Domeniche lavorative in Esselunga, dalla padella alla brace!
2 Febbraio 2016La proposta di Podemos di un governo di coalizione smaschera le reali intenzioni della classe dominante
2 Febbraio 2016di Roberto Sarti
Il Che è l’emblema stesso, con Fidel Castro, della rivoluzione cubana e più in generale della lotta degli oppressi in tutto il mondo. Il suo spirito di sacrificio e il suo rigore ed onestà intellettuale sono una fonte d’ispirazione per tutti noi.
Non è un caso se la sua figura e le sue opere ritornino periodicamente al centro del dibattito.
Alcuni mesi fa abbiamo assistito in Italia ad una discussione piuttosto vivace che, partendo dalla questione dei diritti delle opere del rivoluzionario argentino, è passata ad affrontare l’evoluzione del suo pensiero politico, soprattutto negli ultimi anni di vita.
Ad agosto 2005 scoppia il caso: i diritti di pubblicazione di diciannove manoscritti del Che sono stati venduti a Mondadori per la cifra di un milione e mezzo di dollari da una casa editrice australiana, la Ocean Press. Aleida March, vedova di Guevara, e i quattro figli hanno deciso già alcuni anni orsono di affidare a questa impresa commerciale il compito di far circolare gli scritti del Che.
Sullo specifico non abbiamo dubbi. Ogni comunista dovrebbe rispettare le volontà di Guevara, secondo cui il proprio pensiero doveva essere messo a disposizione di tutta l’umanità, senza alcuna limitazione. Una posizione comune ad altri grandi rivoluzionari, da Marx a Lenin. Non è una questione astratta di “purezza”, ma la semplice constatazione che concedere i diritti esclusivi a un’impresa capitalista significa lasciare ad essa carta bianca su cosa può o non può essere pubblicato, sulla base di una mera logica commerciale. L’errore sta quindi nella privatizzazione delle opere del Che, e poco importa che a pubblicarle sia Mondadori o Feltrinelli.
La famiglia ci informa che tutti i proventi saranno reinvestiti per migliorare i servizi sociali a Cuba, ma ciò non affronta la questione politica. Molti di questi scritti rimangono inaccessibili alla stragrande maggioranza dei cubani, fatto di cui giustamente si indigna Celia Hart (figlia di due esponenti di primissimo piano della rivoluzione cubana come Armando Hart e Haydee Santamaria), quando esclama “chi può riservarsi i diritti dell’arrivo della primavera?” nel suo Canto intimo pubblicato anche su Liberazione. Tale censura non può non avere a che fare con le crescenti critiche che il Che aveva cominciato a formulare verso le esperienze di “socialismo reale” dei paesi dell’Est europeo, con cui era entrato in contatto dopo la vittoria della rivoluzione cubana. Questa nostra opinione scandalizzerà tanti epigoni dello stalinismo presenti anche in Italia, che pensano che la difesa della rivoluzione cubana può passare solo attraverso la raffigurazione di un paese senza difetti, dove un partito d’acciaio, monolitico, guida dal 1959 la popolazione verso le gioie del socialismo. La verità è un’altra e i comunisti non devono avere paura della realtà, né nasconderla. Sarebbe un pessimo servizio che renderemmo alle classi oppresse.
Gli inizi
Ernesto Guevara de la Serna nasce a Rosario, in Argentina, nel 1928. Trasferitosi nella capitale Buenos Aires, intraprende gli studi di medicina. Con il suo amico Alberto Granado inizia nel 1951 un viaggio per l’America Latina in motocicletta. In questo periodo comincia a formarsi una propria coscienza politica. Particolarmente importante a riguardo sarà il suo soggiorno in Guatemala dove partecipa alla resistenza contro il colpo di Stato promosso dagli Usa nei confronti del presidente Arbenz. Quest’ultimo stava promovendo una riforma agraria che cozzava con gli interessi della potente multinazionale americana United Fruit.
In Guatemala incontra Hilda Gadea, sua futura moglie, che lo introduce al marxismo.
A quale marxismo attinge tuttavia il Che, muovendo i suoi primi passi da rivoluzionario? Non poteva che essere un sistema di pensiero influenzato dallo stalinismo, che godeva di un’influenza enorme dopo la vittoria dell’Unione sovietica nella Seconda guerra mondiale e la rivoluzione cinese del 1949.
A metà degli anni cinquanta così Guevara giudica Stalin: “[Fidel e il Che] dormivano accanto. Studiavano un libro del Che, I fondamenti del leninismo di Stalin. Noi tre abbiamo avuto una discussione molto seria. Il Che lo difendeva e io l’attaccavo. L’opinione di Fidel fu lapidaria: ‘Una rivoluzione, per non dividersi ed essere sopraffatta, ha bisogno di un capo. Vale di più un cattivo capo, che venti capi buoni’” (C. Franqui, Diario della rivoluzione cubana, 1977, pag. 159).
Le origini della rivoluzione cubana
Allo stesso tempo Castro e Guevara non potevano simpatizzare per la politica dei partiti comunisti latino americani, estremamente degenerati, tantomeno per il Pc cubano, dei cui pesanti errori parliamo in un altro articolo di questa rivista.
Lanciano così un nuovo movimento guerrigliero, il Movimento 26 luglio.
L’obiettivo della guerriglia, quando cominciava la lotta contro la dittatura di Batista, non era la rivoluzione socialista, bensì l’introduzione di riforme radicali tese all’indipendenza nazionale, restando all’interno del sistema capitalista, come si evince leggendo La storia mi assolverà, il famoso discorso tenuto da Castro durante il processo successivo all’assalto alla Caserma Moncada. Fidel rivendicava “la partecipazione agli utili da parte degli operai e degli impiegati”, “l’instaurazione della giustizia sociale, fondata sul progresso economico ed industriale”.
Nei primi mesi del 1959, immediatamente dopo la presa del potere, anche il Che nutre illusioni riguardo ad un possibile sviluppo democratico tutto interno al capitalismo, come spiega in un’intervista:
“Noi siamo democratici, il nostro movimento è democratico, di coscienza liberale e interessato alla cooperazione di tutta l’America. È un vecchio sotterfugio dei dittatori di chiamare comunisti quelli che si rifiutano di sottomettersi a loro. Entro un anno e mezzo sarà organizzata un forza politica con l’ideologia del Movimento 26 luglio. Allora ci saranno elezioni e il nuovo partito entrerà in competizione con gli altri partiti democratici” (H. Thomas, Storia di Cuba, pag. 831).
A Cuba tuttavia uno stadio “democratico” del capitalismo non poteva esistere e si doveva scontrare con il dominio totale da parte dell’imperialismo statunitense su ogni aspetto della vita economica e politica di Cuba, tanto che le multinazionali Usa possedevano il novanta per cento dell’industria dell’isola!
Dal minuto successivo all’entrata del Movimento 26 Luglio a L’Avana, gli Usa cominciano ad ostacolare e sabotare il nuovo governo rivoluzionario. Non c’era quindi possibilità di sviluppo sotto il capitalismo e in quello stesso periodo Unione Sovietica, Cina ed il resto dei paesi dell’Est rappresentavano un importante punto di riferimento. Quando il governo nordamericano si rifiuta di comprare lo zucchero da Cuba, Mosca si offre di acquistarlo al suo posto.
Sulla base dell’impetuosa spinta rivoluzionaria il capitalismo è stato eliminato a Cuba, ma per costruire il nuovo sistema non si è seguito l’esempio della repubblica dei soviet dei tempi di Lenin, bensì dell’Unione Sovietica di Stalin e di Krusciov. Un sistema dove una burocrazia, a causa dell’arretratezza e dell’isolamento dell’Urss, aveva espropriato del potere politico la classe lavoratrice. Tutti gli organismi propri della democrazia operaia, i soviet, i consigli, ecc. erano ridotti a mere cinghie di trasmissione delle decisioni dell’apparato statale. A Cuba in quei primi anni esiste una grande voglia di partecipazione da parte dei lavoratori e delle classi oppresse, ma nessuna struttura dove poter esprimerla. Nessuna possibilità di elezione e revoca in qualsiasi momento dei funzionari e degli amministratori era contemplata.
I rivoluzionari cubani, non avendo altro modello a cui ispirarsi, applicano quello suggerito dai consiglieri sovietici. In quei primi anni Che Guevara è sinceramente convinto che quella sia la strada da perseguire ed esistono numerose testimonianze al riguardo. Prendiamo l’esempio del “Regolamento de la Empresa consolidada” elaborato dal Che quando era ministro dell’industria. Si può leggere che al direttore, nominato dal Ministero, spetta “di conoscere e amministrare in tutte le sue fasi di pianificazione, organizzazione, realizzazione e controllo, tutte le funzioni e i compiti dell’impresa consolidata, come di amministrare i suoi mezzi e i suoi impianti e tutto ciò che le concerne, e rappresentarla in ogni circostanza” (E. Guevara, op. cit., pag 509).
L’Unione Sovietica, nonostante tutte le deformazioni, che avrebbero alla fine degli anni ottanta portato al crollo del sistema, a quel tempo poteva vantare grandi successi nel campo dell’economia, della scienza, della cultura. Questo accadeva malgrado il controllo burocratico, grazie all’abolizione del sistema di mercato ed alla pianificazione delle risorse economiche. Ecco la prima impressione del Che in visita in Urss: “Anche io, arrivando in Unione Sovietica, mi sono sorpreso perché una delle cose che si nota di più è l’enorme libertà che c’è (…) l’enorme libertà di pensiero, l’enorme libertà che ha ciascuno di svilupparsi secondo le proprie capacità ed il proprio temperamento” (E. Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi, 1969, pag. 946) Queste parole furono pronunciate nel 1961, cinque anni dopo la repressione della rivoluzione operaia ungherese da parte delle truppe di Mosca.
E sulla strategia di sviluppo del socialismo, parlando ancora dell’Urss, si può notare quanta confusione era presente nelle idee del rivoluzionario argentino: “Mi ascolti bene, ogni rivoluzione, lo voglia o no, le piaccia o no, sconta una fase inevitabile di stalinismo, perché deve difendersi dall’accerchiamento capitalista” (K. S. Karol, La guerriglia al potere, Mondadori 1970, pag.53).
Lo stalinismo qui viene trattato come una malattia dell’infanzia. In realtà è stato un processo di controrivoluzione politica portato avanti da una casta, la burocrazia di cui Stalin era appunto il rappresentante, che non si esaurì affatto con la morte di quest’ultimo. Comportò l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia bolscevica, quella della rivoluzione d’Ottobre. Il filo della tradizione rivoluzionaria fu interrotto in numerosi paesi. Per questo le posizioni antistaliniste nel movimento comunista, come quella di Trotskij, erano debolissime in paesi come Cuba, e spesso venivano esposte in maniera del tutto caricaturale. Di tutto questo Guevara se ne sarà reso probabilmente conto negli ultimi anni della sua vita.
Il problema per Cuba in quegli anni non era opporsi alla cooperazione con l’Unione Sovietica che non era solo inevitabile, ma necessaria. Il problema nasceva dalla trasposizione integrale del modello sovietico nell’isola, e consisteva nel pensare che un modello burocratico come quello potesse mantenersi all’infinito e che al suo interno Cuba potesse ritagliarsi un ruolo, immutabile e garantito, di fornitore di materie prime e generi alimentari (zucchero e nickel) senza curarsi più di tanto di uno sviluppo armonico dell’economia.
Il dibattito sull’economia
Guevara comincia a porsi i primi interrogativi osservando i problemi che affliggevano la gestione dell’industria, settore di cui era ministro. Nel dibattito sul “sistema di calcolo di bilancio” in cui il Che viene accusato di introdurre misure capitaliste, egli spiega: “Ci sono molte analogie con il sistema di calcolo dei monopoli, ma nessuno può negare che i monopoli hanno un sistema di calcolo molto efficiente” e critica il sistema utilizzato dall’Urss che produce disuguaglianze, prevedendo come asse centrale gli incentivi individuali (soprattutto agli amministratori). Sicuramente Guevara coglie uno degli aspetti centrali del pensiero di Lenin, quando introdusse la Nep, vale a dire utilizzare dei metodi capitalisti in una situazione di grande arretratezza ed isolamento, aspettando la svolta decisiva che sarebbe arrivata con la rivoluzione in altri paesi. A differenza del marxista russo, tuttavia, il Che non vede nella democrazia operaia la chiave di volta per lo sviluppo dell’economia pianificata. In ogni sistema economico ci deve essere una parte della società interessata a che esso funzioni. Nell’economia capitalista questo ruolo è svolto dai padroni, in un’economia pianificata protagonista non può che essere la classe operaia.
Inoltre Lenin considerava la Nep come un espediente: era necessario introdurre misure capitaliste per “tirare il fiato” fintanto che non avesse avuto successo la rivoluzione nel resto dell’Europa, unica soluzione ai problemi dello Stato sovietico. Un approccio internazionale alla risoluzione delle problematiche economiche è del tutto assente da parte di Castro e Guevara in quel periodo.
Nella discussione sugli incentivi che si sviluppa in quel periodo Guevara critica il ricorso esclusivo agli incentivi materiali ed economici puntando sugli incentivi morali senza però legarli mai al controllo operaio sui mezzi di produzione.
Uno dei meccanismi più importanti nel suo modello di organizzazione della società era costituito dall’emulazione socialista, vale a dire lo stakhanovismo, considerato come “un’arma per aumentare la produzione ed uno strumento per elevare la coscienza delle masse” (citato nel libro di Carlos Tablada Perez, Economia, etica e politica nel pensiero di Ernesto Che Guevara, pag. 209). Un metodo competitivo tuttavia, pure se “socialista”, impiantato su un’economia ben lontana da quella dell’abbondanza del vero socialismo, non può che portare a favoritismi e disuguaglianze, tanto più in un’economia arretrata.
Il dibattito sull’economia in quegli anni a Cuba è quindi del tutto falsato. Si può discutere, certo, su quanto siano importanti gli incentivi materiali rispetto a quelli morali, o viceversa.
Ambedue tuttavia, inseriti in un contesto di assenza di ogni forma di controllo operaio, possono produrre gravi distorsioni all’interno dell’economia pianificata. Si ritorna sempre al problema evidenziato da Trotskij: “L’economia pianificata ha bisogno della democrazia come il corpo umano ha bisogno dell’ossigeno.”
Guevara invece darà sempre più importanza al volontarismo, allo sviluppo dell’uomo nuovo, come si può notare in uno dei suoi scritti più famosi: Il socialismo e l’uomo a Cuba. Cercare di costruire “l’uomo nuovo”, libero da alienazione ed egoismo, deve essere certamente una delle priorità di un comunista quando si pone l’obiettivo di sviluppare una società socialista, ma questo processo deve avere delle precise basi materiali nella società e prevedere il ruolo decisivo della classe lavoratrice nel nuovo sistema.
Sul rapporto tra i vertici e le masse nello stato socialista cubano, è interessante l’illustrazione fornita dal Che stesso ne Il socialismo e l’uomo a Cuba: “L’iniziativa parte generalmente da Fidel o dai massimi dirigenti della rivoluzione, e viene spiegata al popolo che la fa sua. Altre volte il partito ed il governo realizzano esperienze locali per poi generalizzarle, seguendo lo stesso procedimento” (E. Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, pag. 700).
E ancora: “Nelle grandi adunate pubbliche si osserva qualcosa di simile al dialogo di due diapason in cui le vibrazioni di uno producono nuove vibrazioni nell’altro. Fidel e le masse cominciano a vibrare in un dialogo di intensità crescente fino a raggiungere l’unisono in un finale improvviso, coronato dal nostro grido di lotta e vittoria” (E. Guevara, op. cit. pag. 701).
Tutto molto lontano dai principi di Lenin, illustrati in Stato e rivoluzione e già citati in questa rivista: da “tutto il potere ai consigli”, alla rotazione delle cariche elettive, e cosi via.
Più avanti il Che si pone il problema della partecipazione delle masse ai processi decisionali quando spiega che “è necessario accentuare la sua partecipazione cosciente, individuale e collettiva, in tutti i meccanismi direttivi e produttivi” (op. cit., pag. 704). Si mette alla ricerca di “nuove istituzioni rivoluzionarie”: “Questa istituzionalizzazione della rivoluzione non si è ancora attuata. Stiamo cercando qualcosa di nuovo che permetta l’identificazione perfetta tra il governo e la comunità nel suo insieme” (op. cit.,pag. 704). Tuttavia non ne sa indicare i mezzi per farlo. Ciò fornisce la misura di quanto profonda sia stata la frattura operata dalla burocrazia rispetto alle idee del vero bolscevismo e dell’ottobre sovietico, tanto che sinceri rivoluzionari come il Che faticano enormemente per elaborare un’alternativa complessiva allo stalinismo.
Su questo ultimo aspetto, sintomatica la posizione estrema che egli sviluppò sulla questione dei sindacati: “Di una cosa sono sicuro, ed è che il sindacato è un freno che va distrutto, ma non con il sistema di esaurirlo: bisogna distruggerlo come si dovrebbe distruggere lo Stato in un momento” (questa e tutte le altre citazioni degli inediti del Che sono riprese dagli articoli di Antonio Moscato apparsi su Liberazione, tra settembre ed ottobre 2005).
Questa presunta inutilità del ruolo dei sindacati nell’economia pianificata non tiene conto che anche il migliore sistema di democrazia operaia non sarà mai un sistema perfetto, perché rifletterà gli antagonismi delle varie classi, non ancora scomparse. Potrà capitare che i lavoratori dovranno organizzarsi per difendersi da possibili soprusi che il loro Stato, lo Stato operaio, potrà commettere. Di qui la necessità di una struttura sindacale nell’epoca di transizione. Questa era la posizione difesa da Lenin nel dibattito sui sindacati nella Russia sovietica del 1920. In quel dibattito Lenin si scontrò con Trotskij, che in seguito ammise di aver avuto torto.
Internazionalismo o sciovinismo?
Il principale punto di scontro portato avanti da Guevara (e, almeno nel periodo iniziale della rivoluzione, anche da Fidel) rispetto all’Unione Sovietica è soprattutto sull’internazionalismo. Negli anni sessanta Cuba lancia numerosi appelli alla rivoluzione socialista in America Latina, contenuti nel messaggio alla Tricontinentale e nella seconda dichiarazione dell’Avana, ambedue scritti dal Che. La necessità di estendere la rivoluzione è una delle principali intuizioni del Che, che mal si concilia con la “coesistenza pacifica”, propugnata da Krusciov. Per Guevara il socialismo in un solo paese era semplicemente impossibile.
Gli inediti rivelano una posizione durissima di Guevara: “L’internazionalismo è rimpiazzato dallo sciovinismo (da poca potenza o da piccolo paese), o dalla sottomissione all’Urss, mantenendo le discrepanze tra altre democrazie popolari (Comecon).”
Gli ultimi anni del Che sono caratterizzati da una crescente sfiducia sul ruolo dei paesi del “socialismo reale”, e gli inediti inseriscono in un contesto ancora più chiaro il suo discorso al Secondo seminario economico afroasiatico, svoltosi ad Algeri nel Febbraio 1965:
“Come si può parlare di ‘reciproca utilità’ quando si vendono ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che costano sudore e sangue e patimenti ai paesi arretrati, e si comprano ai prezzi del mercato mondiale le macchine prodotte dalle grandi fabbriche automatizzate di adesso? Se stabiliamo questo tipo di relazione tra i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in un certo modo, complici dello sfruttamento imperialista. (…) I paesi socialisti hanno il dovere morale di farla finita con la loro tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori” (Guevara, op. cit., pag. 1422).
Insieme a questi ragionamenti troviamo una critica pungente alla burocrazia, definita “un freno per l’azione rivoluzionaria”, ma anche “un acido corrosivo che snatura (…) l’economia, l’educazione, la cultura e i servizi pubblici”, al punto che “ci danneggia più dell’imperialismo stesso”.
Il Che ed il trotskismo
La ricerca di una diversa via al socialismo fu senz’altro uno delle principali preoccupazioni del Che nell’ultimo periodo. La sua tragica fine ha interrotto questo percorso, per cui è difficile oggi stabilire quale sarebbe stato l’approdo. Di sicuro Guevara aveva rotto con lo stalinismo.
Per il Che “l’internazionalismo proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria”, scontrandosi così con il nazionalismo dei partiti comunisti ufficiali e con una visione strettamente “cubana” di tanti rivoluzionari nell’isola. Fino alla fine della sua vita la bussola della sua attività politica sarà l’estensione della rivoluzione in tutta l’America Latina. Non aveva nessuna fiducia sulla presunta natura progressista delle varie borghesie nazionali, difesa da Mosca e Pechino: “Le borghesie nazionali hanno perso ogni capacità di opporsi all’imperialismo (se mai l’ebbero sul serio) e ne costituiscono, anzi, il vagone di coda. Non c’è alternativa ormai: o rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione” (Guevara, op. cit., pag. 666).
Entra in conflitto, come abbiamo visto, con la burocrazia sovietica su questi e su diversi altri temi. Ma pensare che fosse diventato “trotskista”, come alcuni storici “alternativi” pretendono, non corrisponde alla realtà. Significa commettere un torto alla stessa figura di Ernesto Guevara, che aveva elevato l’onestà e il rigore intellettuale a (giusti) principi. Guevara era un rivoluzionario che stava riflettendo profondamente sulle sue esperienze politiche e sulle prospettive per la rivoluzione. Nell’ultimo periodo della sua vita legge Trotskij, come rivelano i suoi quaderni ritrovati a La Paz, concentrandosi su libri come La rivoluzione tradita e Storia della rivoluzione russa, di cui ricopia pagine intere. Ma la sua riflessione rimarrà incompleta.
Le scelte di sviluppare una lotta di guerriglia in Congo prima e in Bolivia poi lo denotano, rafforzate da alcuni stralci degli inediti oggi accessibili. Quando Guevara si domanda se il proletariato rappresenti ancora la forza trainante del processo rivoluzionario, la risposta è categorica: “I casi della Cina, del Vietnam e di Cuba dimostrano la scorrettezza di questa tesi. Nei primi due casi la partecipazione del proletariato è stata nulla o scarsa, a Cuba la lotta non è stata diretta dal partito della classe operaia, ma da un movimento policlassista radicalizzatosi dopo la presa del potere politico.” In realtà a Cuba lo sciopero generale, che paralizzò il paese per una settimana, fu decisivo per la presa del potere. La classe lavoratrice era entrata con prepotenza sulla scena della rivoluzione, ma senza alcun organismo di rappresentanza, paragonabile a quello che erano stati i soviet nel 1917 in Russia, e ripose la sua fiducia nella guerriglia di origine contadina. Questo facilitò enormemente l’ascesa di una burocrazia che si pose alla testa dell’apparato dello Stato. In Cina o in Vietnam la lotta di guerriglia portò sì alla vittoria contro l’imperialismo e all’abbattimento del capitalismo ma il regime che si impose fu fin dall’inizio quello di uno Stato operaio deformato a immagine e somiglianza dell’Urss.
Una delle lezioni della rivoluzione russa del 1917 è stata proprio che anche in un paese arretrato il proletariato gioca un ruolo decisivo, non importa quanto sia minoritario dal punto di vista numerico.
Il marxismo non sottovaluta l’importanza del movimento contadino. Senza l’appoggio delle masse dei contadini poveri, milioni dei quali impegnati al fronte, la rivoluzione d’ottobre non sarebbe mai stata possibile. Ma fu la classe operaia industriale, pur rappresentando una minoranza della società russa (poco più del 10%), a guidare il movimento rivoluzionario. È nell’industria che, in ogni paese dove si siano instaurati rapporti capitalistici di produzione, si gioca lo scontro decisivo. Il ruolo dirigente nella lotta per il socialismo è assegnato alla classe operaia non per diritto divino ma per il ruolo che occupa nella produzione.
L’esperienza delle lotte anticoloniali in tutti quegli anni è chiara: nei paesi dove il capitalismo è stato abbattuto e dove la guerriglia contadina ha avuto un ruolo guida in questo processo, non si è instaurato uno Stato operaio sano, ma uno di natura burocratica costruito ad immagine e somiglianza dei regimi di Mosca e di Pechino.
Troviamo del tutto comprensibile il fatto che Che Guevara, formatosi politicamente negli anni cinquanta e sessanta, non considerasse il proletariato dei paesi occidentali come decisivo, visto il lungo silenzio del movimento operaio in quei paesi, favorito dal boom economico del dopoguerra. Ma fu sbagliato elevare una fase di riflusso delle lotte operaie a teoria generale. Purtroppo il Maggio francese e l’Autunno caldo italiano arrivarono in ritardo per permettere al Che di rettificare le sue analisi. Nel tentativo di creare “due, tre, cento Vietnam” Guevara generalizzò i metodi sperimentati nella rivoluzione cubana. La lotta si doveva sviluppare fuori dalle città, il partito non doveva strutturarsi come avanguardia della classe operaia. Queste teorie portarono in molti paesi dell’America Latina a strappare dalle fabbriche e dalle città i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie al fine di concentrarli nelle campagne, persino in paesi ad alto tasso di industrializzazione come Uruguay o Argentina! Era il “fochismo”, teoria così riassunta nelle parole del Che: “Non è sempre necessario aspettare che si diano tutte le condizioni per la rivoluzione; il focolaio insurrezionale può crearle” (E. Guevara, op. cit., pag. 284).
La storia del movimento operaio dimostra proprio il contrario: i rivoluzionari intervengono nelle rivoluzioni, non le creano. E le esperienze del Congo e della Bolivia suffragano questa nostra ipotesi. Nonostante tutti gli sforzi, ed anche grazie a causa del carattere corrotto delle leadership nazionaliste della guerriglia congolese, il periodo passato in Congo diverrà “l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte”, secondo alcuni compagni di avventura del Che.
I gruppi di studenti congolesi, addestrati in Cina ed in Bulgaria, come racconta Guevara, “non avevano alcuna intenzione di rischiare la vita in combattimento”, appena arrivati la loro preoccupazione era di chiedere 15 giorni di licenza e protestavano “perché non avevano un posto dove lasciare i bagagli e non c’erano armi pronte per loro. Una situazione davvero comica, se non fosse stato così triste vedere l’atteggiamento di quei ragazzi su cui la rivoluzione aveva riposto le proprie speranze” (L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte, a cura di P.I. Taibo II, F. Escobar, F. Guerra, 1994, pag. 233-234).
In Bolivia, il ruolo di boicottaggio cosciente svolto dalla direzione del Partito comunista boliviano fu eclatante. Addirittura Fidel Castro in una delle sue prefazioni al Diario di Bolivia accusa di “tradimento” i dirigenti del Pcb. Ma da solo ciò non può bastare a spiegare il fallimento della spedizione cubana in Bolivia.
Guevara si recò a creare dal nulla un movimento guerrigliero nella regione attorno a Nancahuazu, una zona spopolata, inadatta alla guerriglia, senza praticamente alcuna base d’appoggio nelle città. Qui vediamo tutti i limiti del fochismo. Anche se ammettiamo che l’intento del Che era quello di creare “una scuola politico-militare per guerriglieri boliviani” e “non andava a calare una guerriglia dall’alto”, come argomenta Antonio Moscato in un suo recente libro, la sostanza della questione non cambia affatto. Formare un’avanguardia cosciente e disposta ai più grandi sacrifici è uno dei primi compiti di un rivoluzionario. Ma altrettanto importante è che questa avanguardia non si separi dalle masse, e soprattutto che operi fra quei settori delle masse che sono decisivi per un cambiamento rivoluzionario
In Bolivia esisteva un forte movimento operaio, la cui avanguardia erano i minatori dello stagno. Dopo qualche anno il movimento delle masse spazzò via la dittatura, nel 1970, e aprì la pur breve esperienza della “Comune” di La Paz nel ’71. Dove si trovavano le risorse migliori per una lotta rivoluzionaria veramente efficace?
Che Guevara ha pagato con la vita i suoi errori. Discutere oggi il suo lascito politico e teorico è un compito indispensabile. Ma non può essere svolto col metodo scolastico di chi pensa di selezionare le “giuste” citazioni per accreditare alla propria corrente politica una maggiore vicinanza con la figura del Che. Il Che era un sincero rivoluzionario, e lo studio del suo pensiero assume significato attuale in primo luogo in relazione alle vicende passate, presenti e future della rivoluzione cubana e latinoamericana.
Per questo pensiamo che, tra gli insegnamenti del Che, ce ne sia uno più che mai attuale: la lotta per la rivoluzione socialista in tutto il continente latinoamericano, l’internazionalismo non come parola astratta, ma come via maestra del movimento rivoluzionario (e non a caso proprio su questo il Che e la rivoluzione cubana dei primi anni si trovarono in aspro conflitto con i partiti comunisti di osservanza sovietica). Qui risiede l’unica salvezza per la rivoluzione cubana. Una lotta più che mai attuale oggi, quando rivoluzioni e mobilitazioni di massa si susseguono, dal Venezuela alla Bolivia, dall’Ecuador all’Argentina, che ci vede impegnati nel sostenere politicamente e materialmente le forze del marxismo che operano in quei paesi.
Gennaio 2007