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Il quorum sui quesiti referendari non è stato raggiunto. Tre mesi di raccolta firme prima e sei mesi di campagna elettorale poi, hanno messo nel congelatore la lotta di classe.
Lo scorso autunno, allo sciopero generale del 29 novembre, così come agli scioperi nel Trasporto Pubblico Locale e nel gruppo Stellantis, solo per citarne alcuni, i lavoratori avevano mostrato una grande disponibilità a lottare, un’attenzione e un interesse che non si vedeva da tempo a uno slogan che appariva combattivo come quello della “rivolta sociale”.
La lotta appena avviata si concludeva molto rapidamente e dalla rivolta sociale si passava a “il voto è la nostra rivolta”. Una decisione irresponsabile che ha disarmato i lavoratori e li ha condotti su un terreno tutto istituzionale, senza alcuna prospettiva di vittoria. È la storia dei referendum degli ultimi quarant’anni, con l’unica eccezione del referendum sull’acqua pubblica, peraltro mai applicato.
Nel maggio del 2024, all’avvio della raccolta firme, definimmo la tattica referendaria una palude: “Una strategia che definire debole sarebbe un complimento. Mentre il governo e il padronato ci attaccano ogni giorno, ai lavoratori si propone di mettersi in fila, firmare e aspettare pazientemente che nella primavera del 2025 si voti.”
Non ci uniamo ai lamentosi piagnistei di chi accusa i lavoratori di aver fatto fallire i referendum per non essere andati a votare. Accusa, peraltro, nemmeno del tutto fondata. Le sezioni in cui il quorum è stato raggiunto, o comunque dove l’affluenza è stata più alta, sono quelle in quartieri e zone a più alta concentrazione proletaria e popolare in Toscana, a San Lorenzo e Tiburtina a Roma, nei quartieri operai e nella periferia del bolognese, solo per citarne alcuni. Ma ai referendum chi è chiamato ad esprimersi, in questo caso su temi che riguardano i lavoratori, non sono solo i lavoratori.
A fallire, dunque, è stata la strategia della direzione sindacale e della sinistra politica che ha sottratto i lavoratori dalla lotta e li ha posti sul terreno più favorevole alla classe dominante.
Affermare, come fatto da Landini subito dopo l’esito, che il problema è determinato da una crisi democratica del paese è, appunto, un modo per sottrarsi alle responsabilità. Ad essere in crisi è la direzione sindacale e la sua strategia.
La nostra area sindacale è stata l’unica a opporsi alla decisione di intraprendere questa strada. Era inevitabile che l’obiettivo di portare a votare almeno 25 milioni di persone per raggiungere il quorum avrebbe distolto dalla necessità di organizzare il conflitto nei posti di lavoro.
Immaginiamo cosa sarebbe potuto accadere se questa massiccia campagna, la formazione di comitati, le migliaia di assemblee, i banchetti e i volantinaggi si fossero concentrati per sostenere una lotta articolata, territorio per territorio, luogo di lavoro per luogo di lavoro, su un programma chiaro e combattivo in difesa di consistenti aumenti salariali, per una scala mobile dei salari e per il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, per la difesa e il sostegno dell’istruzione e della sanità pubblica, contro la precarietà, la mancanza di sicurezza nei posti di lavoro e il sistema degli appalti.
Di fatto nei posti di lavoro la campagna sui referendum è stata per i dirigenti sindacali un modo per non affrontare questi problemi concreti, sentititi dai lavoratori, e fare invece appelli astratti sulla “dignità” e i valori costituzionali.
La disfatta referendaria non è stata solo un buco nell’acqua, ma avrà anche effetti controproducenti sul breve termine: rappresenta una boccata d’ossigeno per un governo in affanno e un regalo alla propaganda padronale contro i diritti dei lavoratori. Salvini ha gioco fin troppo facile, dopo il voto, a invocare norme ancora più severe sul riconoscimento della cittadinanza agli immigrati, mentre Confindustria può presentare le sacrosante rivendicazioni per l’art. 18 e contro la precarietà come la battaglia ideologica di una piccola minoranza.
Tuttavia questi contraccolpi saranno solo temporanei. La vita va avanti e i problemi dei lavoratori (salari bassi, sfruttamento, precarietà, morti sul lavoro, truffe degli appalti) rimangono tutti lì. Il 20 giugno c’è lo sciopero nazionale per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici; ancora non è stato rinnovato il contratto dei lavoratori della sanità; nel settore della logistica è più necessaria che mai una mobilitazione per garantire condizioni di lavoro decenti. E’ sempre alla classe lavoratrice che verrà presentato il conto del riarmo, della guerra dei dazi, della crisi economica. Non sarà certo un referendum andato male a congelare a tempo indefinito lo scontro di classe in questo paese. La vera battaglia, non quella nelle urne referendarie, ma quella nelle fabbriche, nei magazzini e nelle piazze, deve ancora essere combattuta.