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3 Dicembre 2018di Arturo Rodriguez
La teoria è fondamentale per qualsiasi movimento politico. Serve ad ordinare e comprendere la realtà, unificando e generalizzando le esperienze del passato. È la bussola che orienta e che risulta decisiva per elaborare le strategie e i programmi di un partito. È particolarmente importante per una sinistra di classe, che ha di fronte il compito fondamentale di abbattere il vecchio regime e costruire una società nuova, battendosi contro le forze reazionarie della classe dominante.
Una delle teorie che sta prendendo piede nella sinistra radicale europea è quella “post-marxista” elaborata da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe.
Sarà oggetto della nostra critica, in quanto la consideriamo una pericolosa negazione idealista del marxismo.
Una teoria idealista
Ernesto Laclau (1935-2014), pensatore argentino che ha passato gran parte della sua carriera professionale nell’università di Essex, in Inghilterra, proviene da una tradizione marxista. Tuttavia già a partire dagli anni ’80 mise in discussione i principi basilari del marxismo, un processo che culminò con la pubblicazione di Egemonia e strategia socialista, scritto nel 1985, con la compagna e collaboratrice, la politologa belga Chantal Mouffe.
Questa rinuncia del marxismo, che loro stessi definirono “post-marxismo”, venne sviluppata in Emancipazione e differenza (1996) e nel più noto La ragione populista (2005).
Le loro teorie si basano in primo luogo sull’abbandono della concezione materialista della società. Uno dei fondamenti del marxismo è l’idea che “l’essere sociale determina la coscienza”: vale a dire che le condizioni di vita, la posizione di un individuo nella struttura economica e sociale, condizionano le sue idee, il suo modo di vedere il mondo. Allo stesso modo, la forma di produzione dominante in una società e il suo livello di sviluppo determinano, in ultima istanza, la cultura e il sistema politico.
Non sono pertanto le idee che guidano la storia, ma piuttosto la storia, intesa come sviluppo tecnico ed economico della società che, in ultima istanza, determina le idee.
Il progresso storico che fa da traino allo sviluppo delle forze produttive, attraverso grandi crisi e rivoluzioni, determina sistemi sociali ogni volta più complessi ed articolati. Si tratta di un processo non lineare ma brusco e conflittuale, in quanto i cambiamenti profondi sono il frutto del conflitto costante tra il rafforzamento di nuovi e il deperimento di vecchi fattori.
Laclau e Mouffe respingono tutto questo, respingono qualunque “morfologia soggiacente della storia”, come affermano loro stessi, e affermano che lo sviluppo economico dipende dalla politica e che questa dirige fondamentalmente il processo storico, riprendendo il termine, coniato da Mario Tronti, di “autonomia del politico” per riferirsi all’indipendenza e alla supremazia della politica sull’economia.1
Di conseguenza respingono anche l’esistenza di grandi leggi e processi storici determinati: per loro la storia è completamente aleatoria, prigioniera dell’incarnazione della politica – la storia è “radicalmente aperta”, come affermano.
Queste posizioni sono in contraddizione con tutta la storia dell’umanità. Un’analisi generale della storia mostra indubbiamente che le nuove filosofie e i sistemi politici sorgono nel seno di vecchi sistemi economici e sociali.
Non a caso lo Stato nasce, nelle regioni più prospere, con la rivoluzione economica neolitica, che diede luogo all’agricoltura e all’allevamento di bestiame. Il cristianesimo irruppe sulla scena con la crisi dell’Impero romano e dello schiavismo. Il protestantesimo, l’illuminismo e il liberalismo prendono piede con la crisi del sistema feudale e agli albori della borghesia capitalista. Infine il socialismo moderno sorge con il proletariato e la rivoluzione industriale del XIX secolo.
Il livello di sviluppo tecnologico ed economico di una società stabilisce i limiti oltre i quali le idee difficilmente possono avanzare, e, anche se queste indiscutibilmente svolgono un ruolo chiave nella storia, si muovono all’interno di quei limiti che lo sviluppo delle forze produttive gli impone.
Le idee svolgono un ruolo non come fattori esterni allo sviluppo materiale, ma come sua parte più cosciente e sofisticata, poichè per i marxisti la coscienza umana è un prodotto della materia, con caratteristiche e meccaniche proprie, ma pur sempre parte di una realtà materiale che la condiziona e dalla quale non si può dissociare.
Il “discorso” e il linguaggio
Con il loro rifiuto del materialismo, Laclau e Mouffe affermano che la realtà si costruisce a livello “discorsivo”, vale a dire al livello dei simboli e del linguaggio. Ci rassicurano sul fatto che per loro non è in discussione che esista una realtà al di fuori della mente umana, ma affermano altresì che questa realtà è priva a priori di attributi e valori, e che tutto dipende dal linguaggio umano.
Si tratta di un’argomentazione contradditoria: dire che la realtà è priva di qualunque valore previo alla concezione soggettiva della coscienza umana, equivale a dire che niente esiste al di fuori delle idee e del linguaggio, che tutta la realtà si costruisce esclusivamente in quell’ambito.
Un sasso, un fiume o un albero esistono solo come entità “discorsive”, esistono solo nel linguaggio umano. “La nostra analisi”, sostengono, “respinge la distinzione tra pratiche discorsive e non discorsive (…) nella misura in cui nessun oggetto si da fuori dalla sua condizione discorsiva di apparizione”.2
Perdendo qualunque punto di riferimento materiale, le idee e il linguaggio diventano completamente aleatori e la storia un percorso arbitrario di discorsi fortuiti.
In realtà, così come le idee, anche la politica e la cultura in generale, così come il linguaggio, sono subordinati alla realtà materiale. Il linguaggio è il prodotto delle generalizzazioni e delle astrazioni che gli umani stabiliscono in base agli oggetti e ai processi del mondo materiale, che percepiamo attraverso i nostri cinque sensi e che cristallizziamo in parole e concetti. Disponendo di un alto grado di astrazione, il linguaggio possiede una certa autonomia sui fenomeni che lo originano, ed è pertanto dinamico e mutevole (anche perché la percezione umana dei processi naturali si approfondisce con l’avanzamento della tecnica e con l’apparizione di sistemi sociali sempre più complessi). Ma detto questo viene plasmato con l’argilla della realtà materiale che impone limiti e condizioni ben definite.
Per i marxisti, le identità politiche funzionano in maniera simile al linguaggio. Generalizzano, omogeneizzano e ordinano, in modo più o meno cosciente, l’esperienza di distinti gruppi sociali. All’essere generalizzazioni di una realtà mutevole e relativamente eterogenea, le identità politiche non si identificano completamente con i gruppi sociali e le classi – ma senza ombra di dubbio ne sono un’emanazione.
La “democrazia radicale”
Laclau e Mouffe riprendono la teoria de “l’autonomia del politico” per affermare che la formazione delle identità, della coscienza politica, dipendono dal discorso, dalla versatilità dei distinti partiti nel convincere e mobilitare le persone e nell’“articolare” nuove affinità.
Per i due autori non esistono interessi di classe, né i salariati hanno un interesse per il socialismo: gli interessi e le attitudini delle masse sono totalmente plasmabili, soggetti agli alti e bassi della politica.
“Se le forze sociali”, sostiene Laclau “sono l’aggregazione di una serie di elementi eterogenei uniti attraverso un’articolazione politica, rimane chiaro che questa è costitutiva e basilare, e non l’espressione di alcun movimento soggiacente più profondo”.3
L’abilità di trasformare la coscienza della popolazione viene definita “egemonia”, e dipende in ultima analisi dalla capacità di sfruttare e appropriarsi di “significanti vuoti”: simboli e concetti sufficientemente trasversali e imprecisi da poter radunare tutta la società e costruire un “blocco storico”, “un popolo”, una comunità con un’identità politica ampiamente condivisa, generalmente costituita in modo antagonista in base a un “loro” e ad un “noi”.
Questi simboli “vuoti” sono solitamente concetti vaghi e con accezioni molto differenti come patria, libertà o democrazia, con i quali quasi tutti possiamo identificarci.
Laclau e Mouffe rivendicano così che la sinistra abbandoni la lotta per il socialismo, concetti considerati “deterministi” e “teleologici”, per basarsi sui “significanti vuoti”, in una strategia che chiamano di “democrazia radicale”.
Emerge con forza una contraddizione: se la politica è autonoma e non dipende dalla posizione economica degli individui, dalla posizione di classe, tutti i significanti saranno vuoti, in quanto qualsiasi simbolo o concetto può risultare persuasivo. Ma proprio per questo, il fatto che solo termini vaghi e confusi possano fare appello alla totalità della popolazione, dimostra che le classi sociali generano punti di vista e interessi contradditori, e che possono essere condivisi da tutti solo concetti estremamente fumosi che assumono significati differenti a seconda della classe sociale che li fa propri.
Se per un imprenditore la democrazia significa uno Stato efficiente che tuteli e protegga gli interessi dei capitalisti senza intromettersi nei suoi affari, per i lavoratori significa la possibilità di prendere il controllo sul proprio destino al di fuori di un sistema che li soffoca.
La teoria dei “significanti vuoti” ignora anche il fatto che la coscienza può cambiare con grande rapidità, le masse apprendono con l’esperienza e l’accettazione di simboli e concetti può subire ogni tipo di ribaltamento nella misura in cui le idee e i programmi sono messi alla prova.
Un periodo rivoluzionario, ad esempio, rompe radicalmente con le idee del passato e apre la porta a concetti radicalmente nuovi. È così che nel gennaio del 1905 in Russia, all’inizio della prima rivoluzione, gli operai manifestavano con l’immagine dello zar: questi erano “significanti vuoti” in quel momento.
Ma dalla notte alla mattina, con il massacro della domenica di sangue, quando lo zar Nicola II ordinò di sparare sulla folla, la sua immagine passò dall’essere venerata ad essere profondamente odiata.
La nozione del “significante vuoto” è statica e formalista. Si basa sulle ideologie e sull’immaginario borghese che pullula nelle fasi di riflusso e di spoliticizzazione, quando per inerzia e per l’apatia delle masse vengono generalmente accettati i mantra della classe dominante.
La maggior parte dei “significanti vuoti” di cui parlano Laclau e Mouffe, come libertà e democrazia, vengono dalle grandi rivoluzioni borghesi del XVIII secolo. In quei processi furono utilizzati dalla borghesia per unificare la nazione nella lotta contro l’ancien régime.
Oggi giorno questi termini possono anche assumere forza e rilevanza, ma non in maniera astratta. Da tempo la borghesia ha cessato di svolgere un ruolo progressista e la nazione è profondamente divisa tra sfruttati e sfruttatori. Termini come libertà o democrazia hanno senso se vengono associati a contenuti rivoluzionari e si collegano alla lotta contro la classe dominante.
Laclau e Mouffe contrappongono la loro visione incerta e vacillante al socialismo, che non solo viene etichettato di determinismo, ma viene anche considerato come un approdo che porrebbe fine al conflitto e alla politica in quanto tale. Per quanto sia discutibile, sorvoliamo sull’idea che in una società senza classi non ci sarebbe più politica, rischieremmo di aprire una discussione accademica che si pone al di fuori degli obiettivi di questo testo.
Ci interessa però discutere della società attuale e di come le questioni che affliggono le masse sono strettamente vincolate al capitalismo: la disoccupazione, la precarietà, la mancanza di prospettive per i giovani, le disuguaglianze, l’austerità, la distruzione dell’ecosistema, la guerra, il razzismo, il fondamentalismo, ecc.
L’aggravarsi di questi problemi riflette il fatto che il capitalismo è giunto ai suoi limiti come sistema sociale ed economico.
Per quanto il mercato abbia svolto un ruolo progressista nell’economia frammentata e sconnessa del Medioevo, in un mondo dominato dall’economia di scala e dai monopoli, il capitalismo conduce allo sfruttamento sempre più acuto della classe lavoratrice, alla crisi di sovrapproduzione e alla lotta per il dominio imperialista: il che in ultima istanza significa al declino, al caos e al disfacimento morale e materiale.
Questo nodo gordiano può essere tagliato solo con misure socialiste: con l’espropriazione e pianificazione coordinata e democratica delle leve dell’economia, nell’ottica di soddisfazione dei bisogni sociali.
Qualsiasi movimento che lotti conseguentemente per risolvere questi problemi tenderà progressivamente al socialismo.
L’abbandono della classe operaia
Laclau e Mouffe sostengono che la frammentazione della classe operaia e la sua identità mutevole implica che questa non esista come tale. Di conseguenza, il marxismo sarebbe scorretto perché esso afferma che la classe operaia dovrebbe essere un’entità omogenea, “assolutamente unita” e “trasparente con se stessa”,4 e con una coscienza di classe chiara e inalterabile. Non essendo così, gioco forza il marxismo si è sbagliato.
Secondo Laclau e Mouffe la coscienza sociale funziona nel modo in cui Marx descrisse il lumpenproletariat (sottoproletariato), dei bassifondi di criminali e di vagabondi, una classe la cui identità politica fluttua notevolmente.
Ma la variabilità ideologica del sottoproletariato risiede precisamente nel fatto che vive in condizioni economiche estremamente variabili, e che non gli è permesso di occupare un ambito lavorativo stabile e un’attività politica e sindacale corrispondente.
Analogamente la divisione della classe operaia in settori con livelli diversi di coscienza e di organizzazione è il prodotto delle diverse condizioni di vita e di lavoro che esistono all’interno della classe: lavoratori qualificati e non qualificati, manuali e intellettuali, di piccole e grandi imprese, di grandi città o piccoli villaggi, classe operaia nativa o immigrata, uomini (privilegiati dal genere) e donne – doppiamente oppresse come operaie e come mogli, ecc.
Diversità che tuttavia non escludono una comunità di interessi e una comune condizione di sfruttati.
È del tutto ovvio che nelle fasi di sconfitta e di riflusso, o di boom e stabilizzazione capitalista, la classe operaia è frammentata e in grande maggioranza cade sotto l’influenza della borghesia e dei riformisti nel movimento operaio. Ciò nonostante, in condizioni di crisi che obbligano le masse ad entrare in campo e a cercare una soluzione ai problemi asfissianti della società, i diversi settori della classe operaia sono spinti nella stessa direzione, ritrovando poco a poco i propri interessi comuni e la propria forza collettiva. Si tratta di un processo graduale e convulso che si sviluppa nel corso della lotta e con l’accumulo di esperienze.
Per i marxisti, la classe operaia ha una duplice importanza come forza rivoluzionaria. Da una parte la concentrazione in grandi nuclei urbani e industriali, il carattere collettivo del suo lavoro e la sua esperienza diretta di sfruttamento da parte della borghesia, facilitano lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria e anticapitalista e l’emergere di forti vincoli di solidarietà di classe. Dall’altra, la stessa centralità economica della classe operaia, che si ritrova nel seno dei principali processi economici in virtù della sua condizione di manodopera salariata, le permettono di prendere il controllo delle leve principali dell’economia e di pianificarle democraticamente e collettivamente nell’interesse dell’insieme della società. Queste caratteristiche la differenziano da altre classi sociali più eterogenee e frammentate, come i contadini o la piccola borghesia.
Di fatto, il marxismo non ha mai affermato, a differenza di quanto dicono Laclau e Mouffe, che la classe operaia è sempre rivoluzionaria ed è sempre unita. Esiste una tendenza all’unità rivoluzionaria del proletariato, che deriva dalla posizione che la classe occupa nel sistema capitalista, ma questa tendenza è controbilanciata da altre tendenze, tra cui la sua frammentazione, l’impatto delle sconfitte, la scarsità di tempo libero che resta ai proletari per dedicarsi attivamente alla politica, le concessioni che fanno i capitalisti nei periodi di prosperità, la propaganda borghese che dispone di enormi risorse e soprattutto la corruzione della direzione politica del proletariato che subisce le pressioni ed è subordinata alla classe dominante.
Tuttavia, come dimostra senza ombra di dubbio la storia del XX secolo, la tendenza alla lotta e all’unità finisce sempre per riemergere con forza, anche dopo lunghi periodi di inerzia.
“Catene di equivalenze”
Come abbiamo visto, Laclau e Mouffe credono che le identità politiche si costruiscono esclusivamente nell’ambito del discorso, che non esistono a priori e non sono radicate nella realtà materiale.
La creazione di identità politiche gira attorno all’antagonismo tra l’“equivalenza” e la “differenza”, tra le affinità e differenze che esistono tra distinti gruppi sociali. Già è stata segnalata in precedenza la circolarità di questa teoria, che si basa sulle tensioni di gruppi sociali disparati ma che è incapace di spiegare l’origine di queste tensioni, dicendo semplicemente che il discorso, che struttura le identità, si basa sempre su opposizioni e differenze.
Potremmo concludere in definitiva che siamo di fronte a una teoria che per tutte le ragioni già elencate non si spinge mai oltre la rappresentazione di domande che restano nei confini dell’ambito parlamentare.
Negando la lotta di classe e la praticabilità della rivoluzione socialista, non si propone alla classe operaia di farsi carico del proprio destino, di farla finita con la divisione tra governanti e governati, frutto della divisione tra sfruttati e sfruttatori, di dissolvere lo Stato e sostituirlo con l’autogestione della società.
Non si propone in definitiva di abbattere la società che produce tutte queste sofferenze, si cerca solo di abbellirla, finendo nel campo dell’utopia.
La rivoluzione democratica e l’esperienza latinoamericana
Laclau e Mouffe hanno osservato da vicino le esperienze della sinistra latinoamericana negli anni 2000.In tutte le fasi iniziali un processo rivoluzionario è necessariamente confuso e oscillante, soprattutto se si viene da anni di sconfitte, per poi acquisire chiarezza con il passare del tempo in base all’esperienza delle masse. Quando una rivoluzione comincia, spesso si pone i compiti più immediati, che nei paesi latinoamericani, che non hanno attraversato autentiche rivoluzioni borghesi, spesso riguardano gli aspetti democratico borghesi come la lotta per la sovranità nazionale contro l’imperialismo, la lotta alla corruzione e agli abusi più scandalosi, ecc.
Nel caso del Venezuela condizioni economiche e politiche eccezionalmente favorevoli (l’alto prezzo del petrolio, che ha dato margini per portare avanti riforme ambiziose dentro il quadro del capitalismo, e la relativa debolezza degli Usa impantanati in Medio Oriente) hanno aiutato a prolungare la fase riformista della rivoluzione per oltre un decennio.
Questo, che è stato un limite, viene elevato da Laclau e Mouffe ad esempio. Così facendo elevano la confusione a teoria politica, confondono il neonato con l’adulto, e sviluppano una teoria affinché la rivoluzione non maturi superando la sua fase democratico-borghese per approdare a quella socialista.
Si avanza così una proposta di collaborazione di classe, le cui conseguenze si stanno vedendo proprio in Venezuela dove la reazione è all’offensiva e punta a rovesciare il governo Maduro.
Mantenere una rivoluzione proletaria nei confini dell’economia di mercato è una ricetta fatta e finita per la sconfitta e il fallimento, come si è visto più volte nella storia, cominciando con la guerra civile spagnola fino ad arrivare all’esperienza sandinista in Nicaragua.
In tutta l’America Latina e soprattutto in Venezuela, abbiamo visto come sia impossibile mantenere un processo rivoluzionario dentro i margini borghesi e riformisti. Dopo anni di mobilitazioni e lotte, le masse latinoamericane oggi capiscono che il capitalismo impone limiti ferrei alle loro aspirazioni.
Non a caso tutti i governi di sinistra in America Latina dibattono in una crisi profonda: dovendo decidere se piegarsi alle pressioni e ai ricatti sempre più violenti della classe dominante, o espropriare la classe dominante, hanno sempre scelto la prima opzione. Non ci sono mezze misure: in definitiva l’alternativa è la rivoluzione proletaria o il ritorno al potere della borghesia reazionaria.
Oggi giorno l’unica alternativa seria alla crisi del capitalismo è il socialismo. Il sistema zavorrato dai debiti, dalla sovrapproduzione e dalla recessione economica, non può permettersi concessioni e riforme progressiste, può solo lanciare attacchi sempre più duri e politiche di austerità contro la classe lavoratrice e le masse più in generale.
Questo si è visto chiaramente anche in Europa con l’esperienza greca e il tradimento di Tsipras.
Liberata dal capitale, un’economia socialista pianificata potrebbe utilizzare il gigantesco accumulo di ricchezza, tecnologia e le risorse umane che esistono nella società, per aumentare enormemente il tenore di vita della popolazione offrendo una vita dignitosa e piena all’insieme della popolazione mondiale.
La difesa intransigente di un programma socialista può conquistare la maggioranza della popolazione, che apprende con l’esperienza che il problema non è la scelta tra questo o quello slogan, questo o quel politico, ma il cambiamento di un sistema intero, senza il quale non è possibile cambiare realmente le cose.
Nonostante le dichiarazioni sulla “fine della storia”, la vecchia talpa della storia continua a scavare. Siamo nel mezzo di una crisi senza precedenti del capitalismo e di un processo di radicalizzazione e polarizzazione di classe che si intensifica in sempre più paesi.
Le previsioni di Marx si stanno dimostrando corrette. Un partito che vuole realmente cambiare la condizione della classe lavoratrice e delle classi subalterne deve avere il socialismo come stella polare. Ed il marxismo come bussola.
Solo con un programma socialista è possibile lanciare l’assalto al cielo.
Note:
1. Egemonia e strategia socialista, pp. 70-71, 139-40 dell’edizione inglese.
2. Egemonia e strategia socialista, p. 107 dell’edizione inglese.
3. La ragione populista, p. 146 dell’edizione inglese.
4. Egemonia e strategia socialista, p. 84