Grecia – La destra vince sulle macerie lasciate da Syriza
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12 Luglio 2019Lo scorso 20 giugno le forze armate iraniane hanno abbattuto un drone statunitense al al largo delle stretto di Ormuz dopo che (a detta di Teheran) aveva violato i confini nazionali. Nelle ore seguenti da parte di Washington si sono susseguiti proclami minacciosi. Trump avrebbe anche dato l’ordine di lanciare un attacco missilistico contro l’Iran. Lo ha ritirato solo dopo che il Pentagono ha ritenuto svantaggiosa per gli Usa un’escalation del conflitto.
Lo scontro, tuttavia è solo rimandato. Negli ultimi mesi gli Stati uniti hanno ammassato navi e portaerei nel Golfo persico: una flotta da guerra, una squadra di bombardieri e una batteria di missili Patriot stazionano nella zona dal marzo scorso. Lo scorso 4 luglio, la Gran Bretagna, sotto ordine americano, ha sequestrato una petroliera iraniana al largo di Gibilterra, “perchè diretta in Siria”. Un fatto mai accaduto in otto anni di guerra civile siriana.
Il New York Times riporta che in una riunione del consiglio di sicurezza nazionale alla Casa bianca, il vicesegretario alla Difesa abbia presentato un piano volto a impiegare fino a 120mila soldati in Medio oriente, nel caso in cui l’Iran continuasse nello sviluppo della tecnologia nucleare (ricordiamo, en passant, che una quantità simile di soldati furono utilizzati dagli Usa per l’invasione dell’Iraq nel 2003). Anche se tale obiettivo sarà praticamente impossibile da raggiungere, vista anche l’opposizione dell’opinione pubblica americana a nuove avventure fuori dai confini Usa, indica chiaramente la direzione della politica del Pentagono.
Dal suo insediamento, Trump ha imposto una svolta a 180 gradi rispetto alla politica estera di Obama con l’Iran. Nel maggio 2018 è uscito in maniera unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano stretto dal suo predecessore e ha imposto nuove sanzioni economiche verso la Repubblica islamica, non curandosi dello scontro con l’Unione europea, all’epoca tra i sottoscrittori dell’accordo.
Nel suo tentativo di arrivare a un compromesso con l’Iran, Obama non era mosso da istinti pacifisti. L’amministrazione democratica era seriamente preoccupata dai pericoli di un aggravamento della guerra civile siriana, e dal coinvolgimento degli Usa in essa. Obama non voleva assolutamente ripetere l’esperienza dell’Iraq e dell’Afghanistan (e nemmeno della Libia dove aveva subito la perdita del suo ambasciatore in un attentato a Bengasi) e puntava a stabilire un nuovo equilibrio, meno sfavorevole agli Usa, nella regione. Dopotutto l’Iraq, dopo la caduta di Saddam, è entrato in orbita iraniana, come del resto il Libano, mentre le truppe iraniane e quelle di Hezbollah hanno avuto un ruolo molto importante nella mantenimento al potere di Assad in Siria.
L’operazione fu comunque realizzata a metà: Obama non ristabilì mai le relazioni diplomatiche con gli Ayatollah e le sanzioni (anche se parzialmente ridotte) continuarono.
Teheran non aveva alcuna ragione per non rispettare all’accordo sul nucleare, anzi ne aveva bisogno per far ripartire le relazioni economiche con l’Occidente. L’elite iraniana vorrebbe tornare a sedersi ai tavoli che contano, naturalmente dopo che sia stato riconosciuta la sua forza in Medio oriente.
È proprio questo che gli Usa e loro alleati non vogliono. Trump, allo stesso tempo, non ha intenzione di scatenare un guerra con l’Iran: con le sanzioni e le minacce, vorrebbe piegare gli Ayatollah, al fine di sedersi a un nuovo tavolo di trattative e stipulare un nuovo accordo, molto più vantaggioso per Washington. Ma questa guerra delle sanzioni potrebbe uscire fuori controllo. Cina e Russia mantengono strette relazioni con l’Iran (Pechino importa da Teheran l’11% del suo fabbisogno petrolifero), mentre la situazione economica si sta aggravando nel paese. Secondo le stime del Fmi, l’inflazione nel 2018 era al 31%, mente la produzione di greggio si è ridotta da 3,8 milioni di barili al giorno nel 2018 a 3 milioni nel marzo 2019.
Le nuove sanzioni sono al limite della guerra non dichiarata. Colpiranno l’80% dell’economia iraniana) e anche gli Hezbollah in Libano. Una delle conseguenze immediate sarà la svalutazione del rial,la valuta nazionale, con un’impennata ulteriore dell’inflazione e un colpo duro al settore privato.
Davanti alle provocazioni di Trump, l’Iran ha deciso di far ripartire il programma di arricchimento dell’uranio. Vedendo l’esempio della Corea del Nord, Teheran potrebbe considerare che la minaccia di avere la bomba atomica è piuttosto utile sul terreno delle relazioni internazionali. Sul versante interno, il governo è stato subito pronto a rispolverare la retorica antimperialista per radunare le masse attorno al regime e silenziare, almeno temporaneamente, le proteste di massa che avevano caratterizzato la fine del 2018 e l’inizio del 2019.
Arabia saudita e Israele
Con Trump, gli Usa sono tornati alle tradizionali alleanze nel Medio oriente, l’Arabia saudita e Israele, che si erano sempre opposti all’accordo del 2015. Ciò è avvenuto soprattutto perché i rapporti di forza nella regione erano divenuti più sfavorevoli per Washington.
L’ascesa dell’Iran rappresenta una seria minaccia per l’Arabia saudita, non solo per le sue ambizioni imperialiste nella regione, ma anche perché l’Iran è un punto di riferimento per tutti i movimenti sciiti nella penisola araba, e particolarmente nei territori a est del regno da sempre ricchi di petrolio. Questa è una della ragioni alla base dell’intervento saudita in Yemen, paese chiave anche per la sua collocazione geografica, e dove i ribelli Houthi, nonostante un grande spiegamento di forze da parte di Riyad, sono lungi dall’essere domati. Quando la guerra iniziò, nel 2015, l’Arabia saudita pensava che sarebbe stato un affare di pochi mesi. Dopo quattro anni (e 67mila vittime), la coalizione di monarchie arabe, sostenuta dall’occidente, non è riuscita a sconfiggere la ribellione. Anzi gli Houthi hanno guadagnato terreno negli ultimi mesi e hanno iniziato a lanciare missili contro in territorio saudita. Gli alleati mostrano crescenti segni di nervosismo: gli Emirati arabi stanno progressivamente ritirando le loro truppe “preoccupati per il pericolo proveniente dall’Iran”
Possiamo considerare un fallimento l’intervento militare di Bin Salman, e questo non può che aggravare una crisi latente nella petromonarchia saudita.
Israele è l’altro bastione degli interessi degli Stati uniti nella regione. Ha fatto della sua superiorità in campo bellico uno dei fattori fondamentali per la sua espansione territoriale in questi 70 anni. L’influenza militare crescente dell’Iran nel Medio oriente, soprattutto in paesi confinanti come Libano e Siria, non può essere tollerata da Israele. Ancora meno può essere concesso all’Iran di procedere con i test nucleari che potrebbe minare il monopolio israeliano nel campo nucleare.
Dal 2015 Israele ha portato avanti attacchi costanti verso la Siria e in particolare verso le milizie di Hezbollah e le forze iraniane impiegate nella guerra civile, nella più completa impunità internazionale. Secondo il Jerusalem post, negli ultimi 12 mesi ci sono stati oltre 800 di questi attacchi: l’ultimo, una settimana fa ha fatto 15 morti, di cui sette civili.
Trump ha riconosciuto nel marzo scorso la sovranità israeliana sulle alture del golan, territorio strappato alla Siria nel 1967 nel corso della guerra dei sei giorni. Israele lo ha premiato denominando la zona “Trump heights” (le alture di Trump).
La “nuova Palestina” proposta recentemente dal Presidente Usa, è una farsa. Insisterebbe su un territorio ancora più esiguo di quello controllato ora dall’Anp e da Hamas e il dominio da parte di Israele sarebbe ancora più stretto.
La minaccia iraniana è quanto mai preziosa per Netanyahu, un primo ministro in crisi, insidiato da accuse di corruzione e costretto a convocare nuove elezioni politiche a settembre, causa l’incapacità di formare una coalizione di governo.
Come spiega Alberto Negri, in un articolo dello scorso 23 giugno su Il manifesto “Gli Usa, Israele, le potenze sunnite del Golfo condividono il piano di fare fuori il regime sciita. Certo, come in Iraq nel 2003, non hanno alcuna idea di come sostituirlo.”
Alleanze temporanee
Il fatto più preoccupante per l’imperialismo è che rispetto al 2003, la situazione è molto più instabile. Inoltre, da alcuni alleati di allora sarebbe meglio guardarsi le spalle.
Il primo di questi è la Turchia. Dal secondo dopoguerra è un paese chiave per gli interessi occidentali nell’area, secondo esercito per effettivi della Nato, ma con Erdogan ha operato una differenziazione rispetto alla politica estera precedente. Uno spartiacque importante è stata la guerra civile in Siria: Ankara non ha mai digerito l’appoggio degli Stati uniti ai curdi siriani. Il contenimento di qualunque ambizione da parte curda, finanche di autonomia territoriale è uno dei pilastri della politica turca. Un altro punto di frizione è stato il fallito colpo di stato del luglio 2016. Erdogan accusa gli Stati uniti di complicità nell’azione e di ospitare Fetullah Gulen, l’ideatore del golpe, secondo il governo turco.
Tutta la strategia di Erdogan negli ultimi anni è volta a fare assumere alla Turchia un ruolo di potenza regionale: per questo cerca una politica di “equidistanza” tra Usa e Russia. Il recente scontro sull’acquisto degli F35 della Lockheed si inserisce in questo quadro. La Turchia aveva in programma di acquistare 100 di questi caccia, per un valore di 9 miliardi di dollari (di cui 1,4 già versati). Contemporaneamente aveva commissionato alla Russia il sistema missilistico antiaereo S400, progettato appositamente in chiave antiF35. Alla notizia, il Pentagono ha immediatamente bloccato la vendita. Dopo aver gridato alla “rapina” (e non ha tutti i torti), Erdogan si è rivolto di nuovo alla Russia per l’acquisto dei caccia Sukhoi Su27.
Il Medio oriente evidenzia nella maniera più lampante la nuova fase, di estrema instabilità, in cui si trovano gli equilibri fra le potenze mondiali. Un’instabilità che non è frutto del caso, ma del tentativo da parte dell’imperialismo americano di recuperare il terreno perduto dal punto di vista del dominio economico del pianeta, mostrando i muscoli sul terreno militare.
Il doppio tentativo, in Iraq e in Afghanistan è stato deficitario ed ha fatto venire alla ribalta mostri a lungo in letargo nelle soffitte della storia, come i fanatici fondamentalisti islamici (a lungo foraggiati dall’Occidente in chiave antisovietica).
Da questa debolezza, tutte le potenze regionali (Iran, Turchia, Arabia Saudita, Israele) hanno cercato di trarre vantaggio. La guerra civile in Siria si è tramutata in una guerra per procura, che ha avuto come comune denominatore la natura reazionaria di tutte le forze in campo e l’incubo senza fine per i lavoratori e i giovani siriani.
In questo contesto Putin ha cercato di rilanciare le aspirazioni dell’imperialismo russo, che dopo la fine dell’Unione sovietica aveva subito una debacle dopo l’altra. La nuova classe dominante di Mosca non poteva permettere di essere messa all’angolo. Nella guerra civile siriana l’intervento della Russia, ha mutato i rapporti di forza. Putin ha conservato la base militare di Tartus, sulle rive del Mediterraneo e ha riaffermato il suo ruolo di potenza mondiale da cui non si può prescindere. Nella difesa di Assad è entrato in un alleanza de facto con l’Iran in chiave, contro Israele e l’Arabia saudita.
La politica di Putin non ha nulla di progressista. All’inizio dell’intervento russo ha appoggiato i curdi siriani, per poi abbandonarli al loro destino. Per Mosca era decisiva l’intesa con la Turchia per stabilizzare l’area, ma questo significava lasciare mano libera all’esercito turco nel Nord della Siria. Anche questa intesa con Turchia e Iran durerà finché la Russia sarà considerata primus inter pares fra gli aderenti.
Lord Palmerston, a lungo ministro degli affari inglesi della corona inglese a metà del Diciannovesimo secolo, spiegava che: “la Gran Bretagna non ha alleati, amici o nemici eterni ma soltanto interessi permanenti, il perseguimento dei quali costituisce l’unico dovere imprescrittibile per ogni suddito di questa nazione”.
Il deus ex machina della politica britannica pronunciava queste parole all’apice della potenza dell’Impero britannico, senza rivali ai quattro lati del globo terrestre.
Oggi la realtà è ben diversa. Le alleanze temporanee strette fra le varie potenze regionali e internazionali in Medio oriente hanno l’effetto di creare instabilità su instabilità.
La politica di “caos creativo” intrapresa da Trump si basa su una classe dominante, quella americana, divisa come non mai da 150 anni a questa parte su fronti contrapposti. E che è incapace di portare avanti una linea sulla politica estera compatta e coordinata.
L’atteggiamento guerrafondaio dell’inquilino della Casa bianca non porterà a un rafforzamento degli Usa sullo scacchiere mondiale, ma rinfocolerà i focolai delle guerre locali e delle tensioni fra le varie potenze.
In una situazione di tale instabilità le guerre “per procura” saranno all’ordine del giorno. Anche se è improbabile, oggi, un invasione di terra dell’Iran da parte degli Usa, lo scontro proseguirà e si accentuerà in altre parti della regione e per il controllo del Golfo persico.
Quello che è più significativo per i marxisti è che tutte le élites e i governi della regione sono in crisi e in preda a profonde spaccature al loro interno. Dall’Arabia saudita all’Iran, dall’Iraq (dove dalle elezioni dell’ottobre 2018 non si è riusciti a formare un governo) alla Turchia (dove Erdogan ha subito un doppio smacco nelle elezioni amministrative ad Istanbul). Queste divisioni rappresentano uno dei requisiti per lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria.
Iran e Turchia sono paesi chiave con una grande tradizione di lotta di classe e dove le masse hanno fatto sentire più volte la loro voce nell’ultimo periodo. Le classi dominanti mediorientali e dell’Occidente non esiteranno a far precipitare la regione nella barbarie per difendere i propri interessi, come hanno fatto negli ultimi decenni più volte, dal Libano all’Iraq, dallo Yemen alla Siria.
È compito della classe lavoratrice riscoprire le tradizioni rivoluzionarie e porre fine al capitalismo in tutto il Medio oriente.