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Nello specchio della scuola… il volto di Confindustria

Il nuovo ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi ha dichiarato che il prossimo anno deve essere un anno fondante di una idea diversa di scuola. Non è una dichiarazione rituale. Bianchi vuole lasciare il segno nel sistema scolastico della prossima generazione e questa ambizione è in sintonia con il progetto del governo Draghi.

La visione di Bianchi sta al centro del rapporto finale del Comitato degli esperti istituito dall’ex ministro Azzolina ed è ben esposta nel suo libro Nello specchio della scuola, pubblicato a fine 2020.

Il punto di vista da cui derivano tutte le proposte è quello di un settore di classe dominante italiana, di aziende ad alta concentrazione tecnologica, prevalentemente votate all’export, “essenzialmente il comparto meccanico nell’area di Milano, Bologna e Venezia” “che vedono nella mancanza di risorse umane un limite alla loro crescita”, e dunque necessitano che la scuola formi queste “risorse umane”, con una totale flessibilità di programmi e metodi, da riplasmare a seconda delle necessità della singola azienda.

Un modello in cui tirocini e alternanza scuola-lavoro passino dall’essere singoli progetti a costituire l’essenza della formazione per la maggioranza degli studenti.

Questa teoria deriva direttamente dal curriculum del ministro. Rettore dell’Università di Ferrara fino al 2010, poi assessore regionale in Emilia-Romagna a “scuola, formazione professionale, università, ricerca e lavoro”, ha curato proprio questa integrazione (o per meglio dire subordinazione) fra scuola, università e aziende a livello emiliano.

 

Formazione professionale e Its: il ritorno al doppio binario

Con rara ipocrisia Bianchi ci spiega che l’Italia soffre di uno dei più alti tassi di dispersione scolastica (13,3%, oltre a un 20% di studenti che terminano il ciclo ma non acquisiscono le conoscenze). L’innalzamento da 14 a 16 anni dell’obbligo scolastico non è stato sufficiente. Ma anziché creare le condizioni perché tutti possano avere un’istruzione superiore di qualità fino ai 18 anni e rendere l’università accessibile a tutti, la sua risposta un sostanziale allargamento di una Formazione professionale (Fp) che finisca a 16 anni.

Questo vuol dire che un ragazzo di 14 anni, finite le medie, deve rinunciare alla possibilità di una formazione superiore e universitaria, per fare invece un breve corso che gli dia solo quelle poche competenze per entrare in azienda. Addirittura dei due (o tre) anni di Fp, l’ultimo sarebbe da passare già in azienda, trasformandosi di fatto in un primo anno di inserimento a 16 anni non retribuito.

L’opzione limite è ridurre l’intera scuola superiore dai 5 ai 4 anni, con una Fp di 3 anni più uno ulteriore di inserimento in azienda.

A un livello appena superiore di competenza ci sarebbero poi gli Its (Istituti tecnici superiori), citati da Draghi stesso nel primo discorso al Senato, che Bianchi definisce come “un’offerta formativa biennale post-secondaria professionalizzante, di livello terziario ma non universitario, rivolta a favorire l’inserimento diretto nel mondo del lavoro tramite corsi gestiti insieme da scuole e imprese” sul modello tedesco.

Sempre meno studenti al liceo e poi all’università, gli altri inseriti a 14-16 anni in una forza lavoro di qualifica decrescente: Its, istituti tecnici, istituti professionali, Fp. Questa selezione peraltro esiste già nei fatti, ma questa proposta la codifica in un ritorno a prima delle lotte del ‘68, quando il movimento studentesco e operaio impose che almeno legalmente tutti i corsi superiori potessero dare accesso all’università.

Le proporzioni degli accessi li detterà il padronato, a seconda delle esigenze. Se infatti Bianchi giustifica tutto con lo slogan della nuova rivoluzione digitale, poi ricorda lui stesso che “dall’altra parte sussistono attività talmente povere di competenze da non giustificare l’acquisto di macchine automatizzate o di conoscenze tecniche più elaborate”. A chi deve solo far fatica insomma non serve dare la cultura, ma neanche conoscenze tecniche elaborate. La voce del padrone.

 

Autonomia scolastica

L’altro caposaldo l’esasperazione dell’autonomia scolastica. Dietro a una retorica sulla solidarietà delle “comunità locali”, viene meno il ruolo dello Stato nel garantire il diritto universale all’istruzione, e le singole scuole sono lasciate in balia delle aziende locali. Si disarticola anche l’organizzazione interna della vita scolastica, a partire dal “superamento del gruppo classe” per privilegiare il “rapporto personale con l’adulto di riferimento” (che potrà essere un professore ma anche un tutor aziendale).

Il problema del sovraffollamento delle scuole nella crisi Covid viene usato non per aumentare gli spazi scolastici, ma per dire che bisogna portare gli studenti fuori dalle scuole, nelle aziende o in attività gestite da associazioni di volontariato.

Questo in una privatizzazione per cui oltre ai soliti favori alle scuole paritarie, Fp e Its sarebbero direttamente partecipate da enti privati anche in fase gestionale.

Il perno di questa nuova organizzazione è il dirigente scolastico, che non risponde più a Roma ma deve essere “il promotore di una nuova alleanza con il suo territorio”. Interfaccia delle aziende e amministrazioni locali dentro la scuola, con pieni poteri su studenti e lavoratori, secondo una dinamica già vista dall’introduzione dell’autonomia scolastica a oggi.

L’alternanza scuola-lavoro sia d’esempio: una parte consiste in puro e semplice sfruttamento in azienda, un’altra di attività finte senza valore formativo, per tutti c’è una gestione autoritaria.

Implicitamente questo piano significa anche l’abbandono dell’istruzione pubblica nel Mezzogiorno e nelle zone deindustrializzate.

La scuola ha bisogno invece di un enorme piano di investimenti per garantire strutture e personale; di un piano formativo completo, umanistico e scientifico; di laboratori scientifici e informatici nelle scuole. Deve essere dato l’accesso garantito e gratuità di tutto il ciclo di formazione fino all’università. Serve una gestione democratica da parte dei lavoratori e degli studenti.

Il problema del legame con la produzione, infine, non si risolve subordinando la scuola al profitto privato, ma piuttosto riorganizzando la produzione stessa per gli interessi sociali, sotto il controllo dei lavoratori. Allora sì ci potrà essere un’integrazione virtuosa con la formazione e la ricerca, a partire dalle attuali urgenze sul piano medico.

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