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Stalin, l’organizzatore di sconfitte – La rivoluzione cinese del 1925-1927

di Franco Bavila

 

La Cina alla vigilia della rivoluzione

Dopo la sconfitta della rivoluzione tedesca nel 1923, il paese che suscitò il maggior dibattito all’interno dell’Internazionale comunista fu senza dubbio la Cina, che tra il 1925 e il 1927 venne attraversata da un imponente processo rivoluzionario. Fu proprio nei drammatici eventi della rivoluzione cinese che vennero messe alla prova le principali tendenze del movimento comunista dell’epoca.

All’inizio degli anni ’20 la Cina era ancora un paese estremamente arretrato. La grande maggioranza della popolazione conduceva un’esistenza miserevole nelle campagne. Nei villaggi i notabili e i proprietari terrieri erano onnipotenti, mentre la grande massa dei contadini era strangolata dagli affitti, dalle tasse e dai debiti. I contadini poveri vivevano nella povertà più nera,
spesso al limite della sussistenza e in condizioni di semi-schiavitù. Nelle aree rurali l’aspettativa di vita non andava oltre i trentacinque anni.

La Cina era anche completamente assoggettata all’imperialismo straniero. L’intero territorio nazionale era stato spartito tra le grandi potenze dell’epoca. Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, Francia, Russia, Germania e anche l’Italia dominavano la vita economica della Cina ed esercitavano il potere statale in vaste aree del paese (le cosiddette “concessioni”), soprattutto lungo le zone costiere dove si trovavano i porti principali.

La corruzione era dilagante a tutti i livelli dell’apparato statale. Dopo la caduta della dinastia regnante nel 1911, non esisteva più nemmeno un vero e proprio potere centrale. Il potere effettivo era nelle mani dei cosiddetti “signori della guerra”, i governatori militari delle province che, a capo di eserciti mercenari, lottavano tra loro per la supremazia. Ogni “signore della guerra” tutelava gli interessi dei notabili locali della sua zona ed era sostenuto da una o l’altra delle potenze imperialiste.

La nascita del Partito comunista cinese

La rivoluzione d’Ottobre ebbe un enorme impatto a livello internazionale. Questo fu tanto più vero in Cina, dal momento che il nuovo governo sovietico rinunciò a tutti i territori, i diritti e i privilegi che in passato l’impero zarista aveva ottenuto dalla corte di Pechino. Questa politica, in netto contrasto con l’atteggiamento di tutte le altre potenze imperialiste, produsse un grande effetto sugli intellettuali cinesi, che stavano cercando una via d’uscita dall’arretratezza e dall’asservimento del loro paese. Le idee marxiste iniziarono a diffondersi nelle università cinesi e si formarono i primi gruppi comunisti, che nel 1921 si riunirono dando vita al Partito comunista cinese (Pcc).

Inizialmente le forze erano molto limitate. Al congresso di fondazione erano presenti dodici delegati, in rappresentanza di cinquantasette membri, provenienti da sette diversi gruppi locali. Si trattava prevalentemente di studenti e intellettuali radicalizzati, che però ben presto entrarono in contatto con il nascente movimento operaio cinese.

Per quanto la Cina fosse un paese prevalentemente rurale, l’imperialismo vi aveva trapiantato, al fianco delle condizioni più arcaiche esistenti nei villaggi, la grande industria nelle sue forme più moderne. Questo processo, conosciuto come sviluppo diseguale e combinato, nel giro di pochi anni aveva portato alla creazione di una classe operaia numerosa, concentrata nelle grandi città più importanti, come Canton e Shangai.
Già nel 1922 esistevano in Cina due milioni di operai industriali, cui si aggiungevano altri due milioni tra minatori, ferroviari e portuali. Nel 1923 a Shangai, che contava 1,9 milioni di abitanti, 57 fabbriche impiegavano tra 500 e 1.000 operai, mente 49 fabbriche impiegavano più di 1.000 operai.

La giovane classe operaia cinese dimostrò fin da subito una forte conflittualità. All’inizio del 1922 i lavoratori del porto di Hong Kong scioperarono per 8 settimane, ottenendo il riconoscimento dei sindacati e aumenti salariali. Nel settembre dello stesso anno un’altra vittoria venne ottenuta dai minatori del distretto di Anyuan. Nel febbraio del 1923 ci fu uno sciopero generale delle ferrovie, che dovette fronteggiare una violenta repressione: sessanta ferrovieri vennero massacrati dalle truppe dei “signori della guerra”.

Il Pcc si orientò alle lotte operaie e riuscì a ottenere un radicamento nelle fabbriche. Militanti comunisti svolsero un ruolo dirigente sia nella costruzione dei sindacati che in alcune delle mobilitazioni più importanti.

Lenin e i paesi coloniali

Il fermento operaio in Cina non era un caso isolato, ma si inseriva in un processo più generale di risveglio delle masse oppresse nel mondo coloniale, che era seguito alla rivoluzione d’Ottobre. In India, Corea, Siria, Iraq e in numerosi altri paesi si svilupparono movimenti di liberazione nazionale. Questi nuovi processi furono affrontati nel secondo congresso del Comintern (luglio-agosto 1920), in cui venne dedicato ampio spazio al tema della rivoluzione nei paesi coloniali e semi-coloniali. Fu lo stesso Lenin a redigere la bozza delle tesi del congresso sulle questioni nazionale e coloniale.

Le tesi sostenevano che i comunisti dovessero unirsi ai movimenti di liberazione nazionale nei paesi coloniali e arretrati, ma allo stesso tempo ponevano l’accento su “la necessità di lottare energicamente contro i tentativi di dare una tinta comunista ai movimenti democratici borghesi di liberazione dei paesi arretrati; […] l’Internazionale comunista deve concludere alleanze provvisorie con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con essa e deve assolutamente salvaguardare l’autonomia del movimento proletario persino nella sua forma embrionale.1

La diffidenza nei confronti della borghesia delle nazioni oppresse venne ulteriormente rimarcata da Lenin in un suo intervento successivo. “Tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali si registra un certo ravvicinamento, sicché molto spesso – e, forse, persino nella maggior parte dei casi – la borghesia dei popoli oppressi, pur sostenendo i movimenti nazionali, lotta in pari tempo d’accordo con la borghesia imperialistica, cioè insieme con essa, contro tutti i movimenti rivoluzionari e contro tutte le classi rivoluzionarie.2

Lenin contestava con fermezza qualsiasi formulazione astratta che potesse castrare l’iniziativa rivoluzionaria dei giovani partiti comunisti che stavano nascendo nei paesi coloniali e semi-coloniali. Insisteva per esempio sul fatto che i soviet non fossero esclusivamente uno strumento del proletariato industriale nei paesi capitalisti, ma potessero essere utilizzati anche dalle masse contadine nei paesi più arretrati come strumento della rivoluzione agraria. Secondo Lenin, persino nei paesi in cui prevalevano rapporti pre-capitalisti e il proletariato quasi non esisteva, non era inevitabile dover passare attraverso una fase di sviluppo capitalista: “… l’Internazionale comunista deve anche fissare e motivare teoricamente la tesi che i paesi arretrati, con l’aiuto del proletariato dei paesi occidentali, possono passare al sistema sovietico e, attraverso determinate fasi di sviluppo, giungere al comunismo, scavalcando la fase del capitalismo.3

Il “blocco delle quattro classi”

Con l’ascesa di Stalin ai vertici dell’Internazionale, l’impostazione di Lenin sulla rivoluzione coloniale venne completamente rovesciata. La ricetta ufficiale in tutti i paesi oppressi divenne quella della subordinazione dei partiti comunisti alla borghesia nazionale. Una politica che in Cina si tradusse nell’entrata del Pcc all’interno del Kuomintang (Kmt), il principale partito nazionalista borghese che aveva assunto il governo di Canton.

Questa linea era ispirata soprattutto da Bucharin, che dopo aver sostenuto posizioni di estrema sinistra era diventato il leader dell’ala destra del partito bolscevico, con la quale Stalin si era momentaneamente alleato per schiacciare l’Opposizione di sinistra di Trotskij. Stalin e Bucharin ritenevano che la Cina non fosse “matura” per una rivoluzione proletaria e per il socialismo. Dal loro punto di vista, la rivoluzione cinese sarebbe stata democratica e borghese, avrebbe cioè dovuto assolvere al compito di rendere il paese indipendente dall’imperialismo, unificarlo e condurlo fuori dall’arretratezza. Solo dopo un lungo periodo di sviluppo capitalistico, si sarebbero create le condizioni materiali per il socialismo.

Da questa analisi discendeva che la classe operaia cinese dovesse allearsi non solo con i contadini, ma anche con la borghesia in una rivoluzione nazionale contro l’imperialismo. Dal punto di vista di Bucharin, l’oppressione esercitata dall’imperialismo e la necessità di liberare la Cina dai residui del suo passato feudale, rendevano automaticamente la borghesia cinese “rivoluzionaria”. La parola d’ordine divenne quella del “blocco delle quattro classi” (proletariato, contadini, piccola borghesia e borghesia) contro l’imperialismo e il feudalesimo. Bucharin non caratterizzava il Kuomintang come un partito borghese, ma come il partito in cui si realizzava il “blocco delle quattro classi” e che proprio per questo motivo avrebbe guidato la rivoluzione.

Si trattava di fatto di una riedizione della vecchia teoria delle due fasi dei menscevichi russi, per cui il movimento operaio doveva limitarsi ad appoggiare la borghesia liberale contro lo zarismo, rinviando la questione del socialismo a un lontano futuro. La nuova direzione dell’Internazionale cercava di camuffare la sua politica sostanzialmente menscevica definendo il Kuomintang un “partito operaio e contadino” e il suo governo a Canton una “dittatura democratica degli operai e dei contadini”, ma tutte queste formule ambigue non servivano ad altro che a contenere la rivoluzione cinese entro limiti democratico-borghesi e ad escludere un’azione indipendente del partito comunista.

La rivoluzione permanente

Trotskij fin da subito si oppose a questa linea opportunista. Nel 1923, con Lenin oramai gravemente malato, fu l’unico nella direzione del Partito bolscevico a votare contro l’entrata del Pcc nel Kuomintang. Nella sua polemica contro la direzione dell’Internazionale, Trotskij riprese alcuni dei punti essenziali della teoria della rivoluzione permanente, che aveva elaborato anni prima ed era stata brillantemente confermata dagli avvenimenti del 1917 in Russia.4 In particolare Trotskij contestava il ruolo rivoluzionario che Stalin e Bucharin attribuivano alla borghesia cinese nella lotta contro l’imperialismo:

La poderosa influenza del capitale straniero nella vita della Cina ha fatto sì che fortissimi settori della borghesia cinese, la burocrazia e i militari unissero le loro sorti a quelle dell’imperialismo. […] Sarebbe pure profondamente ingenuo ritenere che esista un abisso tra la cosiddetta borghesia compradora, cioè la rappresentante economica e politica del capitale straniero in Cina, e la cosiddetta borghesia nazionale. No, questi due settori sono assai più legati tra loro di quanto non lo siano la borghesia e le masse degli operai e dei contadini. […] Ma tutto quello che fa levare in piedi le masse oppresse e sfruttate dei lavoratori, spinge inevitabilmente la borghesia nazionale a fare blocco apertamente con gli imperialisti. La lotta di classe tra la borghesia e le masse degli operai e dei contadini non è attenuata, ma, al contrario, acutizzata dall’oppressione imperialista, al punto che ogni grave conflitto può sfociare in una sanguinosa guerra civile.”,5

In base a questa analisi la rivoluzione cinese avrebbe ottenuto la vittoria solo se fosse stata guidata dalla classe operaia e se questa, oltre a realizzare gli obiettivi democratici (l’indipendenza e l’unificazione nazionale), si fosse posta risolutamente sulla strada dell’esproprio della borghesia.

1925: scoppia la rivoluzione

Il leader del Kuomintang, Sun Yat-sen, aveva posto condizioni gravose per l’adesione del Pcc: i comunisti dovevano aderire al Kmt a livello individuale e accettarne la disciplina interna. Per il giovane partito comunista cinese questo significava rinunciare alla propria autonomia politica, ma il Comitato esecutivo dell’Internazionale accettò le condizioni di Sun senza fiatare.

Per giunta l’Unione Sovietica iniziò a fornire assistenza finanziaria e militare al governo di Canton, il che consentì al Kuomintang di rafforzarsi notevolmente. Borodin, il rappresentante del Comintern in Cina, partecipava regolarmente alle riunioni della direzione del Kmt e diede un contributo fondamentale nel trasformarlo in un partito disciplinato e centralizzato. Consiglieri militari sovietici aiutarono ad allestire l’Accademia militare di Whampoa: in precedenza Sun Yat-sen non aveva mai disposto di una forza militare propria, tanto che aveva sempre ricercato l’appoggio di questo o quel “signore della guerra” per mantenersi al potere; ora, grazie all’appoggio dell’Urss, poté costruire un esercito moderno e ben organizzato, denominato Esercito rivoluzionario nazionale (Ern).

Era questa la situazione nel 1925, quando in Cina cominciò un vero e proprio processo rivoluzionario. I primi ad entrare in scena furono i lavoratori di Shangai. Il 30 maggio le autorità britanniche aprirono il fuoco contro una manifestazione di studenti e operai, provocando dieci morti e un centinaio di feriti. In tutta risposta ci fu un’ondata di scioperi che coinvolse 400mila lavoratori e culminò in uno sciopero generale a Shangai, cui parteciparono anche studenti, artigiani e bottegai. Sotto i colpi della repressione, gli scioperi per gli aumenti salariali si erano trasformati in una mobilitazione di massa anti-imperialista.

Ben presto anche i lavoratori delle altre città si unirono alla lotta. Il 23 giugno a Canton, in una manifestazione di 100mila persone in solidarietà con i lavoratori di Shangai, cinquanta manifestanti furono uccisi dalla polizia anglo-francese. Seguì subito uno sciopero generale e un campagna di massa di boicottaggio delle merci inglesi. Scesero in sciopero anche 200mila lavoratori dell’industria e del porto di Hong Kong.

Lo sciopero di Hong Kong durò ininterrottamente per 15 mesi e fu uno dei più grandi scioperi della storia. Durante la lotta si formò un Comitato di sciopero dei lavoratori di Canton e Hong Kong, responsabile di fronte a una conferenza di delegati, che era composta da un rappresentante ogni cinquanta scioperanti e si riuniva due volte la settimana. Il comitato organizzava un ospedale, diciassette scuole e una milizia operaia di duemila uomini armati. Si trattava a tutti gli effetti di un soviet.

In questa situazione incandescente, il numero dei lavoratori iscritti ai sindacati crebbe in maniera vertiginosa, passando da 240.000 nel 1924, a 540.000 nel 1925, 1.250.000 nel 1926 e 2.800.000 nel 1927. Sull’onda della rivoluzione anche il Pcc ebbe una crescita sbalorditiva, trasformandosi da un piccolo gruppo di intellettuali in un partito di massa con profonde radici nel movimento operaio. Se a gennaio del 1925 gli iscritti al partito erano ancora meno di un migliaio, alla fine dell’anno erano aumentati di dieci volte; nel giro di sei mesi triplicarono ulteriormente; nel 1927 il Pcc arrivò a contare 60mila membri, oltre a un’organizzazione giovanile con altri 35mila aderenti.

Sebbene il carattere proletario della rivoluzione cinese fosse evidente e la classe operaia avesse dimostrato tutta la sua forza, la direzione staliniana dell’Internazionale proseguì imperterrita nella sua linea di collaborazione con la borghesia. Nel febbraio del 1926 venne approvata, con il solo voto contrario di Trotskij, l’adesione del Kuomintang al Comintern come “sezione simpatizzante”; Chiang Kai-shek, il generale a capo dell’Esercito rivoluzionario nazionale, fu eletto membro onorario dell’Esecutivo dell’Internazionale.

La spedizione verso Nord

Per quanto potesse essere ostile all’imperialismo, la borghesia cinese temeva molto di più il movimento operaio e si preparò a reagire. Dopo la morte di Sun Yat-sen nel marzo del 1925, il candidato naturale a “ristabilire l’ordine” era Chiang Kai-shek, che godeva dell’appoggio degli ufficiali dell’Esercito rivoluzionario nazionale, in massima parte provenienti da famiglie di proprietari terrieri.

Il 20 marzo 1926, con un colpo di Stato, le truppe dell’Ern presero il controllo di Canton, arrestando i comunisti e chiudendo le sedi dei sindacati. Chiang per il momento non spinse il golpe fino in fondo e fece rientrare i soldati nelle caserme, ma si sbarazzò comunque dei suoi rivali all’interno del Kuomintang e impose condizioni più restrittive per mantenere i comunisti all’interno del partito: i membri del Pcc non potevano più ricoprire incarichi dirigenti e dovevano accettare i principi della dottrina di Sun Yat-sen (che negavano l’esistenza della lotta di classe).

Nonostante questo clamoroso avvertimento, Stalin decise di proseguire l’alleanza con il Kuomintang, appoggiando di fatto la dittatura militare di Chiang. La notizia del golpe venne tenuta nascosta all’interno dell’Urss e il primo maggio Chiang venne accolto come l’ospite d’onore al congresso dei sindacati cinesi.

Con le spalle oramai coperte, nel mese di luglio Chiang Kai-shek iniziò una spedizione militare verso nord contro i “signori della guerra”. La marcia dell’Esercito rivoluzionario nazionale fu travolgente, riportando un successo dopo l’altro. Mentre gli eserciti mercenari dei signori della guerra si sfaldavano, il movimento degli operai e dei contadini vedeva un’estensione senza precedenti. Più di un milione di lavoratori venne coinvolto in scioperi e il 4 gennaio 1927 una manifestazione di massa ad Hankou occupò la concessione britannica. La mobilitazione nelle campagne fu ancora più imponente: tra novembre 1926 e marzo 1927, più di 10 milioni di contadini entrarono nelle leghe e nelle associazioni contadine.

Nei territori liberati dall’Ern, però, Chiang Kai-shek imponeva la legge marziale, scioglieva le leghe contadine e i sindacati, vietava gli scioperi. La resa dei conti era oramai prossima e l’Opposizione di sinistra rivendicava con urgenza l’uscita del Pcc dal Kuomintang, l’esproprio dei proprietari terrieri e la creazione dei soviet nelle città e nelle campagne. La direzione staliniana dell’Internazionale fece esattamente il contrario di tutto questo: ogni critica contro il Kmt era bollata come un crimine contro la lotta anti-imperialista; i soviet erano categoricamente esclusi, in quanto organismi della rivoluzione proletaria incompatibili con il carattere democratico-borghese della rivoluzione cinese; anche il programma agrario doveva essere moderato per non entrare in urto con il Kuomintang… Questo atteggiamento arrendevole spianò la strada a Chiang Kai-shek, che anzi poté guidare la controrivoluzione ammantandosi dell’aura di leader rivoluzionario conferitagli dal Comintern.

Il massacro di Shangai

Quando l’Esercito rivoluzionario nazionale arrivò a poche miglia da Shangai, i lavoratori della città entrarono in azione. Il 19 febbraio 1927 cominciò un sciopero generale imponente, che coinvolse 800mila persone. Chiang arrestò la sua avanzata per dare modo alle truppe del signore della guerra locale di schiacciare gli operai. Ciò nonostante, il 21 marzo le masse di Shangai condussero un’insurrezione vittoriosa e nel giro di due giorni la città fu nelle mani delle milizie operaie.

Il 26 marzo Chiang entrò a Shangai e iniziarono a moltiplicarsi le voci su un secondo colpo di Stato. Invece di prepararsi allo scontro decisivo e organizzare la resistenza del proletariato di Shangai, il Pcc organizzò un’accoglienza trionfale per Chiang. Addirittura il comandante di una delle divisioni dell’Ern, che simpatizzava con il movimento operaio, si offrì di restare a Shangai per combattere assieme ai lavoratori, ma il Pcc rifiutò il suo aiuto e lasciò che la divisione fosse trasferita in un altro settore.

In questo modo Chiang ebbe mano libera e il 12 aprile le sue truppe cominciarono a massacrare brutalmente tutti i comunisti presenti a Shangai. Furono assassinate cinquemila persone. Il Partito comunista e tutti i sindacati vennero annientati e dichiarati illegali.

Nemmeno la disfatta di Shangai fu sufficiente a far ravvedere Stalin e Bucharin, che semplicemente trasferirono le loro illusioni sul Kuomintang “di sinistra”. Si era infatti creata una frattura all’interno del Kmt tra la destra guidata da Chiang Kai-sheck, che controllava l’esercito e aveva la sua base a Nanchino, e la sinistra di Wang Jingwei, che invece aveva la maggioranza del partito e aveva stabilito la sede del governo a Wuhan.

L’Esecutivo del Comintern presentò la sconfitta catastrofica di Shangai come un passo avanti, che aveva spostato a sinistra i rapporti di forza all’interno del Kuomintang. Il governo di Wuhan era descritto sulla stampa comunista come la nuova incarnazione della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” e Wang Jingwei venne accolto in pompa magna al quinto congresso del Pcc (maggio 1927).

Il movimento degli operai e dei contadini era ancora forte. Soprattutto nelle campagne i contadini occupavano le terre e formavano milizie per combattere quelle dei proprietari terrieri. Invece di porsi alla testa di queste mobilitazioni, il Partito comunista entrò nel governo di Wuhan con due ministri, che si resero corresponsabili di azioni repressive contro gli scioperi e le rivolte contadine.

Nel giro di qualche mese Wang Jingwei raggiunse un accordo con Chiang Kai-shek: il 15 luglio tutti i comunisti furono espulsi da Kmt e i generali di Wuhan scatenarono una sanguinosa caccia all’uomo contro di loro. Per la seconda volta la politica del “blocco delle quattro classi” era servita solo a disarmare i lavoratori di fronte ai plotoni d’esecuzione della controrivoluzione.

Il Comintern cercò di gettare ogni responsabilità sull’opportunismo del gruppo dirigente del Pcc. In verità la maggioranza del partito comunista cinese si era espressa a suo tempo contro l’entrata nel Kmt e si era disciplinata alla linea del “blocco” solo perché l’Internazionale comunista godeva di grande prestigio e il Pcc dipendeva in larga parte dai finanziamenti sovietici per la sua esistenza.

I due principali dirigenti del partito, Chen Duxiu e Peng Shuzhi, sebbene pubblicamente difendessero la linea dell’Internazionale, all’interno del partito rivendicarono a più riprese l’uscita dal Kuomintang, un programma agrario più audace e l’armamento dei lavoratori. Chen e Peng rifiutarono di svolgere il ruolo di capri espiatori e per questo furono espulsi dal partito nel 1929 come “trotskisti”, assieme ad altre centinaia di loro sostenitori. Nel 1930 entrambi aderirono effettivamente all’Opposizione di sinistra.

L’insurrezione di Canton

Dopo i disastri di Shangai e Wuhan, il Comintern effettuò una svolta di 180 gradi e passò dall’opportunismo all’avventurismo. Il nuovo rappresentante dell’Esecutivo internazionale in Cina, Lominadze, impose al Pcc, senza alcuna discussione, una nuova linea di ultra-sinistra, secondo cui la rivoluzione cinese era entrata in una nuova fase e l’insurrezione armata era all’ordine del giorno.

In realtà il movimento rivoluzionario si trovava in una fase di riflusso dopo le sconfitte subite. Migliaia e migliaia di rivoluzionari erano stati uccisi e nella classe operaia a prevalere era la demoralizzazione. Ciò nonostante, su indicazione di Lominadze, il Pcc prese a organizzare una serie di insurrezioni improvvisate, il cui scopo principale era quello di coprire gli errori di Stalin di fronte al movimento comunista mondiale.

Il culmine di questa strategia suicida fu l’insurrezione di Canton nel dicembre 1927, appositamente organizzata in concomitanza con il XV congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica, in cui Stalin intendeva regolare i conti con l’Opposizione. L’insurrezione doveva servire a dimostrare che il proletariato cinese era sulla soglia della presa del potere e che quindi la linea dell’Internazionale sulla Cina era stata corretta. Il prezzo che i comunisti cinesi dovettero pagare per nascondere il fallimento delle politiche di Stalin fu indicibilmente salato.

La sollevazione armata cadde totalmente nel vuoto e non ricevette alcun appoggio dalle masse operaie di Canton. Dopo che per anni si era sostenuto che non fosse possibile costruire i soviet in Cina, a Canton venne creato un soviet, che però non era stato eletto da nessuno ed era composto interamente da comunisti designati da Lominadze. Questo soviet imposto dall’alto non svolse alcun ruolo significativo e nel giro di pochi giorni l’insurrezione venne sconfitta in un bagno di sangue.

Li Lisian e i “28 bolscevichi” 

Dopo i disastri di Shangai e Canton, i militanti comunisti dovettero abbandonare i grandi centri urbani per sfuggire alla repressione; trovarono rifugio nelle aree rurali più arretrate e impervie, dove si diedero a organizzare la guerriglia contadina.

La deriva estremista del Pcc proseguì anche negli anni immediatamente successivi, con la cosiddetta “Linea Li Lisian”, dal nome del principale dirigente del partito in quel periodo. Il realtà Li Lisian non fece altro che applicare le nuove direttive del Comintern, che nel 1928 inaugurò la politica del “Terzo periodo”, secondo cui il capitalismo a livello mondiale sarebbe stato prossimo al crollo finale. Su questa falsariga Li Lisian sosteneva che in Cina si stesse sviluppando una nuova ondata rivoluzionaria e per questo utilizzò gli eserciti rossi, formati dai militanti comunisti nelle campagne, per sferrare una serie di putsch contro le città. Ma oramai, dopo le sconfitte del 1927, le masse operaie avevano voltato le spalle al Pcc e le truppe rosse andarono incontro ad una sanguinoso fallimento.

Con il trionfo della controrivoluzione i sindacati indipendenti erano stati spazzati vie e sostituiti da sindacati gialli egemonizzati dal Kuomintang. Per riconquistare un legame con la classe operaia, i comunisti avrebbero dovuto fare un lavoro all’interno di questi sindacati e avanzare rivendicazioni democratiche contro la dittatura militare di Chiang Kai-shek (giornata lavorativa di otto ore, diritto di sciopero, elezioni per un’Assemblea nazionale, etc.). Sotto la direzione di Li Lisian, invece, il Pcc si dedicò a costruire nuovi sindacati “rossi” e fece ricorso a una propaganda estremista, ottenendo l’unico effetto di isolare i comunisti dal resto della classe operaia.

Queste politiche avventuriste e settarie distrussero il residuo insediamento operaio del partito comunista nelle grandi città. Se nel 1926 i due terzi degli iscritti al Pcc erano proletari, nel 1930 questa percentuale era scesa al 5%. A Shangai nel 1927 il partito contava 8mila membri, crollati a 500 nel 1932 e destinati a ridursi ulteriormente. Dopo il fallimento della “linea Li Lisian” il baricentro del Pcc si spostò ulteriormente nelle campagne. I pochi militanti operai rimasti vennero inviati nelle aree rurali per rafforzare l’esercito rosso.

Il colpo di grazie venne sferrato nel 1931, quando il Comintern rimpiazzò Li Lisian con i cosiddetti “28 bolscevichi”. Questi erano un gruppo di studenti dell’università Sun Yat-sen di Mosca, creata nel 1925 da Stalin per “formare” i giovani quadri del Pcc. Si erano tristemente distinti nelle purghe contro gli studenti cinesi a Mosca che avevano aderito all’Opposizione ed erano in tutto e per tutto creature di Stalin. Senza alcuna base nel partito, né alcuna esperienza di costruzione in Cina, dipendevano esclusivamente da Mosca. Per consolidare la loro posizione al vertice, i “28 bolscevichi” non esitarono a espellere un quarto dei membri del partito, tra i quali gli ultimi quadri sindacali del Pcc.

In conseguenza di questa lunga serie di politiche criminali, a metà degli anni ’30 l’attività dei comunisti cinesi nelle grandi città era praticamente cessata e il Pcc si era trasformato in un’organizzazione essenzialmente contadina.

Le conseguenze della sconfitta

Questi avvenimenti ebbero gravissime ripercussioni nella storia del movimento comunista cinese. L’abbandono dei centri urbani da parte del Pcc contribuì in modo decisivo a dare un carattere distorto ai successivi processi rivoluzionari in Cina. La rivoluzione del 1949 fu profondamente differente da quella del 1925-1927. Nella vittoria di Mao la classe operaia non svolse alcun ruolo autonomo: le grandi città industriali vennero semplicemente conquistate militarmente dagli eserciti rossi, integralmente composti di contadini. Di conseguenza la Stato che nacque, la Repubblica Popolare Cinese, non ebbe mai quelle caratteristiche di democrazia operaia basata sui soviet dei primi anni del regime bolscevico, ma fin da subito fu uno stato burocratico sul modello dell’Urss stalinista.

D’altra parte le politiche opportuniste seguite nel periodo 1925-1927 ebbero un’influenza durevole sul Partito comunista cinese. Ancora nel 1949, dopo la presa del potere, Mao riproponeva il “blocco delle quattro classi” e prevedeva per la Cina una lunga fase di sviluppo del capitalismo. Il regime maoista avviò la politica della “Nuova democrazia”, con cui cercò di ottenere la collaborazione della borghesia nella ricostruzione economica del paese. Tuttavia il grosso dei capitalisti cinesi aveva seguito Chian Kai-shek a Taiwan e, di fronte all’aggressione dell’imperialismo americano, con il blocco commerciale e la guerra di Corea, Mao dovette necessariamente mettersi sulla strada delle nazionalizzazioni e della pianificazione dell’economia. Per ironia della sorte questo sviluppo, che avvenne ben al di là delle intenzioni iniziali di Mao, diede una conferma – per quanto in forma estremamente distorta – della validità della teoria della rivoluzione permanente.

Note

1. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti 1967, vol. 31, p. 164.

2. Ibidem, p. 230.

3. Ibidem, p. 232.

4. Sull’argomento si veda l’articolo di Serena Capodicasa, Rivoluzione permanente, teoria generale e peculiarità, pubblicato su falcemartello n. 4.

5. Trotskij, I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940, Giulio Einaudi Editore 1970, pp. 123-124.

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