L’imperialismo un secolo dopo Lenin
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14 Ottobre 2016di Franco Bavila
Negli ambiti ormai ristretti della sinistra italiana, in particolar modo tra le formazioni politiche che si richiamano ancora allo stalinismo, trova sempre più spazio l’idea che sia necessario appoggiare la Russia di Putin in chiave anti-imperialista. L’andamento della guerra in Ucraina e di quella in Siria hanno rafforzato questa impostazione, che spesso viene sviluppata fino a prevedere il sostegno a qualsiasi governo che per le ragioni più varie si trovi in contrasto con gli Usa, dall’Iran alla Corea del Nord, tutti paesi che farebbero parte di un cosiddetto “blocco” o “campo” anti-imperialista (da qui il nome di teorie “campiste”). È una linea che riecheggia il passato, quando le correnti staliniste difendevano acriticamente il blocco sovietico. Questa politica era vergognosa già allora, quando propinava al movimento operaio una menzogna dopo l’altra per nascondere le contraddizioni esistenti nell’Urss e coprire i crimini commessi dalla burocrazia del Cremlino; ma oggi, a 27 anni dalla caduta del Muro di Berlino e con i partiti stalinisti fortemente ridimensionati a livello mondiale, è diventata un grottesco anacronismo.
Non è semplice trovare un’esposizione sistematica delle teorie campiste: se abbondano i post su Facebook in difesa dei “compagni” Putin o Assad, scarseggiano invece testi organici di riferimento. Fa eccezione l’articolo di Fausto Sorini “La situazione politica mondiale nel 2016. Alcune chiavi di lettura”, pubblicato sulla rivista MarxXXI nel febbraio del 2016. Si tratta di un vero e proprio manifesto delle posizioni campiste più sviluppate e aggiornate, che proprio per questo utilizzeremo per sviluppare la nostra critica.
La Terza guerra mondiale è alle porte?
Tutti i ragionamenti nel testo di Sorini partono da quella che viene definita una “premessa terrificante” e cioè che “una Terza guerra mondiale non è inevitabile, ma largamente possibile”. In quest’ottica l’imperialismo americano sarebbe pronto a lanciare un’aggressione diretta contro la Russia e/o la Cina allo scopo di ristabilire sul piano militare la sua leadership globale messa invece in discussione sul piano economico e politico dalle potenze emergenti.
La prospettiva di una guerra aperta tra potenze nucleari è assurda: le armi atomiche provocherebbero la reciproca distruzione dei belligeranti e le classi dominanti – per quanto reazionarie, ottuse e belliciste – fanno le guerre per perseguire i loro interessi, tra i quali non rientra certamente l’auto-estinzione. Sorini però ci spiega che la Terza guerra mondiale non verrà combattuta con le armi nucleari, ma con le nuove tecnologie militari segrete sviluppate dagli Usa “nel campo dei laser, dell’informatica (la cosiddetta cyber-guerra), delle armi spaziali, delle armi chimiche e biologiche e dei loro antidoti (volti a renderle utilizzabili in modo controllato e non autodistruttivo, e persino non verificabile); fino al caso estremo della ricerca e sperimentazione volta a provocare artificialmente eventi naturali catastrofici (terremoti, tsunami, siccità, uragani)…”.
Siamo obiettivamente più dalle parti dei super-cattivi della Spectre che compaiono nei film di James Bond che di fronte ad una seria analisi sulla ricerca militare moderna. Peraltro tutti gli ultimi conflitti hanno dimostrato come, nonostante i satelliti e i droni, per vincere le guerre è ancora necessario mandare truppe sul campo ed è proprio questo il problema dell’imperialismo americano oggi. Dopo le esperienze catastrofiche in Afghanistan e Iraq, gli Usa incontrano infatti una crescente difficoltà a dispiegare concretamente in un dato teatro bellico il loro potenziale militare, che sulla carta rimane gigantesco. In realtà le guerre in Libia, Ucraina e Siria non sono i tasselli di un inquietante piano di dominio orchestrato al Pentagono, come pretendono i campisti, ma hanno al contrario dimostrato il declino della potenza militare statunitense.
In Libia nel 2011 gli Usa sono intervenuti solo a rimorchio della Francia, che ha svolto il ruolo principale. Recentemente Obama, in una lunga intervista di bilancio della sua presidenza, ha fatto auto-critica rispetto a quella esperienza escludendo categoricamente la possibilità di altre simili avventure, tanto da attirarsi le critiche dei vertici militari che, pur non essendo in disaccordo su questa valutazione, non ritengono prudente ammettere pubblicamente la riluttanza degli Stati Uniti ad imbarcarsi in altri interventi militari su vasta scala. Coerentemente con questo atteggiamento Obama si è guardato bene dall’impelagarsi nel caos in cui è sprofondata la Libia post-Gheddafi e invece ha esercitato forti pressioni su Renzi perché fossero mandati soldati italiani a pacificare il paese.
In Ucraina gli Stati Uniti indubbiamente hanno finanziato le forze fasciste che hanno rovesciato Yanukovich e hanno fornito armamenti all’attuale governo ultra-nazionalista di Kiev ma, di fronte all’annessione della Crimea da parte della Russia e alla secessione di fatto della regione del Donbass, non hanno certo mandato i marines né attivato lo scudo spaziale, limitandosi invece alle sanzioni economiche e alle dichiarazioni indignate.
Il caso della Siria è ancora più lampante. Nel 2012 Obama aveva inizialmente intenzione di imbastire un intervento militare volto a rovesciare il regime di Assad, ma fu costretto a rinunciare di fronte all’ostilità dell’opinione pubblica, all’opposizione nel Congresso e allo scetticismo dei militari. Washington ha così ripiegato su una strategia indiretta finanziando vari gruppi jihadisti ostili ad Assad, dei quali però ha completamente perso il controllo. L’avanzata dell’Isis ha destabilizzato l’intero Medio Oriente e, per contrastarla senza fare ricorso ai propri soldati, il governo americano ha dovuto affidarsi a forze che sono tutt’altro che fedeli marionette, come i combattenti curdi dell’Ypg in Siria e le milizie sciite filo-iraniane in Iraq.
E che dire della Corea del Nord, che un giorno sì e l’altro pure esegue test missilistici e lancia provocazioni minacciando di distruggere con le armi nucleari le città americane, senza che gli Usa adottino alcuna ritorsione sul piano militare?
Tutti questi avvenimenti smontano le fondamenta su cui poggia l’intera impalcatura campista: se lo zio Sam non è in grado di far intervenire le proprie truppe in Siria, in Ucraina, in Libia o in Corea del Nord, è assolutamente impensabile che possa scatenare un’offensiva in grande stile contro la Russia o la Cina.
Campi inesistenti
A un presupposto sbagliato seguono sempre conclusioni sbagliate e infatti, partendo dal rischio della Terza guerra mondiale, Sorini prosegue nella sua esposizione costruendo una divisione artificiale tra Stati guerrafondai (sostanzialmente gli Usa e i loro alleati) e Stati che si oppongono alla Terza guerra mondiale (sostanzialmente Russia, Cina e i loro alleati). Si tratta dell’ennesima riedizione della teoria dei blocchi contrapposti, che già ai tempi della Guerra fredda era discutibile, dal momento che erano presenti forti contraddizioni sia all’interno del blocco occidentale che di quello sovietico (per esempio quelle tra Urss, Cina e Jugoslavia). Per lo meno allora questa distinzione aveva un fondamento reale visto che esistevano sia Stati capitalisti che Stati in cui veniva invece applicata una versione particolarmente deformata e burocratizzata del socialismo. Oggi questa distinzione non esiste più, dal momento che il capitalismo è stato restaurato nella quasi totalità degli ex paesi stalinisti (e quasi sempre proprio ad opera degli ex partiti stalinisti).
Sorini nega tale aspetto, sostenendo che paesi come la Cina o il Vietnam sono ancora socialisti, ma questa definizione stride con una realtà fatta di massicci investimenti di capitale straniero, delocalizzazioni, terribili condizioni di sfruttamento della manodopera e speculazioni finanziarie sulle borse asiatiche. Le forme statali possono essere ancora quelle maoiste in Cina, ma la sostanza economica è quella del peggior capitalismo.
Su queste basi non abbiamo che una serie di potenze capitaliste, piccole o grandi che siano, che stabiliscono la loro politica estera e decidono della pace o della guerra non in base alla loro appartenenza ad un blocco immaginario, ma in base ai loro interessi economici, politici ed economici. Qualsiasi pretesa di individuare un campo imperialista e uno anti-imperialista rischia di essere fuorviante e di non aiutarci a capire lo sviluppo dei processi reali. Soprattutto in un’epoca di crisi come la nostra, caratterizzata da cambiamenti bruschi e repentini, le alleanze e gli schieramenti tra Stati sono per forza di cose temporanei e mutevoli.
Durante la guerra in Siria abbiamo per esempio visto un ribaltamento degli schieramenti, con gli Usa che si sono progressivamente allontanati dai loro alleati tradizionali come Turchia e Arabia Saudita (che hanno continuato a finanziare e armare le milizie jihadiste in Siria anche quando la politica di Washington è cambiata) per avvicinarsi progressivamente ad un vecchio nemico come l’Iran, l’unico regime stabile della regione in grado di mettere in campo forze militari consistenti per combattere l’Isis in Iraq. Con l’accordo sul nucleare gli Usa si sono rassegnati a riconoscere (per lo meno momentaneamente) il ruolo regionale del regime di Teheran, in cambio della sua collaborazione nello stabilizzare il Medio Oriente, ma così facendo hanno ulteriormente esacerbato le relazioni con Israele e Arabia Saudita.
Ancor più significativo è il caso di uno storico bastione della Nato come la Turchia che ultimamente ha attuato una svolta di 180 gradi nella sua politica estera. I rapporti degli Usa con il regime di Erdogan sono diventati via via sempre più tesi, sia perché nel tentato golpe del 15 luglio erano coinvolti ufficiali turchi legati alle strutture della Nato, sia per via della questione curda: mentre gli americani hanno appoggiato l’avanzata delle milizie curde dell’Ypg contro l’Isis nella Siria settentrionale, la Turchia è preoccupata per la possibile creazione di uno Stato autonomo curdo sul proprio confine meridionale. Erdogan ha quindi iniziato a ricucire i rapporti con la Russia, presentando per la prima volta scuse pubbliche per l’abbattimento dell’aereo russo nel novembre 2015 e rinunciando all’idea di rovesciare il regime di Assad. In cambio ha ottenuto il benestare di Putin ad un’operazione militare turca al di là del confine volta a contenere le forze curde in Rojava.
Il discorso non vale solo per il ginepraio mediorientale. Si pensi al Vietnam, che nella sua storia può vantare meriti anti-imperialisti più di qualsiasi altro paese, ma che oggi nello scacchiere del Pacifico si trova all’interno del sistema di alleanze che gli Stati Uniti stanno imbastendo per isolare la Cina. Da tempo il governo americano sta fornendo armamenti al Vietnam per costituire un contrappeso all’espansionismo cinese nel Sud-Est asiatico e lo scorso mese di maggio Obama ha ufficialmente revocato dopo cinquant’anni l’embargo di armi al governo vietnamita.
Questi avvenimenti non possono essere incastrati nei rigidi schemi del campismo (a meno di non voler iscrivere l’Iran nel blocco americano o far diventare Erdogan un eroe anti-imperialista) e cercare di farceli stare porta inevitabilmente a delle cantonate. Per esempio quando Sorini sostiene che: “È infatti operante una manovra provocata dai paesi arabi legati agli Usa (a partire dall’Arabia Saudita) volta a provocare diminuzioni artificiose del prezzo del petrolio con aumenti di produzione del greggio per colpire l’economia della Russia, anche se ciò determina perdite complessive nei loro bilanci annui”. L’azione dell’Arabia Saudita volta a tenere basso il prezzo del petrolio in realtà non era diretta principalmente a danneggiare la Russia, quanto a contrastare l’evoluzione dell’industria petroliera americana verso il fracking e lo shale gas, tecniche estrattive che permetterebbero agli Usa di poter fare parzialmente a meno del petrolio saudita ma che richiedono un prezzo alto del greggio per essere remunerative.
Un imperialismo amico?
Naturalmente il presupposto fondamentale per sostenere l’esistenza di un blocco anti-imperialista a guida russo-cinese è la negazione del ruolo imperialista svolto da Russia e Cina. Le tesi che parlano di un imperialismo russo o cinese vengono definite da Sorini “demenziali” e “gradite e incoraggiate oltreoceano”. Indubbiamente la classe dominante americana ha tutto l’interesse a presentare in modo ipocrita Putin come una minaccia per la pace, ma questo non ci esime da guardare alla realtà per quella che è: Cina e Russia si comportano esattamente come tutte le altre potenze capitaliste nella lotta per la spartizione dei mercati mondiali.
Per esempio, nel continente africano lo scontro per il controllo delle risorse naturali è oramai da tempo una competizione a tre tra Usa, Francia e Cina, con le società cinesi che nell’ultimo periodo hanno segnato una serie di punti a loro favore. Allo stesso modo la Cina è penetrata sempre più profondamente in America Latina per assicurarsi il controllo delle materie prime necessarie ad alimentare la sua gigantesca crescita economica.
Più in generale la Cina oggi vuole assicurarsi una potenza militare e un ruolo negli affari mondiali che siano adeguati alla sua forza economica, pretendendo una redistribuzione delle sfere d’influenza in particolar modo nell’area del Pacifico. Il governo di Pechino ha promosso la Banca di investimento infrastrutturale asiatica per finanziare la costruzione di infrastrutture nei paesi asiatici da parte di società cinesi. Il progetto più mastodontico è quello di un Corridoio economico Cina-Pakistan per collegare con una serie di infrastrutture la regione dello Xinjiang al porto di Gwadar nel Belucistan, un’operazione che trasformerebbe il Pakistan in un satellite cinese e consentirebbe alla Cina di guadagnare un accesso diretto alle risorse del Mar Arabico senza dover passare per le lunghe rotte navali attraverso lo Stretto di Malacca. È stata pure avviata la costruzione di una serie di gigantesche isole artificiali per aumentare il controllo sul Mar Cinese meridionale, dove peraltro si sono svolte imponenti esercitazioni navali congiunte russo-cinesi. Si è rafforzata anche la cooperazione militare tra l’esercito cinese e quello thailandese dopo il golpe che nel 2014 ha portato al potere in Thailandia la giunta militare guidata dal generale Chanocha.
Un analogo discorso può farsi per la Russia, che ha dimostrato di essere una potenza mondiale in grado di tutelare i propri interessi non solo nel suo cortile di casa (e cioè nelle repubbliche ex sovietiche come ha dimostrato la guerra in Georgia nel 2008 o quella in Ucraina nel 2014) ma anche in aree lontane dai propri confini (come la Siria). Con l’annessione della Crimea Putin si è assicurato il mantenimento dell’importante base navale di Sebastopoli sul Mar Nero, mentre con l’intervento in Siria ha protetto la base navale di Tartus (l’unica base russa nel Mediterraneo). Oggi nella crisi siriana è chiaramente la Russia a trovarsi in una posizione di forza, come ha dimostrato l’accordo per il cessate il fuoco del 12 settembre in cui gli Stati Uniti sono stati costretti a rinunciare a qualsiasi proposito di rimuovere Assad.
I Brics
Nel testo di Sorini rivestono un’importanza centrale i paesi emergenti, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica): “I destini di tale area, in particolare del continente asiatico, sono ormai determinanti per il futuro economico del mondo, più di quelli dei paesi della triade (Usa, Ue e Giappone). (…) Dato che i Brics mostrano nel loro insieme un ritmo di crescita più elevato del G7 (pur con differenze e variazioni ineguali al loro interno), gli analisti prevedono che entro pochi anni il loro Pil supererà quello dei 7”.
Qui si abbandona qualsiasi idea di abbattimento del sistema e si vede per i Brics un ruolo di nuova locomotiva del capitalismo mondiale in crisi, una prospettiva non solo sbagliata ma anche irrealistica, dal momento che la crescita cinese sta rallentando a causa dei primi segnali di una crisi di sovrapproduzione, la Russia si trova in crescente difficoltà a causa del prezzo basso del petrolio e il Brasile è sprofondato in una vera e propria recessione…
Ad ogni modo per Sorini i Brics rappresentano “la realtà più consistente e anche il fattore di maggior contrappeso progressivo al dominio della triade imperialista (Usa, Ue e Giappone) e alla leadership imperiale degli Usa”.
Che cosa rende questi paesi “progressivi”?
“1. L’aspirazione ad un mondo multipolare, imperniato sulla centralità dell’Onu (non della Nato), senza leadership unipolari in campo politico, militare, valutario, come quella sui cui resistono gli Usa e il blocco atlantico.
2. Una visione non liberista dello sviluppo economico, in cui lo Stato e i poteri pubblici mantengano un ruolo di regolazione e programmazione, nel quadro di un’economia mista (che evidentemente si manifesta con modalità assai diverse in ognuno di questi cinque paesi).
3. L’avversione alla politica di guerra e di interventismo militare della Nato; l’aspirazione ad un contesto mondiale multipolare di pace e cooperazione, nel quadro di una politica di disarmo concordato e bilanciato, che preservi la sicurezza di ogni Paese”.
Perché il multipolarismo rappresenterebbe un passo avanti? Per il marxismo l’oppressione delle classi lavoratrici non nasce dal fatto che una potenza capitalista sia egemone sulle altre, ma dal funzionamento stesso del sistema economico capitalista che subordina le esigenze della stragrande maggioranza della popolazione ai profitti di una élite privilegiata. Da questo punto di vista l’esistenza di uno, due o cinque “poli” a livello mondiale va a modificare solo i rapporti di forza esistenti tra le diverse borghesie nazionali in competizione tra loro, ma non risolve nessuno dei problemi delle classi oppresse. Una società “multipolare” peraltro non sarebbe nemmeno necessariamente più pacifica, anzi è proprio l’emergere di nuove potenze che non accettano lo status quo a generare nuovi conflitti. Nel corso del Novecento l’ascesa del giovane imperialismo tedesco, che metteva in discussione l’egemonia anglo-francese, non portò ad una società più equilibrata, ma a due guerre mondiali.
Altrettanto vuoti suonano così gli appelli alla cooperazione internazionale e al disarmo. Nel mondo capitalista le guerre sono il frutto degli interessi contrastanti delle classi dominanti dei singoli Stati nazionali, non possono essere composte con il buon senso e la ragionevolezza. Non è possibile combattere l’imperialismo senza mettere allo stesso tempo in discussione il sistema economico capitalista che ne sta alla radice. Stupisce quindi sentir parlare ancora della “centralità dell’Onu”, che nel corso della sua storia non è riuscita ad impedire una sola guerra (nel 2003 l’opposizione del Consiglio di sicurezza non ha certo impedito l’aggressione contro l’Iraq da parte di Bush) e in molte occasioni non ha rappresentato che la facciata rispettabile dietro la quale si è organizzato un intervento imperialista (come l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 tuttora in corso). Vale la pena ricordare che Lenin rifiutò di far entrare l’Unione Sovietica nella Società delle Nazioni, l’antesignana dell’Onu che definiva un “covo di ladri e di banditi”.
D’altronde quella di Sorini per gli organismi del capitalismo internazionale è una vera e propria passione, visto che rivendica un maggior ruolo della Cina all’interno di essi: “Pechino intende essere ormai un produttore di regole nel mercato mondiale, non un allievo ubbidiente ai vecchi padroni, anche perché l’Occidente le ha offerto sino ad oggi appena uno strapuntino al tavolo del potere mondiale e delle sue istituzioni finanziarie, economiche e politico-militari”. La battaglia non è quindi per abbattere il Fmi e il Wto, che hanno imposto ricette di austerità a mezzo mondo e organizzato il saccheggio sistematico dei paesi più poveri, ma per rivendicare che i capitalisti cinesi abbiano la loro fetta del bottino…
L’assenza di qualsiasi ragionamento di classe caratterizza anche l’analisi economica di Sorini, che non va oltre la vecchia ricetta keynesiana sul “ruolo dello Stato nell’economia”, vero e proprio dogma della sinistra riformista e delle burocrazie sindacali che hanno abbandonato da tempo qualsiasi prospettiva di trasformazione della società. L’esistenza di una parte dell’economia in mano allo Stato non ha un valore in sé, quello che conta è quale classe sociale ha il controllo dei mezzi di produzione. In passato anche i regimi fascisti hanno introdotto elementi di economia statale e in alcuni paesi asiatici, come il Giappone e la Corea del Sud, lo Stato ha avuto un ruolo preminente nello sviluppo di una moderna economia capitalista. È anche il caso della Cina dove la burocrazia stalinista al potere ha favorito in ogni modo la nascita di una nuova borghesia cinese (cui è legata a doppio filo), mentre allo stesso tempo faceva ricorso alla repressione più brutale contro le mobilitazioni operaie.
Il compito dei marxisti è lottare per il socialismo, non contrapporre al liberismo elementi di economia statalista di natura borghese. Sorini dà invece una visione completamente idealizzata del regime economico esistente in Russia, completamente dominato da oligarchie parassitarie strettamente legate all’apparato statale. “Lo Stato mantiene un primato, nell’ambito di un’economia mista, dove pubblico e privato potrebbero convivere in una dinamica virtuosa”. Si arriva addirittura a porre in questione il carattere capitalista dello Stato russo: “Ma come può essere definito uno Stato in cui i quadri fondamentali provengono non dalla borghesia e dai suoi partiti storici, ma dal Kgb andropoviano e che all’eredità di Jurij Andropov ancora si richiamano? Mi sembra un buon quesito per la ricerca marxista”.
Ecco il meglio che la teoria campista può offrirci: un regime di capitalismo di Stato governato da un apparato repressivo. Se Lenin diceva che i soviet più l’elettricità non fanno il comunismo, per Sorini invece bastano il Kgb e la Gazprom!
Il ruolo dell’Europa
È interessante approfondire la posizione dell’Europa all’interno della concezione campista. Da una parte si riconosce che alcuni paesi europei farebbero parte della triade imperialista assieme a Usa e Giappone. Dall’altra però questi stessi paesi vengono inseriti nel fronte di chi si oppone alla guerra mondiale e si sottolinea come spesso i governi europei usino toni “prudenti, complessivamente collaborativi, non guerrafondai” nei confronti di Putin. Indubbiamente molti paesi europei intrattengono ottimi rapporti di affari con la Russia e non sono stati entusiasti delle sanzioni promosse da Obama, ma per Sorini l’Unione europea può essere davvero l’ago della bilancia nei rapporti di forza a livello mondiale, in grado di dar vita ad una fantomatica “egemonia euro-asiatica” che soppianti quella atlantica dominata dagli Usa.
Ne deriva che i paesi europei, pur essendo imperialisti, devono essere trattati con un certo riguardo. Non si può parlare di un “generico scontro tra potenze. Una sorta di equivoca equidistanza, di notte in cui tutte le vacche sono nere”. Il messaggio è chiaro: dobbiamo scegliere quale imperialismo sostenere contro un altro, in questo caso quello dei paesi europei contro quello americano.
Questo approccio contraddice completamente quella che fu la posizione di Lenin di fronte alla Prima guerra mondiale, che era esattamente “equidistante” da tutte le potenze belligeranti, che ai suoi occhi erano tutte ugualmente imperialiste. Il modello di Sorini però non è Lenin durante la Prima guerra mondiale, ma Stalin durante la seconda, quando si alleò con l’imperialismo anglo-americano contro la Germania nazista. Se la politica di Lenin portò alla rivoluzione d’Ottobre e alla fondazione dell’Internazionale comunista, quella di Stalin condusse invece all’abbandono di ogni prospettiva rivoluzionaria nell’Europa occidentale e allo scioglimento del Comintern.
Sorini si muove esattamente nel solco stalinista esortandoci a subordinare la lotta politica contro l’Unione europea all’esigenza di avere un euro forte che faccia da contrappeso al dollaro. Si sostiene che l’imperialismo europeo è meno pericoloso perché “meno armato” rispetto a quello americano e si sottolinea che in Italia esistono basi militari della Nato ma non basi della Ue, ma si ignora completamente l’impatto devastante sulle masse popolari delle politiche di austerità imposte dalle istituzioni europee. Ecco dove approda il campismo nel Vecchio continente: la lotta contro i guerrafondai di Washington ci porta dritti verso la subalternità ai governi filo-europeisti e ai diktat della Troika.
Il grande assente
C’è un grande assente in tutto l’articolo di Sorini: la lotta di classe. Tutto viene ridotto esclusivamente al rapporto tra Stati. Grandi avvenimenti come l’appoggio di massa a leader politici quali Sanders e Corbyn, l’ascesa di Podemos, le lotte in Francia non hanno alcuna rilevanza nella realtà disegnata dal campismo. Come se la politica estera degli Stati e le guerre non fossero condizionati dai rapporti di forza tra le classi. Non dimentichiamoci che fu la rivoluzione d’Ottobre a porre fine alla Prima guerra mondiale o che, solo dopo aver sconfitto il movimento operaio sul fronte interno, Hitler poté iniziare il suo programma di espansionismo aggressivo. Le scelte di Obama sono obiettivamente state condizionate dalla possibilità che potesse scoppiare un movimento di massa contro la guerra, come già accaduto in passato sia nel corso del conflitto in Vietnam che durante la presidenza di Bush.
Dove però la teoria campista produce gli effetti più deleteri è proprio nell’analisi delle lotte all’interno dei paesi del campo antiimperialista. Qui qualsiasi mobilitazione diventa dannosa, controproducente e persino controrivoluzionaria. Nel testo di Sorini per esempio non troviamo nemmeno una riga sul numero sempre crescente di scioperi in Cina. Ancor più significativo è l’atteggiamento sul Sudafrica, dove a 24 anni dalla caduta dell’Apartheid molti dei problemi della popolazione rimangono irrisolti e il governo dell’Africa National Congress ha dimostrato la sua reale natura in occasione del massacro di Marikana del 2012, quando la polizia aprì il fuoco sui minatori in sciopero uccidendone 34 e ferendone gravemente 78. C’è un processo di radicalizzazione crescente nella società sudafricana: il potente sindacato dei metalmeccanici ha rotto con la coalizione di governo, mentre una formazione radicale come gli Economic Freedom Fighters di Julius Malema vede crescere i suoi consensi soprattutto tra i giovani. Poiché però il governo di Zuma ha sviluppato buone relazioni con la Cina, per Sorini tutti questi sviluppi non sono che un complotto dell’imperialismo volto a “sostenere e finanziare fazioni estremiste e radicali del movimento sindacale e politico (facendo leva su una situazione sociale obiettivamente drammatica) per spingerle da sinistra ad una contestazione violenta contro il governo, provocando anche scontri armati e morti nel confronto tra manifestanti e polizia. Si tratta di una tattica già sperimentata dai servizi Usa durante la lotta contro il governo cileno di Allende e nei moti di Majdan a Kiev, in Ucraina”. Vediamo qui il carattere apertamente reazionario del campismo, che bolla come fascista qualsiasi movimento metta in discussione l’ordine costituito nei paesi appartenenti al presunto blocco anti-imperialista.
Fortunatamente per noi il mondo non è grigio come ce lo presentano i sostenitori del campismo. I destini dell’umanità non sono nelle mani di qualche cricca autoritaria. Basta guardare a quello che sta accadendo in India. Laddove Sorini vede solo gli scontri tra diverse fazioni della classe dominante (una più reazionaria dell’altra) per orientare la politica estera del paese maggiormente verso gli Usa o più in direzione della Cina, il gigantesco proletariato indiano ha cominciato a muoversi: nell’ultimo anno ci sono stati due scioperi generali in India, che hanno coinvolto tra i 150 e i 180 milioni di lavoratori. È questo l’unico campo nel quale dobbiamo riporre la nostra fiducia, quello del proletariato internazionale, che ha bisogno di riscoprire le idee autentiche del marxismo e dell’internazionalismo, non certo l’armamentario opportunista del campismo.