche Cisl e Uil.
In realtà, il riconoscimento dei Consigli di fabbrica da parte dei dirigenti sindacali confederali non rappresentava un’improvvisa conversione di questi ultimi alla democrazia operaia; semplicemente non potevano opporsi alla volontà della base: il movimento era troppo forte e rischiavano di essere travolti dall’onda.
La debolezza dei padroni
Di fronte a quest’ondata di lotte operaie, il governo di centrosinistra si dimostrava uno strumento debole per imporre la volontà dei padroni. Nonostante un tentativo di reazione attraverso la cosiddetta “strategia della tensione” (bombe nelle piazze, ecc.) e la formazione di un governo di centro-destra (Andreotti-Malagodi) nel 1972, i lavoratori non si lasciavano piegare.
I padroni si trovavano ancora incagliati nella trattativa per il rinnovo del contratto metalmeccanico del 1972. Avanzarono pesanti richieste: la regolamentazione dei Consigli di fabbrica, il ripristino della mobilità della forza lavoro nella produzione e l’adozione di misure contro “l’assenteismo operaio” in fabbrica.
La regolamentazione dei Consigli di fabbrica voleva dire che, in cambio di un loro riconoscimento formale da parte degli industriali, li si doveva rendere meno sensibili alle spinte operaie e più sensibili alla “ragionevolezza” dell’ala moderata dei sindacati.
I padroni tentano la controffensiva
Una parte della burocrazia sindacale era favorevole a questo tipo di regolamentazione; in alcuni casi fece sì che non si eleggessero i delegati liberamente su liste aperte, ma impose un certo numero di rappresentanti di ciascun sindacato. S’intravedevano già allora le nuove regole che oggi si vogliono imporre per le elezioni delle Rsu!
La mobilità invece comportava la possibilità di fare straordinari e di modificare la distribuzione settimanale e anche annuale dell’orario di lavoro: ciò significava introdurre turni di notte e il lavoro festivo.
Forte mobilitazione dei metalmeccanici
Purtroppo per i padroni i vertici sindacali non potevano cedere a queste richieste. La spinta dal basso era troppo forte e la lotta dei metalmeccanici si intensificava, portando ad uno straordinario rafforzamento unitario della categoria con una forte solidarietà delle altre categorie dell’industria.
Di fronte a questa intransigenza sindacale la Confindustria ruppe all’improvviso le trattative nel gennaio 1973, sperando così di dividere il fronte operaio. Questo ebbe l’effetto contrario: ci fu una grande intensificazione della lotta nei primi tre mesi del 1973.
Il 9 febbraio (dopo il successo di uno sciopero generale contro la politica sociale del governo) 300.000 operai metalmeccanici manifestarono a Roma. Fu la più grande manifestazione operaia del dopoguerra, impressionante per la sua ampiezza e la sua combattività. Alla fine di marzo gli operai della Fiat di Torino organizzarono un’occupazione-presidio di due giorni della Mirafiori.
Una grande conquista operaia
Questi sviluppi convinsero Giovanni Agnelli, l’allora presidente della Confindustria, della necessità di concludere la trattativa. L’accordo fu decisamente positivo per i lavoratori: riconoscimento (anche se in maniera piuttosto simbolica) che l’orario di lavoro avrebbe dovuto scendere col tempo al di sotto delle 40 ore settimanali, classificazione unica articolata in 7 categorie, aumenti salariali uguali per tutti e riconoscimento del diritto allo studio, cioè delle 150 ore non lavorate ma pagate per permettere al lavoratore di seguire un corso di studio fuori della fabbrica.
La Confindustria deve cedere
Sarà questo tipo di esperienza a convincere Agnelli e l’insieme di Confindustria della necessità prima di proporre il centrosinistra (1973), e poi di aprire al Pci (1976). Sentivano che senza i dirigenti del Pci sarebbe stato difficile riconquistare l’autorità padronale persa nelle fabbriche.
Parallelamente a questa evoluzione della politica della grande borghesia, i lavoratori cominciavano a maturare la convinzione che l’azione sindacale da sola non fosse sufficiente. Questo spiega l’imponente crescita del Pci che iniziò proprio in quegli anni.
Vale la pena di ricordare qui come si sviluppò la questione dell’“unità sindacale”. L’unità operaia nelle lotte spingeva i sindacati Cgil, Cisl e Uil verso la formazione del sindacato unico. Nell’ottobre del ’70 si tenne a Firenze la prima assemblea unitaria nazionale dei Consigli generali delle tre confederazioni (nata come “Firenze 1”). L’assemblea approvò l’idea della costruzione di un “sindacato unico dei lavoratori”. Quella decisione accelerò il processo unitario tra metalmeccanici, chimici, postelegrafonici, ferrovieri, edili e alimentaristi.
Verso il sindacato unico
Questa spinta fu particolarmente forte tra i metalmeccanici dove la Fiom, Fim e Uilm decisero di unirsi dando vita alla Flm (Federazione Lavoratori Metalmeccanici). Il consiglio generale della Cisl richiamò la Fim, senza però passare ad azioni disciplinari, mentre il Comitato centrale della Uil votò a maggioranza (39 voti contro i 32 dei socialisti) che i dirigenti della Uilm si erano posti “fuori dell’organizzazione”, ed invitò apertamente la minoranza di destra della Uilm alla scissione!
Ciononostante i Consigli generali delle tre confederazioni si riunirono ancora (“Firenze 3”), e approvarono un calendario preciso che avrebbe dovuto portare prima del febbraio ’73 a un congresso costitutivo del sindacato unico, al quale però non si arrivò mai.
Le componenti di destra della Cisl e della Uil sfruttarono i risultati elettorali del 7 maggio 1972 (dove ci fu una piccola svolta a destra) per bloccare il processo di unificazione. Il risultato fu il “patto federativo” del 4 luglio 1972, che diede vita alla “Federazione Cgil-Cisl-Uil”, con un comitato direttivo di 90 membri.
A tutti i livelli le decisioni degli organismi federativi dovevano essere prese con una maggioranza qualificata di quattro quinti. Ciò dava, di fatto, il diritto di veto alle varie correnti.
Parallelamente a questo freno al processo di unificazione sindacale, tutte le confederazioni riconoscevano i Consigli di fabbrica aperti a iscritti e non, a condizione che i sindacati fossero rappresentati nei loro esecutivi.
L’unità tanto auspicata dai lavoratori si trasformava così in qualcos’altro: un accordo burocratico al vertice, e questo era accompagnato da un primo passo verso la burocratizzazione dei Consigli di fabbrica. I vertici sindacali stavano preparando gli strumenti con i quali imporre, in un secondo momento, una politica di austerità.
XVII – 1973-74: LE LOTTE OPERAIE SPINGONO L’ITALIA A SINISTRA
Nel 1969, considerando la contestazione della base contro i vertici sindacali, si poteva capire perché alcuni gruppi estremisti della sinistra credessero di trovarsi di fronte al tracollo dei sindacati confederali; ma in poco tempo essi dovettero ricredersi.
Il movimento di massa iniziato nel 1969 aveva costretto i vertici sindacali a mettersi alla testa delle lotte. Questo processo rinnovò l’autorità del gruppo dirigente di Cgil, Cisl e Uil.
Queste lotte partite dal basso e lo spostamento a sinistra dei dirigenti sindacali portarono ad una crescita imponente del sindacato. Mentre nel 1968 il tasso di sindacalizzazione (cioè la percentuale dei lavoratori dipendenti iscritti ad un sindacato) era sceso al 34%, nel 1974 raggiunse il 48% e continuò a crescere sino al 1977, quando raggiunse il massimo storico del 52%
I lavoratori entrano in massa nei sindacati
Durante l’Autunno Caldo erano nati i Comitati di base e i Comitati di lotta, ma quando presero piede i Consigli di fabbrica (che cominciarono ad organizzarsi a livello territoriale nei Consigli di zona), i gruppi che avevano promosso queste strutture contrapposte ai sindacati capirono che era meglio scioglierle.
La massa dei lavoratori s’indirizzava sia verso i Consigli di fabbrica che verso i sindacati. La formazione dei Consigli di zona era coerente con l’intenzione dei lavoratori di unirsi in un sindacato unico, ma come abbiamo visto la destra sindacale riuscì ad impedire una fusione di Cgil, Cisl e Uil.
Malgrado queste manovre al vertice, rimaneva forte lo spirito unitario tra la massa dei lavoratori. A rafforzare questo processo c’era la ripresa economica iniziata dopo la recessione del 1964-65. Nel 1973 invece la situazione incominciò a cambiare: si sentiva l’inizio della recessione del 1974-75. Non a caso gli anni 1973-76 furono i più difficili per il sindacato, dopo le grandi vittorie del 1969-73.
Esplose l’inflazione, le fabbriche cominciarono a chiudere, la disoccupazione e la cassa integrazione crescevano.
La cosa preoccupante per i padroni fu però il fatto che la recessione non ebbe il solito effetto di raffreddare le lotte operaie (come nel 1964-65, ad esempio). Le lotte degli anni precedenti, la crescita dei Consigli di fabbrica e dei sindacati, le conquiste non solo in termini monetari ma anche in materia di leggi sindacali (come lo Statuto dei Lavoratori del 1970), avevano fatto capire ai lavoratori che era possibile contrapporsi ai progetti dei padroni, che non sempre si doveva chinare la testa ed accettare tutto!
Lama propone la tregua sociale
I dirigenti sindacali però non erano all’altezza del movimento. Al congresso della Cgil di fine giugno del 1973, il segretario generale Luciano Lama (Pci) lasciò capire che avrebbe accettato una temporanea tregua sociale. In questo aveva l’appoggio della destra del Psi.
A questa linea si opposero Trentin e Garavini del Pci e Didò della sinistra del Psi; essi riuscirono a modificare le posizioni della maggioranza moderata, ma il prezzo che dovettero pagare fu la nomina di Boni (della destra del Psi) come segretario generale aggiunto.
In realtà si stava effettuando una svolta moderata: quando nell’ottobre dello stesso anno si riunì il comitato direttivo di Cgil-Cisl-Uil, passò la linea di sostegno alla politica governativa, anche se questa scontò l’opposizione della Flm (metalmeccanici) e di altre categorie industriali.
Si intensificano le lotte operaie
Allo stesso tempo progrediva il processo di burocratizzazione del Consigli di fabbrica. I delegati venivano sempre meno votati dai lavoratori ed aumentava la prassi della loro nomina dall’alto. Gli esecutivi dei Consigli di fabbrica venivano occupati sempre di più da attivisti sindacali a tempo pieno, i quali assumevano il ruolo di mediatori tra l’apparato sindacale e la base operaia.
La recessione vera e propria cominciò in Italia nel maggio del 1974, e in quelle condizioni fu Guido Carli, l’allora Governatore della Banca d’Italia, a chiedere la “pace sociale”.
Le cose però non dovevano essere così facili per i padroni. Nel maggio del 1974 ci fu la scottante sconfitta della Dc nel referendum sul divorzio, un chiaro segnale dello spostamento a sinistra in atto nel paese. Il tentativo di spostare l’asse a destra nel 1972 aveva avuto l’effetto contrario.
Malgrado la linea moderata dei dirigenti sindacali, le lotte dei lavoratori si inasprivano. Nel febbraio del 1974, il governo annunciò forti aumenti dei prezzi della benzina e dei prodotti alimentari. La risposta degli operai fu spontanea: uscirono dalle fabbriche e le manifestazioni durarono una settimana intera.
Poi ci fu la famosa “autoriduzione” alla Fiat di Rivalta: di fronte all’aumento di 25-50% dei prezzi dei biglietti degli autobus che portavano i lavoratori in fabbrica, furono eletti i “delegati di autobus”, i quali raccoglievano l’equivalente delle vecchie tariffe e lo inviavano alle compagnie dei trasporti. Lo stesso metodo fu applicato alle bollette dell’Enel; circa 150.000 di queste furono autoridotte in Piemonte.
Le “autoriduzioni”
Questo metodo si diffuse in tutto il Centro-Nord d’Italia, dopo che in Piemonte era riuscito a ridurre drasticamente gli aumenti e per alcune categorie aveva ottenuto la gratuità. Questa prassi ebbe l’appoggio della Flm piemontese come pure del Pci torinese e piemontese, ma a livello nazionale sia i vertici sindacali che quelli del Pci si rifiutarono di dare il loro appoggio, condannando il movimento come “avventurista”.
Ciononostante, di fronte alla chiusura delle fabbriche, i lavoratori spesso rispondevano con l’occupazione degli impianti. Uno degli esempi più famosi fu l’occupazione della Leyland-Innocenti di Milano. La combattività della base sindacale da un lato, e la politica di compromesso dei vertici dall’altro, crearono un primo momento di frattura; ed è proprio in seguito a questa situazione che i vertici sindacali, malgrado il loro istinto moderato, furono costretti ad inasprire le lotte pur in condizioni di recessione, per non perdere il controllo della base.
La Fiat annunciò la Cassa integrazione per 65.000 lavoratori, e i lavoratori risposero subito con l’occupazione della fabbrica di Mirafiori. Allo stesso tempo nel settembre del 1974, sotto la pressione operaia, la direzione di Cgil-Cisl-Uil fu costretta ad aprire una lotta per un reale adeguamento dei salari e la riforma della scala mobile.
La nuova scala mobile
Quella lotta portò ad una radicale riforma della scala mobile: fu unificato il punto di contingenza (cioè vennero eliminati gli aumenti differenziati per categoria e livello), il vecchio indice su cui si basavano gli aumenti fu azzerato a 100 a partire da agosto-settembre 1974, fu stabilito un aumento di 12.000 lire mensili per tutti e gli assegni familiari furono aumentati del 20%.
L’effetto concreto di quell’accordo fu di garantire pienamente il salario medio contro l’inflazione, una concessione incredibile se si considera che il capitalismo era in piena recessione.
La Confindustria in realtà non poteva scontrarsi direttamente con i lavoratori, doveva guadagnare tempo per riprendere il controllo della situazione.
Il Pci passa al 33%
Nel frattempo, sei anni di lotte operaie avevano avuto il loro effetto politico: nelle amministrative del 1975 il Pci fece un grande salto in avanti, raggiungendo il 33%, mentre l’Msi e la Dc calarono rispetto alle politiche del 1972. Con l’eccezione di Bari e Palermo, tutte le grandi metropoli videro la sinistra prendere la maggioranza.
Da lì la Confindustria capì che era necessario raggiungere un accordo con i vertici dei sindacati e del Pci: il famoso “patto sociale”.
XVIII – 1976-79: LA CRISI DEL SINDACATO INIZIA CON LA “SVOLTA DELL’EUR”
Nel 1975 il livello degli scioperi fu il più alto dopo il 1969; malgrado la recessione, i lavoratori continuavano a lottare. La dimostrazione della loro forza si vedeva nel nuovo accordo sulla scala mobile, fatto in condizioni di recessione, quando i padroni non avrebbero potuto permettersi un adeguamento automatico dei salari ai livelli d’inflazione.
In realtà per loro si trattava di una mossa per guadagnare tempo, in condizioni dove il bilancio delle forze era nettamente a favore dei lavoratori.
Come scrive Sergio Turone, nel suo libro Il sindacato nell’Italia del benessere:
“Evidentemente il leader della Fiat [si riferisce a Gianni Agnelli, l’allora presidente della Confindustria – N.d.R.] pagò quel prezzo nella speranza di agevolare un’imminente partecipazione al governo del Pci, visto dalla grande industria come l’unico possibile e credibile elemento moderatore della conflittualità sindacale.”
Governo della “non-fiducia”
Il desiderio di un cambiamento radicale della società da parte dei lavoratori, che si era visto nel 1975 alle elezioni amministrative, portò ad un ulteriore aumento del voto al Pci nelle elezioni politiche del 20 giugno 1976, quando questo raggiunse il 34,4%, il suo massimo storico.
È qui che entra in gioco pienamente il ruolo di freno nelle lotte operaie da parte del gruppo dirigente del Pci. L’11 agosto il nuovo governo Andreotti ottenne l’approvazione del Parlamento grazie alle astensioni dei parlamentari del Pci. Fu Andreotti stesso a battezzarlo il governo della “non-fiducia”.
Il Pci, insieme al Psi, non faceva parte del governo, ma si impegnò a non farlo cadere. In cambio Andreotti avrebbe consultato pienamente il Pci e il Psi sul programma governativo. Il governo monocolore (della sola Dc) di Andreotti varò il suo “piano di austerità” l’8 ottobre. Questo prevedeva aumenti della benzina (dalle 400 lire al litro passava a 500 lire), delle tariffe ferroviarie, del gas, dei fertilizzanti, ecc.
Immediata fu la reazione dei lavoratori: erano pronti a scioperare, ma furono fermati dai dirigenti del Pci! In quei giorni furono organizzate assemblee a Torino, a Milano, a Reggio Emilia, in tutte le grandi concentrazioni operaie, dove i massimi dirigenti del Pci andavano a spiegare ai lavoratori perchè dovevano accettare i “sacrifici”.
Giorgio Amendola, dirigente del Pci, era uno dei massimi esponenti di questa linea. In un’intervista a La Repubblica (28/06/1976) dichiarò che:
“Ora si tratta di vedere quali sacrifici compiere e perchè compierli (…). Non siamo di fronte ad una trattativa sindacale in cui la controparte – governo o padronato – possa concedere qualcosa in cambio di qualcos’altro.”
Politica dei sacrifici
Il succo del discorso era: dato che c’era una recessione, una crisi profonda del capitalismo, per rimettere in moto l’economia i lavoratori dovevano fare sacrifici, cioè rinunciare ad alcune conquiste reali, permettendo così ai capitalisti di accumulare capitali.
Con questi avrebbero potuto fare nuovi investimenti e così rilanciare lo sviluppo economico. Così i sacrifici di “oggi” sarebbero serviti a stare meglio “domani”.
Alla base di questo modo di pensare c’era l’idea falsa che i capitalisti investono quando hanno i capitali. In realtà i capitalisti investono quando c’è una ragionevole probabilità di fare profitti.
La politica dei sacrifici comportava per forza di cose una riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori. Questo invece di stimolare il mercato portava ad una sua riduzione. Il risultato fu un aumento dei profitti senza beneficio per i lavoratori; gli investimenti sperati non ci furono. L’inflazione rimaneva alta e la disoccupazione cresceva.
Ciononostante, dato che erano i “loro” dirigenti a proporglielo, i lavoratori erano disposti ad aspettare e vedere i risultati di questa politica. Così vediamo come nel 1977 e 1978 ci fu un brusco calo degli scioperi, e in queste condizioni nacque la cosiddetta “strategia dell’Eur”.
300.000 metalmeccanici a Roma
Era difficile far ingoiare a lungo ai lavoratori l’idea che il governo Andreotti potesse in qualche modo fare i loro interessi. Così, il 3 dicembre 1977, 300.000 metalmeccanici manifestarono a Roma. Il risultato fu la caduta del governo, che fu seguita da quattro mesi di trattative prima di poterne formare uno nuovo.
Il Pci però non poteva continuare a tener fermo il movimento operaio stando fuori dal governo. Così, nella primavera del 1978, il Pci entrò a far parte della maggioranza di governo, però senza ministri!
Parte di quell’accordo di governo furono le decisioni prese in una conferenza nazionale di Cgil-Cisl-Uil nel febbraio del 1978, al Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma. La nuova linea si imprimeva su due punti: la moderazione salariale e, come contropartita, un programma di investimenti che garantisse l’occupazione. Il problema era che la moderazione salariale era immediata, mentre gli investimenti erano rinviati al futuro.
La conferenza dell’Eur non fece altro che sancire una linea che stava già maturando da tempo nei vertici sindacali. Ad esempio, già nel 1977 questi vertici avevano accettato il blocco della contingenza sulla liquidazione. La contingenza era quella parte del salario che aumentava in base all’aumento dell’inflazione. Anche la liquidazione aumentava con questo meccanismo. L’unico risultato di questo blocco fu un grosso risparmio per i padroni e nessun miglioramento per i lavoratori.
Inizia il calo degli iscritti
Non è un caso dunque che nel 1978 si vede il primo calo degli iscritti al sindacato dal 1968, che è continuato fino ad oggi! Quella politica ebbe risultati simili anche per il Pci, che cominciò a perdere iscritti nello stesso anno.
Dieci anni di lotte intense, seguiti da questa vera e propria svendita da parte dei vertici sindacali, portavano una parte dei lavoratori a cominciare a perdere fiducia.
Le lotte dell’inverno 1978-79
Il paradosso della situazione fu che la moderazione decisa all’Eur durò per pochi mesi. Ormai, dopo due anni di “sacrifici”, i lavoratori cominciavano a sentirne gli effetti. L’inflazione continuava a ritmi elevati, grazie anche alla svalutazione della lira, e i loro salari non si adeguavano sufficientemente. Così, nelle lotte per i rinnovi contrattuali dell’inverno 1978-79, ci fu un’ondata di rivendicazioni salariali. I lavoratori tentavano di recuperare quello che avevano perso con la politica dei sacrifici.
I padroni colsero l’occasione per dichiarare fallita la linea dell’Eur e lo usarono come scusa per giustificare i mancati investimenti.
In queste condizioni i dirigenti del Pci non riuscirono a giustificare il loro sostegno al governo Andreotti, e all’inizio del 1979 furono costretti a ritirare il loro appoggio. Questo rese inevitabile il ricorso alle elezioni anticipate.
In quelle elezioni (4 giugno 1979) il Pci subì la prima sconfitta elettorale dal 1948, scendendo dal 34,4% di tre anni prima a poco più del 30%!
La prima sconfitta del Pci dal 1948
I dirigenti di Cgil, Cisl e Uil, insieme con quelli del Pci, con la loro politica dei sacrifici avevano agevolato le manovre dei padroni. Questi erano riusciti a frenare per un periodo le lotte operaie a tutto vantaggio loro, e non solo in senso economico.
Infatti riuscirono ad infliggere anche una sconfitta politica al movimento operaio. Da quel momento i padroni cominciarono a preparare la loro controffensiva sindacale che sarebbe durata per tutto l’arco degli anni ’80.