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Il marxismo è stato più volte criticato per una sua presunta carenza di analisi rispetto alla questione ambientale. La critica si può dividere in due filoni principali. Il primo ritiene che i marxisti abbiano una concezione della crescita illimitata, di tipo positivista, e che pertanto il socialismo non sarebbe capace di affrontare e risolvere i problemi ambientali che da decenni, e oggi più che mai, sono all’attenzione del dibattito politico e anche di mobilitazioni di massa: inquinamento, riscaldamento dell’atmosfera, deterioramento degli ecosistemi, ecc. Anzi, secondo questa critica il marxismo non solo non avrebbe una risposta, ma sarebbe incapace anche solo di comprendere il problema.
Un secondo filone considera invece che il marxismo, pur essendo carente di una analisi sulla questione ambientale, possa essere integrato e completato e che questo non sia incompatibile con le sue basi teoriche.
Questo secondo filone si è espresso da diversi decenni in varie correnti che possiamo ricollegare al titolo di “ecosocialismo” o “ecomarxismo”.
Tra queste due posizioni principali esistono poi le sfumature intermedie, che tuttavia non introducono ulteriori elementi teorici ma mischiano, in proporzioni diverse, quelli delle due basilari.
L’attualità della questione non necessita spiegazioni, se consideriamo l’impatto di movimenti internazionali come i Fridays for Future o lo scontro politico attorno alla questione del Green New Deal e della cosiddetta transizione energetica, che da elaborazioni di nicchia sono diventate questioni al centro delle scelte di governi dei principali paesi capitalisti, dagli Usa con la presidenza Biden all’Unione europea.
Crisi ambientale: quale definizione?
Termini come crisi o emergenza ambientale sono ormai di uso quotidiano sui media e non solo. È indiscutibile tuttavia che questi non siano univocamente definiti, tutt’altro. Se guardiamo solo agli ultimi decenni, sono salite alla ribalta tematiche diverse, di volta in volta indicate come decisive e dirimenti rispetto ad ogni altra questione: le piogge acide, la desertificazione di determinate aree, l’impoverimento degli ecosistemi, il buco nella fascia dell’ozono, l’inquinamento derivante dalle plastiche o da altri prodotti industriali… Progressivamente si è posta la questione del riscaldamento atmosferico, che oggi viene considerata l’emergenza per antonomasia, alla quale si deve subordinare ogni altra scelta.
Si fa quindi riferimento a una molteplicità di fenomeni specifici, ma il concetto di crisi ambientale non trova una definizione precisa, o meglio ne trova molte anche in contrasto fra loro.
In primo luogo è necessario rimarcare che se di crisi si tratta, non è una crisi “ambientale” in quanto tale, ma uno squilibrio, una rottura nel rapporto fra la nostra specie e l’ecosistema nel quale viviamo.
È del tutto evidente che non esiste una temperatura “giusta” per l’atmosfera, o un determinato rapporto fra i milioni di specie viventi che sia di per sé ottimale o migliore di altri, a meno di non voler credere all’esistenza del Paradiso terrestre.
Ogni giudizio è un giudizio che diamo da un punto di vista antropocentrico, ossia della nostra condizione di esseri umani, di specie umana.
Ma anche qui non possiamo parlare semplicemente in termini di un equilibrio ottimale che sarebbe stato in qualche modo distrutto dalla nostra azione. Ragionare in questi termini significa porre umanità e ambiente, o umanità e natura, come due poli fissi e contrapposti, la cui posizione sarebbe immutabile. Tuttavia è indiscutibile che l’umanità stessa si sia sviluppata dalla natura, per via di evoluzione e di adattamento delle proprie condizioni di esistenza. E se pure è vero che la nostra storia è estremamente asimmetrica, che a centinaia di migliaia di anni di esistenza in condizioni grosso modo stabili, nei quali i cambiamenti hanno avuto un ritmo estremamente lento, sono seguite poche migliaia di anni, al massimo un paio di decine di migliaia, nelle quali lo sviluppo tecnologico, culturale, sociale dell’umanità ha indubbiamente cambiato il nostro rapporto con l’ambiente, questo non nega che di esso siamo pur sempre parte. Ne siamo condizionati e lo modifichiamo a nostra volta in modo radicale, e non certo da alcune generazioni, ma almeno dalla rivoluzione agricola che aprì la fase del Neolitico.
Ne era ben consapevole Engels, che indicava già 150 anni fa come gli effetti dell’attività umana sulla natura siano irreversibili e parte di un mutamento continuo nel quale non hanno posto concetti statici né di umanità, né di natura.
Questa la riflessione di Engels:
“Anche l’uomo sorge per differenziazione. Non solo individualmente, per differenziazione da un’unica cellula-uovo fino all’organismo più complicato che la natura produce: ma anche storicamente. Quando, dopo sforzi millenari, la differenziazione della mano dal piede e la stazione eretta furono definitivamente acquisite, allora l’uomo si distaccò nettamente dalla scimmia; allora furono poste le basi per lo sviluppo del linguaggio articolato e per quel poderoso perfezionamento del cervello, che da allora in poi ha fatto divenire invalicabile l’abisso esistente fra l’uomo e la scimmia. La specializzazione della mano significa lo strumento: e strumento significa l’attività umana specifica, la reazione trasformatrice dell’uomo sulla natura, la produzione. (…)
Solo l’uomo è riuscito ad imprimere il suo suggello sulla natura, non solo perché ha fatto mutare di luogo fauna e flora, ma perché ha modificato in tal modo l’aspetto, il clima, perfino gli animali e le piante della zona da lui abitata, che i risultati della sua attività potranno scomparire solo con l’estinzione generale di tutto il globo terrestre.” 1
Engels maturo riprende qui concetti già espressi con Marx alle origini della loro comune evoluzione politica e filosofica:
“Persino questa scienza ‘pura’ della natura ottiene il suo scopo, così come ottiene il suo materiale, soltanto attraverso il commercio e l’industria, attraverso l’attività pratica degli uomini. È tanto vero che questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, questa produzione, è la base dell’intero mondo sensibile, quale ora esiste, che se fosse interrotta anche per un solo anno Feuerbach non solo troverebbe un enorme cambiamento nel mondo naturale, ma gli verrebbe ben presto a mancare l’intero mondo umano, la sua stessa facoltà intuitiva, e anzi la sua stessa esistenza. È vero che la priorità della natura esterna rimane ferma, e che tutto questo non si può applicare agli uomini originari, prodotti da generatio aequivoca; ma questa distinzione ha senso solo in quanto si consideri l’uomo come distinto dalla natura. D’altronde questa natura che precede la storia umana non è la natura nella quale vive Feuerbach, non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione (…)” 2
Crisi ambientali nel senso indicato, ossia nel rapporto tra la produzione delle nostre condizioni di vita e le condizioni naturali, sono una costante nella storia dell’umanità: carestie, malattie, cambiamenti climatici, impoverimento dei terreni, ecc. hanno causato catastrofi ricorrenti nella storia, capaci di travolgere intere civiltà. Nel passato queste avevano in comune una condizione di scarso sviluppo delle forze produttive e quindi una prevalente subordinazione della società umana a fenomeni naturali esterni che non era in grado di dominare.
Sarebbe però sbagliato immaginare una relazione univoca: anche in passato l’attività economica, seppure molto meno sviluppata di quella di una società industriale, era in grado di intervenire su vasta scala sull’ambiente. Attività come il controllo delle acque, la selezione di specie naturali e vegetali in funzione delle nostre necessità, lo sterminio di specie ritenute dannose, lo sfruttamento e la modifica di terreni agricoli o di pascolo, ecc. non sono certo una prerogativa della nostra società. Non a caso la mitologia e la storiografia antica collegavano spesso le crisi politiche e sociali alle crisi ambientali, a dimostrazione che il rapporto tra la società umana e la natura non è mai stato considerato in modo unilaterale, ma visto giustamente come una relazione in cui cause ed effetti, forze attive e forze passive, spesso si scambiano di ruolo e nella quale anche l’assetto sociale e politico svolge una parte tutt’altro che secondaria.
Anzi si potrebbe dire che se oggi si parla di crisi ambientale in termini più estremi e “ultimativi” non è perché le nostre condizioni di vita su questo pianeta siano peggiori o maggiormente a rischio di quanto siano mai state in passato. È realistico piuttosto affermare il contrario: le possibilità della specie umana non solo di sopravvivere, ma di avere un ulteriore sviluppo, non sono mai state così alte. È proprio l’enorme sviluppo tecnologico che oggi ci permette di porci problemi come questo: è proprio perché ne abbiamo in mano perlomeno le soluzioni potenziali che possiamo considerarli come problemi oggetto di analisi, dibattito e scelte pratiche. Come indica Engels (vedi oltre), è proprio lo sviluppo senza precedenti delle forze produttive che rende tanto necessario quanto possibile il passaggio a un modo di produzione pianificato, guidato non dalla ricerca del profitto ma da una pianificazione basata sui bisogni sociali collettivi, dei quali evidentemente quello di vivere in un ambiente salubre e sicuro è uno dei principali.
Neo-malthusianesmo e decrescita
Avendo accennato alcuni punti che collegano il nostro presente al nostro passato, possiamo provare a indicare quelle che invece sono specificità della situazione attuale, che si collegano quindi non a delle costanti della storia umana (o per essere precisi a delle caratteristiche di lungo e lunghissimo periodo), ma allo specifico della nostra epoca storica e del modo di produzione capitalistico che prevale oggi nel mondo.
Uno dei punti di svolta nell’elaborazione delle posizioni ambientaliste viene considerato il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo, elaborato nel 1972 dal Massachusetts Institute of Technology e più volte aggiornato.
Quel rapporto proponeva un approccio di tipo malthusiano, secondo il quale la crescita economica entrava inevitabilmente in conflitto con la scarsità crescente delle risorse e che questo avrebbe portato ad un certo punto nel secolo successivo a un crollo della popolazione e della capacità produttiva.
Il riferimento è al pensiero dell’economista del sec. XIX Thomas Malthus, che in base alla considerazione che mentre la popolazione cresce in progressione geometrica, la produzione agricola cresce in proporzione aritmetica, lo sviluppo industriale, riducendo la proporzione di popolazione dedita all’agricoltura in favore di quella dell’industria e dei servizi, avrebbe condotto ad un certo punto alla carestia. Inutile dire che tale previsione, dalla logica apparentemente ferrea, non si realizzò affatto.
Il rapporto del 1972 estendeva il concetto di esaurimento delle risorse dall’agricoltura all’insieme del nostro scambio con la natura (materie prime, suolo, atmosfera, ecc.) traendone conclusioni analoghe.
Indubbiamente parve negli anni successivi che i dati confermassero fin troppo nettamente la previsione, soprattutto alla luce della crisi petrolifera che dal 1973-74 fece parlare di esaurimento di questa materia prima fondamentale per il sistema industriale e non solo. Mezzo secolo dopo vediamo come non solo il petrolio non si sia esaurito, ma addirittura il settore sia in uno stato di sovraccapacità produttiva a livello mondiale. A prescindere da ogni altra considerazione, questo esempio ci aiuta a capire che non esiste una relazione univoca, puramente quantitativa, tra due grandezze (quali che siano) o tra un numero limitato di fenomeni, che possa spiegare fenomeni complessi che abbracciano l’insieme del sistema sociale e produttivo. L’attuale pandemia ci ha offerto numerosi esempi di questo tipo di errore di metodo da buona parte di chi ha elaborato le misure di contrasto.
Lo studio sistematico di ciascuna di queste relazioni è la base necessaria di ogni conoscenza scientifica, ma solo la base: va respinto il meccanicismo e il riduzionismo con i quali vengono poi quasi sempre poste alla base di generalizzazioni teoriche che si dimostrano invariabilmente carenti.
L’approccio neomalthusiano, a cui è collegato il concetto di “impronta ecologica”, si ricollega direttamente al primo filone di critica indicato in apertura, ossia a quello che si contrappone in modo più esplicito, e si può dire onesto, al marxismo e al socialismo. Il programma che deriva logicamente da questa impostazione di analisi è quello della decrescita. Da un punto di vista economico, questo significa invertire processi quali la divisione internazionale del lavoro, la creazione di un unico mercato mondiale, la produzione su vasta scala, in favore di autoproduzioni su piccola scala, autosufficienza, ecc. Sul piano sociale questo significa tornare alle forme di produzione e scambio dominate dalla piccola proprietà, ossia a quelle che esistevano nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico, quando la grande industria e il commercio su vasta scala erano ancora inesistenti o embrionali.
Il capitalismo generalizza e rende universale la produzione di merci e quindi la produzione di valori di scambio a discapito di quella di valori d’uso. Distrugge la vecchia economia domestica (contadina e non solo), trasforma non solo ogni prodotto, ma anche ogni servizio, in una merce acquistabile: istruzione, salute, vita sociale, svago, ecc., vengono tutti trasformati in merci vendute sul mercato e prodotte capitalisticamente, ossia da lavoratori salariati alle dipendenze del capitale.
È questo processo che ha dato al capitalismo la sua forza espansiva e pervasiva, facendone il primo modo di produzione capace di collegare l’intero pianeta in un unico sistema di produzione e di scambio e di porre le basi per una socializzazione mai vista dell’intera produzione.
Tuttavia la produzione di valore di scambio è necessariamente legata alla realizzazione di tale valore tramite la vendita. Vendere la merce e realizzarne appieno il valore e il plusvalore in essa contenuto è l’unico fine e motore della produzione capitalistica.
Questo ha conseguenze precise nella strutturale incapacità della borghesia come classe dominante di controllare le conseguenze della produzione che essa stessa dirige e organizza, in particolare delle conseguenze a medio e lungo termine.
Marx ed Engels su umanità e natura
Lungi dall’essere dei passivi apologeti dello sviluppo industriale e scientifico, Marx ed Engels erano ben consapevoli del fatto che tale progresso si realizzava all’interno di una società divisa in classi e di un’economia dominata dal mercato, che ne amplificava anche gli effetti imprevisti, contrari e persino distruttivi.
“Gli uomini, al contrario [degli animali], quanto più si allontanano dall’animalità intesa nel senso ristretto della parola, tanto più fanno essi stessi la loro storia, consapevolmente; tanto minore diviene l’influsso su tale storia di fatti imprevisti e di forze incontrollate, tanto più esattamente il risultato storico corrisponde allo scopo prestabilito. Ma se poi applichiamo questo criterio alla società umana, anche a quella dei popoli più evoluti nel presente, troviamo che in essa sussiste ancora una colossale sproporzione fra le mete prefissate e i risultati raggiunti; che sono i fatti impreveduti che dominano, che le forze incontrollate sono molto più potenti di quelle messe in movimento secondo un piano. E non può essere altrimenti, finché l’attività storica più essenziale degli uomini, quell’attività che ha sollevato l’uomo dall’animalità all’umanità e che costituisce la base materiale di tutte le sue altre attività: la produzione di ciò che è necessario per vivere (il che significa oggi la produzione sociale), resta soggetta all’alterno gioco delle influenze imprevedute di forze incontrollate e realizza solo eccezionalmente l’obiettivo voluto, molto più spesso invece esattamente l’opposto. Nei paesi industriali più progrediti noi abbiamo domato le forze naturali e le abbiamo costrette al servizio degli uomini; abbiamo così moltiplicato all’infinito la produzione, tanto che un fanciullo oggi produce più di quello che producevano ieri cento adulti. E quali sono i risultati? Crescente sopralavoro e miseria crescente delle masse, e una grande crisi ogni dieci anni. Darwin non sapeva quale amara satira scrivesse sugli uomini, ed in particolare sui suoi compatrioti, quando dimostrava che la libera concorrenza, la lotta per l’esistenza, che gli economisti esaltano come il più alto prodotto storico, sono lo stato normale del regno animale. Solo un’organizzazione cosciente della produzione sociale, nella quale si produce e si ripartisce secondo un piano, può sollevare gli uomini al di sopra del restante mondo animale sotto l’aspetto sociale di tanto, quanto la produzione in generale lo ha fatto per l’uomo come specie. L’evoluzione storica rende ogni giorno più indispensabile, ma anche ogni giorno più realizzabile una tale organizzazione.” 3
Engels parla qui soprattutto delle conseguenze sociali della produzione capitalistica, ma sia Marx che Engels erano ben consapevoli del fatto che la mancanza di pianificazione e la logica di breve termine che dominano l’economia di mercato hanno anche precise conseguenze sulla natura e toccarono l’argomento ad esempio nel Capitale, sia pure in forma non sistematica, in particolare nelle sezioni che trattano dell’agricoltura.
Trattando ad esempio dello sviluppo dell’agricoltura capitalistica su vasta scala che soppiantava la piccola azienda rurale, Marx scrisse:
“Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice della società [ossia la grande industria e il proletariato, la classe rivoluzionaria – Ndr], dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. Ma insieme essa costringe mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo. (…)
E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo. (…)
La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” 4
Ritorna sullo stesso punto nel vol. III del Capitale:
“La grande industria e la grande agricoltura gestita industrialmente operano in comune. Se esse originariamente si dividono per il fatto che la prima dilapida e rovina prevalentemente la forza-lavoro, e quindi la forza naturale dell’uomo, e la seconda più direttamente la forza naturale della terra, più tardi invece esse si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai, e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra.” 5
L’origine di queste rotture nel “ricambio organico” tra umanità e natura è chiaramente indicata nella proprietà privata dei mezzi di produzione e della terra, e nella produzione per il mercato e il profitto, che compromette il futuro:
“Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.” 6
E ancora Engels, nella Dialettica della natura, ribadiva la parzialità del progresso tecnologico e la necessità di considerarlo da un punto di vista generale, di lungo periodo, senza limitarsi ai suoi risultati immediati, cosa a cui tende fatalmente il capitale che valuta solo il ritorno immediato dell’investimento:
“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo speso annullano a loro volta le prime conseguenze. (…)
Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo appropriato.” 7
Il contributo principale che ci viene dal marxismo nell’affrontare la questione ambientale, tuttavia, non risiede solo in questi e altri spunti e riflessioni contenuti negli scritti dei suoi fondatori, che obiettivamente non hanno un carattere organico.
Viene in primo luogo dalla loro concezione filosofica, che permette di considerare il rapporto tra umanità e ambiente in modo dialettico, un rapporto nel quale non solo l’attività umana e la natura agiscono l’una sull’altra modificandosi entrambe in modo irreversibile, ma anche nel quale la nostra stessa capacità di comprensione delle leggi naturali che tentiamo di sfruttare è continuamente trasformata e trascende sempre se stessa in base all’evoluzione materiale di questo stesso rapporto (su questo si trovano ragionamenti fondamentali nella prima sezione dell’Anti-Dühring di Engels, dove sottopone a critica il concetto di “verità eterne” nel campo scientifico).
In secondo luogo, viene dall’analisi specifica della produzione capitalistica. Non c’è infatti nessuna critica di tipo moralistico alla borghesia rispetto alla dilapidazione che essa fa delle risorse naturali e umane (come dimostrano i passi citati sopra), bensì una considerazione oggettiva assai più profonda.
La produzione capitalistica è produzione di merci, ossia produzione di valori di scambio. Questo concetto, che Marx trae, perfezionandolo, dai classici dell’economia politica borghese, altro non indica che la produzione in funzione della vendita del prodotto e non del suo consumo diretto. Ogni bene prodotto capitalisticamente è una merce, è prodotto per essere venduto, in modo da realizzare il valore e il plusvalore in esso contenuto. Questo prescinde da qualsiasi considerazione sulla natura qualitativa del bene in questione, sulla sua effettiva “utilità”, salubrità, razionalità o altro.
Valore d’uso vs valore di scambio?
Non è un caso quindi se alcuni filoni dell’ambientalismo pongano la questione di affrontare la questione precisamente abbandonando la produzione mercantile a vantaggio di una produzione di valori d’uso: autoproduzioni alimentari, energetiche, abitative, ecc.
Tuttavia queste posizioni non tengono conto di un fatto fondamentale: una simile produzione, estranea allo scambio sul mercato, nella società odierna non può che avere un carattere estremamente marginale. La divisione sociale del lavoro oggi è sviluppata su una scala mai vista nella storia dell’umanità, e non si può semplicemente “uscirne”, se non in casi estremi di scelte ascetiche che possono riguardare solo un numero ristrettissimo di individui. Inoltre se anche esistesse un tipo di economia così prefigurato, questo sarebbe l’esatto opposto di qualsiasi idea di pianificazione e gestione comune e razionale delle risorse, dato che sarebbe dominata in modo schiacciante dalla soddisfazione di bisogni basilari immediati su base quotidiana o quasi.
Il superamento del valore di scambio e dello scambio mercantile non può avvenire tornando indietro a forme precapitalistiche di produzione, se non al prezzo di un tracollo delle condizioni di vita, non solo materiali, ma anche culturali, dell’umanità.
Può tuttavia avvenire, come indica Engels nel passo sopra citato, in “avanti”, ossia non rinnegando ma prendendo il controllo delle forze produttive già esistenti, facendole operare secondo piani di produzione, consumo e scambio decisi razionalmente dall’insieme dei lavoratori e della società, sulle basi dei quali sarebbe possibile non solo l’eliminazione di sprechi, della dissipazione di risorse, ecc. ma anche un ulteriore, enorme passo avanti nella nostra comprensione delle stesse leggi naturali e sociali che permetterebbe una ulteriore evoluzione della specie umana.
Su queste basi indubbiamente in futuro il grosso della produzione non sarà frutto del lavoro salariato, che sarà ridotto a poche ore alla settimana, ma del libero lavoro associato della collettività, in forme che sarebbe pura speculazione immaginare oggi, e in questo senso sarebbe definitivamente superata la produzione mercantile.
Per ragioni di spazio non possiamo qui citare numerose altre pagine che testimoniano la consapevolezza di Marx ed Engels di problemi quali l’espansione artificiale e alienante del consumo, la contraddizione tra città e campagna, ecc.
“Ecomarxismo” o eclettismo?
Questi concetti sono centrali nel marxismo e smentiscono l’idea delle correnti “ecosocialiste” che sia necessario integrare da un punto di vista teorico il marxismo per potere affrontare la questione ambientale. Il che non vuol dire che non siano necessari importanti analisi per integrare sia le scoperte scientifiche successive, sia l’effettivo sviluppo del capitalismo.
Ma come detto, l’ecosocialismo ritiene necessario estendere e integrare nel marxismo, da un punto di vista teorico, una teoria della crisi ecologica.
È utile qui riprendere alcuni punti dell’elaborazione di O’Connor, che ha cercato di razionalizzare una teoria della “crisi ecologica” all’interno dell’analisi marxista. James O’Connor (1930-2017) è stato infatti un pioniere di questa tendenza, fondando la rivista Capitalism Nature Socialism.
O’Connor cerca di teorizzare una “seconda contraddizione” del capitalismo. Tale crisi sarebbe generata dalla “contraddizione tra i rapporti capitalistici di produzione (le forze produttive) e le condizioni della produzione capitalistica, ovvero ‘i rapporti e le forze capitalistiche della produzione sociale’.” 8
“Si può dire che le condizioni della produzione includono la materialità e la socialità mercificate o capitalizzate, ed escludono invece la produzione, la distribuzione e lo scambio delle merci.” 9
O’Connor teorizza quindi due crisi: una, quella analizzata da Marx ed Engels, è la crisi del capitalismo determinata dalla contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, ossia dal fatto che le forze produttive generate dal capitalismo entrano in contrasto con la proprietà privata dei mezzi di produzione. La conseguenza sono le crisi economiche ricorrenti che si manifestano con la sovrapproduzione di capitale e la conseguente distruzione di ricchezze e mezzi di produzione che dal punto di vista del sistema sono “in eccesso”. Disoccupazione di massa, chiusure di imprese, impoverimento e polarizzazione sociale sono le conseguenze visibili della crisi del capitalismo.
Nella teoria ecomarxista tutto questo avviene in una sfera a sua volta inserita in una sfera esterna costituita appunto dalle “condizioni della produzione”, ossia l’ambiente nel quale viviamo che è oggetto dello sfruttamento capitalistico.
Ora, indubbiamente ogni modo di produzione ha stabilito un diverso rapporto con l’ambiente: tra un’economia di pastorizia nomade, un sistema di agricoltura estensiva, uno di agricoltura intensiva, un sistema manifatturiero, uno industriale vi sono enormi differenze nel rapporto con cui il lavoro si pone in relazione con il suo oggetto, ossia la natura stessa.
È quindi giusto e necessario comprendere le conseguenze specifiche del rapporto che il capitalismo stabilisce con la natura.
Tuttavia questo è assai diverso dal dire che in tale rapporto si genera una “seconda” crisi inerente al capitalismo stesso, e infatti O’Connor non riesce a darne una rappresentazione coerente.
Da un lato egli infatti rifiuta correttamente le visioni borghesi e piccolo-borghesi dell’ambientalismo, quando si scaglia contro l’“universo di stelle spente e dei buchi neri del naturalismo borghese, del neo-malthusianesimo, del tecnocraticismo costituito dal Club di Roma e dal profondo ecologismo romantico e dell‘uni-mondismo’ delle Nazioni Unite”. 10
Dall’altra parte tuttavia non riesce a spiegare in modo convincente quali sarebbero i legami materiali, strutturali tra la le “due crisi” del capitalismo. Anzi, nel tentativo di giungere a questa definizione, giunge a una prospettiva radicalmente errata del rapporto fra crisi del capitalismo e transizione al socialismo.
Indubbiamente il rapporto fra attività economica e condizioni ambientali può essere causa o concausa di una
crisi capitalistica, come lo stesso Marx indicava quando ad esempio citava i “cattivi raccolti”. Terremoti, alluvioni, epidemie, ecc. possono costituire a determinate condizioni l’innesco di una crisi economica, come lo possono essere anche fattori sovrastrutturali, politici: conflitti internazionali, guerre, ecc. Tuttavia se da un punto di vista concreto è necessario uno studio della fenomenologia delle crisi capitalistiche (ogni crisi ha le sue caratteristiche specifiche che devono essere comprese per potere agire politicamente), da un punto di vista teorico generale questo non risolve la questione, non spiega la relazione strutturale che c’è fra capitalismo e crisi. Per fare un esempio concreto, la prima grande crisi del secondo dopoguerra scoppiò nel 1974-75 a seguito del rialzo dei prezzi del petrolio, a sua volta causato da un forte squilibrio fra domanda e offerta. Proprio per questo la borghesia l’ha sempre definita “crisi petrolifera”. Tuttavia questa definizione era volutamente mistificatoria e puntava a nascondere il fatto che il grande boom degli anni ’50 e ’60 era giunto a termine non perché il petrolio scarseggiasse (quello fu appunto l’innesco), ma perché la stessa dinamica del capitalismo conduceva inevitabilmente dal boom alla crisi di sovrapproduzione.
Come ben presto si vide, se a 7 dollari al barile il petrolio scarseggiava, a 50 o 100 non scarseggiava più e l’economia mondiale ha visto successivamente diversi cicli di crescita-crisi.
O’Connor cerca di dare una base economica alla sua teoria sostenendo che i costi crescenti determinati dalle contraddizioni ambientali andrebbero ad incidere sulla produttività e quindi sulla profittabilità del capitale:
“Nella teoria marxista tradizionale, la contraddizione tra produzione e realizzazione del valore e crisi economica prende la forma della ‘crisi di realizzazione’, o crisi di sovrapproduzione di capitale. Nella teoria eco-marxista, la crisi economica assume la forma della ‘crisi di liquidità’, o sottoproduzione di capitale.” 11
Ma la scarsità di capitale, se può essere causa di contraddizioni o anche scatenare una crisi temporanea o circoscritta a determinati settori o paesi, non è certo una causa strutturale della crisi capitalistica, il contrario: basti pensare proprio al “miracolo economico” del dopoguerra, una delle cui cause fu precisamente l’enorme distruzione causata dalla Seconda guerra mondiale, che offrì un enorme terreno di investimento al capitale in primo luogo americano. (Ci furono molte altre cause ma non è questo il luogo per trattarle).
Parlando di “crisi di liquidità” O’Connor si riferisce al fatto che le condizioni generali che permettono la produzione capitalistica implicano spese che non possono essere sostenute dal capitale privato e richiedono l’intervento dello Stato, e questo è senz’altro corretto. Tuttavia questo non vale solo per le problematiche ambientali in senso stretto: da sempre lo Stato borghese agisce in campo economico come “capitalista collettivo”, sobbarcandosi investimenti che per il lungo periodo di ammortamento difficilmente possono essere sostenuti dai privati: costruzione di reti stradali, ferroviarie, canalizzazioni, interventi sui terreni (bonifiche, messe in sicurezza, ecc.), investimenti in industrie di base, nell’energia, a volte costruzione di alloggi, infrastrutture di ogni genere, ecc.
Scrive ancora O’Connor
“Nessuno ha mai stimato il reddito complessivo necessario per ripagare i danni o la distruzione delle condizioni di produzione e/o per ripristinare tali condizioni e svilupparne altre sostitutive. È possibile affermare che il reddito totale impiegato per proteggere o ripristinare le condizioni di produzione ammonti ad almeno la metà o più del prodotto sociale totale – spese improduttive dal punto di vista dell’auto-espansione del capitale.” 12
Qui l’errore emerge chiaramente. Dal punto di vista del capitale queste non sono necessariamente spese improduttive, ma piuttosto un ulteriore campo di investimento. Dal punto di vista della società, inquinare e poi bonificare un sito è una spesa improduttiva. Dal punto di vista del capitale sono due occasioni equivalenti di produrre un bene per ricavarne profitto.
È giusto dire che questa è una dimostrazione della irrazionalità e ingiustizia di questo sistema, a maggior ragione perché nella quasi totalità dei casi il danno ambientale verrà vissuto materialmente dalla parte più povera e sfruttata della popolazione. È un argomento centrale che motiva una lotta contro questo sistema, che costringe la maggioranza della popolazione a respirare aria e bere acque inquinate, a mangiare cibi scadenti e spesso nocivi, a vivere in siti degradati o pericolosi. Ma è errato dire che di per sé è una causa strutturale di crisi del capitalismo.
Potremmo citare molti altri esempi di queste contraddizioni, che derivano precisamente dal fatto che O’Connor tenta di conciliare la teoria marxista (che a parole accetta) con una teoria estranea. Questo tentativo ci autorizza a definire l’ecomarxismo non come uno sviluppo del marxismo, ma come una teoria eclettica. E non a caso egli fa riferimenti sono alla “teoria critica” (ossia alla Scuola di Francoforte) e alla necessità di integrare da un punto di vista teorico il femminismo, l’antirazzismo ecc. nel marxismo, come se questo non contenesse invece una spiegazione coerente non solo del funzionamento del capitalismo, ma anche delle diverse forme di oppressione che in esso vivono, oltre all’oppressione di classe.
L’eclettismo teorico e il riformismo pratico
Come sempre l’eclettismo teorico comporta precise conseguenze politiche. Secondo O’Connor infatti sia la crisi capitalista “classica” che la crisi ecologica indurrebbero a una maggiore socializzazione della produzione, attraverso la quale la borghesia tenta di superare le crisi stesse, e questa socializzazione avviene fondamentalmente attraverso lo Stato:
“(…) ogni ente statale e partito politico può essere considerato come una sorta di interfaccia tra il capitale e la natura. In breve, il fatto che il capitale debba o meno fronteggiare ‘barriere esterne’ all’accumulazione, ivi comprese le barriere esterne che assumono la forma di nuove lotte sociali per la definizione e l’uso delle condizioni di produzione (cioè ‘barriere sociali’ che mediano tra le barriere interne o specifiche, e quelle esterne o generali), indipendentemente dal fatto che queste ‘barriere esterne’ si presentino oppure no nella forma della crisi economica, indipendentemente dal fatto che la crisi economica sia risolta a favore o contro il capitale, si può sostenere che le questioni politiche e ideologiche vengono prima di tutto, mentre le questioni economiche sono secondarie. Ciò accade perché le condizioni della produzione sono per definizione politicizzate (diversamente dalla produzione stessa) e anche perché al centro di tutto il suo lavoro Marx ha privilegiato la forza lavoro come principale condizione di produzione (…)” 13
In un solo capoverso qui si sostiene che: 1) lo Stato e i partiti non sono espressione degli interessi di classe (nel caso dello Stato della classe dominante), ma “mediatori” tra l’insieme della produzione capitalistica (che comprende sia il capitale che il lavoro) e la natura; 2) che la produzione (ma dovrebbe anche dire la distribuzione) non è “politicizzata”, come se il processo di produzione capitalistico non fosse il terreno principale dello scontro di classe e quindi dello scontro politico; 3) che Marx non avrebbe analizzato altra condizione della produzione capitalistica oltre alla disponibilità di forza lavoro, come se non ci fossero centinaia di pagine dedicate allo sviluppo della proprietà privata della terra, al colonialismo e alla creazione del mercato mondiale, alla distruzione violenta dei precedenti modi di produzione, ecc.
L’approdo interclassista è inevitabile:
“(…) la nostra discussione sulle condizioni di produzione e sulle conseguenti contraddizioni dimostra chiaramente come, nelle nuove lotte sociali, vi sia implicita o latente una domanda universale, quella di democratizzare lo Stato (che regola la disponibilità delle condizioni di produzione), la famiglia, la comunità locale, ecc. In realtà molte lotte sociali in difesa dell’integrità di particolari luoghi non riescono a diventare lotte universali, perciò a vincere, e al tempo stesso mantenere la propria diversità, se non quando diventano lotte per la democratizzazione dello Stato e si uniscono con le lotte del movimento operaio, riconoscendo quel che hanno in comune, ossia la cooperazione del lavoro, teorizzando così l’unità del lavoro sociale.” 14
Lo Stato capitalista come luogo dove il movimento operaio e il movimento ambientalista, attraverso la sua “democratizzazione”, potrebbero realizzare l’“unità del lavoro sociale”… cos’è questo se non il più piatto riformismo, in nulla distinguibile dal classico riformismo che da 150 anni costituisce il peggiore ostacolo a una lotta coerente contro il capitalismo?
Breve conclusione
Oggi i movimenti ambientalisti sono sottoposti a una enorme pressione da parte della classe dominante. Importanti settori del grande capitale hanno impugnato la bandiera green come strumento per combattere i propri concorrenti e per drenare risorse pubbliche a proprio vantaggio. D’altra parte, un settore significativo del movimento che intuisce questa manovra e vorrebbe opporsi è orientato soprattutto a posizioni vicine alla decrescita: una teoria utopistica (il ritorno a forme di produzione e scambio storicamente già superate), ma che ha potenzialmente pesanti risvolti antioperai, laddove predica la rinuncia, la limitazione del consumo da parte delle masse, che sono parole d’ordine benvenute al capitale quando vuole far tirare la cinghia ai lavoratori per aumentare i propri profitti e battere la concorrenza, imporre nuove tasse “ecologiche”, ecc.
Come marxisti pensiamo che sia un dovere intervenire attivamente in questi movimenti proprio per contrastare queste posizioni e per affermare in teoria e nella pratica che solo se la classe lavoratrice prende il pieno controllo dei mezzi di produzione e scambio, della terra e delle risorse naturali sarà possibile avviarsi a un sistema produttivo capace di soddisfare in maniera razionale e non distruttiva i bisogni sociali, aprendo la strada a una fase superiore nella vita dell’umanità. Ma per condurre questo intervento abbiamo l’assoluta necessità di contrastare ogni forma di eclettismo e di confusione. Crediamo che, seppure tutt’altro che esaustivi, i punti sollevati in questo articolo debbano essere parte basilare di questo compito.
Note
1. Dialettica della natura, pag. 331.
2. L’ideologia tedesca, pag. 17.
3. Dialettica della natura, pag. 332
4. Il capitale, vol. I, pagg. 617-19
5. Il capitale, vol. III pag. 1093.
6. Il capitale, vol. III, pag. 1045. Un ragionamento simile è a pag. 841, nota 27.
7. Dialettica della natura, pagg. 467-8.
8. La seconda contraddizione del capitalismo, pag. 45.
9. ibidem, pag. 46.
10. ibidem, pag. 39.
11. ibidem, pag. 47.
12. ibidem, pag. 62.
13. ibidem, pag. 58-59.
14. ibidem, pag. 78-79.
Testi citati
Friedrich Engels, Dialettica della natura, in MArx-Engels, Opere complete, vol. XXV, Editori Riuniti, 1974.
Karl Marx, Il capitale, Einaudi, 1975.
KArl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1977.
James O’Connor, La seconda contraddizione del capitalismo, Ombre corte, 2021.