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“Sebbene il Medio Oriente continui ad essere afflitto da problematiche ricorrenti, la regione è più tranquilla di quanto non lo sia stata per decenni.” Questo scriveva in un saggio il 2 ottobre scorso Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del governo statunitense. Scendendo più nei particolari, Sullivan aggiungeva anche che “abbiamo ridimensionato la crisi a Gaza”.
La totale mancanza di prospettive e la miopia della classe dominante del paese più potente del pianeta non si potrebbe illustrare in maniera più efficace.
Dopo soli cinque giorni, l’attacco di Hamas smentiva questa descrizione: dal 7 ottobre è esplosa in Palestina la guerra più cruenta da decenni a questa parte. Un conflitto che ora minaccia di estendersi a tutta la regione mediorientale.
Tre mesi di attacchi dell’esercito israeliano (IDF) a Gaza hanno causato una carneficina di proporzioni inaudite. Mentre scriviamo, i morti nella Striscia sono quasi 23mila, oltre 60mila i feriti e 7mila i dispersi. Mille sono i bambini mutilati (in quasi due anni di guerra, in Ucraina si contano 30 casi simili), il 90% soffre di grave malnutrizione. Secondo il Wall Street Journal, circa il 70% delle 439mila case nella Striscia di Gaza e circa il 50% delle altre tipologie di edifici sono stati significativamente danneggiati o completamente distrutti da Israele. In Cisgiordania, dove i coloni hanno mano libera e costruiscono nuovi avamposti, i palestinesi uccisi sono oltre 300, con la complicità e l’inazione dell’ANP.
La Striscia è un mattatoio a cielo aperto. Israele aveva suggerito l’evacuazione della popolazione verso il sud di Gaza “per la vostra sicurezza”. Risultato: i corridoi “sicuri” sono stati bombardati senza pietà, i campi profughi di Rafah e Khan Youbis, nel sud della Striscia, sono bersagli quotidiani per l’Idf. Come per il campo profughi di Maghazi, dove la notte di Natale sono state uccise 70 persone. “Danni collaterali” li ha chiamati Israele.
Tutta la retorica sul diritto internazionale e sul rispetto delle convenzioni delle Nazioni Unite si è rivelata per quello che è: specchietti per le allodole. Sono 145 i funzionari dell’ONU uccisi a Gaza: Israele li considera “sodali di Hamas”. La “stampa libera” occidentale nasconde e minimizza i crimini di Israele. Chi li documenta viene tolto di mezzo: sono 77 i giornalisti uccisi a Gaza in tre mesi, in stragrande maggioranza palestinesi.
Nel capitalismo l’unica legge e l’unica verità valide sono quelle del più forte.
La pulizia etnica a Gaza
L’obiettivo del governo Netanyahu è la pulizia etnica nella Striscia di Gaza. Oltre al piano originario di spingere tutti i gazawi nella penisola del Sinai, ora si affianca la strada degli accordi con vari paesi africani, tra cui il Congo, che “ospiterebbero” i profughi in cambio di finanziamenti. Una vera e propria deportazione. Come ha spiegato il ministro dell’Intelligence, Gila Gamliel, “la migrazione è il programma migliore e più realistico per il giorno successivo alla fine dei combattimenti (…) Non ci sarà lavoro e il 60% dei terreni agricoli di Gaza diventeranno zone cuscinetto di sicurezza”. In un progetto presentato dal ministro della Difesa Gallant, i confini di Gaza saranno controllati da Israele, una forza multinazionale gestirà la ricostruzione e un organismo politico palestinese gradito ai sionisti si occuperà del governo civile. Tale proposta, formulata su pressione americana, ha scatenato la reazione dell’estrema destra religiosa, che vorrebbe invece il controllo totale su Gaza.
Al di là di queste divisioni, nei fatti stiamo assistendo alla fine dell’idea dei “due popoli, due Stati” attraverso il tentativo di eliminazione fisica di uno dei due popoli.
Washington ha chiesto più volte a Israele di essere “più cauto” nella sua offensiva.
In realtà, l’imperialismo USA finge di preoccuparsi della popolazione di Gaza. Continua a sostenere Israele senza esitazioni; a novembre la Camera dei Rappresentanti ha approvato aiuti militari per 14,5 miliardi di dollari. Le preoccupazioni umanitarie sono solo una cortina fumogena per l’opinione pubblica; all’ONU i rappresentati americani si oppongono a ogni risoluzione per il “cessate il fuoco”.
Gli Stati Uniti non hanno alternative: sosterranno fino in fondo Israele perché è l’unico alleato affidabile nella regione. E lo faranno a lungo, poiché l’offensiva a Gaza sta incontrando non poche difficoltà. Nonostante la sproporzione di forze in campo e contro tutte le previsioni, la resistenza dei palestinesi è estremamente agguerrita.
Israele non ha piegato Hamas e le altre milizie, non ha liberato gli ostaggi e, a livello internazionale, mentre l’appoggio di massa ai palestinesi non accenna a diminuire, Israele e l’imperialismo USA sono sempre più isolati.
Per Netanyahu, tuttavia, non esiste un piano B, l’unica garanzia di sopravvivenza politica (anche personale) è non solo quella di continuare, ma anzi di allargare il conflitto.
La destabilizzazione del Medio Oriente
In realtà la regione mediorientale è destabilizzata da decenni e la responsabilità sono da addebitare all’imperialismo americano, a cominciare dall’invasione dell’Iraq del 2003. L’esito del rovesciamento di Saddam Hussein e degli altri conflitti degli ultimi vent’anni, dalla guerra in Libano del 2006 tra Israele ed Hezbollah a quella in Siria del decennio scorso, è stato contrario ai desiderata degli Stati Uniti: il rafforzamento dell’influenza dell’Iran in Medio Oriente.
La guerra a Gaza ha fornito l’opportunità a Washington, che condivide questo obiettivo con Israele, di limitare questa espansione di Teheran. Non a caso dopo il 7 ottobre gli americani hanno inviato navi da guerra nella regione, sia nel Mediterraneo orientale che nel Mar Rosso.
I piani dell’imperialismo si devono tuttavia confrontare con un ostacolo: il movimento formidabile di solidarietà verso i palestinesi che si è scatenato in tutto il mondo arabo, che ha rinfocolato i terreni di scontro già aperti da tempo.
Uno di questi si trova in Yemen. Le rivoluzioni arabe nel paese affacciato sul golfo di Aden si sono espresse nella rivolta della minoranza houthi, di professione sciita, da sempre discriminata. Per schiacciare la rivolta, l’Arabia Saudita, assieme ad altri Stati arabi e africani (con l’appoggio della “comunità internazionale”), ha lanciato l’invasione dello Yemen nel marzo del 2015. Nel silenzio dei mass media, l’intervento ha provocato, in questi otto anni, oltre 200mila vittime e 2 milioni di profughi.
L’azione saudita non è riuscita a sconfiggere le milizie houthi, che controllano tuttora l’ovest del paese. Dalle loro postazioni, sono state le uniche ad aver intrapreso un’azione militare contro Israele in risposta ai suoi bombardamenti su Gaza. Hanno iniziato con il lancio di missili contro le città israeliane, che sono stati in gran parte intercettati; in seguito hanno iniziato a prendere di mira le navi che transitano dallo stretto di Bab el Mandeb per entrare nel Mar Rosso e poi nel Canale di Suez. Attraverso questa rotta si svolge il 12% del traffico marittimo mondiale e, ad oggi, metà delle navi dirette verso Israele attraverso il Mar Rosso (che trasportano, tra l’altro, rifornimenti di armi e combustibile) sono state bloccate, mentre le principali compagnie di navigazione hanno optato per rotte alternative.
Gli attacchi houthi non hanno fatto alcuna vittima, ma subito la “comunità internazionale” si è mobilitata contro i “terroristi” che minacciano di bloccare “l’economia globale e il libero flusso del commercio”, come dichiarato dai membri della coalizione “Guardiano della prosperità”, assemblata dagli Stati Uniti e di cui fa parte anche l’Italia. Le operazioni militari hanno già provocato l’affondamento di tre navi houthi e la morte di dieci ribelli.
La difesa del profitto e dell’ordine imperialista vale immensamente di più della vita di un bambino palestinese. Infatti, mentre ogni reazione dei palestinesi e di chi si schiera dalla loro parte è definita un atto di terrorismo, lo stesso metro di valutazione non viene utilizzato per le azioni di chi è arruolato nel “mondo libero”.
Il 4 gennaio scorso gli USA hanno ucciso a Baghdad uno dei leader di Hashd al-Shaabi (Forze di Mobilitazione Popolare), le milizie paramilitari filo-iraniane, nate per combattere l’ISIS ma ormai ufficialmente parte integrante delle forze armate irachene. Un portavoce della Casa Bianca ha giustificato l’azione come “una risposta proporzionata alla minaccia agli interessi americani”. Il giorno di Natale, Israele aveva eliminato un importante generale dei pasdaran iraniani a Damasco. Gli USA mantengono 2.500 soldati in Iraq e circa 900 in Siria, con la scusa della “lotta al terrorismo”.
Ben poche son state le voci che hanno denunciato il raid israeliano a Beirut il 3 gennaio scorso, che ha ucciso il numero due Hamas, Saleh al-Arouri, e altre sei persone. L’intensità delle schermaglie tra IDF e Hezbollah è cresciuta in maniera costante dal 7 ottobre, con 150 vittime, in stragrande maggioranza libanesi.
Il conflitto si allarga?
Secondo il Wall Street Journal, Biden lo scorso 11 ottobre convinse Netanyahu a non lanciare un attacco preventivo contro Hezbollah. La classe dominante americana è poco lungimirante ma non del tutto stupida e ha probabilmente suggerito di agire con cautela in quella fase, comprendendo i rischi di una guerra sul fronte settentrionale, che non potrebbe evitare di coinvolgere l’Iran, mentre il fronte di Gaza è ancora aperto. Qualcuno dotato di buona memoria si sarà forse ricordato che l’ultimo conflitto con Hezbollah, nel 2006, si concluse con la sconfitta di Israele e il conseguente ritiro delle sue truppe dal paese dei Cedri.
Se Washington fino ad oggi ha esitato, non è certo per considerazioni pacifiste, ma per il rischio che una guerra in tutta la regione si possa concludere negativamente.
Tuttavia il raid a Beirut non può essere stato effettuato senza l’approvazione degli USA e la strage rivendicata dall’Isis in Iran durante la commemorazione dell’assassinio del generale Suleimani è funzionale all’escalation della guerra. Sul fronte interno, mentre ci sono divisioni aperte sulla guerra in Ucraina, l’establishment statunitense è unanime sull’appoggio a Israele.
Infine, Gallant (che in agosto aveva già parlato di volere ridurre il Libano a una “condizione medievale”), prima del tour che il segretario di Stato Blinken sta conducendo in Medio Oriente, ha già avvisato: “Se gli sforzi diplomatici non avranno esito, non esiteremo ad attaccare al nord.”
Le borghesie di tutto il mondo arabo temono come la peste un coinvolgimento nella guerra. Sono poste tra l’incudine della politica imperialista di Israele e il martello della radicalizzazione delle masse. Dall’inizio dell’aggressione a Gaza non hanno mosso un dito in sostegno della Palestina, né fatto mancare una goccia di petrolio a Israele. “Non mischiamo il commercio con la politica”, nelle parole di un ministro degli Emirati Arabi. Il Bahrein addirittura partecipa all’operazione “Guardiano della prosperità”.
L’imperialismo si prepara dunque a effettuare nuovi massacri. Le borghesie arabe si rassegnano alla capitolazione.
I comunisti della Tendenza Marxista Internazionale spiegano che solo il protagonismo delle masse, quelle stesse che sono scese in piazza in solidarietà a Gaza in Medio Oriente e il tutto il mondo, può fermare l’allargamento del conflitto. Solo una nuova Intifada in Palestina e una rivoluzione nell’intera regione, che rovesci tutti i governi reazionari e corrotti, potrà fermare l’incubo di nuovi massacri e la barbarie di nuove guerre imperialiste.
10 gennaio 2024