Francia – L’unità nazionale, nell’interesse dei capitalisti
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21 Marzo 2020di Roberto Sarti
I primi anni di vita del Partito comunista d’Italia, nato dalla scissione di Livorno, sono intensi e difficili. Un partito giovane e inesperto si dovrà confrontare con sfide inedite per il movimento comunista: come contrastare un fenomeno reazionario dalle caratteristiche nuove, come quello fascista, e come relazionarsi con un’Internazionale comunista (Ic) di cui dapprima non si condivide l’impianto strategico e tattico del III e del IV congresso, e che subito dopo sarà investita dal processo degenerativo in atto nel partito guida dell’Internazionale, quello russo.
Il partito che nasce a Livorno è dominato dalle tesi di Amadeo Bordiga, che era fra coloro che più tenacemente aveva lavorato alla scissione. Accanto a sé e alla sua corrente, rappresentata dal periodico il Soviet era riuscito a riunire la sinistra comunista milanese, con i suoi dirigenti principali, Fortichiari e Repossi, un gruppo di massimalisti, dietro a Gennari, e il gruppo dell’Ordine nuovo. Gramsci e Terracini faranno parte fin dall’inizio del Comitato centrale. La scissione, pur necessaria, non risolveva da sola il problema della direzione della rivoluzione italiana, ne creava solamente le basi di partenza necessarie.
Il Secondo congresso del Pcd’I
Il dibattito con l’Internazionale e la polemica sul fronte unico non è quindi un dissidio puramente teorico e astratto, ma avrà conseguenze assolutamente pratiche.
Il secondo congresso del Pcd’I, riunitosi a Roma nel marzo del 1922, contiene la quintessenza del pensiero bordighiano, dal rifiuto di ogni forma di collaborazione con la socialdemocrazia all’opposizione nella pratica alla formula del governo operaio; la tattica del fronte unico era concepita solo sul versante sindacale: si può discutere con D’Aragona (leader della Cgl) ma non con Turati. Dal punto di vista delle prospettive politiche, il Pcd’I vede una fase socialdemocratica che si apre in Italia. La socialdemocrazia riunirà tutti gli altri partiti in un governo di unità nazionale. Tale prospettiva era condivisa dalla stragrande maggioranza del gruppo dirigente del partito. Si leggano queste parole di Gramsci:
“Si svolgerà in Italia lo stesso processo che si è svolto in altri paesi capitalistici. Contro l’avanzata della classe operaia avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti ai popolari ai socialisti: i socialisti diventerà anzi l’avanguardia della reazione anti proletaria poichè conoscono meglio le debolezze della classe operaia.”
(Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Volume 1, “Da Bordiga a Gramsci”, pag 138).
Va dato atto, come ricorderà in seguito Trotskij, che Gramsci fu l’unico che pensava fosse possibile la vittoria del fascismo in Italia. Ma nel 1921-22 è convinzione sbagliata e settaria che guida la tattica del Partito comunista. Se la socialdemocrazia e il fascismo scenderanno a patti, è chiaro che la politica di fronte unico, tanto più contro il fascismo, può apparire inutile, anche a chi, a differenza di Bordiga, non considera la non collaborazione con la socialdemocrazia una questione di principio.
La terza internazionale critica aspramente queste Tesi, in una lettera del Presidium al Pcd’I, ispirata da Trotskij:
“Noi invitiamo il PCI a lottare per lo scioglimento della Camera allo scopo di instaurare un governo operaio. Fissando un programma minimo per le rivendicazioni da realizzare dal governo operaio, i comunisti devono dichiararsi pronti a formare un blocco col Partito socialdemocratico ed appoggiarlo, per quanto esso difende gli interessi della classe operaia. Se il PSI accetterà, incominceranno lotte, le quali saranno trasportate dal terreno parlamentare in altri campi. Con ciò è data la risposta all’obiezione che la parola d’ordine del governo operaio non significhi altro che una combinazione parlamentare. Se il PSI respinge la nostra proposta, allora le masse sipersuaderanno che noi abbiamo mostrato loro una via concreta, che il PSI invece non sa cosa fare.” (Lev Trotskij, Scritti sull’Italia, Edizioni Controcorrente, Roma 1979, pag 82)
Al congresso di Roma le voci contraddittorie saranno una minoranza ben riconoscibile nella“destra” del partito, attorno a Tasca, che manterrà un profilo ben definito in tutto il periodo che porterà fino al congresso di Lione. Il gruppo dell’Ordine Nuovo è allineato e coperto sulle posizioni espresse da Bordiga e dagli uomini a lui più vicini. Tali posizioni esprimevano il sentimento prevalente nella base del partito, quello della necessità di una rottura radicale dei rapporti non solo con le posizioni moderate di Turati, ma anche col massimalismo radicale di Serrati, che si era dimostrato incapace di dirigere la classe operaia e aveva così aperto la strada al fascismo. Questo settarismo aveva molti aspetti genuini: compito di una direzione comunista sarebbe stato quello di educare la base del partito per limitare e poi annullare queste pulsioni, non riattizzarle, come invece successe.
Le tesi di Roma non reggeranno alla prova degli avvenimenti. L’ascesa del fascismo, con la marcia su Roma, delle bande di Mussolini, confuterà la prospettiva del gruppo dirigente.
Già lo sviluppo di un movimento antifascista come gli Arditi del Popolo, classico esempio di fronte unico dal basso, aveva delineato le prime differenze post congresso di Livorno tra Bordiga e Gramsci:
“Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt’altro. Essi aspirano all’armamento, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare lo sviluppo e l’organizzazione delle nuove forze produttive generate dal capitalismo.”
(Citato in Spriano, op. cit., pag.143)
Quale distanza dalla posizione ufficiale del comitato esecutivo del partito!
“Non possiamo non deplorare che compagni comunisti si siano messi in comunicazione cogli iniziatori romani degli Arditi del popolo per offrire l’opera loro e chiedere istruzioni. Se ciò dovesse ripetersi, più severi provvedimenti verrebbero adottati. Il Comitato esecutivo del Partito Comunista d’Italia e quello della Federazione Giovanile Comunista d’Italia avvertono tutti i compagni e le organizzazioni comuniste che dev’essere rigorosamente diffidato chiunque di persona o per corrispondenza proponga costituzione o movimenti di reparti di Arditi del popolo.”
(Inquadramento delle forze comuniste, da La lotta del Partito comunista d’Italia, Ediz. L’internazionale, pag.21)
In questa vicenda si vede tutti i limiti del pensiero dogmatico di Bordiga, per il quale le varianti tattiche verso la conquista della maggioranza del proletariato semplicemente non esistono. Da qui la ragione delle sue posizioni astensioniste e contro il fronte unico politico, ad esempio. E, d’altra parte, per Bordiga non ci sono differenze sostanziali tra la democrazia borghese e una dittatura bonapartista o fascista: ambedue erano forme di dominio del capitale.
Per Bordiga l’avanguardia del proletariato si sarebbe convinta da sola delle giustezza delle idee comuniste ed avrebbe di conseguenza aderito al partito. Basta solo aspettare e formare i quadri necessari per essere preparati quando scatterà l’ora x della rivoluzione. Questa attesa messianica, tuttavia, non ha nulla a che fare con il marxismo.
Inizia lo scontro
Ed è proprio sulla questione del fronte unico che vengono alla luce le prime differenze tra Gramsci e Bordiga. Già nel IV congresso dell’Internazionale la linea del Pcd’I era stata sottoposta a dura critica da parte dell’Internazionale, che richiedeva al gruppo dirigente italiano di accettare la linea del congresso dell’Ic e di guidare il partito sulla base di essa.
In quell’occasione si produce il primo diktat organizzativo nei confronti del Pcd’I, ad opera di Zinoviev: nomina di autorità un Comitato esecutivo, dove tre membri sono della vecchia
“Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale, noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale.” (La formazione del gruppo dirigente del Pci, Editori Riuniti, pag 197)
“Quale atteggiamento noi dobbiamo assumere politicamente? (…) Se prima del quinto congresso il partito è risanato dalla crisi, se esso ha un nucleo costitutivo e un centro che per la sua propria azione e non per i riflessi internazionali goda della fiducia delle masse italiane, noi potremo assumere anche il lusso di criticare. Attualmente mi pare ci convenga ancora louvoyer (tergiversare, in francese nel testo originale, ndr) per qualche tempo.”
(op. cit. pag. 262)
Questo “opportunismo” porterà delle profonde, e negative, conseguenze nella storia del Partito comunista nel nostro paese.
La conferenza di Como
Il gruppo attorno a Gramsci difende una linea più giusta, ma è del tutto minoritario e si ritrova a causa delle circostanze e della volontà di Mosca a dirigere il partito. I quadri intermedi del Pcd’I, quelli che dirigono le federazioni, sono tutti o quasi con Bordiga.
La riprova si avrà nella conferenza straordinaria di Como, che si tiene nel giugno del 1924. Sono presenti i segretari quelli interregionali e i membri del Comitato centrale. Ci sono 3 documenti in discussione: uno della destra di Tasca, uno del “centro” presentato da Gramsci ed uno della sinistra firmato da Bordiga. Per Bordiga voteranno 33 segretari di Federazioni su 45, 4 su 5 segretari interregionali, il rappresentante della gioventù comunista e un membro del Cc. Tasca ottiene il voto di cinque segretari federali, uno interregionale e 4 membri del Cc. Gramsci quello di 4 segretari federali e 4 membri del Cc.
È un “Centro” delegittimato dal voto a guidare il partito. Dopo un simile risultato, Gramsci e i suoi non pensano affatto di mettersi in discussione, valutando che è impossibile governare un partito comunista senza una condivisione della linea da parte del corpo militante. Ma questo del resto è il metodo di costruzione dei gruppi dirigenti dettato dal segretario dell’Ic, e che sarà chiamato appunto “zinovievismo”. Si tratta del metodo di dirimere questioni politiche con metodi organizzativi.
A lungo andare questo facilita lo sviluppo di una burocrazia all’interno del partito.
Il partito viene riorganizzato direttamente da Mosca, dopo il V congresso dell’Internazionale il Cc viene portato a 17 membri: 9 di centro, 4 di destra e 4 terzini. Il Comitato esecutivo viene composto da cinque membri, e il centro, con Gramsci, Togliatti e Scoccimarro, è maggioritario. La sinistra viene così completamente esclusa dagli organismi, sia esecutivi che di direzione.
La formazione del nuovo gruppo dirigente del Pcd’I, che è anche il nome di un famoso libro di Togliatti su questo periodo, avviene quindi attraverso una serie di “forzature” organizzative che condizioneranno pesantemente il futuro del partito.
L’opposizione attorno a Bordiga si organizza conseguente in maniera sempre più chiara. Nasce nell’aprile del 1925 il Comitato d’Intesa per collegare tutti gli elementi della corrente di sinistra. Il centro del Partito va su tutte le furie e destituisce tutti i suoi membri dalle loro funzioni dirigenti. Fortichiari, tra gli altri, sarà rimosso da segretario della Federazione di Milano.
I dissensi coinvolgono praticamente tutti gli aspetti della politica italiana e internazionale, non ultimo il dibattito scatenatosi in Unione sovietica dopo la morte di Lenin.
Già alla conferenza di Como Gramsci aveva operato un accostamento tra le opposizioni di Bordiga e di Trotskij. Le posizioni diverranno ancor più divergenti quando Bordiga prenderà apertamente, in un articolo intitolato la “quistione Trotskij” le difese del fondatore dell’Armata Rossa. Un articolo
scritto nel febbraio del 1925, bloccato per mesi dalla direzione del partito e poi pubblicato solo nel luglio dello stesso anno, nel pieno della campagna contro la sinistra.
Mentre in Gramsci notiamo un interesse nei confronti delle questioni internazionali strumentale alla lotta politica interna, Bordiga fu sicuramente fra i primi dirigenti comunisti al di fuori dell’Urss a comprendere il pericolo di una degenerazione della rivoluzione, e a schierarvisi apertamente contro.
Bordiga capisce che l’attacco contro Trotskij scatenato dalla nascente burocrazia sovietica non è che l’espressione più evidente della degenerazione dell’Urss, che contagiava anche l’Internazionale.
Su questo terreno di lotta, il più importante per il movimento comunista mondiale in quel momento, i due rivoluzionari diedero battaglia all’interno dell’Internazionale e non mancarono gli incontri tra i due tra il 1924 e il 1926.
Questa battaglia comune non poteva tuttavia tramutarsi in un’alleanza politica stabile. Troppe erano le distanze tra i bolscevico-leninisti e l’estremismo dogmatico del bordighismo.
Il delitto Matteotti
Durante il V congresso dell’Internazionale avviene anche il delitto Matteotti. Il deputato del Psu (i riformisti di Turati) paga la denuncia, fatta durante un discorso parlamentare dei brogli e delle intimidazioni commesse dai fascisti nelle elezioni dell’aprile 1924, e viene ammazzato da un gruppo di sicari del Fascio.
La commozione popolare sarà molto grande, inizia un periodo di crisi del regime fascista, che durerà alcuni mesi. Il 14 giugno i deputati dei partiti di opposizione decidono di non partecipare più ai lavori parlamentari e formano il “Comitato delle opposizioni”. Inizia l’Aventino. A questo blocco, composto tutte le opposizioni borghesi meno la destra di Orlando, Salandra e Giolitti nonché da massimalisti e riformisti, parteciperà in un primo momento anche il Partito comunista.
Il Comitato delle opposizioni è un movimento democratico legalitario. Rifiuta la proposta comunista dello sciopero generale: a destituire Mussolini devono essere il re e la magistratura. Il gruppo comunista esce dal Comitato e quando il 27 giugno la Cgl indice un’astensione dal lavoro di 10 minuti, i comunisti sono gli unici a incitare allo sciopero generale per l’intera giornata.
Tuttavia, dopo l’uscita dal blocco dell’Aventino, il Pcd’I assume una posizione incerta, con una parola d’ordine “Via il governo degli assassini!” che non chiarisce quale governo si voglia sostituire a quello fascista e tende la mano alle Opposizioni.
Bordiga sviluppa una critica parzialmente corretta: o si entra nel comitato delle opposizioni o lo si combatte. Questa seconda ipotesi mancava però di qualsiasi proposta rivolta ai partiti ai massimalisti e ai riformisti, che, come dimostravano le elezioni di pochi mesi prima, avevano un seguito importante fra la classe. Nelle elezioni politiche del 6 aprile (svoltesi con una legge maggioritaria che favoriva in maniera scandalosa il partito fascista), infatti il Psu aveva ottenuto 415mila voti, i massimalisti 341mila, mentre i comunisti 268mila. Un risultato lusinghiero che permette al partito di eleggere 19 deputati.
Il 15 ottobre il Comitato centrale lancia la formula dell’anti-parlamento, cioè di trasformare l’Aventino in un’assemblea parlamentare delle opposizioni:
“Il partito comunista ritiene che la riunione dei gruppi parlamentari di Opposizione in un’assemblea convocata sulla base del regolamento parlamentare come Parlamento opposto al Parlamento fascista avrebbe invece un valore ben diverso dall’astensione passiva perché allargherebbe la crisi e rimetterebbe in movimento le masse, condizione essenziale per una lotta efficace contro il fascismo. Esso invita quindi le opposizioni a convocare questa assemblea.”
(Il partito decapitato, pag 149, Ediz. L’internazionale, Milano 1988)
La proposta fu naturalmente respinta da tutte gli altri partiti. Lo slogan lanciato dal Pcd’I cercava di uscire dalla passività dell’Aventino, ma lo faceva con una formulazione che apriva alla collaborazione tra partiti rappresentanti classi diverse (e quindi anche ai repubblicani, liberali, ecc), che, se realizzata, non avrebbe fatto svanire le illusioni delle masse nell’opzione democratica, né tantomeno avrebbe separato i lavoratori che seguivano Psi e Psu dai propri dirigenti.
La sinistra del partito, pur ribadendo il suo astensionismo di principio, ricorda che la linea della Terza internazionale è quella di sfruttare la tribuna parlamentare in senso rivoluzionario. Il Pcd’I accetta finalmente questa ipotesi e il 12 novembre Luigi Repossi pronuncia un terribile atto d’accusa contro il fascismo.
Decisione che non sarà priva di ripercussioni: l’Internazionale dapprima pone un divieto al ritorno in parlamento, poi chiede di inviare un solo deputato e un delegato presso il Comitato delle opposizioni, il quale però rifiuta persino di ricevere Gramsci! La tattica ondivaga del Comintern, caratteristica della gestione Zinoviev, viene quindi applicata anche in Italia con scarsi risultati.
Il re non avrà alcuna intenzione di disfarsi di Mussolini e l’esperienza dell’Aventino si consumerà miseramente. Mussolini, superato il periodo di difficoltà, passa all’attacco. In un famoso discorso in parlamento nel dicembre 1925 si assume tutte le responsabilità del delitto Matteotti ed emana una serie di decreti, poi note come leggi fascistissime, che porteranno in carcere centinaia di oppositori e cancelleranno definitivamente ogni libertà democratica.
Il congresso di Lione
Proprio nei giorni della stretta autoritaria di Mussolini si celebrerà il Terzo congresso del Pcd’I, a Lione tra il 21 e il 26 gennaio 1926. Quattro anni sono passati dal congresso di Roma, e si vedono tutti. In primo luogo, per le modalità di gestione e di voto del congresso. Si confrontano due documenti, quello della Centrale (e che diverrà noto come le “Tesi di Lione”) e quello della Sinistra bordighiana. Il documento redatto da Gramsci otterrà oltre il 90% dei voti, mentre la sinistra non avrà che il 9,2% dei consensi. Sembrerebbe quindi che Gramsci abbia ribaltato totalmente i rapporti di forza di Como. Ma ciò è vero solo parzialmente. Infatti, il conteggio dei voti ai congressi di base viene fatto in maniera piuttosto bizzarra. Tutti gli iscritti che non votano per la sinistra saranno conteggiati come voti per la centrale. I compagni che impossibilitati a recarsi ai congressi e volessero votare per Bordiga possono farlo per posta.
Un regolamento che serve a fare ottenere una solidissima maggioranza all’esecutivo del Pdc’I e a completare il processo di “bolscevizzazione” del partito, lo slogan con cui si era concluso il V congresso del Comintern. La “bolscevizzazione” non consisteva però nell’approfondimento degli insegnamenti politici della storia del Partito bolscevico sotto la guida di Lenin, ma nell’omogeneizzazione delle pratiche e della linea politica ai dettami del Comintern in via di burocratizzazione.
Scrive Trotskij in La Terza internazionale dopo Lenin:
“La “bolscevizzazione” del 1924 aveva un carattere assolutamente caricaturale. Si puntava la pistola alla tempia degli organismi direttivi dei Pc esigendo che prendessero posizione sulle divergenze nel Pc dell’Urss, si esigeva da loro che senza informazioni, senza dibattiti, prendessero immediatamente e definitivamente posizione sulle divergenze esistenti nel Pc dell’Urss. Con ciò essi sapevano anticipatamente che dalla posizione assunta dipendeva se avrebbero potuto restare o no nell’Internazionale comunista”
(L. Trotskij, La Terza internazionale dopo Lenin, Ediz. Samonà e Savelli. Pag. 160)
Nelle tesi di Lione sono espressamente vietate le frazioni:
“La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno guppiorganizzati i quali assumano carattere di frazione.(…) L’esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano l’unità aprendo la via alla influenza di altre classi”
(Gramsci, Scritti politici, Terzo Volume, Editori riuniti, pag. 194).
Le tesi aggiungono che le tendenze sono possibili, ma non è difficile paragonare queste parole a quelle usate da Stalin nei confronti dell’Opposizione di sinistra nel Pcus. In un contesto di lotta di frazione nel Pcd’I, queste parole equivalevano a una minaccia di espulsione (che più tardi, infatti, si concretizzò) da parte della maggioranza. Minaccia che era anche esplicitata:
“L’estremismo di sinistra (…) deve essere combattuto come tale, non solo con la propaganda, ma con una azione politica ed eventualmente con misure organizzative.”
(op. cit. pag.291)
La contrapposizione tra cellule di fabbrica e organizzazione territoriale, imposta dalla bolscevizzazione aveva ben poco a che fare con il metodo bolscevico, perchè implicava un modello rigido e precostituito dell’organizzazione e favorisce oggettivamente un controllo maggiore da parte dell’apparato.
Le tesi di Lione vivono della contraddizione in cui si dibatteva il gruppo dirigente del Pcd’I. Da una parte sono la concretizzazione della lotta per l’applicazione delle risoluzioni del Terzo e del Quarto congresso dell’Ic, in special modo sulla tattica. Dall’altra risentono del nuovo corso dell’Internazionale, soprattutto dal punto di vista organizzativo e difendono le scelte politiche errate nel paese, portate avanti dalla crisi Matteotti in poi.
Le tesi accolgono pienamente l’insegnamento della rivoluzione russa, quando affermano: “Il capitalismo è l’elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista.” (op. cit. pag 272), escludendo quindi la necessità di una fase democratica guidata dalla borghesia, in aperto contrasto con la linea togliattiana che si svilupperà dal ’43 in avanti.
E poi:
“Si ha inoltre in Italia una conferma della tesi che le più favorevoli condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei paesi dove il capitalismo e l’industrialismo sono giunti al più alto grado del loro sviluppo, ma si possono invece aver là dove il tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi alleati.” ( op. cit. pag.275)
Il ruolo del proletariato come protagonista della rivoluzione italiana è ribadito con forza:
“Il proletariato si presenta come l’unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società. Il suo programma di classe è il solo programma”unitario””
(op. cit. pag. 279)
Le Tesi di Lione portano per la prima volta all’interno di un documento congressuale del Pcd’I la tattica del fronte unico, come sviluppata nel III e IV congresso dell’Ic:
“La tattica del fronte unico come azione politica (manovra) destinata a smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari aventi una base di massa, è strettamente collegata col problema della direzione delle masse da parte del Partito comunista e col problema della conquista della maggioranza. (…) In Italia la tattica del fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella misura in cui esso è ancora lontano dall’aver conquistato una influenza decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione lavoratrice.” (op. cit. pag.303)
Inoltre il Partito opera una rettifica contro lo schematismo bordighiano:
“Il partito combatte la concezione secondo la quale ci si dovrebbe astenere dall’appoggiare o dal prendere parte ad azioni parziali perché i problemi interessanti la classe lavoratrice sono risolubili solo con l’abbattimento del regime capitalista e con una azione generale di tutte le forze anticapitalistiche.” (pag.299)
Allo stesso tempo queste corrette analisi teoriche non danno luogo ad altrettanto efficaci paroled’ordine, quando si punta sullo slogan dell’ “Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operaie contadini”, “formula riassuntiva di tutta l’azione del partito in quanto essa propone di creare un fronte unico organizzato della classe lavoratrice” (op. cit. pag.302)
Formula criticata chiaramente da Trotskij, sia nella corrispondenza con il gruppo bordighiano “Prometeo” che con Tresso, Leonetti e Ravazzoli
“A proposito, non è Ercoli che tenta di adattare all’Italia l’idea della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini” sotto forma di una parola d’ordine d’assemblea costituenteappoggiantesi su “un’assemblea operaia e contadina”?” (Scritti sull’Italia, pag. 149,)
E ancora:
“Voi mi ricordate che ho criticato a suo tempo la formula “Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini”, formula lanciata a suo tempo dal Partito comunista italiano. Voi mi dite che questa formula non aveva avuto che un valore del tutto episodico e che attualmente è stata abbandonata. Voglio tuttavia dirvi perché reputo questa formula come sbagliata o almeno equivoca in quanto formula politica. L'”Assemblea repubblicana” costituisce innegabilmente unorganismo dello Stato borghese. Che cosa sono invece i “Comitati operai e contadini”? è evidente che in qualche modo sono un equivalente dei Soviet operai e contadini. Allora bisogna dirlo. In quanto organismi di classe delle masse povere operaie e contadine -sia che voi li chiamate Soviet o Comitati- costituiscono sempre delle organizzazioni di lotta contro lo Stato borghese per diventare poi organismi insurrezionali e trasformarli, infine, dopo la vittoria, in organismi di dittatura proletaria. Come è possibile in queste condizioni, che un’Assemblea repubblicana -organo supremo dello Stato borghese- abbia come base degli organismi di Stato proletario?” (Scritti sull’Italia, pag 184)
La tragedia principale del Congresso di Lione sta dunque nell’approdo a delle posizioni che riprendono i tratti essenziali della linea approvata nei primi quattro congressi dell’Internazionale, in un momento “sbagliato”. Una linea politica che avrebbe reso l’ascesa del fascismo un fatto per nulla scontato e permesso la riorganizzazione del proletariato italiano. Un momento “sbagliato” perchè coincide con la degenerazione burocratica della Terza internazionale, che avrebbe inevitabilmente segnato il futuro del Pcd’I.
Dal punto di vista degli equilibri interni, il Congresso di Lione sancirà la definitiva sconfitta della sinistra bordighiana. Nell’Esecutivo allargato dell’Ic del febbraio del 1926, Bordiga subirà a livello internazionale la stessa sorte.
Il Pcd’I stesso, d’altro canto, subirà una nuova stretta repressiva che nell’arco del 1926 porterà in carcere buona parte del gruppo dirigente, tra cui lo stesso Gramsci, che non vedrà più la libertà.