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Scuola e rinnovo del contratto: una riflessione critica

Era il 30 novembre 2016, mancava una manciata di giorni a quel referendum costituzionale che si rivelò essere una sonora bocciatura per Renzi, quando sindacati confederali e Governo sottoscrissero un’intesa sul rinnovo del contratto del pubblico impiego.

In queste settimane, a quasi un anno di distanza, l’avvicinarsi delle elezioni politiche rende il PD e l’attuale Governo disponibili alla ripresa delle trattative sulla base di quell’intesa, ma a un prezzo alto per i lavoratori della scuola.

Il settore scuola, con oltre un milione di lavoratori, costituisce una consistente parte del pubblico impiego e le principali sigle sindacali del comparto – FLC CGIL, CISL SCUOLA, UIL SCUOLA, SNALS – hanno elaborato documenti unitari contenenti le linee guida per il rinnovo contrattuale.

Il gruppo dirigente dell’FLC CGIL – sindacato maggiormente rappresentativo nel mondo dell’istruzione – è giunto a questa posizione comune con le altre sigle sindacali guardandosi bene dall’avviare prima un percorso di discussione nei territori, un confronto nelle scuole che analizzasse le rivendicazioni da inserire nella piattaforma. Niente di tutto questo, prioritaria è stata la (pseudo)strategia unitaria delle dirigenze sindacali unitarie per giungere ad una proposta unitaria. Il coinvolgimento dei lavoratori, che probabilmente non risultano essere sufficientemente unitari, viene semmai dopo.

Inutile dire che oltretutto è mancato il tempo per avviare un confronto con iscritti e militanti su una bozza di piattaforma e su quali rivendicazioni puntare, dopotutto il blocco contrattuale dura solo da otto anni. Anche il contributo portato dai compagni dell’area il Sindacato è un’altra cosa nell’FLC , l’opposizione in Cgil, non è stato minimamente preso in considerazione e perfino l’iniziativa nazionale “verso il contratto” del 6 ottobre, promossa dalle quattro organizzazioni sindacali, ha coinvolto più che altro funzionari e segretari territoriali. Solo in queste settimane partiranno nelle scuole le assemblee sindacali, ma sul tavolo delle trattative con il Governo ci sono i punti rivendicativi sintesi dell’elaborazione dei gruppi dirigenti dei sindacati. E il risultato si vede.

Si parte da una implicita, non scritta, accettazione della posizione del Governo, la cui premessa suona più o meno così: le condizioni economiche non ci permettono di mettere sul tavolo risorse aggiuntive oltre a quelle previste nell’intesa del 30 novembre 2016. Il che vuol dire, per quanto riguarda l’aumento dello stipendio, 85 euro mensili lordi. Ma chi le determina queste condizioni? Per gli oltre 20 miliardi annui di spese belliche sono presenti altre condizioni economiche? E per i finanziamenti alle scuole private? Per i salvataggi delle banche? Per i contribuiti a fondo perduto o sgravi fiscali al mondo delle imprese? Ebbene, se per il Governo questa destinazione di risorse pubbliche sono il frutto di scelte politiche da non porre in discussione, toccherebbe ai sindacati ritenere imprescindibile un giusto aumento di risorse destinate all’istruzione, avviando un immediato percorso di mobilitazione.

Invece la piattaforma unitaria sottoscritta dall’FLC-CGIL e dalle altre sigle accetta questa premessa: pur partendo con l’affermare che bisogna giungere al “ ripristino del potere d’acquisto dei salari dopo 8 anni di blocco contrattuale” arriva a rivendicare la soglia minima economica degli 85 euro di aumento. E pensare che le stesse organizzazioni sindacali avevano quantificato in 250-300 euro il potere d’acquisto perso in tutti questi anni. A meno di ravvedimenti dell’ultimo minuto nei fatti l’intesa del 30 novembre altro non è stato che uno scambio tra il sindacato e il governo. La rinuncia di vere rivendicazioni sindacali in cambio del rinnovo contrattuale.

Oltretutto nessun accenno viene fatto ad una messa in discussione della politica del “bonus valutazione”, ovvero della suddivisione dei docenti sulla base di un presunto merito. Anzi, viene paventata la possibilità di “carriere basate sull’anzianità con percorrenze che consentono di raggiungere in minor tempo le fasce stipendiali più alte”. In minor tempo rispetto a chi? Ai colleghi? Per quali motivo? Sulla base di cosa? Poiché tutti i docenti sono obbligati a fare formazione, la “valutazione del merito” o si rivela soggettiva (è il dirigente scolastico in ultimo a decidere) o si basa sui risultati dei test standardizzati (vedi invalsi) a cui tutti gli studenti vengono sottoposti (ma nessun docente, giustamente, ad inizio anno scolastico può scegliersi gli studenti).

Paventare percorrenze privilegiate di incremento stipendiale significa confermare la suddivisione tra presunti docenti meritevoli e altri non meritevoli. Insegnanti di serie A e di serie B, esattamente come si sono create in questi anni scuole degradate in contrapposizione a scuole d’elite. La dinamica di competizione tra scuole è il risultato di come l’autonomia scolastica è stata declinata negli ultimi quindici anni. La programmazione ministeriale è uniforme sul territorio nazionale, le prove invalsi sono le medesime da Aosta a Palermo, ma ogni istituto, sotto la guida del preside manager, si deve arrangiare in maniera autonoma. Si è così giunti ad un sistema educativo in cui le scuole sono sistematicamente focalizzate sul procacciarsi il maggior numero di iscritti possibile cercando simultaneamente di recuperare risorse economiche dalle realtà sul territorio, gli indirizzi di studio sui quali investire viene stabilito di conseguenza. Un sistema che pretende, dalle famiglie degli studenti all’inizio di ogni anno scolastico, il contributo di 100, 150 fino a 400 euro per il funzionamento ordinario degli istituti. Un sistema in cui ogni scuola si ritrova sommersa da incombenze burocratiche e in cui il preside – che magnanimamente a fine anno scolastico deciderà quali insegnanti premiare e quali no – ricorda ai docenti l’obbligo di curare tutti i dettagli di quel percorso di alternanza scuola-lavoro che ogni studente deve compiere. E così via. Questa è l’autonomia scolastica.

Un tale quadro dovrebbe essere denunciato in maniera chiara nella piattaforma rivendicativa e non ridursi ad una presa di posizione del tutto inefficace e ambigua come quella presente nelle linee guida dei sindacati. Nel documento si legge: “l’autonomia delle scuole e autogoverno delle istituzioni scolastiche sono punti di riferimento ineludibili, da cui consegue l’obiettivo di potenziare la contrattazione di II livello”.

Illudersi che l’autogoverno della scuola sia o si possa trasformare nel regno della democrazia, continuare a sperare di contrattare con il dirigente il “bonus valutazione”, così come non porre l’accento sull’assurda necessità che ogni scuola ha di attingere a risorse private per garantire il proprio normale funzionamento – quelle stesse risorse che i governi hanno via via tagliato – significa non avere la minima idea di quello che quotidianamente negli istituti avviene. I tentativi fatti, nel corso dell’ultimo anno scolastico, di far rientrare nell’ambito della contrattazione tra RSU e dirigenza le risorse destinate al “merito”, si sono rivelati nella stragrande maggioranza completamente inutili e divisivi all’interno del corpo docente.

Un’impostazione che non punta a dare un quadro normativo ed economico nazionale chiaro e omogeneo, ma che, utilizzando l’alibi dell’autonomia e dell’autogoverno, scarica su ogni singola scuola la gestione di questi aspetti, avalla una visione aziendale del funzionamento della scuola e alimenta la concorrenza tra istituti. Inserire nei punti della piattaforma rivendicativa che deve esserci “la restituzione alla contrattazione integrativa di istituto di tutte le materie fatte impropriamente oggetto di incursioni legislative: dall’utilizzazione del personale all’attribuzione del salario accessorio al bonus, dall’orario all’organizzazione del lavoro, alla mobilità” non aiuta –per usare un eufemismo- nel mettere a fuoco il cuore del problema di cui soffre il sistema scolastico: ogni scuola ha una spaventosa carenza di risorse e questo contribuisce a creare le condizioni per cui in una perenne situazione di quasi emergenza è il dirigente scolastico a dire l’ultima su quasi ogni aspetto organizzativo e economico.

Anche chi non vive quotidianamente la scuola può convincersi di questa situazione estremamente precaria volgendo lo sguardo sull’edilizia scolastica, sulle sempre presenti classi pollaio, sulla mancanza di aule. Può essere considerata normalità l’esistenza di classi di 30 e più studenti? Di plessi scolastici non a norma e con controsoffitti cadenti? Di scuole in cui le classi devono turnarsi nelle aule per sfruttare gli spazi lasciati liberi dagli studenti che svolgono le ore di educazione fisica?

Come giustamente viene scritto nell’appello lanciato il 17 settembre dall’assemblea nazionale dei lavoratori della scuola autoconvocati, ben altra è la piattaforma rivendicativa che deve essere messa in campo.

L’abrogazione della legge 107/2015 “La Buona Scuola”, l’aumento di 300 euro mensili per un recupero effettivo del potere d’acquisto perso in questi anni, il rifiuto di qualsiasi forma di salario accessorio legato al merito o alla differenziazione tra docenti, tutte rivendicazioni che devono essere imprescindibili. Ma il quadro in cui tali rivendicazioni vanno inserite è altrettanto importante: serve una chiara presa di posizione che metta in discussione l’autonomia scolastica (e il relativo autogoverno). Questa si è rivelata il canale attraverso il quale, nel corso degli anni, sono state portate avanti negli istituti politiche di accentramento del potere, di divisioni tra docenti, di attività “didattiche” sempre più piegate alle esigenze del mercato. Proprio come si è mostrata l’alternanza scuola lavoro, di cui dovremmo rivendicare l’abolizione, rivelatasi per quello che è: sfruttamento – senza neppure una retribuzione – degli studenti. Soprassedere su questo quadro significa continuare ad avvallare una disparità tra scuole, non uscire da una dinamica di competizione tra docenti e tra i diversi istituti, permanere in un sistema scolastico classista, un sistema in cui la dispersione scolastica sfiora il 15% e la scelta della scuola per uno studente diventa sempre più spesso il risultato della condizione economica della famiglia. Un sistema educativo degno di questo nome è tutt’altro, il rinnovo del contratto deve essere lo strumento per mobilitarsi, rivendicarlo e pretenderlo!

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