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Programma della rivoluzione internazionale o del socialismo in un paese solo?

Pubblichiamo questo testo, contenuto nel libro “La Terza Internazionale dopo Lenin”, che fu scritto da Trotskij nel 1928, in polemica con il progetto di programma presentato dalla direzione dell’Internazionale Comunista al suo Sesto Congresso. A quell’epoca, con l’ascesa di Stalin in URSS, nell’Internazionale si era diffusa la teoria del “socialismo in un paese solo”, secondo la quale una società socialista poteva essere costruita all’interno dei confini di un singolo Stato, senza la necessità di estendere la rivoluzione ad altri paesi. Questa nuova dottrina rappresentò un enorme passo indietro per il movimento comunista mondiale, all’interno del quale ciascun partito iniziò a vedere i problemi del proprio paese con un approccio meramente “nazionale”, un’impostazione che ritroviamo tuttora nelle formazioni politiche che si richiamano allo stalinismo e al “sovranismo di sinistra”. In questo scritto Trotskij sviluppò una critica approfondita della teoria del “socialismo in un paese solo”, richiamandosi alla precedente tradizione internazionalista di Lenin e del partito bolscevico.

 

Da “La Terza Internazionale dopo Lenin”, di Lev Trotskij

 

PREFAZIONE

Il progetto di programma, cioè il documento di fondamentale importanza che deve determinare l’attività dell’Internazionale Comunista per molti anni, è stato pubblicato qualche settimana prima della convocazione di un Congresso che si tiene quattro anni dopo il Quinto Congresso. Ciò non può essere giustificato dal fatto che il primo progetto fu pubblicato già prima del Congresso precedente, appunto perché molti anni sono trascorsi nel frattempo. Il secondo progetto è differente dal primo per tutta la sua struttura e si tenta di riassumere gli sviluppo degli ultimi anni. Sarebbe un atto estremamente imprudente e precipitoso adottare al Sesto Congresso questo progetto, che reca chiaramente le tracce di un lavoro fatto in fretta e con negligenza, senza una larga discussione preliminare da parte di tutte le sezioni dell’Internazionale.
Durante i pochi giorni a nostra disposizione, dal momento in cui abbiamo ricevuto il progetto sino all’invio di questa lettera, abbiamo potuto affrontare solo alcune delle questioni fondamentali trattate dal programma.
Per mancanza di tempo abbiamo dovuto lasciare completamente da parte, senza esaminarle, tutta una serie di tesi molto importanti, che forse oggi non sono di attualità, ma che possono assumere domani una portata eccezionale. Ciò non implica affatto che sia necessario criticarle meno delle parti del progetto, cui questo lavoro è consacrato.
Bisogna aggiungere che ci siam sforzati di lavorare sul nuovo progetto in condizioni che ci rendevano impossibile ottenere le informazioni necessarie. Basterà dire che non abbiamo potuto neppure procurarci il primo progetto di programma: a questo riguardo, come per due o tre altri punti, abbiamo dovuto fidarci della nostra memoria. Va da sé che tutte le citazioni sono state fatte da testi originali e sono state accuratamente verificate.

IL PROGRAMMA DELLA RIVOLUZIONE INTERNAZIONALE O IL PROGRAMMA DEL SOCIALISMO IN UN PAESE SOLO?

La questione più importante nell’agenda del Sesto Congresso è l’adozione del programma. La natura di questo può determinare e fissare per lungo tempo la fisionomia dell’Internazionale. L’importanza di un programma non risiede tanto nel formulare tesi teoriche generali (in ultima analisi ciò si riduce a una “codificazione”, ossia nella concisa esposizione delle verità e generalizzazioni solidamente e definitivamente acquisite); si tratta invece di tirare un bilancio delle esperienze economiche e politiche mondiali dell’ultimo periodo, ed in modo particolare delle lotte rivoluzionarie degli ultimi cinque anni – così ricche di eventi e di errori come sono. Per i prossimi anni il destino dell’Internazionale Comunista – nel senso letterale del termine – dipenderà dal modo in cui questi eventi, errori e controversie saranno interpretati e giudicati nel programma.

1. La struttura generale del programma

Nella nostra epoca, che è l’epoca dell’imperialismo, cioè dell’economia e della politica mondiali sotto l’egemonia del capitale finanziario, nessun partito comunista può stabilire il proprio programma procedendo solamente o principalmente dalle condizioni e tendenze di sviluppo del suo proprio paese. Ciò è vero anche per il partito che detiene il potere entro i confini dell’URSS. Il 4 agosto del 19141 ha segnato irrimediabilmente la fine dei programmi nazionali. Il partito rivoluzionario del proletariato può basarsi solo su un programma internazionale corrispondente al carattere dell’epoca attuale, l’epoca del più alto sviluppo e del collasso del capitalismo. Un programma comunista internazionale non è in nessun caso la somma totale di programmi nazionali o l’amalgama delle loro caratteristiche comuni. Il programma internazionale deve partire direttamente dall’analisi delle condizioni e delle tendenze dell’economia e del sistema politico mondiali considerati come un unico nelle loro connessioni e contraddizioni, cioè con una reciproca interdipendenza antagonistica tra i diversi settori. Nell’epoca attuale, assai più che in passato, l’orientamento nazionale del proletariato deve e può scaturire solo da un orientamento mondiale e non viceversa. Qui risiede la principale e basilare differenza tra l’internazionalismo comunista e tutte le varianti di socialismo nazionale.

Basandoci su queste considerazioni, abbiam scritto nel gennaio di quest’anno: “Dobbiamo cominciare a scrivere il programma dell’Internazionale (quello di Bucharin è il cattivo programma di una sezione nazionale dell’Internazionale, non il programma del Partito comunista mondiale)” (Pravda, 15 gennaio 1928).

Raccomandando il nuovo progetto, la Pravda scrisse che il programma comunista “differisce radicalmente dal programma della socialdemocrazia internazionale non solo nella sostanza dei suoi postulati centrali ma anche nel caratteristico internazionalismo della sua struttura” (Pravda, 29 maggio 1928).

Questa formulazione piuttosto nebulosa esprime chiaramente l’idea che abbiamo indicato sopra e che è stata in precedenza ostinatamente rigettata. Non si può che approvare la rottura con il primo progetto di programma presentato da Bucharin che, d’altronde, non diede luogo ad un serio scambio di vedute: non offriva neppure materia sufficiente perché si potesse precisare quello che se ne pensava. Mentre quel primo programma presentava un quadro arido, schematico, di un paese astratto che evolve da solo verso il socialismo, il nuovo progetto tenta invece (sfortunatamente senza successo e in modo inconseguente, come vedremo più avanti) di prendere come base, per determinare la sorte dei suoi diversi settori, l’economia mondiale nel suo insieme.

Collegando paesi e continenti che si trovano in un diverso livello di sviluppo in un sistema di mutua dipendenza ed antagonismo, ignorando le varie fasi del loro sviluppo e, nel contempo, esagerando subito le differenze tra loro, contrapponendo spietatamente un paese all’altro, l’economia mondiale è divenuta una possente realtà che domina la vita economica di singoli paesi e continenti. Questo fatto fondamentale basta a comprovare il carattere assolutamente realistico dell’idea di un partito comunista mondiale. Ponendo l’economia mondiale nel suo complesso alla più alta fase di sviluppo raggiungibile sulla base della proprietà privata, l’imperialismo, come il progetto afferma correttamente nella sua introduzione, “aggrava sino alla tensione più estrema la contraddizione tra la crescita delle forze produttive dell’economia mondiale e le barriere degli Stati nazionali”.

Senza cogliere il significato di questa proposizione, che è stato per la prima volta rivelato vividamente all’umanità durante l’ultima guerra imperialista, non possiamo fare un singolo passo in avanti verso la soluzione dei maggiori problemi della politica mondiale e della lotta rivoluzionaria.

Lo spostamento radicale dell’asse stesso del programma – consacrato dal nuovo progetto – non potrebbe che essere approvato se, nel tentativo di conciliare questa posizione che è la sola corretta con tendenze di carattere del tutto opposto, non si fossero introdotte nel progetto le contraddizioni più incresciose, annullando così il significato di principio del nuovo modo di affrontare la questione nei suoi aspetti fondamentali.

2. Gli Stati Uniti e l’Europa

Per qualificare il primo progetto di programma, fortunatamente ritirato, è sufficiente dire che, per quel che ricordiamo, il nome degli Stati Uniti non era in esso nemmeno menzionato. I problemi essenziali dell’epoca imperialista – che, a causa del carattere proprio di tale epoca, vanno analizzati non solo in modo teorico ed astratto ma anche nella loro concreta e storica interrelazione – erano dissolti nel primo progetto in un morto schematismo riguardo un paese capitalista “generico”. Il nuovo progetto di programma, invece – e questo è un serio passo in avanti – parla dello “spostamento del centro economico del mondo negli Stati Uniti”, della “trasformazione della ‘Repubblica del dollaro’ in sfruttatore del mondo”, “del fatto che gli Stati Uniti abbiano già conquistato l’egemonia mondiale” ed infine che la rivalità (il progetto parla in modo impreciso di “conflitto”) tra capitalismo nordamericano ed europeo, innanzitutto inglese, “diviene il centro dei conflitti mondiali”. È evidente che un programma che non contenesse una chiara e precisa definizione di questi fatti e fattori fondamentali della situazione mondiale, non avrebbe nulla a che fare col programma del partito della rivoluzione internazionale.

Purtroppo gli avvenimenti e le tendenze essenziali dell’evoluzione mondiale che abbiamo appena indicato, nel progetto sono semplicemente richiamati, con delle elusioni teoriche, senza essere intimamente legati alla struttura del programma, senza che se ne possano ricavare delle conclusioni dal punto di vista delle prospettive e della strategia.

Il nuovo ruolo acquisito dall’America in Europa sin dalla capitolazione del Partito comunista tedesco, e la conseguente sconfitta del proletariato tedesco avvenuta nel 1923, non è stato affatto valutato. Non è stato fatto alcun tentativo per spiegare che il periodo della “stabilizzazione”, della “normalizzazione” e della “pacificazione” in Europa, tanto quanto quello della “rigenerazione” della socialdemocrazia, è proceduto in stretta connessione materiale ed ideologica con i primi passi dell’intervento americano negli affari europei.

Non è stato inoltre mostrato che l’inevitabile ulteriore sviluppo dell’espansione americana, la contrazione dei mercati del capitale europeo, compresa l’Europa stessa, implicano le più grandi convulsioni militari, economiche e rivoluzionarie mai viste.

Non si è neppure chiarito il fatto che l’inevitabile ulteriore sviluppo degli Stati Uniti ridurrà sempre di più la porzione di economia mondiale dell’Europa capitalista; e ciò, ovviamente, implica non una mitigazione, ma al contrario un mostruoso inasprimento delle relazioni tra gli Stati europei accompagnato dal furioso scoppio di conflitti militari, poiché gli Stati, tanto quanto le classi, lottano ancor più ferocemente per una magra e calante razione che per una prodiga e crescente.

Il progetto di programma non dice che il caos intrinseco degli antagonismi tra gli Stati dell’Europa rende senza speranze ogni sorta di seria resistenza alla Repubblica Nord-Americana, la cui centralizzazione si accentua di continuo. Superare il caos europeo con gli Stati Uniti sovietici d’Europa, ecco uno dei primi compiti della rivoluzione proletaria. Quest’ultima è decisamente assai più vicina in Europa che in America (una delle ragioni è precisamente l’esistenza di barriere tra gli Stati) e, quindi, dovrà con ogni probabilità difendersi dalla borghesia nordamericana.

D’altra parte non si è sottolineato (eppure è un aspetto egualmente importante dello stesso problema mondiale) che appunto la potenza degli Stati Uniti nel mondo e l’espansione irresistibile che ne deriva, li costringe a collocare alle fondamenta del loro edificio i depositi di polvere esplosiva del mondo intero: tutti gli antagonismi dell’Occidente e dell’Oriente, la lotta di classe della vecchia Europa, le insurrezioni dei popoli coloniali, tutte le guerre e tutte le rivoluzioni. Da un lato, ciò trasforma il capitalismo nordamericano nella principale forza controrivoluzionaria dell’epoca moderna, sempre più interessata al mantenimento dell’ “ordine” in ogni angolo del globo terrestre; e, dall’altro lato, tutto ciò prepara il terreno per il gigantesco scoppio rivoluzionario all’interno di questa potenza imperialista mondiale, già dominante ed in continua espansione. La logica delle relazioni mondiali indica che questa esplosione non dovrebbe tardare molto dopo lo scatenarsi della rivoluzione proletaria in Europa.

Per aver precisato la dialettica delle interrelazioni tra America ed Europa abbiamo dovuto subire le più disparate accuse: quella di negare, alla maniera pacifista, le contraddizioni esistenti in Europa, quella di accettare la teoria del super-imperialismo di Kautsky, e molte altre. Non c’è qui alcun bisogno di attardarsi su tali accuse che sono, nel migliore dei casi, figlie di una completa ignoranza dei processi in atto e della nostra posizione verso di essi. Non possiamo però trattenerci dall’osservare che sarebbe difficile fare sforzi maggiori, nel confondere i termini di questo problema mondiale della più alta importanza, di quanti ne abbiano fatti gli autori del progetto del programma, nella loro meschina battaglia contro la nostra formulazione di tale questione. Comunque, è proprio la nostra formulazione che è stata confermata dal corso reale degli eventi.

Molto di recente sono stati compiuti sforzi da parte della stampa comunista per minimizzare, riferendosi all’imminente crisi commerciale e industriale negli Stati Uniti, l’importanza dell’egemonia americana. Non possiamo qui soffermarci ad esaminare in profondità il problema particolare della durata della crisi americana e della sua eventuale intensità. Questo è un problema di congiuntura e non di programma. Inutile dire che nella nostra opinione l’inevitabilità di una crisi è assolutamente indubbia; né pensiamo, considerando l’attuale portata mondiale del capitalismo americano, che sia impossibile che la prossima crisi raggiunga straordinari livelli per intensità e durezza. Ma non vi è ragione alcuna per dedurre da questo fatto che l’egemonia nordamericana debba restringersi o indebolirsi. Tale conclusione può portare solo agli errori più grossolani sul piano strategico, perché è vero proprio il contrario. Nel periodo della crisi l’egemonia degli Stati Uniti opererà in modo più completo, più aperto e più spietato che nei periodi di crescita economica. Gli Stati Uniti cercheranno di superare la crisi e di liberarsi dalle loro difficoltà e dai loro mali primariamente a spese dell’Europa, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga in Asia, Canada, Sud America, Australia o Europa stessa, ed indipendentemente dal fatto che ciò avvenga in modo pacifico o attraverso la guerra.

Dobbiamo comprendere nel modo più chiaro che, se il primo periodo dell’intervento americano ha avuto per l’Europa la conseguenza di determinare una ristabilizzazione e una pacificazione, che tuttora sussistono e possono anche episodicamente rinascere e rafforzarsi (soprattutto nell’eventualità di nuove sconfitte proletarie), al contrario la linea generale della politica dell’America, soprattutto se quest’ultima dovrà far fronte a difficoltà e a crisi economiche, provocherà, in Europa come nel resto del mondo, profonde convulsioni.

Da ciò possiamo trarre la conclusione non secondaria che nella prossima decade non ci sarà penuria di situazioni rivoluzionarie, come non ce n’è stata nel periodo che si è chiuso. Ecco perché è della massima importanza comprendere correttamente le molle principali dello sviluppo, per non esser colti alla sprovvista dalla loro azione. Se nel decennio passato la fonte delle situazioni rivoluzionarie era data dalle conseguenze dirette della guerra imperialista, nel secondo decennio postbellico la fonte principale delle sollevazioni rivoluzionarie sarà data dalle interrelazioni tra Europa e America. Una grande crisi negli Stati Uniti darebbe il segnale per nuove guerre e nuove rivoluzioni. Ripetiamo: non ci sarà penuria di situazioni rivoluzionarie. Ciò che accadrà dipende dal partito internazionale del proletariato, dalla maturità dell’Internazionale, dalla sua abilità nella lotta e dalla correttezza della sua strategia e della sua tattica.

Non si trova, nel progetto del programma dell’Internazionale, alcuna espressione di questa linea di pensiero. Un fatto di tale importanza come “lo spostamento del centro economico mondiale negli Stati Uniti”, è giusto sfiorato da un’accidentale osservazione di stampo giornalistico. È assolutamente impossibile giustificare questo fatto dicendo che vi era scarsità di spazio: a cosa dovrebbe essere destinato spazio in un programma se non alle questioni fondamentali? Si dovrebbe aggiungere, inoltre, che nel progetto in questione viene destinato troppo spazio a problematiche di secondaria o addirittura terziaria importanza (per tacere dello stile rilassato e delle innumerevoli ripetizioni, tolte le quali il programma si ridurrebbe almeno di un terzo).

3. La parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici d’Europa

Non c’è giustificazione per l’omissione dal nuovo progetto del programma della parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici d’Europa, che era già stata accettata dall’Internazionale nel 1923 dopo una lunga battaglia interna. O si tratta forse del fatto che gli autori vogliono “ritornare” su tale questione alla posizione di Lenin del 1915? Se le cose stanno così, essi devono prima comprendere in modo corretto i termini della questione.

Lenin, come è noto, durante la guerra era esitante verso la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. Questa fu originariamente inclusa nelle tesi del SotsialDemokrat (all’epoca organo centrale del partito) e quindi rigettata da Lenin. Questo fatto in sé indica che il problema che stiamo qui trattando non riguardava la generale accettabilità di principio di tale slogan, ma semplicemente una sua valutazione tattica, una problematica riguardante i suoi aspetti positivi e negativi dal punto di vista di una data situazione. Inutile dirlo, Lenin rifiutò la possibilità che potessero essere realizzati Stati Uniti d’Europa di stampo capitalistico. Questo era anche il mio approccio nel momento in cui ho avanzato la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa esclusivamente come una possibile forma statale della dittatura proletaria in Europa.

Scrissi a quel tempo:

“Una più o meno completa unificazione economica dell’Europa realizzata dall’alto attraverso un accordo tra i governi capitalisti è un’utopia. Lungo tale strada non si può andare oltre compromessi parziali e mezze misure. Ma una tale unificazione economica dell’Europa, che comporterebbe colossali vantaggi tanto per i produttori e consumatori quanto per un generale sviluppo culturale, sta divenendo un compito rivoluzionario del proletariato europeo nella sua battaglia contro il protezionismo imperialista ed il suo strumento – il militarismo” ( Trotskij, Il programma di pace).

Inoltre: “Gli Stati Uniti d’Europa rappresentano solo una forma – l’unica concepibile – della dittatura del proletariato europeo” (Ibidem).

Ma in una tale formulazione del problema Lenin vide, a quel tempo, un certo pericolo. In assenza di alcuna esperienza di dittatura proletaria in un solo paese e di chiarezza teorica su tale argomento, persino nell’ala sinistra del partito socialdemocratico di allora la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa avrebbe potuto far sorgere l’idea che la rivoluzione proletaria deve iniziare in modo simultaneo, quantomeno sull’intero continente europeo. Fu contro tale pericolo che Lenin diede i suoi ammonimenti, ma su questo punto non vi era un briciolo di differenza tra lui e me. Io scrissi a quel tempo:

“Nessun paese deve ‘aspettare’ gli altri nella sua battaglia. Sarebbe utile e necessario ribadire l’idea elementare secondo cui l’inazione internazionale nell’attesa non può sostituire l’azione internazionale parallela. Dobbiamo cominciare e continuare la nostra battaglia sul terreno nazionale senza attendere gli altri, nella piena convinzione che la nostra iniziativa servirà da impulso per la battaglia in altri paesi” (Trotskij, 1917).

Quindi seguono quelle mie parole che Stalin ha presentato innanzi al Settimo Plenum del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista come la più degenerata espressione di “trotskismo”, ossia come “mancanza di fiducia” nelle forze interne della rivoluzione e speranza d’aiuto dall’esterno.

“E se questo [lo sviluppo della rivoluzione in altri paesi – L.T.] non dovesse realizzarsi, sarebbe impossibile immaginare (come risulta chiaramente dall’esperienza storica e da considerazioni teoriche) che una Russia rivoluzionaria, per esempio, possa resistere di fronte ad un’Europa conservatrice, o che una Germania socialista possa sopravvivere isolata in un mondo capitalista” (Ibidem).

Sulla base di due o tre simili citazioni si fonda l’intera condanna pronunciata dal Settimo Plenum contro il “trotskismo”, accusato di portare avanti su tale “fondamentale questione” una posizione “che non ha nulla in comune col leninismo”. Fermiamoci quindi per un momento ed ascoltiamo le parole di Lenin stesso.

Il 7 marzo 1918 egli disse, a proposito della pace di Brest-Litovsk:

“Questa è una lezione per noi, perché l’assoluta verità è che, senza una rivoluzione in Germania, periremo” (Lenin, Works, vol.XV p. 132).

Una settimana dopo disse:

“L’imperialismo mondiale non può vivere fianco a fianco con la vittoriosa e avanzante rivoluzione sociale” (Ibidem).

Poche settimane dopo, il 13 di aprile, Lenin disse:

“La nostra arretratezza ci ha spinto avanti e siamo destinati a perire se non saremo capaci di tener duro sino al momento in cui incontreremo il potente appoggio degli operai insorti di altri paesi” (ibidem, nostra sottolineatura).

È stato forse tutto ciò detto sotto la particolare pressione della crisi di Brest-Litovsk? No! Nel marzo 1919 Lenin ha ripetuto nuovamente:

“Noi non viviamo semplicemente in uno stato ma in un sistema di Stati, e l’esistenza della Repubblica Sovietica fianco a fianco con gli Stati imperialisti è inconcepibile per un tempo duraturo. Alla fine l’una o gli altri devono trionfare”.

Un anno dopo, il 7 aprile 1920, Lenin ribadì:

“Il capitalismo, se preso su scala internazionale, è ancora più forte del potere dei Soviet, sia sul piano militare che dal punto di vista economico. Dobbiamo partire da questa fondamentale considerazione e non scordarlo mai” (vol. XVII, p 102).

Il 27 novembre 1920, occupandosi del problema delle concessioni, disse:

“Siamo ora passati dall’arena della guerra all’arena della pace, ma non abbiamo scordato che la guerra verrà di nuovo. Fintanto che capitalismo e socialismo vivranno fianco a fianco, non potremo vivere in pace – uno o l’altro dovranno alla fine vincere. Un necrologio saluterà o la morte del capitalismo mondiale, o la morte della Repubblica Sovietica. Attualmente stiamo vivendo solo un momento di tregua”. (ibidem, p.308)

Forse il perdurare dell’esistenza della Repubblica Sovietica costrinse poi Lenin a “riconoscere i suoi errori” e a rinunciare alla sua “mancanza di fiducia nella forza interna” della Rivoluzione d’Ottobre?

Al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista del luglio 1921 Lenin dichiarò, nelle tesi sulla tattica del Partito comunista russo:

“Si è creato un equilibrio che, per quanto estremamente precario ed instabile, consente nondimeno alla repubblica socialista di mantenere la sua esistenza all’interno di un ambiente capitalista, anche se di certo tale situazione non potrà durare a lungo”.

Ancora il 5 luglio 1921 Lenin affermò seccamente, ad una delle sessioni del Congresso:

“Ci era chiaro che, senza l’aiuto da parte della rivoluzione internazionale, la vittoria della rivoluzione proletaria era impossibile. Già prima della rivoluzione, tanto quanto in seguito, pensavamo che tale rivoluzione sarebbe scoppiata immediatamente o quanto meno assai presto in altri paesi arretrati e nei paesi capitalisticamente più avanzati, altrimenti saremmo morti. Nonostante tale convinzione, abbiam fatto del nostro meglio per proteggere il sistema sovietico sotto qualsiasi circostanza e ad ogni costo, perché sappiamo che stiamo lavorando non solo per noi stessi ma anche per la rivoluzione internazionale”.

Quanto son lontane tali parole, così superbe nella loro semplicità e così permeate dello spirito dell’internazionalismo, dalle attuali compiaciute costruzioni degli epigoni!

In ogni caso, abbiamo il diritto di chiedere: in cosa tutte queste affermazioni di Lenin differiscono dalle mie convinzioni del 1915, cioè che la nascente rivoluzione russa e la nascente Germania socialista non avrebbero potuto resistere da sole se lasciate “isolate in un mondo capitalista”? Il fattore tempo ha mostrato d’esser differente da quello assunto non solo da me, ma anche da Lenin; ma l’idea sottostante mantiene la sua intera forza oggi più che mai. Invece di condannare quest’idea, come ha fatto il Settimo Plenum basandosi su un rapporto senza cognizione di causa e in mala fede, essa dovrebbe essere inclusa nel programma dell’Internazionale Comunista.

Per sostenere la parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici d’Europa, avevamo segnalato nel 1915 che la legge dello sviluppo diseguale e combinato non costituisce di per sé un argomento contro questa parola d’ordine, perché la diseguaglianza dello sviluppo storico è a sua volta diseguale per i diversi Stati e i diversi continenti. I paesi europei si sviluppano in modo ineguale l’uno rispetto all’altro. Nondimeno si può affermare con assoluta certezza, dal punto di vista storico, che nessuno di questi singoli paesi è destinato, almeno nell’epoca storica sotto analisi, a correre così avanti rispetto agli altri paesi così come l’America ha fatto nei confronti dell’Europa. Per l’America c’è una misura di diseguaglianza, per l’Europa ce ne è un’altra. Geograficamente e storicamente, le condizioni hanno determinato un tale legame organico tra i paesi europei che non c’è modo per loro di liberarsene. Gli attuali governi borghesi d’Europa sono come assassini incatenati ad un medesimo carro. Come è stato detto, la rivoluzione in Europa avrà, in ultima analisi, importanza decisiva anche per l’America. Ma dal punto di vista immediato, in una prospettiva storica vicina, una rivoluzione in Germania avrà un significato immensamente maggiore per la Francia che per gli Stati Uniti d’America. È precisamente da tale relazione storicamente sviluppatasi che trae la sua vitalità politica la parola d’ordine della Federazione Sovietica Europea. Parliamo della sua relativa vitalità perché è ovvio che tale Federazione si estenderà, attraverso il grande ponte dell’Unione Sovietica, sino all’Asia, e realizzerà allora l’unione delle Repubblica Socialiste Mondiali. Ma tutto ciò costituirà una seconda epoca, o un secondo grande capitolo dell’epoca imperialista. Quando vi saremo più vicini troveremo le formule più convenienti.

Si può dimostrare con altre citazioni che il disaccordo con Lenin nel 1915 era di natura strettamente tattica e aveva un carattere provvisorio; ma la prova migliore è fornita dal successivo corso degli eventi. Nel 1923 l’Internazionale Comunista ha adottato la parola d’ordine in contestazione. Se non la si fosse potuta ammettere per ragioni di principio nel 1915, come tentano di dimostrare ora gli autori del programma, l’Internazionale non avrebbe potuto adottarla otto anni dopo: c’è da credere che la legge dello sviluppo diseguale e combinato non avesse nel frattempo cessato di operare.

Tutto il modo sopraindicato di porre la questione parte dalla dinamica del processo rivoluzionario considerato nel suo insieme. La rivoluzione internazionale viene considerata come un processo interconnesso che non può esser previsto in ogni suo particolare e, per così dire, nel succedersi delle sue specifiche fasi, ma che è comunque assolutamente chiaro nei suoi lineamenti storici generali. Senza che quest’ultimo fatto venga ben compreso, è assolutamente impossibile un corretto orientamento politico.

Ma le cose cambiano radicalmente, se si prende come punto di partenza l’idea di uno sviluppo socialista che avviene ed è persino completato in un paese solo. Abbiamo oggi una “teoria” che ci insegna esser possibile la costruzione completa del socialismo in un paese solo, e che i rapporti di questo paese col mondo capitalista possano esser stabiliti sulla base di una “neutralizzazione” della borghesia mondiale (Stalin). Se viene adottato questo punto di vista, nazional-riformista e non rivoluzionario né internazionalista, scompare la necessità della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, o essa è quantomeno indebolita. Ma questa parola d’ordine, dal nostro punto di vista, è necessaria e d’importanza vitale perché vi risiede la condanna dell’idea di uno sviluppo socialista circoscritto in un paese isolato. Per il proletariato di ogni paese europeo, anche più che per l’URSS – anche se la differenza è solo di grado – sarà di massima importanza estendere la rivoluzione ai paesi vicini ed appoggiare tali insurrezioni con le armi in pugno, non in virtù di un’astratta considerazione di solidarietà internazionale (che in sé stessa non può mettere in moto le classi), ma in virtù di quelle considerazioni che Lenin ha formulato centinaia di volte – ovvero, che senza il tempestivo aiuto da parte della rivoluzione internazionale, non saremo capaci di resistere. La parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici corrisponde alla dinamica della rivoluzione proletaria, che non scoppia simultaneamente in tutti i paesi, ma che si espande da uno all’altro e che richiede il più stretto legame tra di essi, specialmente nell’arena europea, sia in senso difensivo contro i più potenti nemici esterni, sia per necessità dell’organizzazione dell’economia.

Si potrebbe, certamente, cercare di obiettare a tutto ciò sostenendo che nei periodi successivi alla crisi della Ruhr, la quale aveva fornito l’impulso decisivo per l’adozione di tale parola d’ordine, essa non aveva giocato un ruolo particolarmente importante nell’agitazione dei partiti comunisti europei e che non si era, per così dire, radicata. Ma ciò è altrettanto vero per altri slogan quali “stato operaio”, “Soviet” e così via, ovvero per tutti gli slogan del periodo pre-rivoluzionario. La spiegazione di ciò risiede nel fatto che sin dalla fine 1923, nonostante le erronee valutazioni politiche del Quinto Congresso, il movimento rivoluzionario nel continente europeo è andato scemando. Ma è proprio per questo che sarebbe funesto basare il programma, in tutto o parzialmente, sulle impressioni ricavate esclusivamente in quel periodo. Non è a caso che la parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici d’Europa fu adottata, malgrado tutte le prevenzioni, proprio nel 1923, quando ci si aspettava lo scoppio della rivoluzione in Germania e quando i problemi dei rapporti reciproci tra gli Stati in Europa avevano assunto particolare acutezza. Ogni nuovo aggravarsi della crisi europea e, a maggior ragione, della crisi mondiale, se abbastanza profondo per porre di nuovo i problemi politici fondamentali, creerà certamente le condizioni favorevoli all’adozione della parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici d’Europa. È quindi cosa fondamentalmente errata passarla sotto silenzio nel programma, evitando contemporaneamente di rigettarla, tenendola in un certo senso di riserva “per ogni eventualità”. Nelle questioni di principio, “tenere di riserva” è una politica che non vale niente.

4. Il criterio dell’Internazionalismo

Il progetto, come sappiamo, cerca di procedere nelle sue costruzioni dal punto di partenza dell’economia mondiale e dalle sue tendenze interne – un tentativo che merita d’esser riconosciuto. La Pravda dice cose completamente corrette quanto afferma che qui risiede la differenza di principio basilare tra noi e la socialdemocrazia nazional-patriottica. Un programma del partito internazionale del proletariato può esser costruito solo se l’economia mondiale, che domina sulle sue singole parti, è presa come punto di partenza. Ma è proprio nell’analizzare le tendenze principali dello sviluppo mondiale che il progetto in questione rivela non solo l’inadeguatezza che lo svalorizza, come abbiamo già osservato sopra, ma mostra anche d’essere grossolanamente unilaterale, cosa che lo porta a commettere gravi errori.

Il progetto, a varie riprese e non sempre a proposito, si riferisce alle legge dello sviluppo diseguale e combinato del capitalismo, presentandola come la legge fondamentale che determina più o meno tutto. Una serie di errori del progetto e tra questi uno che è essenziale dal punto di vista teorico, si basano su una concezione unilaterale ed erronea, non marxista né leninista, della legge dello sviluppo diseguale e combinato.

Nel primo capitolo si afferma che:

“La diseguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Questa diseguaglianza diviene ancor più accentuata e aggravata nell’epoca dell’imperialismo”.

Questo è vero. Tale formulazione, oltre tutto, condanna l’altra recente formulazione della questione fatta da Stalin, secondo il quale tanto Marx quanto Engels ignoravano tale legge, a suo avviso scoperta per la prima volta da Lenin. Il 15 settembre 1925, Stalin scrisse che Trotsky sbagliava a far riferimento a Engels, perché quest’ultimo scriveva in un periodo in cui “non si poteva neppure parlare [!!] della conoscenza della legge dello sviluppo diseguale e combinato dei paesi capitalistici”. Per quanto incredibili possano essere queste parole, Stalin, uno degli autori del progetto, le ha ripetute più di una volta. Il testo del progetto del programma, come abbiamo visto, ha fatto al riguardo un passo avanti. Comunque, se mettiamo da parte la correzione di quest’errore elementare, ciò che si dice a proposito della legge dello sviluppo diseguale e combinato resta essenzialmente unilaterale e inadeguato.

In primo luogo, sarebbe più corretto dire che l’intera storia dell’umanità è governata dalla legge dello sviluppo diseguale e combinato. Il capitalismo trova già i diversi settori dell’umanità a gradi diversi di evoluzione, ognuno dei quali con le sue profonde contraddizioni interne. L’estrema differenza nei livelli raggiunti e la straordinaria irregolarità nel tasso di sviluppo delle differenti sezioni dell’umanità durante le varie epoche servono come punto di partenza del capitalismo. Il capitalismo acquisisce padronanza di tale ereditata irregolarità solo in modo graduale, rompendola e alterandola, impiegando in essa i propri mezzi e metodi. In contrasto coi sistemi economici che l’hanno preceduto, il capitalismo mira costantemente e per sue leggi interne ad un’espansione economica, a penetrare in nuovi territori, a valicare le differenze economiche, a convertire le autosufficienti economie provinciali e nazionali in un sistema di interconnessioni finanziarie. In tal modo esso determina il loro riavvicinamento ed uniforma il livello economico e culturale dei paesi più arretrati. Senza questo fondamentale processo, sarebbe impossibile concepire il relativo livellamento dell’Europa con la Gran Bretagna (prima) e dell’America con l’Europa (poi), l’industrializzazione delle colonie, la decrescente differenza tra India e Gran Bretagna, e anche tutte le conseguenze che scaturiscono dai processi indicati su cui si basa non solo il programma dell’Internazionale Comunista, ma persino la sua stessa esistenza.

Avvicinando economicamente i diversi paesi ed uniformando i loro livelli di sviluppo però, il capitalismo opera con i suoi metodi, ovvero con mezzi anarchici che minano costantemente il suo stesso lavoro, mettendo i diversi paesi gli un contro gli altri ed un ramo dell’industria contro l’altro, sviluppando alcune parti dell’economia mondiale ed intralciando e facendo arretrare nel contempo lo sviluppo di altre. Solo la correlazione di queste due tendenze fondamentali, centrifuga e centripeta, entrambe derivanti dalla natura del capitalismo, ci spiega la connessione vivente del processo storico.

L’imperialismo, grazie all’universalità, penetrabilità, mobilità ed alla diffusione del capitale finanziario come sua forza motrice, dà vigore ad ambo le tendenze. L’imperialismo collega con incomparabili velocità e profondità le singole economie nazionali e continentali in un’unica entità, portandole alla più stretta e vitale dipendenza l’una dalle altre e riavvicina i loro metodi economici, le loro forme sociali ed i loro livelli di sviluppo. Allo stesso tempo, esso raggiunge questo “obiettivo” con metodi così antagonistici, così violenti e con tali incursioni sulle aree ed i paesi più arretrati, che l’unificazione ed il livellamento dell’economia mondiale che esso ha effettuato vengono da esso stesso rovesciati in modo ancor più violento e convulso che nelle epoche passate. Solo una tale comprensione, dialettica e non puramente meccanica, della legge dello sviluppo diseguale e combinato permette di evitare l’errore fondamentale che il progetto del programma, presentato al Sesto Congresso, non ha saputo evitare.

Immediatamente dopo la parziale caratterizzazione della legge dello sviluppo diseguale e combinato da noi sottolineata, il progetto del programma dice:

“Da qui ne segue che la rivoluzione proletaria internazionale non dev’essere considerata come un atto singolo, simultaneo ed universale. Da qui deriva che la vittoria del socialismo è inizialmente possibile prima in qualche paese capitalista isolato e persino in uno solo”.

La rivoluzione proletaria internazionale non può essere un atto simultaneo: ciò non è assolutamente in discussione, specialmente dopo l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, realizzata dal proletariato di un paese arretrato sotto la pressione di particolari necessità storiche e senza attendere minimamente che il proletariato dei paesi avanzati “livellasse il fronte”. Entro questi limiti, il riferimento alla legge dello sviluppo diseguale e combinato è assolutamente corretto e ben posto. Ma le cose sono completamente diverse per la seconda parte della conclusione – ossia la seguente asserzione secondo cui la vittoria del socialismo sarebbe possibile “in un isolato paese capitalistico”. Per provare questo punto il progetto si limita a dire: “Da qui deriva che…”. Si ha l’impressione che ciò derivi dalla legge dello sviluppo diseguale e combinato. Ma non ne deriva affatto. “Da qui deriva”, anzi, quasi l’opposto. Se il processo storico fosse tale per cui alcuni paesi potessero svilupparsi non solo in modo ineguale, ma persino indipendente gli uni dagli altri, isolati l’uno dall’altro, allora dalla legge dello sviluppo diseguale e combinato ne seguirebbe indubbiamente la possibilità di costruire il socialismo in un singolo paese capitalistico – inizialmente nei paesi più sviluppati e poi, con la loro maturazione, in quelli più arretrati. Era la concezione consueta, per così dire media, che esisteva nella social-democrazia dell’anteguerra e che costituiva precisamente la concezione teorica del social-patriottismo. Certo, il progetto del programma non sostiene questo punto di vista, ma scivola verso di esso.

L’errore teorico del progetto risiede nel fatto che esso cerca di dedurre dalla legge dello sviluppo diseguale e combinato qualcosa che essa non implica e non può implicare. Lo sviluppo sporadico, o a balzi dell’evoluzione dei diversi paesi, attenta di continuo ai loro legami reciproci e alla loro interdipendenza economica crescente, ma non li sopprime affatto. All’indomani di un infernale macello durato quattro anni e mezzo essi sono costretti a scambiarsi il carbone, il grano, il petrolio, la cipria e le bretelle. Su questo punto, il progetto pone la questione come se lo sviluppo storico procedesse solo sulla base di balzi sporadici, mentre le basi economiche che danno luogo a tali balzi, e sulle quali essi avvengono, vengono completamente ignorate o forzatamente rimosse da parte dei suoi autori. È questo ciò che essi fanno per difendere l’indifendibile teoria del socialismo in un paese solo.

Dopo ciò che è stato detto non è difficile comprendere come l’unica formulazione corretta della questione è questa: che Marx ed Engels, già prima dell’epoca imperialista, erano giunti alla conclusione che, da un lato, lo sviluppo diseguale e combinato estende la rivoluzione proletaria su tutta un’intera epoca nel corso della quale le nazioni entreranno, una dopo l’altra, in una piena rivoluzionaria; mentre, dall’altro lato, l’organica interdipendenza di molti paesi, che si sviluppata a tal punto da diventare una divisione internazionale del lavoro, esclude la possibilità di costruire il socialismo in un solo paese. Ciò significa che la teoria marxista, che assume che la rivoluzione socialista può iniziare solo su base nazionale mentre la costruzione del socialismo in un paese è impossibile, si è mostrata doppiamente e triplamente corretta, ancor più oggi nell’epoca moderna in cui si è sviluppato l’imperialismo, approfondendo ed acuendo entrambe queste antagonistiche tendenze. Su questo punto, Lenin ha semplicemente sviluppato e concretizzato la formulazione propria di Marx e la sua risposta a questo problema.

Il programma del nostro partito adotta interamente come punto di partenza l’idea che la Rivoluzione d’Ottobre e la costruzione del socialismo sono condizionati dalla situazione internazionale. Per provarlo è sufficiente trascrivere tutta la parte teorica del nostro programma. Qui ci limitiamo a far notare che, quando durante l’Ottavo Congresso del nostro partito il defunto Podbelsky suppose che alcune formulazioni si riferissero solo alla rivoluzione russa, Lenin replicò, nel suo discorso conclusivo (19 marzo 1919), nel modo seguente:

“Podbelsky ha sollevato obiezioni ad un paragrafo che parla della rivoluzione sociale che si prepara… Questo argomento è manifestamente infondato, perché nel nostro programma si parla della rivoluzione sociale su scala mondiale.” (vol. XVI, p.131)

Non sarà fuori luogo far notare qui che, più o meno contemporaneamente, Lenin suggerì di cambiare il nome del nostro partito da Partito Comunista Russo a Partito Comunista, per enfatizzare in modo ancora più netto che esso è il partito della rivoluzione internazionale. Io sono stato l’unico a votare a favore della mozione di Lenin al Comitato Centrale. Egli però non la portò innanzi al Congresso, perché allora si stava fondando la Terza Internazionale. Tale posizione è prova del fatto che, a quel tempo, non c’era neppure l’ombra del socialismo in un paese solo. Questa è la sola ragione per cui il programma del partito non condanna tale “teoria” ma semplicemente la esclude.

Ma il programma della Lega dei Giovani Comunisti, adottato due anni dopo, doveva invece contenere un diretto avvertimento contro le illusioni nazionaliste e contro la ristretta mentalità nazionale della questione della rivoluzione proletaria, per educare i giovani allo spirito dell’internazionalismo. Avremo modo di dilungarci maggiormente su questo punto più avanti nel nostro scritto.

Il nuovo progetto del programma dell’Internazionale Comunista pone la questione in modo molto differente. In armonia con l’evoluzione revisionista dei suoi autori iniziata nel 1924, il progetto, come abbiamo visto, sceglie la strada diametralmente opposta. Ma il modo in cui è risolta la questione del socialismo in un paese solo determina la natura dell’intero progetto come documento marxista oppure revisionista.

Ovviamente il progetto enfatizza e spiega, attentamente e persistentemente, la differenza tra una formulazione del problema comunista ed una riformista. Ma tali assicurazioni non risolvono il problema. È come se un vascello, abbondantemente fornito di apparecchi e meccanismi marxisti, avesse le vele aperte a tutti i venti revisionisti e riformisti.

Chiunque abbia appreso qualcosa dall’esperienza degli ultimi tre decenni, e particolarmente dalla straordinaria esperienza in Cina negli anni recenti, comprende la potente interdipendenza dialettica tra la lotta di classe ed i documenti programmatici del partito, e comprenderà la nostra affermazione che la nuova vela revisionista può ridurre a zero il funzionamento degli apparati di sicurezza e di salvataggio del marxismo e del leninismo. Questo è il motivo per cui siamo costretti a duellare in gran dettaglio contro tale questione fondamentale, che determinerà per lungo tempo lo sviluppo ed il destino dell’Internazionale Comunista.

5. La tradizione teorica del partito

Il progetto di programma, nella citazione di cui sopra, adopera deliberatamente l’espressione “vittoria del socialismo in un paese solo” per arrivare a una identità puramente verbale tra questo testo e l’articolo di Lenin del 1915, di cui si è fatto un abuso spietato, per non dire criminale, nel corso della discussione sull’edificazione della società in un paese solo. Il progetto ricorre allo stesso procedimento, quando “allude” alle parole di Lenin per trarne una conferma. Questa è la sua “metodologia” scientifica.    

Di tutta la ricca letteratura marxista, del tesoro delle opere di Lenin – ignorando tutto quello che Lenin scrisse, disse e fece, ignorando il programma del partito e della Gioventù comunista, trascurando quello che tutti i dirigenti del partito senza eccezione avevano detto all’epoca della rivoluzione d’Ottobre, quando la questione si pose in termini categorici (e quanto categorici!), ignorando quello che gli stessi autori del progetto, Stalin e Bucharin, avevano detto fino al 1924 incluso – non si presentano che due citazioni di Lenin, l’una presa dall’articolo sugli Stati Uniti d’Europa, scritto nel 1915, l’altra presa in un’opera postuma incompiuta sulla cooperazione; e questo allo scopo di confortare la teoria del socialismo nazionale, che nacque alla fine del 1924 o agli inizi del 1925 per far fronte alle esigenze della lotta contro il cosiddetto “trotskismo”. Tutto quello che contraddice queste due citazioni di poche righe, tutto il marxismo, tutto il leninismo, è semplicemente messo da parte. E le due citazioni artificiosamente isolate dal contesto, interpretate dagli epigoni con grossolani errori, vengono poste alla base di una nuova teoria, puramente revisionista, che implica, dal punto di vista politico, conseguenze di una portata illimitata. Così assistiamo al tentativo di innestare sul tronco marxista, con il ricorso a metodi scolastici e sofistici, rami assolutamente eterogenei: se questo innesto riuscirà, infetterà e ucciderà tutto l’albero.

In occasione del VII Plenum del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, Stalin disse (e non era la prima volta):

La questione della costruzione dell’economia socialista in un solo paese fu posta per la prima volta nel partito da Lenin, già nel 1915” (resoconto stenografico sottolineato da noi).

Si ammette qui che prima del 1915 non si era parlato di socialismo in un paese solo. Dunque Stalin e Bucharin non pretendono di collegarsi a tutta la tradizione precedente del marxismo e del partito circa il problema del carattere internazionale della rivoluzione proletaria. Notiamolo.

Ma che cosa ha detto Lenin “per la prima volta” nel 1915, contraddicendo quello che Marx, Engels e Lenin stesso avevano detto sino ad allora?

Nel 1915 Lenin scriveva:

L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati” (vol. XIII, p.113 – “Socialdemocratico” del 23 agosto 1915, sottolineato da noi).

Che cosa pensava Lenin scrivendo questo? Semplicemente che la vittoria del socialismo, nel senso dell’instaurazione della dittatura del proletariato, è possibile all’inizio in un paese solo, che si troverà così in contrasto con il mondo capitalista. Lo Stato proletario, per respingere gli assalti e passare a sua volta all’offensiva rivoluzionaria, dovrà prima “organizzare nel suo paese la produzione socialista”; cioè dirigere esso stesso il lavoro nelle fabbriche sottratte ai capitalisti. È tutto. Come è noto, una simile “vittoria del socialismo” fu acquisita per la prima volta in Russia; il primo Stato operaio, per respingere l’intervento mondiale, dovette anzitutto “organizzare nel suo paese la produzione socialista” o creare dei trust di un tipo “socialista conseguente”. Per vittoria del socialismo in un paese solo, Lenin intendeva dunque non la fantasia di una società socialista autosufficiente – per di più in un paese arretrato –, ma un qualche cosa di più realistico e cioè quello che la rivoluzione d’Ottobre realizzò da noi sin dalla prima fase della sua esistenza.

È forse necessario addurre altre prove per dimostrare tutto questo? Ce ne sono tante che la difficoltà consiste nella scelta.

Nelle sue tesi sulla guerra e la pace (7 gennaio 1918) Lenin parlava della necessità “per assicurare il successo del socialismo in Russia, di un certo periodo di tempo – qualche mese almeno…” (vol. XV p.64)

All’inizio dello stesso anno, in un articolo contro Bucharin intitolato Sull’infantilismo di sinistra e sullo spirito piccolo-borghese, Lenin scriveva:

Se, per esempio, fra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che tra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile.” (vol. XV, p. 263, sottolineato da noi)

Come poteva Lenin fissare una scadenza così breve per il consolidamento definitivo del socialismo? Quale significato materiale, dal punto di vista produttivo e sociale, attribuiva a queste parole?

La questione apparirà sotto una diversa luce, se si ricorderà che il 29 aprile dello stesso anno 1918, Lenin diceva nella sua relazione al Comitato esecutivo centrale panrusso dei soviet:

Forse nemmeno la futura generazione, anche se più evoluta, potrà completare il passaggio al socialismo.” (vol. XV, p. 240)

Il 4 dicembre 1919, al congresso delle comuni agricole, Lenin si espresse con rigore anche maggiore:

Sappiamo che non possiamo instaurare subito il regime socialista; magari i nostri figli, o forse anche i nostri nipoti lo vedranno instaurato.” (vol. XVI, p.398)

In quale di questi due casi Lenin aveva dunque ragione? Quando fissava una scadenza di dodici mesi per il consolidamento definitivo del socialismo, oppure quando incaricava non i nostri figli, ma addirittura i nostri nipoti di stabilire l’ordine socialista?

Lenin aveva ragione nell’un caso e nell’altro, perché prendeva in considerazione due tappe diverse e incommensurabili della costruzione del socialismo.

Nel primo caso, Lenin per consolidamento definitivo del socialismo intendeva non la costruzione della società socialista entro un anno o addirittura entro qualche mese, cioè non intendeva parlare della soppressione delle classi e del superamento delle contraddizioni esistenti tra città e campagna, ma della riorganizzazione del lavoro nelle fabbriche e negli stabilimenti sotto il controllo dello Stato proletario, che avrebbe potuto in tal modo garantire lo scambio dei prodotti tra città e campagna. I termini ristretti della scadenza costituiscono di per sé una chiave che permette di comprendere senza errore quale debba essere l’interpretazione di tutta la prospettiva.

Certamente, anche per questo compito elementare, agli inizi del 1918 si era prevista una scadenza troppo breve. È di questo “sbaglio” puramente pratico che Lenin si burlava nel Quarto Congresso dell’Internazionale dicendo “eravamo più bestie di adesso”. Ma avevamo visto giusto per quanto riguarda la prospettiva generale e non avevamo creduto per un solo istante che si potesse in dodici mesi edificare integralmente l’“ordine socialista” e per di più in un paese arretrato. Lenin contava per raggiungere la meta fondamentale e finale su tre generazioni; su di noi, sui nostri figli e sui nostri nipoti.

Non è chiaro che, nel suo articolo del 1915, Lenin intendeva per “organizzazione della produzione socialista” non la creazione di una società socialista, ma un compito infinitamente più semplice, da noi già assolto nell’Urss? Altrimenti bisognerebbe arrivare alla conclusione assurda per cui, secondo Lenin, il partito proletario, dopo aver conquistato il potere, “rinvia” la guerra rivoluzionaria sino alla terza generazione.

Questo è quello che resta, in condizioni veramente pietose, del punto d’appoggio fondamentale della nuova teoria, della citazione del 1915. Ma quello che è ancora più pietoso è che nelle intenzioni di Lenin questo passaggio non riguardava affatto la Russia. Egli parlava dell’Europa in contrapposizione alla Russia. Ciò si ricava non solo dal contenuto dell’articolo citato, consacrato agli Stati Uniti socialisti d’Europa, ma da tutto l’atteggiamento che Lenin aveva allora. Qualche mese dopo, il 20 novembre 1915, Lenin scriveva facendo particolare riferimento alla Russia:

Da tale situazione di fatto scaturisce con evidenza il compito del proletariato: lotta rivoluzionaria indomita, audace contro la monarchia […], lotta che trascini tutte le masse democratiche, vale a dire, principalmente, le masse contadine. E, contemporaneamente, lotta spietata contro lo sciovinismo, lotta per la rivoluzione socialista in Europa in unione col proletariato europeo. […] La crisi scatenata dalla guerra ha rafforzato i fattori economici e politici che spingono la piccola borghesia – compresi i contadini – verso sinistra. In ciò sta la base obiettiva della piena possibilità che in Russia trionfi la rivoluzione democratica. Che nell’Europa occidentale siano pienamente maturate le condizioni obiettive per la rivoluzione socialista, non ci occorre dimostrare qui; lo hanno riconosciuto prima della guerra tutti i socialisti più influenti di tutti i paesi più progrediti” (vol. XIII, p.212-213, sottolineato da noi).

Così, nel 1915, Lenin parlava chiaramente di una rivoluzione democratica in Russia e di una rivoluzione socialista nell’Europa occidentale. Egli sottolineava di passata, come una cosa ovvia, che in Europa occidentale, diversamente dalla Russia, le condizioni della rivoluzione socialista erano “pienamente maturate”. Ma gli autori della nuova teoria, che sono gli stessi autori del programma, semplicemente ignorano questa citazione (una tra le molte), che riguarda direttamente la Russia; agiscono allo stesso modo in centinaia di altri casi, per l’insieme delle opere complete di Lenin. Al contrario, come abbiamo visto, si impadroniscono di un’altra citazione che si riferisce all’Europa occidentale; le attribuiscono un significato che non può e non intende avere; appiccicano questo presunto significato alla Russia, che la citazione non considera; e su queste “basi” erigono la loro nuova teoria.

Come considerava Lenin questa questione nel periodo immediatamente precedente l’Ottobre? Lasciando la Svizzera, Lenin si rivolse agli operai svizzeri in una lettera, in cui affermava:

La Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati d’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente. Ma il carattere contadino del paese, data l’immensa estensione delle terre appartenenti alla nobiltà fondiaria, stando alla esperienza del 1905, può dare alla rivoluzione democratica borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che la nostra rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale, sia un passo verso di essa…

Con le sue sole forze, il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine la rivoluzione socialista, ma può dare alla rivoluzione russa un’ampiezza che crei per essa le migliori condizioni, e, in una certa misura, la inizi. Può rendere più facili le condizioni per l’intervento del suo principale, più fedele e sicuro collaboratore, il proletariato socialista, europeo e americano, nelle battaglie decisive.” (vol. XIV, p.407-408)

Queste righe contengono tutti gli elementi della questione. Se Lenin, come si tenta di farci credere, avesse ritenuto nel 1915, durante un periodo di guerra e di reazione, che il proletariato russo avrebbe potuto costruire da solo il socialismo e, dopo aver assolto questo compito, dichiarare guerra agli Stati borghesi, come avrebbe potuto all’inizio del 1917, quando la rivoluzione di febbraio aveva già avuto luogo, pronunciarsi in modo così categorico sull’impossibilità per la Russia contadina di edificare il socialismo con le sue sole forze? Bisognerebbe essere logici, almeno un po’, e, diciamolo francamente, rispettare un po’ di più Lenin.

Sarebbe superfluo moltiplicare le citazioni. Un’esposizione completa delle vedute economiche e politiche di Lenin, condizionate dal carattere internazionale della rivoluzione socialista, richiederebbe uno studio particolare, che comprenderebbe molti argomenti, salvo quello della edificazione di una società socialista autosufficiente in un paese solo, perché Lenin ignorava del tutto un simile argomento.

Ci sentiamo tuttavia costretti a soffermarci su un articolo postumo di Lenin – “Della cooperazione” – poiché il progetto sembra citarlo in modo estensivo, utilizzandone una espressione per propositi che sono completamene alieni dal senso dell’articolo stesso. Ci riferiamo al quinto capitolo del progetto, nel quale si afferma che i lavoratori della Repubblica sovietica “possiedono nel paese tutte le premesse materiali necessarie e sufficienti” per la completa costruzione del socialismo” (sottolineato da noi).

Se l’articolo dettato da Lenin durante la sua malattia e pubblicato dopo la sua morte affermasse veramente che lo Stato sovietico possiede tutte le necessarie e materiali, cioè prima di tutto produttive, premesse per la costruzione indipendente d’un completo socialismo, si potrebbe solo supporre un lapsus di Lenin nella sua dettatura, o che lo stenografo abbia commesso un errore nella sua trascrizione. Ambo queste congetture sono in ogni caso più probabili del fatto che Lenin abbia abbandonato il marxismo ed i suoi stessi insegnamenti di tutta una vita in due righe frettolose. Fortunatamente non c’è il minimo bisogno di ricorrere a tale spiegazione. Il notevole, benché  incompiuto, articolo “Della cooperazione” è strettamente collegato per unità di pensiero con altri non meno notevoli articoli pubblicati durante l’ultimo periodo della vita di Lenin, che costituiscono in un certo senso i capitoli di un libro non concluso che si occupa del posto occupato dalla Rivoluzione d’Ottobre nella catena di rivoluzioni in Occidente ed in Oriente; – l’articolo “Della cooperazione” non dice affatto ciò che gli attribuiscono con tanta leggerezza i revisionisti delle tesi leniniste.

In questo articolo Lenin spiega che la cooperazione “mercantile” può e deve modificare completamente il proprio ruolo sociale nello Stato operaio; grazie a una politica giusta può orientare su vie socialiste la combinazione dell’interesse particolare del contadino e dell’interesse generale dello Stato.

“In effetti il potere dello Stato su tutti i grandi mezzi di produzione, il potere dello Stato nelle mani del proletariato, l’alleanza di questo proletariato con svariati milioni di piccoli contadini e la sicura egemonia dei proletari rispetto ai contadini: non è dunque tutto quello di cui c’è bisogno per potere, con l’aiuto della sola cooperazione, che abbiamo considerato un tempo “mercantile” e che abbiamo ancora sino ad un certo punto il diritto di trattare così mentre c’è la NEP, non è tutto quello che è necessario per costruire integralmente la costruzione della società socialista, ma è tutto quello che è necessario e sufficiente a questo scopo.” (vol. XVIII, II parte, p.140)

Il testo del passaggio, che include una frase inconclusa (“della sola cooperazione”) prova inconfutabilmente che ci troviamo innanzi ad una bozza che è stata dettata e scritta ma che non è stata corretta. È un errore inammissibile quello di avvinghiarsi a poche parole isolate senza neppure cercare di comprendere l’idea generale dell’articolo. Comunque, fortunatamente, la lettera stessa della citazione, e non soltanto lo spirito, non dà affatto il diritto di commettere l’abuso a cui ricorrono gli autori del progetto. Parlando delle premesse “necessarie e sufficienti”, Lenin delimita strettamente l’argomento trattato in questo articolo. Egli vi esamina semplicemente la questione delle vie e dei mezzi per cui noi arriveremo al socialismo sbarazzandoci dello spezzettamento e dello sparpagliamento delle aziende contadine, senza passare attraverso nuove convulsioni di classe, grazie all’esistenza del regime dei Soviet come condizione pregiudiziale. L’articolo è interamente consacrato alle “forme sociali di organizzazione” della transizione dalla piccola produzione privata all’economia collettiva, ma non alle condizioni materiali, produttive per tale transizione. Se il proletariato europeo si mostrasse oggi vittorioso e venisse ad assisterci con la sua tecnologia, la questione della cooperazione sollevata da Lenin, come metodo sociale per coordinare gli interessi privati e quelli collettivi, manterrebbe ancora tutta la sua importanza. La cooperazione indica la via attraverso la quale la tecnologia avanzata, compresa l’elettrificazione, può riorganizzare ed unire i milioni di imprese agricole, considerato che esiste già il regime sovietico. Ma la cooperazione non può esser sostituita alla tecnologia ed essa non può neppure creare tale tecnologia. Lenin non si limita a parlare di premesse “necessarie e sufficienti in generale”, ma le enumera con precisione. Esse sono: (1) “il potere dello Stato su tutti i grandi mezzi di produzione” (frase non corretta); (2) “il potere dello Stato nelle mani del proletariato”; (3) “l’alleanza di questo proletariato con svariati milioni di contadini”; (4) “la garanzia che il proletariato conserverà l’egemonia rispetto ai contadini”. È solo dopo aver enumerato queste condizioni puramente politiche – nulla viene qui detto riguardo le condizioni materiali – che Lenin ricava la sua conclusione: “ciò (tutto quel che si è detto sopra) è tutto quello che è “necessario e sufficiente” per la costruzione della società socialista”. Tutto ciò che è “necessario e sufficiente” sul piano politico, ma nulla di più. Ma, aggiunge correttamente Lenin subito dopo, “non è ancora la costruzione della società socialista”. Perché no? Perché le condizioni politiche da sole, anche se sufficienti, non risolvono il problema. Resta ancora la questione culturale. “Solo” questa, dice Lenin, virgolettando la parola “solo” per enfatizzare l’importanza dell’enorme premessa che manca. Lenin sapeva tanto quanto noi che la cultura è strettamente connessa alla tecnologia. “Per raggiungere un certo grado di cultura” – dice, riportando i revisionisti sulla terra – “è necessaria una certa base materiale”. Basti pensare al problema dell’elettrificazione che Lenin, a proposito, univa alla questione della rivoluzione socialista internazionale. La battaglia per la cultura, date le “necessarie e sufficienti” premesse politiche (ma non materiali), assorbirebbe tutte i nostri sforzi, se non fosse per il problema dell’ininterrotta e inconciliabile lotta economica, politica, militare e culturale tra la società socialista che si edifica su una base arretrata e il capitalismo mondiale che va verso il declino, ma è potente grazie alla sua tecnica.

“Sarei pronto ad affermare – sottolinea Lenin con particolare enfasi verso la fine del suo articolo – che il centro di gravità si sposterebbe per noi al lavoro culturale, se non fosse per il nostro dovere di lottare per le nostre posizioni su scala internazionale” (ibidem, p. 144)

Questa è la reale idea di Lenin, anche se si considera il suo articolo sulla cooperazione isolandolo da tutte le altre opere. In che altro modo, se non come falsificazione, possiamo definire la formula usata dagli autori del progetto del programma, che prendono deliberatamente le parole di Lenin sul nostro possesso delle premesse “necessarie e sufficienti” aggiungendo ad esse la premessa fondamentale, cioè materiale, mentre Lenin indicava chiaramente che proprio da noi mancava e doveva essere conquistata dalla lotta “per le nostre posizioni sul piano internazionale”, cioè in collegamento con la rivoluzione proletaria mondiale? Ecco quel che resta del secondo ed ultimo pilastro della nuova teoria.

È di proposito che non citiamo qui gli innumerevoli scritti e discorsi, dal 1915 sino al 1923, in cui Lenin afferma e ripete nel modo più categorico che senza la rivoluzione mondiale vittoriosa eravamo in pericolo di morte; che è impossibile battere la borghesia sul piano economico in un paese solo, e soprattutto in un paese arretrato; che il compito di costruire una società socialista è nella sua stessa essenza un compito internazionale. Lenin ne ricava conclusioni che forse potrebbero apparire “pessimistiche” ai creatori della nuova teoria nazionale e reazionaria; ma che sono sufficientemente ottimistiche, se vengono considerate dal punto di vista dell’internazionalismo rivoluzionario. Qui fermiamo la nostra attenzione solo sulle citazioni scelte dagli stessi autori del progetto per porre le premesse “necessarie e sufficienti” della loro utopia. E vediamo che tutto l’edificio crolla non appena lo si tocca con un dito.

Crediamo tuttavia che sia opportuno citare qui almeno una delle dirette testimonianze di Lenin sulla questione dibattuta, testimonianza che non ha bisogno di essere spiegata e non potrebbe dar luogo a interpretazioni erronee.

Abbiamo sottolineato in tutta una serie di lavori, in tutti i nostri interventi e in tutta la nostra stampa che la situazione della Russia non è la stessa dei paesi capitalisti avanzati e che noi abbiamo una piccola minoranza di operai addetti all’industria e una enorme maggioranza di piccoli coltivatori. In un paese simile la rivoluzione sociale non può vincere definitivamente che a due condizioni: primo, a condizione di essere sostenuta a tempo debito dalla rivoluzione sociale di uno o di più paesi avanzati … L’altra condizione è l’intesa tra il proletariato che esercita la sua dittatura o detiene nelle sue mani il potere statale e la maggioranza della popolazione contadina… 

Sappiamo che non è per opera dell’intesa con i contadini che si può salvare la rivoluzione socialista in Russia sinché la rivoluzione non ha luogo in altri paesi” (vol. XVIII, I parte, p.137-138, sottolineato da noi).

Speriamo che questa citazione sia sufficientemente istruttiva. In primo luogo Lenin stesso vi sottolinea che le idee che espone sono state sviluppate “in tutta una serie di lavori, in tutti i nostri interventi, in tutta la nostra stampa”; in secondo luogo la prospettiva segnalata da Lenin fu stabilita non nel 1915, due anni prima dell’Ottobre, ma nel 1921, quattro anni dopo.

Osiamo sperare che per quanto riguarda Lenin la questione sia sufficientemente chiarita. Resta da domandare: gli stessi autori del programma, come consideravano una volta la questione che ci interessa?

Stalin diceva in proposito nel novembre del 1926:    

Il partito ha sempre ammesso come punto di partenza che la vittoria del socialismo in un paese solo significa la possibilità di costruire il socialismo in questo paese e che questo compito può esser realizzato con le forze di un solo paese” (Pravda, 12 novembre 1926).

Sappiamo già che il partito non ha mai ammesso questo come punto di partenza. Al contrario, “in tutta una serie di opere, in tutti i nostri interventi, in tutta la nostra stampa”, per dirla con Lenin, il partito si è basato sulla tesi opposta, che ha trovato la sua espressione fondamentale nel programma del Partito comunista dell’Urss. Ma forse c’è da pensare che almeno Stalin sia partito “sempre” dalla falsa idea che “il socialismo può essere costruito in un paese solo”. Verifichiamolo.

Ignoriamo assolutamente come Stalin considerasse questa questione nel 1905 e nel 1915, perché manchiamo del tutto di documenti in proposito. Ma nel 1924 Stalin espose come segue le idee di Lenin sulla costruzione del socialismo:

Rovesciare in un paese il potere della borghesia e instaurare quello del proletariato non significa ancora assicurare la vittoria completa del socialismo. Resta ancora da assolvere il compito principale del socialismo: l’organizzazione socialista della produzione. Questo problema può essere risolto, si può ottenere la vittoria definitiva del socialismo in un paese solo senza che gli sforzi dei proletari di più paesi avanzati concordino? No, è impossibile. Per abbattere la borghesia, gli sforzi di un solo paese bastano, la storia della nostra rivoluzione lo testimonia. Perché il socialismo vinca definitivamente, per organizzare la produzione socialista gli sforzi di un solo paese, soprattutto di un paese contadino come la Russia, non bastano più; sono necessari gli sforzi dei proletari di più paesi avanzati… Tali sono, in generale, i tratti caratteristici della teoria leninista della rivoluzione proletaria.” (Stalin, Principi del Leninismo, prima edizione russa, 1924, p.40-41)

Bisogna riconoscerlo: “i tratti caratteristici della teoria leninista” sono esposti qui con sufficiente precisione. Tuttavia, nelle successive edizioni del libro di Stalin questo passo fu ritoccato nel senso contrario e “i tratti caratteristici della teoria leninista” furono denunciati un anno dopo come… trotskismo. Il VII Plenum del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista adattò la sua risoluzione all’edizione del 1926 e non a quella del 1924.

Ecco come stanno le cose con Stalin: non ci può essere nulla di più deplorevole. Potremmo certamente riconciliarci con questo fatto, se la faccenda non fosse altrettanto deplorevole per quel che concerne il Settimo Plenum.

Resta un’ultima speranza: che Bucharin, il vero autore del progetto del programma, “abbia sempre ammesso come punto di partenza” la possibilità di realizzare il socialismo in un paese solo. Verifichiamolo.

Ecco ciò che Bucharin scriveva in tema nel 1917:

 “Le rivoluzioni sono le locomotive della storia. Persino nell’arretrata Russia, l’insostituibile macchinista di questa locomotiva può esser solo il proletariato. Ma il proletariato non può stare più nei confini delle relazioni di proprietà della società borghese. Esso marcia verso il potere e verso il socialismo. Comunque, questo compito che è messo all’ordine del giorno in Russia, non può essere realizzato ‘entro i confini nazionali’. Qui la classe operaia incontra un muro insormontabile [Osservate: ‘un muro insormontabile’ – L.T.] che può essere abbattuto solo dalla testa d’ariete della rivoluzione operaia internazionale”. ( Bucharin, Lotta di classe e rivoluzione in Russia, edizione russa, 1917).

Non si potrebbe esprimersi più chiaramente. Queste erano le prospettive tenute da Bucharin nel 1917, due anni dopo la presunta “svolta” di Lenin del 1915. Ma ha forse la Rivoluzione d’Ottobre insegnato a Bucharin qualcosa di diverso? Verifichiamolo.

Nel 1919 Bucharin scrisse, sull’organo teorico dell’Internazionale, riguardo “La dittatura proletaria in Russia e la rivoluzione mondiale“:

“Nell’esistente economia mondiale e data la connessione tra le sue parti, con la mutua interdipendenza di vari gruppi borghesi nazionali, va da sé che la battaglia in un paese isolato non può concludersi senza una decisiva vittoria di una o dell’altra parte in svariati paesi civilizzati”.

Allora ciò “andava da sé”. Continuiamo:

“Nella letteratura marxista e quasi-marxista dell’anteguerra, è stata molte volte sollevata la questione se la vittoria del socialismo fosse possibile in un paese solo. Molti degli autori replicarono a questa domanda in modo negativo [e allora Lenin nel 1915? – L.T.] da cui non si deve però affatto concludere che sia impossibile o inammissibile iniziare tale rivoluzione per prendere il potere in un singolo paese”.

Perfetto! Nello stesso articolo leggiamo:

“Il periodo della crescita delle forze produttive può iniziare solo con la vittoria del proletariato in diversi paesi importanti. Da qui segue che un ampio sviluppo della rivoluzione mondiale e la formazione di una forte alleanza economica dei paesi industriali con la Russia sovietica è necessario”. (N. Bucharin, “La dittatura proletaria in Russia e la rivoluzione mondiale“, Internazionale Comunista, No. 5, settembre 1919, p.24).

L’affermazione di Bucharin secondo cui una crescita delle forze produttive, ovvero il reale sviluppo socialista, comincerà nel nostro paese solo dopo la vittoria del proletariato dei paesi europei avanzati, è l’identica affermazione che è stata usata come base di tutti gli atti d’accusa contro il “trotskismo”, inclusi quelli al Settimo Plenum. La cosa curiosa è che Bucharin, che deve la sua salvezza alla sua scarsa memoria, è intervenuto come accusatore. Al fianco di questa comica circostanza c’è un’altra che però è tragica, ovvero che tra gli accusati c’era anche Lenin, il quale ha espresso dozzine di volte la medesima elementare idea.

Infine, nel 1921, sei anni dopo la pretesa svolta di Lenin nel 1915, quattro anni dopo l’insurrezione dell’Ottobre, il Comitato centrale, con alla testa Lenin, approvò il programma della Gioventù comunista, stabilito da una commissione diretta da Bucharin. Il paragrafo 4 di questo programma dice:

Il potere statale si trova già nell’Urss nelle mani della classe operaia. Durante tre anni di lotta eroica contro il capitale mondiale, il proletariato ha mantenuto e rafforzato il potere sovietico. Benché la Russia possieda immense ricchezze naturali, tuttavia, dal punto di vista industriale, è un paese arretrato, in cui predomina una popolazione piccolo borghese. Essa non può arrivare al socialismo se non attraverso la rivoluzione proletaria mondiale: e siamo entrati nell’epoca dello sviluppo di questa rivoluzione.

Questo paragrafo del programma della Gioventù comunista (non di un articolo occasionale, ma di un programma!) basta da solo a far apparire ridicoli e davvero indegni i tentativi degli autori del progetto per dimostrare che il partito ha “sempre” considerato come possibile l’edificazione del socialismo in un paese solo e per di più precisamente in Russia. Se fu “sempre” così, perché Bucharin formulò in questo modo questo paragrafo del programma della Gioventù comunista? Dove guardava Stalin in quel tempo? Come mai Lenin e tutto il Comitato centrale hanno potuto approvare simili eresie? Come mai nessuno nel partito ha notato questo “dettaglio” né ha posto una domanda in merito? Tutto questo non sembra, anche troppo, una sinistra farsa in cui si deridono sempre più apertamente il partito, la sua storia, l’Internazionale comunista? Non è tempo di porre fine a ciò? Non è tempo di dire ai revisionisti: non permettetevi più di mascherarvi dietro Lenin, dietro la tradizione teorica del partito?!

In occasione del VII Plenum del Comitato esecutivo, argomentando in favore della risoluzione di condanna al “trotskismo”, Bucharin, la cui salvezza risiede nella sua memoria corta, dichiarava:

La teoria della rivoluzione permanente del compagno Trotskij (il compagno Trotskij continua a professare questa teoria) dice anche che a causa della nostra situazione economica arretrata, noi periremo inevitabilmente senza la rivoluzione mondiale” (resoconto stenografico).

Al VII Plenum avevo parlato delle lacune esistenti nella teoria della rivoluzione permanente quale l’avevo formulata nel 1905-1906. Ma va da sé che non avevo pensato affatto a rinunciare a quello che vi era di fondamentale in questa teoria; a quello che mi avvicinava e mi avvicinò a Lenin, a quello che non consente di ammettere ora la revisione del leninismo.

C’erano due tesi fondamentali nella teoria della rivoluzione permanente.

Primo: malgrado il ritardo storico della Russia arretrata, la rivoluzione può affidare il potere al proletariato russo prima che al proletariato dei paesi avanzati. Secondo: per uscire dalle contraddizioni con cui si urterà la dittatura del proletariato in un paese arretrato, circondato da un mondo capitalista ostile, si dovrà passare nell’arena della rivoluzione mondiale. La prima di queste tesi è basata su una giusta concezione della legge dello sviluppo diseguale. La seconda su una comprensione esatta dell’indissolubilità dei legami economici e politici che uniscono i paesi capitalisti. Bucharin ha ragione quando dice che io continuo a professare ancora queste due tesi fondamentali della teoria della rivoluzione permanente. Ora più che mai. Perché le considero completamente verificate e confermate: sul piano teorico sulla base delle opere complete di Marx e Lenin, sul piano pratico sulla base dell’esperienza della rivoluzione del 1917.

6. Dov’è la deviazione socialdemocratica?

Le citazioni riportate sono sufficienti per caratterizzare le posizioni teoriche passate e odierne di Stalin e Bucharin. Ma, per poter determinare il carattere dei loro metodi politici, bisogna ricordare che, dopo aver selezionato dai documenti scritti dall’Opposizione2 alcune affermazioni che sono assolutamente analoghe a quelle da loro stessi fatte fino al 1925 (allora in perfetto accordo con Lenin), Stalin e Bucharin hanno eretto sulla base di queste citazioni la teoria della nostra “deviazione socialdemocratica”. Sembrerebbe che, sulla questione centrale delle relazioni tra Rivoluzione d’Ottobre e rivoluzione internazionale, l’Opposizione tenga le stesse posizioni di Otto Bauer, il quale non ammette la possibilità di costruire il socialismo in Russia. Verrebbe realmente da pensare che la stampa scritta sia stata inventata solo nel 1925 e che tutto ciò che è avvenuto prima di questa data sia condannato all’oblio. Si conta sulla memoria corta!

Ma già al Quarto Congresso l’Internazionale Comunista, a proposito del carattere dell’Ottobre, aveva regolato i conti con Otto Bauer e altri filistei della Seconda Internazionale. Nel mio rapporto sulla Nuova Politica Economica e le prospettive della rivoluzione mondiale, autorizzato dal Comitato Centrale, la posizione di Otto Bauer era stata presentata in modo tale da rappresentare il giudizio del nostro Comitato Centrale di allora; esso non incontrò nessuna obiezione al Congresso ed io ritengo che sia tutt’oggi valido. Per quel che riguarda lo stesso Bucharin, egli rifiutò di chiarificare il lato politico della questione in quanto “molti compagni, tra cui Lenin e Trotsky, hanno già parlato in materia”; in altre parole, Bucharin a quel tempo era d’accordo col mio discorso. Ecco cosa ho detto al Quarto Congresso su Otto Bauer:

“I teorici socialdemocratici ammettono da una parte, nei loro articoli domenicali, che il capitalismo, soprattutto in Europa, sopravvive a sé stesso e che è divenuto un freno all’evoluzione storica: dall’altro lato esprimono la certezza che l’evoluzione della Russia sovietica conduce inevitabilmente verso la vittoria della democrazia borghese. La Nuova Politica Economica è fissata su determinate condizioni di spazio e di tempo. Essa è una manovra dello Stato operaio circondato da un ambiente capitalista e conta sullo sviluppo rivoluzionario dell’Europa. Un fattore come quello del tempo non può essere lasciato fuori nelle considerazioni e nei calcoli politici. Se noi ammettessimo che il capitalismo sarà veramente capace di continuare ad esistere in Europa per un altro secolo o per un altro mezzo secolo, e che la Russia sovietica dovrà quindi adattarsi a questo fatto nella sua politica economica, allora la questione si risolverebbe automaticamente, perché, ammettendo questo, noi presupporremmo il collasso della rivoluzione proletaria in Europa e l’ascesa di una nuova epoca di rinascita capitalistica. Su che terreno si ammette ciò? Se Otto Bauer avesse scoperto nella vita dell’attuale Austria un qualsiasi segno miracoloso di resurrezione capitalistica, allora tutto ciò che si potrebbe dire è che il destino della Russia è segnato. Ma, finché non vedremo miracoli, noi non ci crederemo. Dal nostro punto di vista, se la borghesia europea si mostrerà capace di mantenersi al potere nel corso delle prossime decadi ciò comporterà, nelle attuali condizioni mondiali, non un nuovo rigoglio capitalista, ma la stagnazione economica ed il declino culturale dell’Europa. Genericamente parlando, non si può negare che tale processo potrebbe portare la Russia sovietica negli abissi. Se dovremo allora attraversare una fase di ‘democrazia’, o decadere invece in qualche altra forma politica, è una questione di secondaria importanza. Ma noi non vediamo ragione alcuna per adottare la filosofia di Spengler. Noi contiamo definitivamente sullo sviluppo rivoluzionario dell’Europa. La Nuova Politica Economica è semplicemente un adattamento al ritmo di tale sviluppo”. (L. Trotskij, “Sulle critiche socialdemocratiche”, “I primi cinque anni dell’Internazionale Comunista”, 1924)

Questa formulazione del problema ci riporta al punto da cui siamo partiti per la valutazione del progetto del programma, ovvero che, nell’epoca dell’imperialismo, è impossibile affrontare il destino di un paese se non prendendo come punto di partenza le tendenze complessive dello sviluppo mondiale, nelle quali il singolo paese, con tutte le sue peculiarità nazionali, è incluso e subordinato. I teorici della Seconda Internazionale isolano l’URSS dall’insieme mondiale e dall’epoca imperialista; essi applicano all’URSS, come paese isolato, il semplice criterio della “maturità” economica; essi dichiarano che l’URSS non è matura per un’indipendente costruzione socialista e da qui ricavano la conclusione dell’inevitabile degenerazione capitalista dello Stato operaio.

Gli autori del progetto adottano la medesima impostazione teorica e ripercorrono completamente la metodologia metafisica dei teorici socialdemocratici. Anch’essi “fanno astrazione” dall’entità mondiale e dall’epoca imperialista. Essi procedono dalla fantasticheria dello sviluppo isolato. Essi applicano alla fase nazionale della rivoluzione mondiale un semplice criterio economico. Ma il loro “verdetto” è invece diverso. Il “sinistrismo” degli autori del progetto risiede nel fatto che essi rovesciano completamente la valutazione socialdemocratica. Eppure la posizione dei teorici della Seconda Internazionale, rimodellata quanto si vuole, resta di nessun valore. Bisogna assumere la posizione di Lenin il quale classificava la valutazione e la diagnosi di Bauer come esercizi da scuole elementari.

Ecco dove sta la “deviazione socialdemocratica”. Non noi, ma piuttosto gli autori del progetto dovrebbero considerarsi come imparentati con Bauer.

7. La dipendenza dell’URSS dall’economia mondiale

Il precursore dei profeti della società nazional-socialista fu Vollmar3. Descrivendo, nel suo articolo intitolato “Lo Stato socialista isolato”, la possibilità di un’indipendente costruzione socialista in Germania, il cui proletariato era assai più sviluppato di quello dell’avanzata Gran Bretagna, Vollmar nel 1878 fece riferimento in modo chiaro e netto alla legge dello sviluppo diseguale e combinato che, secondo Stalin, Marx ed Engels non conoscevano. Sulla base di questa legge Vollmar arrivò, nel 1878, all’inconfutabile conclusione che:

“Nelle condizioni attuali, che manterranno la loro forza anche in futuro, si può prevedere che una simultanea vittoria del socialismo in tutti i paesi progrediti è assolutamente fuori questione”.

Sviluppando quest’idea in modo più approfondito, egli dice:

“Siamo così giunti allo Stato socialista isolato che mi auguro aver provato di essere l’alternativa più probabile, se non l’unica possibile”.

Fintantoché è possibile interpretare il termine “Stato isolato” nel senso di dittatura proletaria, Vollmar ha espresso un’incontestabile idea già ben nota a Marx ed Engels, idea che Lenin ha poi ripreso nell’articolo sopra citato del 1915.

Ma poi segue dell’altro che è attribuibile esclusivamente ad un’idea propria di Vollmar, la quale, per inciso, è errata; essa non è però così unilaterale e mal posta come quella propugnata dai nostri sostenitori della teoria del socialismo in un paese solo. Nella sua costruzione Vollmar prese come punto di partenza la proposizione secondo cui la Germania socialista avrebbe avuto vivaci relazioni economiche con l’economia capitalista mondiale, godendo nel medesimo tempo i vantaggi derivatele dal possesso di una tecnologia altamente progredita e da costi di produzione inferiori. Questa costruzione si basa su una prospettiva di pacifica coesistenza dei sistemi socialista e capitalista. Poiché più si andrà avanti e più il socialismo dimostrerà i suoi enormi vantaggi dal punto di vista produttivo, la necessità per una rivoluzione socialista mondiale scomparirà di per sé stessa: il socialismo si imporrà sul capitalismo vendendo beni sul mercato a costo inferiore.

Bucharin, l’autore del primo progetto del programma ed uno degli autori del secondo, procede invece, nella costruzione del socialismo in un paese solo, dall’idea di un’economia isolata e autosufficiente. Nel suo articolo intitolato “Sulla natura della nostra rivoluzione e la possibilità di una vittoriosa costruzione del socialismo in URSS” (Bolshevik, No. 19-20, 1926), che è l’espressione massima della scolastica congiunta alla sofistica, tutto il ragionamento è fatto entro il quadro di un’economia isolata. Il principale ed unico argomento è il seguente:

“Siccome noi abbiamo tutto ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione del socialismo, ne deriva che, nello stesso processo di costruzione del socialismo, non ci potrà essere alcun punto in cui un’ulteriore costruzione diverrà impossibile. Se abbiamo già nel nostro paese una combinazione di forze tale per cui, in rapporto ad ogni anno passato, stiamo marciando avanti con una sempre maggiore preponderanza del settore socialista della nostra economia su quello capitalistico-privato, allora diventiamo di anno in anno economicamente sempre più forti”.

Questo ragionamento è irreprensibile: “Siccome abbiamo tutto ciò che è necessario e sufficiente”, allora… lo abbiamo. Partendo da un punto che dev’essere provato, Bucharin costruisce un completo sistema di economia socialista autosufficiente senza entrate e senza uscite. Per quanto riguarda l’ambiente esterno, cioè il mondo intero, Bucharin, tanto quanto Stalin, si ricorda di esso solo dal punto di vista dell’intervento militare. Quando nel suo articolo Bucharin parla della necessità di “fare astrazione” dal fattore internazionale, egli ha in mente non il mercato mondiale, ma l’intervento armato. Non ha bisogno di fare astrazione dal mercato mondiale, perché se ne dimentica completamente in tutta la sua costruzione. In armonia con questo schema Bucharin, al Quattordicesimo Congresso del Partito, promuoveva l’idea secondo cui, se non fossimo stati intralciati dall’intervento straniero, avremmo costruito il socialismo “pure a passo di tartaruga”. La questione dell’ininterrotta battaglia tra i due sistemi, il fatto che il socialismo si può basare solo sulle più alte forze produttive, in una parola, la dinamica marxista della sostituzione di una formazione sociale da parte di un’altra sulla base delle crescenti forze produttive – tutto ciò venne completamente cancellato. La dialettica storica e rivoluzionaria viene soppiantata da una misera utopia reazionaria di un socialismo autosufficiente, costruito su una bassa tecnologia, in evoluzione a “velocità di tartaruga” entro confini nazionali, connesso al mondo esterno solo dalla paura di un intervento. Il rifiuto di accettare questa miserabile caricatura della dottrina di Marx e di Lenin è stato additato come “deviazione socialdemocratica”. Tale etichetta ci è stata per la prima volta avanzata e “dimostrata” nel citato articolo di Bucharin. La storia prenderà nota del fatto che siamo caduti in una “deviazione socialdemocratica” per il fatto che abbiamo rifiutato di accettare una pessima rimasticatura della teoria di Vollmar del socialismo in un paese solo.

Il proletariato della Russia zarista non avrebbe potuto prendere il potere nell’Ottobre se la Russia non fosse stata un anello – l’anello più debole, ma nondimeno un anello – della catena dell’economia mondiale. La presa del potere da parte del proletariato non ha affatto escluso la Repubblica sovietica dal sistema della divisione internazionale del lavoro creato dal capitalismo.

Come la saggia civetta vola solo al crepuscolo, così la teoria del socialismo in un paese solo sbuca fuori proprio nel momento in cui la nostra industria, che consuma sempre maggiori quote del nostro vecchio capitale di base (nei due-terzi del quale è cristallizzata la dipendenza della nostra industria dall’industria mondiale) ha indicato il suo urgente bisogno di rinnovare e di estendere i suoi legami col mercato mondiale, e nel momento in cui i problemi del commercio estero si ponevano nettamente di fronte alla direzione dell’economia.

All’Undicesimo Congresso, cioè nell’ultimo congresso in cui Lenin ebbe l’opportunità di parlare al Partito, egli lanciò un opportuno avvertimento dicendo che il partito avrebbe dovuto affrontare un’altra prova, “una prova che ci sarà messa innanzi dal mercato russo e da quello internazionale cui siamo subordinati, col quale siamo connessi e dal quale non possiamo scappare”.

Nulla dà alla teoria di un isolato e “completo socialismo” un colpo tanto mortale quanto il semplice fatto che le cifre del nostro commercio estero sono divenute negli anni più recenti la parte più rilevante dei nostri piani economici. “La parte più debole” nella nostra economia, includendo la nostra industria, sono le importazioni, che dipendono interamente dalle nostre esportazioni. E poiché la resistenza di una catena è sempre misurata dall’anello più debole, le proporzioni dei nostri piani economici sono legate a quelle delle nostre importazioni.

Sul giornale Economia pianificata (l’organo teorico della Commissione di Stato per la Pianificazione) abbiamo letto, in un articolo dedicato al sistema di pianificazione, che

“… nel tratteggiare le nostre cifre di controllo, abbiamo dovuto metodologicamente assumere i nostri piani di export ed import come punto di partenza per l’intero piano; ci siamo dovuti orientare sulla base di quelli nel costruire i nostri piani per varie branche dell’industria e conseguentemente per l’industria in generale e particolarmente per la costruzione delle nuove imprese industriali” ecc., ecc. (gennaio 1927, p. 27 dell’edizione originale russa).

Quest’approccio metodologico della Commissione di Stato per la Pianificazione afferma chiaramente, per tutti coloro che hanno orecchie per sentire, che le cifre di controllo determinano la direzione ed il tempo del nostro sviluppo economico, ma che queste stesse cifre di controllo sono a loro volta controllate dall’economia mondiale; e non perché siamo diventati più deboli, ma perché diventando più forti  ci siamo sottratti al circolo vizioso dell’isolamento.

Il mondo capitalista ci mostra con le sue cifre su export ed import che esso ha ben altri strumenti di persuasione oltre all’intervento militare. Poiché la produttività del lavoro e la produttività del sistema sociale nel suo intero vengono misurate sul mercato dalla relazione tra prezzi, non è tanto l’intervento militare quanto piuttosto l’intervento delle merci capitaliste a buon mercato che costituisce la più grande minaccia immediata per l’economia sovietica. Già questo mostra che non è affatto questione di un’isolata vittoria economica sulla “propria” borghesia:

“La rivoluzione socialista che è imminente in tutto il mondo non consisterà affatto in una semplice vittoria del proletariato di ogni paese sulla propria borghesia” (Lenin, “1919”, vol. XVI, p.388).

È una battaglia all’ultimo sangue tra due sistemi sociali, uno dei quali ha appena cominciato la sua costruzione su forze produttive limitate, mentre l’altro poggia ancora oggi su forze produttive incommensurabilmente più forti.

Chiunque veda “pessimismo” nell’ammissione della nostra dipendenza dal mercato mondiale (Lenin diceva francamente che vi siamo subordinati) tradisce la propria vigliaccheria di provinciale piccolo borghese di fronte al mercato mondiale, e la miseria del suo ottimismo locale, che cerca di nascondersi dall’economia mondiale mettendosi dietro un cespuglio, cercando di cavarsela in qualche modo facendo affidamento sulle proprie esigue risorse.

La nuova teoria ha fatto come suo punto d’onore l’idea bizzarra secondo cui l’URSS può morire per l’intervento straniero ma non per la propria arretratezza economica. Ma, poiché in una società socialista la prontezza delle masse lavoratrici nel difendere il loro paese è molto maggiore di quella degli schiavi del capitale nell’attaccarlo, sorge la domanda: per quale motivo l’intervento militare minaccia di distruggerci? Perché il nemico è infinitamente più forte sul piano tecnologico. Bucharin ammette la preponderanza delle forze produttive solo nel loro aspetto tecnico-militare. Egli non vuol capire che un trattore di Ford è tanto pericoloso quanto un cannone Creusot, con l’unica differenza che mentre il  cannone può essere usato solo di quando in quando, il trattore fa pressione su di noi in modo continuo. Inoltre, il trattore sa che il cannone sta dietro di esso, come sua ultima risorsa.

Noi, primo Stato operaio, siamo una sezione del proletariato mondiale, e con quest’ultimo dipendiamo dal capitalismo mondiale. L’indifferente, neutrale e burocraticamente castrato termine “legame”, è messo in circolazione al solo e unico scopo di nascondere il carattere di tali “legami”, per noi estremamente penoso e pericoloso. Se noi stessimo producendo ai prezzi del mercato mondiale, la nostra dipendenza da questo, senza cessare di essere una dipendenza, avrebbe un carattere assai meno severo di quello che ha oggi. Ma sfortunatamente questo non è il nostro caso. Il nostro monopolio dello stesso commercio estero è prova della severità e del pericoloso carattere di questa nostra dipendenza. L’importanza decisiva che questo monopolio ha per la nostra edificazione socialista dipende precisamente dal fatto che i rapporti di forza ci sono sfavorevoli. Ma non dobbiamo dimenticare nemmeno per un attimo che il nostro monopolio sul commercio estero si limita a regolare la nostra dipendenza dal mercato mondiale, ma non la elimina.

“Fintantoché la nostra Repubblica sovietica – scrive Lenin – resta in una zona isolata di confine circondata dall’intero mondo capitalista, sarà una fantasia assolutamente ridicola e utopica il pensare ad una nostra completa indipendenza economica ed alla scomparsa dei pericoli che ci sovrastano”. (vol. XVII, p.409)

Il primo pericolo scaturisce direttamente dalla posizione dell’URSS come “isolata zona di confine” in un’economia capitalista che ci è ostile. Questi pericoli possono però diminuire o accrescersi. Ciò dipende dall’azione di due fattori: da un lato la nostra costruzione socialista e dall’altro lo sviluppo dell’economia capitalista. In ultima analisi il secondo fattore, cioè il destino dell’economia mondiale nel suo insieme, è certamente quello di importanza decisiva.

Può succedere – ed in quale caso – che la produttività del nostro sistema socialista resti costantemente in ritardo rispetto a quella del sistema capitalista, cosa che porterebbe inevitabilmente alla fine ed al crollo della Repubblica socialista? Se gestiremo abilmente la nostra economia in questa nuova fase, nella quale diviene necessario creare in modo indipendente la base dell’industria, che esige le più elevate qualità da parte della direzione, allora la nostra produttività del lavoro crescerà. È però concepibile il fatto che la produttività del lavoro nei paesi capitalisti, o meglio, in quelli predominanti, cresca più velocemente che nel nostro paese? Senza una chiara risposta a tale questione non esiste alcuna base per l’insulsa asserzione che il nostro ritmo è “di per sé” sufficiente (lasciando da parte la stupida filosofia del “passo di tartaruga”). Ma lo stesso tentativo di fornire una risposta alla questione della rivalità di due sistemi ci porta nell’arena dell’economia mondiale e della politica mondiale, cioè nell’arena di azione e decisione dell’Internazionale rivoluzionaria (che include la Repubblica sovietica) che agisce e decide, e non della Repubblica dei Soviet autosufficiente, che faccia ricorso di tanto in tanto all’Internazionale.

Parlando dell’economia dell’URSS il progetto dice che essa “sta sviluppando la grande industria ad un ritmo che supera quello dei paesi capitalisti”. Questo tentativo di giustapporre i due ritmi rappresenta, dobbiamo concederlo, un passo avanti rispetto al periodo i cui gli autori del programma rigettavano categoricamente la stessa questione di un coefficiente comparativo tra il nostro sviluppo e quello mondiale. È inutile “immischiare in questo il fattore internazionale” – diceva Stalin. Lasciateci costruire il socialismo “anche a passo di tartaruga” – diceva Bucharin. È proprio lungo questa linea che le controversie di principio sono avvenute per un periodo di svariati anni. Formalmente, abbiamo vinto su questo fronte. Ma se non ci limitiamo ad inserire nel testo comparazioni tra i ritmi di sviluppo economico ma penetriamo nel cuore della materia, diverrà evidente che è inammissibile parlare, in un’altra sezione del progetto, di “un minimo sufficiente di industria” senza fare alcuna relazione col mondo capitalista, basandosi solo su rapporti interni; non si può non solo risolvere a priori, ma neppure porre la questione se è “possibile” o “impossibile” per il proletariato del paese considerato costruire il socialismo con le sue sole forze. La questione è decisa dalla dinamica della lotta tra i due sistemi, tra le due classi mondiali; ed in questa lotta, indipendentemente dagli alti livelli di crescita del nostro periodo di risanamento, resta incontestabile il fatto che:

“Il capitalismo, se preso su scala internazionale, è ancor ora, non solo in termini militari ma anche economici, più forte del potere sovietico. Dobbiamo partire da questa fondamentale considerazione e non scordarla mai”. (Lenin, vol. XVII, p. 102.)

Quella dell’interrelazione tra i differenti ritmi di sviluppo resta una questione aperta per il futuro. Essa dipende non solo dalla nostra capacità di raggiungere realmente lo smychka4, garantire la raccolta del grano ed i nostri export ed import; in altre parole, non dipende solo sui nostri successi interni, i quali sono certamente fattori estremamente importanti in questa lotta, ma anche dallo sviluppo dell’economia e della rivoluzione mondiale. Conseguentemente tale questione è decisa non entro la struttura nazionale ma nell’arena della lotta economica e politica mondiale.

Così quasi ad ogni punto del programma rileviamo concessioni, dirette od indirette, alla critica dell’Opposizione. Queste concessioni si concretizzano in un riavvicinamento a Marx e a Lenin sul piano teorico: ma le conclusioni revisioniste sussistono del tutto indipendentemente dalle tesi rivoluzionarie.

8. La contraddizione esistente tra le forze produttive e le frontiere nazionali determina il carattere utopistico e reazionario della teoria del socialismo in un paese solo

Le basi per la teoria del socialismo in un paese solo, come abbiamo visto, si riassumono da un lato in un’interpretazione sofistica di alcune righe di Lenin, e dall’altro in un’interpretazione scolastica della legge dello sviluppo diseguale e combinato. Dando una corretta interpretazione alla suddetta legge e alle citazioni in questione, giungiamo a conclusioni diametralmente opposte, cioè alle conclusioni cui erano già pervenuti Marx, Engels, Lenin e tutti noi, inclusi Stalin e Bucharin, fino al 1925.

Dall’ineguale e sporadico sviluppo del capitalismo scaturisce il non simultaneo, ineguale ed occasionale carattere della rivoluzione socialista; dall’estrema tensione dell’interdipendenza di vari paesi l’uno nei confronti dell’altro scaturisce l’impossibilità non solo politica, ma persino economica, di costruire il socialismo in un solo paese.

Lasciateci esaminare ancora una volta, più da vicino e da quest’angolatura, il testo del programma. Abbiamo già detto nell’introduzione che “l’imperialismo […] aggrava ad un grado eccezionale la contraddizione tra crescita delle forze produttive dell’economia mondiale e barrire nazionali”.

Abbiamo già sottolineato che questa proposizione è, o piuttosto era, il perno del programma internazionale. Ma è proprio questa affermazione che esclude, rigetta e spazza via a priori la teoria del socialismo in un paese solo come teoria che è reazionaria in quanto è opposta non solo alla tendenza fondamentale dello sviluppo delle forze produttive, ma anche ai risultati materiali che sono già stati raggiunti dal suo sviluppo. Le forze produttive sono incompatibili con le barriere nazionali. Da qui scaturiscono non solo il commercio estero, l’esportazione di uomini e di capitali, la conquista di territori, la politica coloniale e la guerra imperialistica, ma anche l’impossibilità di un’autosufficiente società socialista. Le forze produttive dei paesi capitalisti hanno da lungo tempo sfondato i confini nazionali. E una società socialista, in ogni caso, può essere costruita solo sulle più avanzate forze produttive, sull’applicazione dell’elettricità e della chimica ai processi di produzione, agricoltura inclusa; combinando, generalizzando e portando al massimo sviluppo la moderna tecnologia. Da Marx in poi abbiamo costantemente ripetuto che il capitalismo non può far fronte allo spirito della nuova tecnologia al cui sviluppo esso ha contribuito e che sradica non solo il rivestimento dei diritti di proprietà borghesi ma anche, come ha mostrato la guerra del 1914, il quadro nazionale dello Stato borghese. Il socialismo, però, non si deve limitare a prendere dal capitalismo le più sviluppate forze produttive, ma deve immediatamente portarle avanti, accrescerle sino al massimo livello e dar loro un livello di sviluppo tale che mai uno Stato capitalistico è riuscito a dargli. Scaturisce qui la domanda: come può allora il socialismo riportare le forze produttive indietro, entro i confini degli Stati nazionali che esse hanno violentemente cercato di distruggere sotto il capitalismo? O forse dovremmo abbandonare l’idea di forze produttive “indomabili” per le quali i confini nazionali, e conseguentemente anche i confini della teoria del socialismo in un paese solo, son troppo stretti? Dovremmo forse limitarci a forze produttive in un certo senso addomesticate, cioè, in altri termini, ad una tecnica arretrata? Se è questo il caso, allora in molte branche dell’industria dovremmo immediatamente smettere di fare progressi e declinare ad un livello addirittura inferiore al nostro presente pietoso livello tecnico, che ha saputo unire la Russia borghese e l’economia mondiale in un vincolo inseparabile e spingerla a partecipare alla guerra imperialista per espandere il suo territorio dinnanzi alle forze produttive che travalicavano ormai il quadro dello Stato nazionale.

Avendo ereditato e rimesso in funzione queste forze produttive, lo Stato operaio è costretto ad importare ed esportare.

Il guaio è che il progetto introduce meccanicamente nel suo testo la tesi dell’incompatibilità tra la moderna tecnologia capitalistica ed i confini nazionali e poi continua nelle sue argomentazioni come se tale incompatibilità non esistesse. Essenzialmente l’intero progetto è una combinazione di tesi rivoluzionarie già pronte, prese da Marx e da Lenin, e di conclusioni centriste e opportuniste che sono assolutamente incompatibili con queste tesi. Questo è il motivo per cui è necessario guardare più da vicino, e senza farsi affascinare dalle isolate formule rivoluzionarie contenute in esso, a dove ci portano le sue tendenze principali.

Abbiamo già citato la parte del primo capitolo che parla della possibilità della vittoria del socialismo “in un isolato paese capitalista”. Quest’idea è ancora più crudamente espressa nel quarto capitolo, il quale afferma che:

“La dittatura [?] del proletariato mondiale […] può essere realizzata solo in seguito alla vittoria del socialismo [?] in singoli paesi capitalisti, quando le neonate repubbliche proletarie formeranno una federazione con quelle già esistenti”.

Se dovessimo interpretare l’espressione “vittoria del socialismo” semplicemente come sinonimo di “dittatura del proletariato”, allora ci troveremmo di fronte ad una dichiarazione generale che è irrefutabile e che dovrebbe solo essere formulata in maniera meno equivoca. Ma ciò non è quello che gli autori del programma hanno in mente. Per “vittoria del socialismo” essi non intendono semplicemente la presa del potere e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma la costruzione di una società socialista in un solo paese. Se noi accettassimo questa interpretazione otterremmo allora non un’economia socialista mondiale basata sulla divisione internazionale del lavoro, ma una federazione di comuni socialiste autosufficienti nello spirito del beato anarchismo: l’unica differenza si troverebbe nel fatto che queste comuni sarebbero grandi quanto gli attuali Stati nazionali.

Nella sua fretta di coprire ecletticamente la nuova costruzione teorica per mezzo di vecchie e abituali formule, il progetto fa ricorso alla tesi seguente:

“Solo dopo la completa vittoria mondiale del proletariato ed il consolidamento del suo potere, sarà assicurata un’epoca di intensa costruzione dell’economia socialista mondiale” (cap. 4).

Utilizzato come difesa teorica, questo postulato in realtà non fa altro che mettere in mostra la contraddizione basilare del progetto. Se dovessimo interpretare questa tesi nel senso che l’epoca di una genuina costruzione socialista potrebbe iniziare solo dopo la vittoria del proletariato di almeno svariati paesi avanzati, allora essa sarebbe semplicemente un rifiuto della teoria della costruzione del socialismo in un paese solo ed un ritorno alla posizione di Marx e Lenin. Ma, se teniamo come punto di partenza la nuova teoria di Stalin e Bucharin che è presentata in varie sezioni del progetto del programma, allora otteniamo la seguente prospettiva: fino alla completa vittoria del proletariato mondiale, un certo numero di paesi costruiscono entro i loro confini un completo socialismo, ed in seguito con questi paesi socialisti verrà costruita un’economia socialista mondiale, nello stesso modo in cui i bambini costruiscono strutture con i loro singoli blocchi già pronti.

Ma l’economia socialista mondiale non può essere affatto la somma totale di economie socialiste nazionali. Essa può prendere forma nei suoi aspetti fondamentali solo sul terreno della divisione internazionale del lavoro che è stata creata da tutta la precedente evoluzione del capitalismo. Nella sua essenza, essa sarà costruita non dopo la costruzione di un “socialismo integrale” in un certo numero di singoli paesi, ma nei tumulti e nelle tempeste di una rivoluzione proletaria mondiale che richiederà un certo numero di decenni. Il successo economico nei primi paesi della dittatura proletaria sarà misurato non dal grado della loro approssimazione ad un autosufficiente “socialismo integrale”, ma dalla stabilità politica della dittatura del proletariato stessa e dai successi raggiunti nel preparare gli elementi della futura economia socialista mondiale.

Quest’idea revisionista è espressa in modo ancor più definitivo, e quindi più grossolano (se ciò è possibile), nel quinto capitolo, nel quale (nascondendosi dietro una riga e mezza del postumo articolo di Lenin di cui abbiamo già discusso) gli autori del progetto dichiarano che l’URSS:

“… possiede al suo interno le premesse materiali necessarie e sufficienti, non solo per il rovesciamento dei proprietari fondiari e della borghesia, ma anche per la completa costruzione del socialismo”.

Grazie a quali circostanze abbiamo ottenuto tali straordinari vantaggi storici? Su questo punto troviamo una risposta nel secondo capitolo del progetto:

“Il fronte imperialista è stato rotto (dalla rivoluzione del ’17) nel suo anello più debole, la Russia zarista”. (sottolineato da noi)

Questa è la splendida formula di Lenin. Il suo significato è che la Russia era il più arretrato ed economicamente debole fra tutti gli Stati imperialisti. Questo è il motivo per cui le sue classi dominanti sono state le prime a giungere al collasso quando hanno caricato un insopportabile fardello sulle insufficienti forze produttive del paese. Lo sviluppo diseguale e combinato ha così costretto il proletariato del paese imperialista più arretrato ad essere il primo a prendere il potere. In precedenza ci era stato insegnato che è precisamente per questa ragione che la classe operaia dell’ “anello più debole” avrebbe incontrato le maggiori difficoltà nei suoi progressi verso la costruzione del socialismo, a differenza invece del proletariato dei paesi avanzati, il quale avrebbe incontrato difficoltà maggiori nella sua lotta per la presa del potere ma che, avendolo conquistato comunque prima che noi fossimo capaci di superare la nostra arretratezza, non solo ci avrebbe sorpassato, ma ci avrebbe portato dietro così da farci raggiungere il punto della reale costruzione socialista sulla base della migliore tecnologia mondiale e della divisione internazionale del lavoro. Questa era la nostra idea quando ci siamo avventurati nella Rivoluzione d’Ottobre. Il partito ha espresso quest’idea decine, centinaia, migliaia di volte nella sua stampa e nelle sue riunioni, ma dal 1925 ci sono stati tentativi di sostituire questa posizione col suo opposto. Ora ci viene insegnato che il fatto che l’ex Russia zarista era l’ “anello più debole” dà al proletariato dell’URSS, l’erede della Russia zarista e di tutte le sue debolezze, l’inestimabile vantaggio di possedere né più né meno che tutte le premesse per la “completa costruzione del socialismo”.

La sfortunata Gran Bretagna non gode di questo vantaggio a causa dell’eccessivo sviluppo delle sue forze produttive, le quali necessitano di quasi tutto il mondo per essere rifornite delle necessarie materie prime e per collocare i suoi prodotti finiti. Fossero le forze produttive della Gran Bretagna più “modeste” ed avessero mantenuto un relativo equilibrio tra industria ed agricoltura, allora il suo proletariato sarebbe a quanto pare capace di costruire un completo socialismo nella sua isola, separata dal resto del mondo e protetta dall’intervento straniero dalla sua flotta.

Il progetto del programma, nel suo quarto capitolo, divide gli Stati capitalisti in tre gruppi: 1) “Paesi ad alto sviluppo capitalistico (Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, ecc.)”; 2) “Paesi a medio sviluppo capitalistico (Russia prima del 1917, Polonia, ecc.)”; 3) “Paesi coloniali e semi-coloniali (Cina, India, ecc.)”.

Malgrado il fatto che la “Russia prima del 1917” fosse molto più vicina all’attuale Cina che agli attuali Stati Uniti, ci si potrebbe astenere da qualsiasi seria obiezione verso questa divisione schematica se non fosse per il fatto che, in relazione ad altre parti del progetto, essa serve come fonte di false conclusioni. Siccome nel progetto si dichiara che i paesi “di medio livello” hanno “sufficienti minimi industriali” per l’indipendente costruzione socialista, questo è ancora più vero per paesi ad alto sviluppo capitalistico. Sono solo i paesi coloniali a semi-coloniali quelli che necessitano assistenza esterna. Come vedremo più avanti, questo è precisamente il modo in cui essi sono caratterizzati in un seguente capitolo del progetto.

Se però ci avvicinassimo al problema della costruzione socialista solo con questo criterio, facendo astrazione da altre condizioni (come le risorse naturali di un paese, i rapporti al suo interno tra industria e agricoltura, la sua posizione nel sistema economico mondiale), cadremmo allora in nuovi e non meno grossolani errori e contraddizioni. Abbiamo giusto parlato della Gran Bretagna. Essendo questo, senza ombra di dubbio, un paese capitalisticamente assai avanzato, proprio per questo motivo non avrebbe alcuna possibilità di costruire vittoriosamente il socialismo nella sua isola. La Gran Bretagna sottoposta al blocco sarebbe semplicemente strangolata nel giro di pochi mesi.

Sicuramente, a condizioni uguali, forze produttive più sviluppate sono un enorme vantaggio per gli obiettivi della costruzione socialista. Esse danno alla vita economica un’eccezionale flessibilità anche nel caso in cui il paese fosse accerchiato, come si evince dalla situazione della borghesia tedesca durante la guerra. Ma la costruzione del socialismo su basi nazionali implicherebbe, per questi paesi avanzati, un declino generale, una globale riduzione delle forze produttive, ovvero qualcosa di diametralmente opposto al socialismo.

Il progetto di programma dimentica la tesi fondamentale della incompatibilità delle forze produttive attuali con le frontiere nazionali, da cui deriva che forze produttive altamente sviluppate costituiscono per l’edificazione del socialismo in un paese solo un ostacolo non minore che forze produttive limitate, benché per ragione opposta; se le seconde sono insufficienti come base, al contrario per le prime, invece, è la base ad essere ristretta. La legge dello sviluppo diseguale e combinato è dimenticata proprio quando più si dovrebbe ricordarsene e quando più è importante.

Il problema della costruzione del socialismo non si pone semplicemente in termini di “maturità” o “immaturità” industriale di un paese. Tale immaturità è essa stessa ineguale. Nell’URSS alcune branche dell’industria (particolarmente quelle riguardanti la costruzione di macchinari) sono estremamente inadeguate a soddisfare le più elementari necessità interne, altre branche per converso non possono svilupparsi, nelle condizioni attuali, senza estensive e crescenti esportazioni. Tra queste ultime ci sono branche di massima importanza come le aziende forestali, del petrolio e del manganese, per non parlare dell’agricoltura. D’altra parte neppure la branche “inadeguate” possono svilupparsi seriamente se quelle che producono in maniera (relativamente) sovrabbondante non possono effettuare esportazioni. L’impossibilità della costruzione di un’isolata società socialista, non sul piano dell’utopia, in una specie di Atlantide, ma nelle concrete condizioni geografiche e storiche della nostra economia terrestre, è determinata per vari paesi in modi differenti – dall’insufficiente sviluppo di alcune branche tanto quanto dall’ “eccessivo” sviluppo di altre. Nell’insieme, ciò significa che le forze produttive moderne sono incompatibili coi confini nazionali.

“Cosa è stata la guerra imperialistica? È stata la rivolta delle forze produttive non solo contro la forma borghese di proprietà, ma anche contro i confini dei paesi capitalisti. La guerra imperialista ha espresso il fatto che le forze produttive sono insopportabilmente imprigionate entro i confini degli Stati nazionali. Abbiamo sempre sostenuto che il capitalismo è incapace di controllare le forze produttive che esso stesso sviluppa, e che solo il socialismo può incorporare in una più elevata entità economica le forze produttive che hanno travalicato i confini nazionali. Tutte le strade che riportano indietro verso una Stato isolato sono state bloccate…” (Verbali, Settimo Plenum del Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista).

Sforzandosi di provare la teoria del socialismo in un paese solo, il progetto del programma commette un doppio, triplo e addirittura quadruplo errore: esagera le forze produttive dell’URSS; chiude gli occhi innanzi alla legge dello sviluppo diseguale e combinato delle varie branche industriali; ignora la divisione internazionale del lavoro e, infine, dimentica la più importante contraddizione dell’epoca imperialistica, la contraddizione tra forze produttive e barriere nazionali.

Per non lasciare fuori dall’analisi alcun singolo argomento, dobbiamo ricordare un’altra proposizione generale di Bucharin in difesa della nuova teoria.

Su scala mondiale, dice Bucharin, i rapporti tra proletariato e contadini non sono più favorevoli di quelli esistenti in URSS. Conseguentemente, se per ragioni d’arretratezza fosse impossibile costruire il socialismo in URSS, allora sarebbe altrettanto impossibile la sua realizzazione su scala economica mondiale.

Tale argomento merita d’essere inserito in tutti i testi riguardanti la dialettica, come classico esempio di pensiero scolastico.

In primo luogo, è piuttosto probabile che la correlazione di forze tra proletariato e contadini a livello mondiale non sia molto differente da quella esistente all’interno dell’URSS. Ma la rivoluzione mondiale non si compie affatto in base a metodi aritmetici, e, per inciso, neppure la rivoluzione nazionale lo fa. Così la Rivoluzione d’Ottobre è avvenuta, e si è trincerata, prima di tutto nella proletaria Pietrogrado anziché scegliere una regione in cui la correlazione tra operai e contadini fosse quella corrispondente alla media russa. Dopo che Pietrogrado e Mosca avevano creato il governo e l’esercito rivoluzionario, essi hanno dovuto abbattere la borghesia nelle campagne circostanti, nel corso di molti anni; solo come risultato di questo processo, chiamato rivoluzione, si è stabilita, entro i confini dell’URSS, l’attuale correlazione di forze tra proletariato e contadini. La rivoluzione non avviene in accordo coi metodi dell’aritmetica. Essa può iniziare in settori meno favorevoli, ma finché non si trincera nei settori decisivi, nelle frontiere sia nazionali che mondiali, non si può parlare della sua completa vittoria.

Secondo: il rapporto tra proletariato e contadini, dato un livello “medio” di tecnologia, non è l’unico fattore per la soluzione del problema. Esiste in aggiunta la lotta di classe tra il proletariato e la borghesia. L’URSS è circondata non da un mondo operaio e contadino, ma da un mondo capitalista. Se la borghesia fosse abbattuta in tutto il mondo, questo fatto, di per sé, non cambierebbe né il rapporto tra proletariato e contadini, né il livello medio di tecnologia entro l’URSS e nel mondo intero. Ma, nondimeno, la costruzione socialista in URSS acquisirebbe immediatamente possibilità e proporzioni assolutamente incomparabili con quelle attuali.

Terzo: poiché le forze produttive di ogni paese avanzato hanno superato in diversa misura i limiti nazionali, si dovrebbe dedurne, secondo Bucharin, che le forze produttive di tutti i paesi hanno superato i limiti della terra e che per conseguenza il socialismo può essere costruito solo a livello di sistema solare.

Ripetiamo che l’argomento buchariniano della proporzione media tra operai e contadini dovrebbe essere incluso in tutti i testi politici: naturalmente non nel modo in cui vi è inserito ora, a difesa della teoria del socialismo in paese solo, ma come prova dell’assoluta incompatibilità tra cavillosità scolastica e dialettica marxista.

9. Il problema può esser risolto solo nell’arena della rivoluzione mondiale

La nuova dottrina proclama che il socialismo può essere costruito su basi nazionali purché non ci sia un intervento militare. Da ciò può e deve seguire (nonostante tutte le pompose dichiarazioni contenute nel progetto del programma) una politica collaborazionista nei confronti della borghesia straniera perché essa non intervenga, poiché ciò garantirà la costruzione del socialismo. Il compito dell’Internazionale Comunista assume in questo modo un valore secondario: proteggere l’URSS dall’intervento, non lottare per il potere. Non si tratta, ovviamente, di intenzioni soggettive, ma della logica oggettiva di una concezione.

“La differenza di vedute risiede nel fatto che – dice Stalin – il Partito considera che tali contraddizioni [interne] ed i possibili conflitti possono essere completamente superati sulla base delle sole forze della nostra rivoluzione, laddove il compagno Trotskij e l’Opposizione pensano che tali contraddizioni e conflitti possono essere superati solo su scala internazionale, nell’arena della rivoluzione proletaria mondiale.” (Pravda, No. 262, 12 Novembre 1926).

Sì, la differenza è proprio questa. Non si potrebbe esprimere meglio e con maggior chiarezza la differenza tra riformismo nazionale ed internazionalismo rivoluzionario. Se le nostre difficoltà, ostacoli e contraddizioni interne, che sono fondamentalmente un riflesso delle contraddizioni mondiali, possono essere sistemate meramente “dalle sole forze della nostra rivoluzione” senza entrare nella “arena della rivoluzione proletaria internazionale”, allora l’Internazionale è in parte un ausiliario ed in parte un’istituzione decorativa, il Congresso della quale può esser convocato una volta ogni quattro anni, una volta ogni dieci anni, o forse non convocato affatto5. Se si aggiunge che il proletariato degli altri paesi deve proteggere la nostra costruzione dall’intervento militare, allora l’Internazionale, in accordo con questo schema, deve giocare il ruolo di strumento pacifista. Il suo ruolo principale, quello di strumento della rivoluzione mondiale, è quindi inevitabilmente relegato sullo sfondo. E ciò, lo ripetiamo, non deriva dalle intenzioni deliberate di alcuno (al contrario, un certo numero di punti del programma sono prova delle migliori intenzioni dei suoi autori), ma scaturisce dalla logica interna della nuova posizione teorica che è mille volte più pericolosa delle peggiori intenzioni soggettive.

Come dato di fatto, al Settimo Plenum del Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista, Stalin è divenuto così spavaldo da sviluppare e difendere la seguente idea:

“Il nostro partito non ha il diritto di ingannare [!] la classe operaia; esso dovrebbe dichiarare apertamente che la mancanza di certezza[!] nella possibilità di costruire il socialismo nel nostro paese porta all’abdicazione del potere e al passaggio del nostro partito da una posizione di governo all’opposizione” (resoconto stenografico, vol. II, p.10, sottolineato da noi).

Ciò significa che noi abbiamo solo il diritto di riporre la nostra fiducia sulle scarse risorse della nostra economia nazionale, ma che non dobbiamo osare di riporre alcuna fiducia sulle inesauribili risorse del proletariato internazionale. Se non possiamo andare avanti senza rivoluzione internazionale, allora dobbiamo abbandonare il potere, abbandonare quel potere dell’Ottobre che abbiamo conquistato nell’interesse della rivoluzione internazionale. Ecco sino a quale degradazione ideologica giungiamo se partiamo da una formulazione che è falsa fino all’osso!

Il progetto esprime un’idea incontrovertibile quando dice che i successi economici dell’URSS costituiscono parte integrante della rivoluzione proletaria mondiale. Ma il pericolo politico della nuova teoria risiede nella falsa valutazione comparativa delle due leve del socialismo mondiale – la leva dei nostri successi economici e la leva della rivoluzione proletaria mondiale. Senza una vittoria di quest’ultima noi non potremo costruire il socialismo. I lavoratori europei e di tutto il mondo devono comprendere chiaramente questo fatto. La leva della costruzione economica è certo di estrema importanza; senza un corretta leadership, la dittatura del proletariato ne risulterà indebolita e la sua caduta darebbe un duro colpo alla rivoluzione internazionale, colpo che la danneggerebbe per molti, molti anni. Ma la conclusione della lotta storica tra il mondo socialista ed il mondo del capitalismo dipende dalla seconda leva, cioè dalla rivoluzione proletaria mondiale. La colossale importanza dell’Unione Sovietica risiede nel fatto che essa è la base conquistata dalla rivoluzione mondiale, non certo nella presunzione che essa sia capace di costruire il socialismo indipendentemente dalla rivoluzione mondiale.

Con un tono di superiorità completamente ingiustificato, Bucharin ci ha chiesto più di una volta:

“Se esistono già le premesse, i punti di partenza, una base sufficiente e persino alcuni successi nel lavoro di costruzione del socialismo, dov’è allora il limite oltre il quale tutto ‘viene rivoltato’? Non c’è alcun limite del genere”. (resoconto stenografico del Settimo Plenum, p.116).

Questa è pessima geometria, non dialettica storica. Ci può essere tale “limite”. Ci possono essere molti limiti del genere, politici tanto quanto economici o militari. Il più importante ed infausto “limite” potrebbe risultare essere una prolungata e seria stabilizzazione del capitalismo mondiale ed un nuovo boom. In conseguenza la questione si sposta politicamente ed economicamente nell’arena mondiale. Riuscirà la borghesia ad assicurarsi una nuova epoca di crescita capitalistica? Negare semplicemente tale possibilità, contando semplicemente sulla “posizione senza speranze” in cui il capitalismo si trova oggi, sarebbe un semplice e vuoto utilizzo di frasario rivoluzionario. “Non ci sono affatto situazioni che siano assolutamente prive di vie d’uscita” (Lenin). L’attuale instabile equilibrio di classe dei paesi europei non può perdurare all’infinito proprio a causa della sua instabilità.

Quando Stalin e Bucharin sostengono che l’URSS può andare avanti senza l’aiuto “statale” del proletariato degli altri paesi, cioè senza la sua vittoria sulla borghesia, poiché l’attuale simpatia attiva delle masse operaie già ci protegge dall’intervento, essi tradiscono la stessa cecità che si rivela nelle implicazioni del loro errore principale.

È assolutamente incontestabile il fatto che, dopo che la socialdemocrazia ha sabotato le insurrezioni postbelliche del proletariato europeo contro la borghesia, è stata la simpatia attiva delle masse lavoratrici a salvare la Repubblica sovietica. Durante quegli anni la borghesia europea si è dimostrata incapace di ingaggiare una guerra su larga scala contro lo Stato operaio. Ma pensare che tale rapporto di forze possa continuare per svariati anni, ovvero fino alla costruzione del socialismo in URSS, equivale ad essere tanto miopi da giudicare l’intera curva di uno sviluppo partendo da un suo piccolo segmento. Una situazione così instabile, in cui il proletariato non può prendere il potere e la borghesia non si sente sufficientemente salda per riuscire a mantenere il potere a casa sua, deve prima o poi risolversi bruscamente in una direzione o nell’altra: o in favore della dittatura proletaria o in favore di una seria e prolungata stabilizzazione capitalista sulle spalle delle masse popolari, sulle ossa dei popoli coloniali e forse sulle nostre stesse ossa. “Non ci sono affatto situazioni che siano assolutamente prive di vie d’uscita!”. La borghesia europea ha un’ultima via di scampo alle sue gravi contraddizioni solo attraverso la sconfitta del proletariato e gli errori della leadership rivoluzionaria. Ma è altrettanto vero il contrario. Non ci sarà un nuovo boom del capitalismo mondiale (ovviamente nella prospettiva di un’epoca di grandi rivolte) solo nel caso in cui il proletariato sarà capace di trovare una via d’uscita all’attuale equilibrio instabile per via rivoluzionaria.

“È necessario ‘provare’, con il lavoro pratico –  disse Lenin il 19 luglio del 1920 al Secondo Congresso Mondiale – che i partiti rivoluzionari son sufficientemente consci e organizzati, che hanno un sufficiente contatto con le masse sfruttate e che hanno la determinazione e la capacità di utilizzare la crisi per una vittoriosa e trionfante rivoluzione”. (vol. XVII, p. 264)

Le nostre contraddizioni interne però, le quali dipendono direttamente dal corso della lotta europea e mondiale, possono essere razionalmente regolate ed alleviate attraverso una corretta politica interna basata sulle previsioni marxiste. Ma esse potranno essere del tutto superate solo quando lo saranno anche le contraddizioni di classe, cosa che è fuori questione senza una rivoluzione vittoriosa in Europa. Stalin ha ragione. La differenza risiede proprio in questo punto, e questa è la differenza fondamentale tra riformismo nazionale ed internazionalismo rivoluzionario.

10. La teoria del socialismo in un paese solo come fonte di inevitabili deviazioni socialpatriottiche

La teoria del socialismo in un paese solo porta inesorabilmente ad una sottostima delle difficoltà che occorre superare e ad una sopravvalutazione dei risultati raggiunti. Non si può trovare un’asserzione tanto antisocialista ed antirivoluzionaria quanto la dichiarazione di Stalin secondo cui “il socialismo è già stato realizzato in URSS per il 90 percento”. Tale dichiarazione pare essere specialmente significativa per burocrati compiaciuti. In tal modo si scredita però completamente l’idea di una società socialista agli occhi delle masse lavoratrici. Il proletariato sovietico ha raggiunto grandiosi successi, se teniamo conto delle condizioni nelle quali essi sono stati ottenuti e del basso livello culturale ereditato dal passato. Ma questi successi costituiscono piccole cose rispetto all’ideale socialista. Per rafforzare gli operai, i lavoratori agricoli ed i contadini poveri, i quali vedono che dopo undici anni dalla rivoluzione la povertà, la miseria, la disoccupazione, le file per il pane, l’analfabetismo, i bambini senzatetto, l’alcolismo e la prostituzione non sono stati sconfitti, serve la dura verità, e non mielose menzogne. Invece di raccontar loro bugie riguardo la realizzazione del socialismo al 90%, dobbiamo dir loro che il nostro livello economico, come le nostre condizioni sociali e culturali, si avvicinano oggi più al capitalismo, e ad un capitalismo arretrato per giunta, che al socialismo. Dobbiamo dir loro che entreremo nella fase della vera costruzione socialista solo quando il proletariato dei paesi più avanzati avrà preso il potere, che è necessario lavorare ininterrottamente per raggiungere tale obiettivo, facendo perno su ambo le leve – quella corta dei nostri sforzi economici interni e quella lunga della lotta proletaria internazionale.

In breve, invece delle frasi staliniane sulla costruzione socialista già completata al 90%, dobbiamo parlare con loro con le parole di Lenin:

“La Russia (la terra della povertà) diverrà tale terra (la terra dell’abbondanza) solo se gettiamo via tutto il nostro pessimismo e le vuote parole: solo se, stringendo i nostri denti, ci facciamo forza e tendiamo ogni nostro muscolo ed ogni nervo, solo se capiamo che la salvezza è possibile solo lungo la strada della rivoluzione socialista mondiale che stiamo attraversando”. (vol. XV, p. 165)

* * *

Da prominenti leader dell’Internazionale ci è capitato di leggere argomenti quali: la teoria del socialismo in un paese solo è certamente infondata, ma essa fornisce gli operai russi di una prospettiva nelle difficili condizioni in cui essi lavorano e, così, dà loro coraggio. È difficile valutare la profondità della decadenza teorica di coloro i quali fondano un programma non su basi scientifiche e di classe ma sulla consolazione morale. Le teorie consolatorie che contraddicono i fatti appartengono alla sfera della religione e non alla scienza: e la religione è l’oppio dei popoli.

Il nostro partito ha vissuto il suo periodo eroico con un programma che era interamente orientato verso la rivoluzione internazionale e non verso il socialismo in un solo paese. Sotto una bandiera programmatica sulla quale era scritto che l’arretrata Russia non avrebbe potuto costruire da sola, basandosi sulle proprie forze, il socialismo, la Lega dei Giovani Comunisti ha attraversato i duri anni della guerra civile, la fame, il freddo, sabati e domeniche di duro lavoro, epidemie, il razionamento del cibo e innumerevoli sacrifici pagati per ogni piccolo passo avanti compiuto. I membri del partito e della Lega Giovanile hanno lottato al fronte o trascinato travi alle stazioni ferroviarie non perché speravano, con quelle travi, di costruire il socialismo nazionale, ma perché servivano la causa della rivoluzione internazionale per la quale era necessario che la fortezza russa tenesse duro – ed ogni singola trave era importante per la fortezza sovietica. Questo era il modo in cui ponevano la questione. I tempi sono cambiati, le cose sono diventate differenti (seppur non in modo assai radicale), ma l’approccio originario mantiene ancora tutta la sua forza. L’operaio ed il contadino povero, il partigiano ed il giovane comunista, tutti hanno precedentemente dimostrato con la loro condotta fino al 1925, anno in cui il nuovo vangelo fu per la prima volta proclamato, che loro non ne hanno bisogno. Chi ne ha bisogno è il funzionario che guarda le masse dall’alto in basso, il piccolo amministratore che non vuol essere disturbato, il dipendente dell’apparato che cerca il potere dietro una formula consolante. Sono loro che pensano che il popolo ignorante abbia bisogno delle “buone notizie” e che non c’è rapporto con il popolo senza dottrine consolatrici. Sono loro che colgono al volo le false parole sul “socialismo al “90%”, poiché questa formula giustifica le loro posizioni di privilegio, il loro diritto di dominare e di comandare, il loro bisogno d’essere liberi dalle critiche degli “scettici” e degli “uomini di poca fede”.

Le lagnanze e le accuse secondo cui – come pretendono – la negazione della possibilità di costruire il socialismo in un paese solo spegnerebbe lo spirito e ucciderebbe l’energia, sono teoricamente e psicologicamente molto simili, nonostante la diversità delle condizioni, alle accuse che i riformisti hanno sempre formulato contro i rivoluzionari. Dicevano i riformisti: “Voi state dicendo agli operai che essi non possono migliorare la loro condizione entro l’ordinamento della società capitalistica; e con questo voi uccidete il loro incentivo alla lotta”. È stato, in realtà, solo sotto la leadership dei rivoluzionari che gli operai hanno veramente lottato per i miglioramenti economici e per le riforme parlamentari.

L’operaio che capisce l’impossibilità della costruzione di un paradiso socialista, di un’oasi socialista nel mezzo dell’inferno del capitalismo mondiale, che il destino della Repubblica sovietica e quindi il suo stesso destino dipendono interamente dalla rivoluzione internazionale, svolgerà i suoi compiti verso l’URSS in modo ancor più energico dell’operaio a cui vien detto che ciò che già possediamo è presumibilmente socialismo al 90%. “Se è così, a che serve allora sforzarsi per realizzare il socialismo?”. Qui, ancora, l’orientamento consolatorio lavora come al solito non solo contro la rivoluzione, ma anche contro le riforme stesse.

Nel già citato articolo del 1915 sullo slogan degli Stati Uniti d’Europa, abbiamo scritto:

“Abbracciare la prospettiva di una rivoluzione sociale entro i confini nazionali è cadere vittime della medesima ristrettezza nazionale che costituisce la sostanza del social-patriottismo. Vaillant, nei suoi ultimi giorni, considerava la Francia come la terra promessa delle rivoluzione sociale; ed è precisamente partendo da quest’angolazione che egli ha, fino alla fine, appoggiato la difesa nazionale. Lensch e consorti (alcuni ipocritamente ed altri in modo sincero) considerano la sconfitta della Germania innanzitutto come la distruzione delle basi della rivoluzione sociale… Non bisognerebbe scordare, in generale, che nel social-patriottismo c’è, affianco al più volgare riformismo, un messianismo rivoluzionario nazionale che crede che il proprio Stato-nazione, a causa del suo livello di sviluppo nazionale o per la sua forma ‘democratica’ e le sue conquiste rivoluzionarie, è chiamato a guidare l’umanità verso il socialismo e verso la ‘democrazia’. Se la rivoluzione vittoriosa fosse concepibile semplicemente entro i confini di una nazione singola e più sviluppata delle altre, questo messianismo, legato al programma della difesa nazionale avrebbe qualche relativa giustificazione storica. Ma, nei fatti, ciò è inconcepibile. La lotta per preservare le basi nazionali della rivoluzione, con metodi tali da minare i legami internazionali del proletariato, in realtà significa minare la rivoluzione stessa, la quale può iniziare su basi nazionali ma non può essere su esse completata, e ciò data l’attuale interdipendenza economica, militare e politica degli Stati europei, la quale non sì è mai in precedenza presentata in modo così pieno ed ampio prima dell’attuale guerra. Questa interdipendenza che condizionerà direttamente ed immediatamente l’azione concentrata da parte del proletariato europeo nella rivoluzione si esprime nella parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa” (vol. III, parte I, p. 90-91)

Partendo da una falsa interpretazione della polemica del 1915, Stalin ha più volte tentato di mostrare che l’allusione allo “spirito nazionale limitato” volesse colpire Lenin. Non si potrebbe immaginare assurdità più grande. Nella mia polemica con Lenin sono sempre stato aperto, perché ero guidato da considerazioni ideologiche. Nel caso specifico Lenin non era per nulla coinvolto. L’articolo cita per nome le persone contro cui tali accuse erano lanciate – Vaillant, Lensch ed altri. Bisogna ricordare che il 1915 è stato l’anno dell’orgia social-patriottica e della nostra strenua lotta contro di essa. Questo era il nostro metro di confronto per ogni questione.

La questione fondamentale sollevata dal precedente passo è stata senza dubbio correttamente formulata: la concezione della costruzione del socialismo in un paese solo è una concezione social-patriottica.

Il patriottismo dei socialdemocratici tedeschi iniziò come legittimo patriottismo vero il loro partito, il più potente della Seconda Internazionale. Sulla base dell’altamente sviluppata tecnologia tedesca e delle superiori qualità organizzative del popolo tedesco, la socialdemocrazia tedesca si preparò a costruire la “propria” società socialista. Se lasciamo da parte i burocrati insensibili, i carrieristi, i parlamentaristi imbroglioni ed i truffatori politici in generale, il social-patriottismo della massa socialdemocratica derivava precisamene dalla fiducia verso la costruzione del socialismo tedesco. È impossibile pensare che centinaia di migliaia di socialdemocratici (lasciando da parte i milioni di lavoratori) volessero difendere gli Hohenzollern o la borghesia. No. Essi volevano proteggere l’industria tedesca, le loro ferrovie e le grandi strade, la loro tecnologia e la loro cultura, e specialmente le organizzazioni della classe operaia tedesca, viste come “necessarie e sufficienti” premesse nazionali per il socialismo.

Un simile processo c’è stato anche in Francia. Guesde, Vaillant, e con loro migliaia tra i migliori membri del partito e centinaia di migliaia di lavoratori, credevano che proprio la Francia, con la sua tradizione rivoluzionaria, il suo eroico proletariato, il suo popolo altamente acculturato, flessibile e ingegnoso, era la terra promessa del socialismo. Il vecchio Guesde ed il comunardo Vaillant, e con loro centinaia di migliaia di sinceri operai, non lottavano per proteggere i banchieri o i rentier. Essi credevano sinceramente di difendere il suolo ed il potere creativo della futura società socialista. Essi partivano interamente dalla teoria del socialismo in un paese solo e nel nome di quest’idea essi sacrificavano la solidarietà internazionale, considerando questo sacrificio come “temporaneo”.

A questa comparazione con i social-patriottici verrà risposto, certamente, con l’argomento che il patriottismo verso lo Stato sovietico è un dovere rivoluzionario mentre il patriottismo verso uno Stato borghese è un tradimento. Verissimo. Ci potrebbe mai essere una seria disputa su tale questione tra rivoluzionari adulti? Ma, procedendo, vediamo come quest’incontrovertibile postulato viene trasformato sempre più in una difesa scolastica per una deliberata falsificazione.

Il patriottismo rivoluzionario può avere solo un carattere di classe. Inizia come patriottismo verso le organizzazioni di partito e verso i sindacati, cresce poi a livello di patriottismo di Stato nel momento in cui il proletariato prende il potere. Dove il potere è nelle mani dei lavoratori, il patriottismo diviene un dovere rivoluzionario. Ma questo patriottismo dev’essere una parte inseparabile dell’internazionalismo rivoluzionario. Il marxismo ha sempre insegnato ai lavoratori che persino la loro battaglia per più alti salari e minori ore di lavoro non può avere successo a meno che non sia combattuta a livello internazionale. Ed ora ci vien detto d’improvviso che l’ideale della società socialista può esser raggiunto basandosi solo sulle forze nazionali. Questo è un colpo mortale inferto all’Internazionale.

L’invincibile convinzione che lo scopo fondamentale della classe, anche più dei suoi obiettivi parziali, non può esser realizzato a livello semplicemente nazionale entro i propri confini, costituisce il fulcro ineliminabile dell’internazionalismo rivoluzionario. Se, invece, lo scopo ultimo fosse realizzabile entro i confini nazionali attraverso gli sforzi del proletariato interno, allora la spina dorsale dell’internazionalismo risulterebbe rotta. La teoria del socialismo in un paese solo distrugge l’intima connessione tra il patriottismo del proletariato vittorioso ed il disfattismo del proletariato dei paesi borghesi. Il proletariato dei paesi capitalisti avanzati sta ancora viaggiando sulla strada della presa del potere. In che maniera esso marci verso di esso dipende interamente da come egli consideri il compito della costruzione della società socialista, dal fatto che esso lo consideri un compito nazionale piuttosto che internazionale.

Se fosse possibile realizzare il socialismo in un solo paese, allora si potrebbe credere in tale teoria non solo dopo, ma anche prima della conquista del potere. Se il socialismo è realizzabile entro i confini nazionali dell’arretrata Russia, allora si può, a maggior ragione, credere che esso sia realizzabile nell’avanzata Germania. Domani i leader del Partito Comunista di Germania si accingeranno a proporre tale teoria. Il progetto del programma li legittima a farlo. Dopodomani toccherà al partito francese fare questa svolta. Sarà l’inizio della disgregazione dell’Internazionale Comunista lungo le linee del social-patriottismo. Il partito comunista di ogni singolo paese capitalista, che sarà ormai imbevuto dell’idea che il suo particolare paese possiede tutte le premesse “necessarie e sufficienti” per la costruzione indipendente di una “completa società socialista”, non differirà in modo sostanziale dalla socialdemocrazia rivoluzionaria, la quale non è degenerata con Noske, ma si è impantanata definitivamente il 4 agosto 1914 proprio su questa medesima questione.

Quando si afferma che la stessa esistenza dell’URSS è una garanzia contro il social-patriottismo, poiché il patriottismo verso la repubblica operaia è un compito rivoluzionario, allora in quest’unilaterale applicazione di un’idea corretta si trova espressa la ristrettezza di pensiero nazionale. Quelli che dicono ciò hanno in mente solo l’URSS e chiudono i loro occhi innanzi al proletariato mondiale. È possibile vincere il proletariato al disfattismo verso lo Stato borghese solo attraverso un orientamento programmatico internazionalista su questo tema ed un feroce rifiuto del contrabbando social-patriottico che al momento è ancora mascherato, ma che cerca di costruirsi un nido teorico all’interno del programma dell’Internazionale di Lenin.

Non è troppo tardi per tornare sulla via di Marx e di Lenin. Solo questo ritorno può riaprire l’unica strada verso il progresso. Indirizziamo questa critica al progetto del programma presentato al Sesto Congresso dell’Internazionale Comunista proprio per rendere possibile la realizzazione di questa svolta nella quale risiede la salvezza.

 

Note

1. È il 4 agosto 1914 che la socialdemocrazia tedesca votò i crediti di guerra e con ciò ruppe la solidarietà internazionale del movimento operaio.

2.  L’ Opposizione di sinistra, cioè la tendenza guidata da Trotskij, formatasi a partire dal 1923.

3. Socialdemocratico tedesco della tendenza di destra.

4. Con tale termine russo si indica il collegamento, l’unione tra città e campagna, tra proletariato e contadini.

5. In effetti, sinché Lenin poté partecipare all’attività dell’Internazionale Comunista i congressi mondiali si tennero ogni anno (1919, 1920, 1921 e 1922), nonostante le difficoltà derivanti dalle condizioni russe ed europee di allora, mentre dal ’24 sino allo scioglimento, cioè per circa vent’anni, non furono convocati che tre congressi.

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