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17 Giugno 2016La Rivolta della Ragione – Capitolo 3 Il materialismo dialettico – Razionalità e irrazionalità
18 Giugno 2016Essendoci rimasto poco da tagliare nelle pensioni degli italiani, dopo la decina di controriforme che dagli anni ’90 alla Fornero hanno schiacciato il reddito dei pensionati allungando a dismisura l’età pensionabile, il governo Renzi sta ora raschiando il fondo del barile. Il tema è sempre che l’economia ristagna e dunque i vincoli europei ci impongono tagli.
Le trovate sono diverse. Innanzitutto c’è l’APE (anticipo pensionistico) che dovrebbe funzionare così: il lavoratore potrà andare in pensione prima del massimo (purché oltre i 63 anni) con un taglio alla pensione tra l’1 e il 4% annui. Questo anticipo il pensionato dovrebbe pagarselo indebitandosi con banche (per il prestito) e assicurazioni (che coprono il rischio di morte del debitore) a cui lo Stato pagherà gli interessi (circa un miliardo l’anno). Dunque il pensionato si indebita, le banche incassano e lo Stato le paga. Geniale! Per inciso, pur ammettendo che si debba ricorrere a un prestito, non si capisce perché non possa farlo direttamente lo Stato. Ad ogni modo, considerando l’età a cui si va in pensione oggi e che l’ammortamento dovrebbe durare tra i 10 e i 20 anni, i lavoratori dovrebbero fare debiti letteralmente sino alla tomba. E questo subendo un taglio consistente a una pensione già bassa.
In secondo luogo c’è la trovata dell’uscita graduale tramite part-time. L’idea è questa: il lavoratore vicino alla pensione passa part-time con corrispondente decurtazione della paga, salvo una piccola aggiunta corrispondente a una parte dei contributi previdenziali che il suo padrone non dovrà più versare. Per questo periodo lo Stato riconoscerà al lavoratore la contribuzione corrispondente alla prestazione non effettuata, in modo che alla maturazione dell’età pensionabile il lavoratore percepirà l’intero importo della pensione. È sin troppo ovvio che solo lavoratori con ottimi stipendi potranno permettersi un quasi dimezzamento del proprio salario.
Il terzo aspetto è il taglio alle pensioni di reversibilità che verrebbero ridotte in proporzione all’Isee, ossia al reddito complessivo dichiarato. Va da sé che questo significa ancora una volta punire i lavoratori dipendenti favorendo gli evasori.
Gli effetti della crisi
Per indorare la pillola, Renzi ha parlato (ma non è detto che li darà davvero) di 80 euro di aumento per le pensioni minime. In pratica il governo taglia 100 a tutti e restituisce, forse, 1 a pochi. Intanto gli effetti delle controriforme pensionistiche si fanno sentire: pensioni sempre più basse, lavoratori sempre più anziani anche in lavori pericolosi con effetti drammatici in termini di salute e sicurezza. È l’INPS stessa a osservare gli effetti della crisi, con un aumento dei poveri, in 6 anni, dal 18 al 25 per cento della popolazione e un terzo dei poveri che si trova in una condizione di grave deprivazione materiale.
Il governo giustifica i tagli con lo squilibrio economico dell’INPS. La realtà è che il disavanzo finanziario dell’ente (circa 8 miliardi) deriva dalle gestioni dei comparti diversi dai lavoratori dipendenti, come quello dei lavoratori autonomi, e dal buco legato all’assorbimento dell’INPDAP che aveva debiti nei confronti dello Stato (in pratica lo Stato come datore di lavoro non pagava a sé stesso i contributi). A ciò va aggiunto il problema dell’evasione contributiva. Secondo uno studio dell’ISTAT, solo quella dei falsi part-time è di 2-3 miliardi l’anno. Nel complesso, con oltre tre milioni di lavoratori in nero e molti lavoratori regolari per i quali le aziende evadono comunque parte dei contributi, l’evasione contributiva supera i 10-15 miliardi l’anno. Eliminare l’evasione consentirebbe di appianare i buchi dell’INPS per sempre.
Il governo è andato nella direzione opposta soprattutto con i famigerati voucher che consentono di assumere persone a ore pagandole una miseria. Nel 2008 le persone retribuite con almeno un voucher erano meno di 25mila; ora arrivano a un milione e mezzo. Che questa forma di pagamento stia diventando stabile lo rileva dal fatto che quasi il 40% dei percettori di voucher nel 2015 aveva riscosso voucher anche l’anno precedente. Questa forma di lavoro nero legalizzato, che permette un abbassamento spaventoso della paga, comporta anche un drastico taglio dei contributi all’INPS. Ma si tratta solo dell’ultima infame trovata per tagliare i salari, una tendenza che dura ormai da un quarto di secolo. La quota salari sul Pil è calata in vent’anni di dieci punti percentuali. Anche l’INPS dunque ha perso dieci punti percentuali nelle sue entrate. Il Jobs Act ha anch’esso accresciuto il buco dell’INPS con la farsa della decontribuzione che ha ispirato ogni genere di truffa. Secondo la stessa INPS, gli imbrogli legati alla decontribuzione riguardano almeno 60mila imprese.
I buchi dell’INPS non dipendono dunque da pensioni troppo generose, ma dall’evasione contributiva e dal crollo dei salari.
Quali risposte?
Di fronte a questo ulteriore attacco, Cgil Cisl e Uil hanno fatto una manifestazione il 19 maggio, riuscita ma ininfluente. Non sono queste le risposte di cui abbiamo bisogno per contrastare il progetto del governo. Gli eventi francesi dimostrano qual è l’unica via per rispondere alle provocazioni dei governi: mobilitazioni continue, scioperi continui, blocchi stradali. I dirigenti sindacali italiani non sono disposti a prendere questa strada.
Neanche a dire che manchino le occasioni per allargare il fronte della mobilitazione, mettendo al centro anche il tema delle pensioni. Maggio e giugno sono stati mesi di scioperi, tra i metalmeccanici, nel settore della grande distribuzione, nel pubblico impiego. E proprio in questi giorni sta entrando nel vivo il tavolo coi sindacati sull’APE, presentato come un ritocco alla Fornero.
E qui veniamo al primo punto: i dirigenti sindacali non possono presentarsi al tavolo di trattative col governo provando a contrattare sulle penalizzazioni cui vanno incontro i lavoratori. Occorre mirare ad abolire la legge Fornero che, di fatto, ha abolito le pensioni di anzianità.
Se il governo, come in effetti sta facendo, punta a legare l’APE ad una nuova stretta sui dipendenti pubblici (che da sei anni aspettano un rinnovo contrattuale) e ad un nuovo scambio tra salario e produttività (che significa solo un nuovo aumento di ritmi di lavoro già intollerabili), da inserire in una nuova riforma della contrattazione, che mette l’APE e toglie ancora più potere al contratto collettivo nazionale, allora occorre cogliere l’occasioni data dagli scioperi dei metalmeccanici e quelli regionali del pubblico impiego in Lombardia e Piemonte di questi giorni, per stendere un unico programma di rivendicazioni, contro i licenziamenti e l’applicazione del Jobs Act nel pubblico impiego (il governo negli ultimi tempi c’ha riprovato), contro l’attacco al contratto nazionale di lavoro, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per abolire tutte le controriforme che hanno abolito il diritto alla pensione.