Stop all’invasione di Gaza! Palestina libera! Palestina rossa!

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Stop all’invasione di Gaza! Palestina libera! Palestina rossa!

di Franco Bavila

La brutalità dell’esercito israeliano (IDF) nella Striscia di Gaza lascia senza fiato. Sono morti più civili a Gaza in un mese che in quasi due anni di guerra in Ucraina: un bambino morto ogni 10 minuti, in base ai calcoli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo l’UNRWA, l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, gli sfollati costretti ad abbandonare le loro case sono 1,7 milioni e il 70% della popolazione non ha accesso ad acqua pulita. Le foto satellitari rivelano che nella parte settentrionale di Gaza più della metà degli edifici sono stati distrutti o gravemente danneggiati. L’IDF ha attaccato con particolare accanimento gli ospedali: dei 36 ospedali esistenti nella Striscia, 22 hanno cessato di funzionare.
L’obiettivo dichiarato della guerra è “l’annientamento totale di Hamas”, ma sarà tutt’altro che semplice raggiungerlo. L’IDF ha certamente la forza per colpire duramente le infrastrutture militari di Hamas, ma non per eliminarne la base di consenso. Hamas ha sempre basato il suo sostegno tra i palestinesi non tanto sull’islamismo (esistono infatti altri gruppi che si richiamano più apertamente al fondamentalismo, come la Jihad islamica), quanto su una maggior intransigenza nei confronti di Israele rispetto all’aperto collaborazionismo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Dopo questa carneficina, l’odio contro Israele è cresciuto a dismisura e Hamas ne uscirà politicamente rafforzata non solo nella Striscia di Gaza, ma anche nel resto della Palestina.

La tregua del 24 novembre

Nessun ostaggio è stato liberato nel corso delle operazioni militari. Per ottenere la liberazione di almeno una parte degli ostaggi, Netanyahu ha dovuto accettare una tregua e concedere uno scambio di prigionieri sotto la mediazione del Qatar. In precedenza si era rifiutato di raggiungere un accordo di questo tipo, ma ha dovuto cedere dopo che i parenti degli ostaggi hanno organizzato una marcia da Tel Aviv a Gerusalemme contro di lui.
Questa tregua dimostra che da una parte Hamas è ben lontano dall’essere stato annientato e dall’altra Netanyahu si trova in una posizione di debolezza all’interno di Israele, dove è sottoposto a forte critica e la sua popolarità è ai minimi termini. Viene infatti ritenuto responsabile per aver reso possibile l’attacco del 7 ottobre e non a torto. Il suo governo ha contribuito attivamente a rafforzare Hamas: secondo la stessa stampa israeliana, a partire dal 2018 avrebbe favorito l’afflusso di finanziamenti dal Qatar ad Hamas, facendo transitare valigette piene di denaro qatariota attraverso il confine tra Israele e Gaza. Lo scopo era quello di dividere il fronte palestinese, tenere Gaza staccata dalla Cisgiordania e rendere impossibile la soluzione dei “due Stati”.
I sondaggi, gli editoriali dei principali giornali e le interviste ai riservisti richiamati in servizio concordano tutti su un punto: quando la guerra sarà conclusa, Netanyahu dovrà dimettersi. Proprio per questo motivo il primo ministro sta portando avanti una linea sempre più oltranzista, volta a prolungare la guerra il più a lungo possibile: solo finché la guerra a Gaza prosegue, ha qualche speranza di restare in sella. Non a caso, dopo aver raggiunto l’accordo sugli ostaggi, ha tenuto a precisare: “Sia chiaro: la guerra continua. Continueremo questa guerra finché tutti i nostri obiettivi non saranno raggiunti.” Per lui è oramai una questione di sopravvivenza politica.
L’aspetto centrale, al di là dei suoi destini personali, è che ad oggi non esiste una vera alternativa alla sua politica nella classe dominante israeliana. Dei due leader principali dell’opposizione, uno (Benny Gantz) è entrato come ministro nel gabinetto di guerra, l’altro (Yair Lapid) ha dichiarato che l’aggressione a Gaza deve proseguire fino alla completa distruzione di Hamas, anche se dovessero volerci anni.
D’altronde in questo momento in Israele domina la reazione ed è stata imposta una stretta repressiva contro ogni manifestazione di dissenso. In quella che sui mass media occidentali viene esaltata come la “democrazia israeliana”, le autorità hanno vietato tutte le iniziative contro la guerra o in solidarietà con la Palestina. Ad essere particolarmente colpita è la comunità arabo-israeliana, che rappresenta il 20% della popolazione. Centinaia di arabo-israeliani sono stati arrestati per “sospetto tradimento”, magari solo per aver fatto un post su quello che sta succedendo a Gaza, e trattenuti in prigione senza la formulazione di precisi capi d’accusa; molti altri sono stati licenziati dai loro posti di lavoro o espulsi dalle università.

La situazione in Cisgiordania

Il problema non è solo la Striscia di Gaza. Anche la Cisgiordania è una polveriera pronta ad esplodere. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha fatto distribuire 10.000 fucili d’assalto ai coloni, che sono del tutto fuori controllo. La violenza contro i palestinesi era all’ordine del giorno anche prima in Cisgiordania, ma dal 7 ottobre c’è stato un salto di qualità e più di 200 palestinesi sono stati uccisi dall’IDF o da gruppi di coloni armati. In molte località i palestinesi non possono mettere il naso fuori di casa senza correre il rischio di essere uccisi.
Le forze di sicurezza dell’ANP non hanno sparato un solo colpo per difendere la popolazione da questi attacchi. Ci sono state manifestazioni di protesta con migliaia di persone a Ramallah, Nablus, Jenin, Hebron e Betlemme per chiedere le dimissioni di Abu Mazen. La polizia dell’ANP ha aperto il fuoco, ferendo 15 persone e uccidendo una ragazzina di 12 anni. Questo è il livello di marciume cui è arrivato il gruppo dirigente di Fatah.
Di fronte a questa situazione quello che serve è una nuova Intifada, un’insurrezione che porti alla caduta di Abu Mazen e alla costituzione di milizie popolari di autodifesa contro le aggressioni israeliane. Uno scenario che potrebbe non essere così lontano.

Il ruolo dell’imperialismo americano

Gli USA e i loro alleati occidentali (Italia compresa) hanno garantito pieno appoggio militare, economico e politico al governo israeliano. Biden ha mobilitato una flotta imponente per proteggere Israele contro eventuali attacchi da parte dell’Iran, ha fornito armamenti e finanziamenti, e si è opposto a qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco “per non avvantaggiare Hamas”. Allo stesso tempo, però, l’imperialismo americano teme più di ogni altra cosa un allargamento del conflitto. Hanno paura che la guerra si estenda alla Cisgiordania, al Libano, all’Iran; che le basi americane nella zona vengano attaccate; che si scateni un movimento di massa nei paesi arabi che porti al rovesciamento dei regimi filo-americani.
è per questo motivo che Washington ha esercitato forti pressioni per cercare di trattenere Netanyahu, anche se finora con assai scarso successo. Biden aveva sconsigliato l’invasione di terra di Gaza e chiesto di mettere un freno alla violenza dei coloni, ma è stato tutto inutile. In questo si vede chiaramente il declino dell’imperialismo americano, che non è più in grado di condizionare come in passato le decisioni del governo israeliano. Lo si capisce anche dalle discussioni in merito al futuro della Striscia di Gaza. Il segretario di Stato Blinken ha proposto che sia l’ANP ad assumere il controllo di Gaza oltre che della Cisgiordania. Netanyahu si è invece espresso a favore di un’occupazione militare a tempo indeterminato della Striscia e ci sono settori della classe dominante sionista ancora più oltranzisti, che parlano apertamente di una nuova Nakba e cioè della deportazione in massa dei palestinesi dalla Striscia di Gaza.
Progetti di questo tipo non possono far altro che esacerbare ulteriormente la situazione, creando uno stato di guerra permanente e una destabilizzazione di tutta la regione. Proprio per scongiurare un simile scenario Biden ha ribadito più volte che l’unica soluzione praticabile è quella dei “due Stati”. Questa soluzione è però resa semplicemente impossibile per il fatto che a Gerusalemme Est e in Cisgiordania nel corso degli anni sono stati insediati 700.000 coloni ebrei. Come si può parlare di uno Stato palestinese autonomo nel momento in cui il 40% delle terre della Cisgiordania è in mano ai coloni israeliani?

Il movimento di massa in solidarietà con la Palestina

La propaganda filo-israeliana della classe dominante attecchisce sempre meno. Lo dimostrano le manifestazioni di sostegno alla Palestina in tutto il mondo, che in alcuni paesi hanno assunto dimensioni imponenti. Negli Stati Uniti i cortei sono stati enormi e hanno visto la presenza anche di ebrei americani. In Gran Bretagna hanno manifestato in centinaia di migliaia e il movimento ha prodotto degli effetti politici: il ministro degli Interni, Suella Breverman, che aveva strigliato la polizia per non aver usato abbastanza il pugno di ferro contro i manifestanti pro-Palestina, è stata rimossa dal suo incarico. Anche in Italia ci sono stati cortei per la Palestina estremamente combattivi in molte città, con la presenza di migliaia di persone. Queste manifestazioni esprimono la rabbia e la radicalizzazione di un settore di giovani e di lavoratori immigrati, indignati e disgustati dai crimini perpetrati a Gaza con il sostegno dei governi occidentali.
Le mobilitazioni più significative le abbiamo però viste nel mondo arabo, dove i manifestanti non hanno contestato solo i massacri israeliani, ma anche i loro governi che non alzano un dito per aiutare i palestinesi. In Giordania, dove metà della popolazione è di origine palestinese, i manifestanti hanno marciato verso la frontiera con l’obiettivo di portare aiuto ai loro fratelli al di là del Giordano, ma sono stati fermati dalle forze di sicurezza di re Abdallah. In Egitto le masse hanno fatto irruzione in Piazza Tahrir (simbolo della primavera araba del 2011), rivendicando “pane, libertà e giustizia sociale”, e la polizia egiziana ha arrestato un centinaio di persone. In Bahrein ci sono stati cortei più grandi di quelli delle primavere arabe, in cui sono stati esposti cartelli che raffiguravano il re stringere la mano a Netanyahu: il regime ha dovuto far intervenire i reparti anti-sommossa.
Questi movimenti sono estremamente importanti, perché solo con l’entrata in scena delle masse si potrà creare una via d’uscita per il Medio Oriente. Se tutto viene lasciato nelle mani delle attuali classi dominanti, non cambierà nulla: l’imperialismo continuerà a sostenere Israele, Israele continuerà a opprimere i palestinesi e i regimi arabi continueranno a girarsi dall’altra parte. Per questo come comunisti rivendichiamo “Palestina libera, Palestina rossa”, perché la liberazione della Palestina può essere ottenuta solo per via rivoluzionaria. Solo con un movimento rivoluzionario nei paesi occidentali contro i governi che appoggiano Israele, solo con il rovesciamento dei regimi arabi corrotti e reazionari, solo quando la classe lavoratrice israeliana romperà in maniera netta con le politiche sioniste, si potranno creare le condizioni per garantire l’autodeterminazione dei palestinesi e stabilire una pace duratura tra i popoli del Medio Oriente.

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