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30 Gennaio 2016In occasione del 25° anniversario dello scioglimento del Pci, avvenuto tra il gennaio e il febbraio 1991, ripubblichiamo questo articolo scritto nel 2011.
A Rimini, tra il 31 gennaio e il 4 febbraio 1991, in occasione del suo XX congresso il Partito comunista italiano veniva sciolto ufficialmente. La maggioranza dei delegati decideva di dare vita al Partito democratico della sinistra, mentre una parte della minoranza che si era opposta al cambiamento del nome fonderà Rifondazione comunista. Il congresso di Rimini fu l’atto conclusivo di un dibattito aspro e intenso che prese il via il 12 novembre del 1989, quando alla Bolognina, quartiere popolare di Bologna, l’allora segretario del Pci, Achille Occhetto, annunciò che il partito avrebbe cambiato la sua denominazione.
Quei quattordici mesi di dibattito hanno costituito uno spartiacque per il movimento operaio e per la sinistra in Italia, di cui tutti paghiamo ancora le conseguenze. Allo stesso tempo sembra passata un’era geologica da quegli avvenimenti: le memorie e i ricordi riportate nei mass media sono confusi e volutamente mistificatori.
Se tralasciamo la versione dei fautori di quella svolta, che la giudicano “salvifica” e necessaria per approdare all’attuale Partito democratico, perchè crediamo che i risultati si giudichino da soli, troviamo a sinistra del Pd un giudizio acritico sulla storia del Pci fino alla svolta della Bolognina.
Sarebbe bastato non buttare a mare le intuizioni felici del “secondo Berlinguer”, quello post compromesso storico, per risollevare le sorti del partito.
Oppure c’è chi ritiene che vi era un partito che possedeva una linea fondamentalmente giusta, a parte qualche esagerazione di moderatismo nel periodo del compromesso storico, affossato da un pugno di traditori guidati da Achille Occhetto. Tale posizione è funzionale all’idea che basterebbe oggi “un unico grande partito comunista”, per risolvere i problemi della sinistra in Italia.
Cosa successe, allora, in quegli anni? Sarebbe stato possibile salvare il Pci?.
Sono tutte domandi di grande attualità, poiché comprendere la nostra storia, senza reticenze e facili nostalgie del passato, è fondamentale per orientarsi nel presente. Le difficoltà del Partito comunista italiano non risalgono infatti al 1989, ma affondano le loro radici in anni più lontani.
Gli anni settanta
Negli anni settanta il Pci raggiunse il suo massimo storico a livello elettorale. Il 34,4% alle elezioni del 1976 (12 milioni e 600mila voti, tre milioni in più rispetto alle precedenti elezioni politiche, nel 1972). Gli iscritti ebbero un’impennata simile, arrivando ad oltre 1.800mila in quello stesso anno (300mila in più rispetto al 1970).
Era chiaramente l’effetto delle grandi mobilitazioni, che dall’autunno caldo in poi avevano catapultato la classe operaia al ruolo di protagonista della vita politica italiana. Milioni di quei lavoratori e di quei giovani, dopo aver ottenuto enormi conquiste sul terreno sindacale e dello stato sociale, decisero che fosse necessario un cambiamento dal punto di vista politico e si rivolsero al Pci.
Il partito guidato da Enrico Berlinguer frustrò queste aspettative. Già nel settembre del 1973 il segretario aveva delineato i cardini essenziali di una nuova politica, quella del compromesso storico, secondo cui sarebbe stato impossibile per le sinistre governare, anche se avessero raggiunto il 51% dei voti. Il concetto della politica di solidarietà nazionale era che “il partito comunista, in quanto organizzatore della classe operaia, classe generale, è chiamato a porre al centro della sua lotta gli interessi generali del paese” (Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, L’unità-Laterza, Roma 1992, pag. 292).
Per occuparsi di tali “interessi generali” si prospettava quindi un governo con la Democrazia cristiana, per “imporre una nuova svolta alla società e allo stato”.
Da più parti si avanza la convinzione che la politica di “solidarietà nazionale” fosse stata elaborata da Berlinguer come conseguenza dei fatti cileni. Infatti il colpo di stato contro Allende avvenne l’11 settembre 1973: la Dc cilena appoggiò l’operato di Pinochet, rivelando il suo carattere tutt’altro che democratico, a dispetto dell’analisi di Berlinguer. Tuttavia la riflessione sulla necessità di un cambiamento di linea era cominciata nel partito da tempo. Gerardo Chiaromonte, uno dei principali esponenti della “destra” del partito che faceva capo a Giorgio Amendola, già nel maggio di quello stesso anno aveva anticipato in tutti i suoi tratti essenziali la linea berlingueriana, in una serie di editoriali su “Rinascita” di cui era direttore.
I tragici fatti cileni diventano quindi l’occasione giusta per lanciare una proposta che il gruppo dirigente aveva già discusso in quel delicato passaggio a cavallo tra gli anni sessanta e settanta: l’impossibilità di una svolta a sinistra nella politica italiana.
Una simile politica non rappresentava affatto un’innovazione nella storia del Pci.
Lucio Magri, uno dei fondatori del gruppo de “il Manifesto” lo spiega: “Togliatti scelse in anticipo la partecipazione a governi di unità nazionale e ne accettò anzi una versione ancor più moderata del necessario” (L. Magri, Il sarto di Ulm, il Saggiatore, Milano 2009, pag. 279). Berlinguer in più occasioni riallaccerà alla tradizione togliattiana l’idea del compromesso storico (Chiara Valentini, Berlinguer, l’eredità difficile, Editori riuniti, Roma 2004, pag. 324). Se prima Togliatti giustificava quella partecipazione all’esecutivo come una tappa della “via italiana al socialismo”, Berlinguer considerava il “compromesso storico” come un momento necessario per la costruzione della “terza via” tra capitalismo e “socialismo reale”.
L’appoggio al governo monocolore Dc, prima attraverso l’astensione e poi con la diretta partecipazione alla maggioranza in seguito al rapimento di Aldo Moro, avrà effetti devastanti per il Pci. Non fu possibile nessuna discussione sul programma, i comunisti si fecero garanti dell’austerità, che divennero “sacrifici senza contropartite” secondo la linea di Lama e del resto della direzione della Cgil.
Lo scollamento dalla base si fece sempre più grande. Allo stesso tempo un ciclo si chiudeva e la borghesia italiana dopo aver spremuto i comunisti come un limone, li scaricavano tornando a pensare a una coalizione di pentapartito, con i socialisti, e gli altri tre piccoli partiti borghesi (Psdi, Pli, Pri).
Gli anni Ottanta e il “secondo Berlinguer”
Nelle elezioni anticipate del giugno 1979 il distacco delle masse lavoratrici si potè osservare concretamente. Un milione e mezzo di voti persi, con un vero e proprio crollo nelle periferie operaie delle grandi città. Si imponeva un cambiamento di linea, ed è allora che Berlinguer sviluppa la proposta dell’ “alternativa democratica”.
Una sterzata a sinistra, pur con tanti limiti, che incontra molti ostacoli. Dati in primo luogo dai limiti della proposta stessa. L’alternativa democratica che veniva proposta alla parte “migliore e più onesta del paese, dentro e fuori i partiti” era una formula vaga e senza possibilità concreta di essere messa in atto. La borghesia, anche quella progressista, aveva abbandonato il Pci, o meglio l’ipotesi di utilizzarlo per i propri fini. Il Psi sterzava velocemente a destra sotto la segreteria di Craxi.
Il movimento operaio intanto batteva in ritirata. L’ultima, grande fiammata furono i 35 giorni della Fiat. Davanti ai cancelli di Mirafiori Enrico Berlinguer, accolto da una folla enorme, risponde a una domanda su che cosa avrebbero fatto i comunisti se i lavoratori avessero occupato la Fiat. Le congetture sul ruolo di Berlinguer in quel comizio sono tante, vale la pena di citare Lucio Magri che ne dà il resoconto più equilibrato.
“è falso quello che pubblicò la stampa. Egli non incitò in alcun modo all’occupazione della Fiat. Disse agli operai «Spetta a voi decidere sulla forma della vostra lotta, a voi e ai vostri sindacati giudicare gli accordi accettabili. Ma sappiate comunque che il Partito comunista sarà al vostro fianco, nei momenti buoni e in quelli non buoni»” (L. Magri, op. cit, pag. 250)
Un discorso che rispettava “l’autonomia del sindacato” dunque, sindacato in cui i comunisti avevano un ruolo determinante. Il problema è che quei comunisti non fecero la loro parte. I dirigenti comunisti della Cgil, con in testa Luciano Lama, allora segretario generale, davanti alla provocazione messa in campo dalla direzione aziendale Fiat con la celebre marcia dei 40mila non rilanciarono la lotta, ma si piegarono al diktat del padronato, accettando 23mila cassaintegrazioni, che si tramutarono quasi tutte in licenziamenti.
Un ciclo di lotte operaie dunque si chiuse, e questo non potè non avere un riflesso sulla direzione del movimento operaio. Il gruppo dirigente della Cgil, parzialmente libero da pressioni dal basso, rimase ancorato alla politica dei “due tempi”.
La resistenza al cambiamento di linea proposto da Berlinguer si fece sentire anche nel corpo del partito, dove visto il declino degli iscritti, il peso dell’apparato divenne sempre più forte. Il quadro dirigente “medio” del Pci era cambiato notevolmente dal primo dopoguerra.
Analizzando la composizione sociale dei delegati ai congressi e raffrontandoli con gli iscritti, “nel 1954 per circa il 40% di operai si annovera il 39,1% di operai delegati al congresso, mentre nel 1990 il 58,5% di operai e pensionati iscritti al partito non costituiscono che il 5,7% dei delegati” (Guido Liguori, La morte del Pci, Il manifesto libri 2009, pag. 50).
Decenni di successi a livello amministrativo, di crescita del movimento cooperativo, di penetrazioni a tutti i livelli nelle istituzioni capitaliste avevano accresciuto in maniera considerevole il numero di funzionari che erano completamente distaccati dai lavoratori e dalle loro esigenze. Questo apparato digerì molto male la fine della “solidarietà nazionale” e cercò di opporsi ad ogni proposta che puzzasse anche lontanamente di “movimentismo”.
Il problema del Pci era dunque più profondo ed aveva delle basi materiali. Magri lo spiega piuttosto bene: “La peculiarità del Pci, sulla quale Togliatti aveva fatto leva, era quella di essere un partito di massa che ‘faceva politica’, ‘agiva nel paese’, ma si insediava nelle istituzioni e le usava per realizzare risultati e costruirci delle alleanze. Era un elemento costitutivo di una via democratica. Una medaglia che aveva però un suo rovescio. (…) Nel corso di decenni, e particolarmente in una fase di grande trasformazione sociale e culturale un partito di massa diventa più che mai necessario, così come la sua capacità di porsi problemi di governo. Ma da quella stessa trasformazione viene molecolarmente trasformato a sua volta, nella sua composizione materiale.” (op. cit., pag. 363).
A livello internazionale la borghesia lanciava un’offensiva a tutto campo contro il movimento operaio. Il nuovo ciclo economico, di recessione, lo imponeva. L’intenzione era quella di riprendersi tutte le conquiste ottenute dal movimento operaio negli anni ‘60 e ‘70. Il capitale piegò la resistenza dei lavoratori della Fiat nel 1980, e ottenne un risultato simile. In Inghilterra, con lo sconfitta dello sciopero dei minatori del 1983-84, negli Stati uniti venne spezzato lo sciopero dei controllori di volo nel 1981. Sempre in Usa, Reagan vinse le elezioni, seguito dal successo di formazioni conservatrici in gran parte dell’Europa occidentale. Il contrattacco della borghesia avrebbe dovuto suggerire che i margini per le politiche riformiste si erano esauriti e che l’unica possibilità per i Partiti comunisti di resistere fosse attraverso un deciso spostamento a sinistra della propria linea politica.
I cambiamenti operati da Berlinguer furono invece troppo timidi e la linea rimaneva ancorata ai vincoli del passato. Così il segretario spiegava la proposta di alternativa democratica nel novembre 1980: “Il nostro non è un cambiamento di strategia. É evidente che la nostra proposta generale resta incentrata sulla collaborazione delle grandi forze popolari, delle masse popolari comuniste, socialiste, cattoliche. (…) La nostra non è la proposta di un governo laico, ma di un governo nuovo che ha la sua forza promotrice nel Pci e nel quale vi siano rappresentati dei partiti laici e – perchè no – dei settori più aperti e avanzati, e personalità, della Dc onesta e non compromessa con gli scandali.” (Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, op cit., pagg. 438-439, sottolineatura dell’autore). Nel 1982 Berlinguer tenterà di mettere in pratica quella proposta, offrendo a Spadolini, un esponente del Pri, l’astensione del Pci a un governo del Presidente, dove sarebbe il premier a indicare i ministri invece dei partiti (Chiara Valentini, op. cit. pagg. 362-363). Un’operazione oggi molto in voga, ma inedita per la Prima repubblica. Il tentativo finirà in un nulla di fatto, a causa del netto rifiuto di Dc e Psi, e solo allora Berlinguer metterà all’ordine del giorno la parola d’ordine dell’alternativa senza la Dc, lo slogan con cui sarà convocato il XVI congresso (Milano, 1983) rimarrà nell’ambiguità “Un’alternativa democratica per rinnovare l’Italia”.
La morte di Berlinguer
È soprattutto a causa di queste grandi ambiguità di linea politica che, quando il Pci lanciò la campagna contro il taglio dei 4 punti di contingenza della scala mobile, proposto da Craxi col decreto di San Valentino del febbraio 1984, l’apparato del partito e del sindacato resistette alla mobilitazione. La Cgil dopo l’enorme manifestazione del 23 marzo 1984, con 700mila lavoratori a Roma, rinunciò all’idea di continuare le mobilitazione attraverso uno sciopero generale. Il referendum abrogativo del giugno 1985, proposto dai comunisti, verrà sconfitto. I sì ottengono tuttavia un risultato molto significativo, il 46%, una percentuale molto superiore al consenso elettorale dei sostenitori del referendum, Pci e Democrazia proletaria. Ciò avviene nonostante un “quasi totale disimpegno rispetto alla campagna elettorale per un referendum che erano stati i comunisti a chiedere” (G. Chiarante, Da Togliatti a D’Alema, Laterza, Roma-Bari 1996, pag. 201).
La tragica morte di Enrico Berlinguer velocizzò con ogni probabilità il processo di spostamento a destra del partito. La vittoria elettorale alle europee del 1984, con il famoso sorpasso sulla Dc (33,3% contro il 32,9%) fu il frutto delle mobilitazioni contro il taglio della scala mobile, e, parzialmente, dell’onda emozionale seguente alla scomparsa del segretario. Fu tuttavia una parentesi all’interno di un declino di iscritti e di militanti che era soprattutto dettato dai limiti di linea politica.
I tentativi di cambiamento di Berlinguer rimasero sempre a metà strada: l’alternativa democratica era tutta interna al capitalismo. Così come l’enfasi posta sulla questione morale: una battaglia sacrosanta, ma che non teneva conto che per la borghesia spesso e volentieri la corruzione è un male necessario a “oliare il sistema”. Lo sganciamento dall’Unione Sovietica, con il famoso “strappo” seguito all’invasione dell’Afghanistan e al colpo di stato in Polonia, azioni che il Pci condannò, portava i comunisti non alla riscoperta delle idee della rivoluzione d’Ottobre e della democrazia operaia, ma all’accettazione dello status quo capitalista. Il “sentirsi più sicuri sotto l’ombrello della Nato”, come disse Berlinguer in una celebre intervista, si inseriva in questo solco. Le grandi mobilitazioni contro le basi dell’Alleanza atlantica e degli Usa dell’inizio degli anni ottanta promosse anche dal Pci, avevano il grande limite di non contestare la Nato alle sue fondamenta. La famosa “terza via” tra il socialismo reale e la socialdemocrazia, senza un ritorno a Lenin, non poteva che significare l’accettazione del modello socialdemocratico. Un’intervista televisiva successiva ai fatti di Polonia era piuttosto eloquente a riguardo: “Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca. Oggi siamo giunti ad un punto in cui quella fase si chiude.” (C. Valentini, op. cit, pag. 346).
Occhetto diventa segretario
C’era quindi, un grande problema di alternativa strategica al sistema esistente, a cui dopo la morte di Berlinguer, si rispose spostandosi su posizioni più moderate.
Il nuovo segretario è Alessandro Natta, un fedelissimo di Berlinguer, di cui non possiede tuttavia il carisma e che rimane imprigionato nello scontro tra le varie correnti. Da questo scontro al congresso di Firenze del 1986 (dal titolo: Un moderno partito riformatore. Un programma, una alternativa per l’Italia e per l’Europa) è la destra migliorista ad uscire rafforzata. L’apertura al Psi è chiara, e nelle tesi congressuali è approvata una vecchia formula cara a Napolitano (uno dei leader dei miglioristi) che definisce il Pci “parte integrante della sinistra europea”, propedeutica alla richiesta di adesione all’Internazionale socialista.
Questa linea politica venne sonoramente bocciata nelle elezioni politiche del 1987, dove il Pci ottiene il 26,58%.
La segreteria Natta aveva così i giorni contati. Ci fu un ampio rinnovamento della segreteria, con una serie di giovani dirigenti che per la prima volta furono ammessi alle postazioni di comando (D’alema, Fassino, Petruccioli), e Achille Occhetto nominato vicesegretario. Nel giugno 1988, complice un lieve attacco cardiaco ad Alessandro Natta, Occhetto venne eletto Segretario del Pci. Inviso ai miglioristi e considerato un “berlingueriano di sinistra” nei primi tempi della sua segreteria Occhetto suscitò diverse speranze all’interno della sinistra del partito. Il nuovo corso fu all’insegna di campagne contro i ticket sanitari, allora in via di introduzione, e sul fisco; vennero riprese e seguite una serie di lotte sociali, per l’impegno di un giovane responsabile della Commissione lavoro, l’ingraiano Antonio Bassolino. Contemporaneamente Occhetto cominciava a sviluppare una serie di iniziative “modernizzatrici”. L’esigenza di un “nuovo partito comunista” veniva sottolineata a più riprese. Si scoprivano nuove fondamenta per il partito, in un’intervista a Ferdinando Adornato rilasciata in occasione del bicentenario della rivoluzione francese, il segretario affermava: “Se ci fermiamo alla fase dell’agosto 1789, se guardiamo a quel documento fondamentale della Rivoluzione che fu la “Dichiarazione fondamentale dei diritti dell’Uomo e del cittadino”, non c’è dubbio: il Pci è figlio di questo grande atto della storia. Abbiamo riconosciuto la democrazia come valore universale (…) affermato proprio in quella dichiarazione.” (Idee e proposte del nuovo corso del Pci, L’unità, Roma 1989, pag. 33). La rivoluzione francese viene usata così in chiave anti-rivoluzione d’ottobre. Anche tutta la battaglia sulla difesa del welfare veniva condotta in nome dei diritti del cittadino (i “diritti inalienabili dell’individuo”), e non come parte di una vertenza dai connotati di classe, guidata dal movimento operaio.
Un vento di “post-modernismo” guidava la segreteria occhettiana, che non chiudeva i ponti, un anno prima della svolta della Bolognina, alla nascita di una formazione politica composta non solo dai comunisti: “Questo è ancora prematuro. Ma la nostra prospettiva è questa: determinare un’area di larga convergenza tra forze diverse, laiche e cattoliche. (…) A fatti politici nuovi corrisponderanno simboli nuovi. L’importante è che si sappia fin d’ora che noi lavoriamo a questo progetto.” (op. cit., pag. 41).
Il XVIII congresso, svoltosi a Roma nel marzo del 1989, si apriva dunque all’insegna del “riformismo forte” e alle aperture al “nuovismo”. Alla luce di quanto detto, pare incomprensibile l’apertura di credito data dagli ingraiani e da gran parte della sinistra del partito al “nuovo corso” occhettiano.
Il documento congressuale confermava tutte le aperture descritte in precedenza, inoltre introduceva tra l’altro la “necessità di riformare il sistema politico”. Per la prima volta il Pci contemplava la possibilità che le maggioranze non nascessero più in parlamento, ma direttamente dall’indicazione degli elettori. Questo appoggio ad Occhetto era rilevatore dei limiti di analisi e di strategia della sinistra ingraiana, che esploderanno più tardi.
Occhettò incassò l’appoggio di Ingrao e l’indubbio successo di immagine, procedendo per quanto riguarda gli organismi dirigenti ad un deciso rinnovamento. “La più ampia immissione di nuovi membri in Direzione nella storia del Pci (41,3%) (…) A sua volta il comitato centrale eletto dal congresso era passato addirittura da 219 a 300 membri, ma solo 161 risultavano i confermati” (G. Liguori, op.cit., pag. 73).
Al congresso di Roma per la prima volta dal dopoguerra era presente un documento alternativo a quello di maggioranza, presentato da armando Cossutta e dall’area che si era formata attorno a lui dopo lo “strappo”di Berlinguer. Il documento denunciava il progetto di Occhetto di lavorare a un nuovo partito, e proponeva di contrastare questa deriva affidandosi all’impianto classico della tradizione togliattiana. Cossutta difendeva “una concezione dell’avanzata al socialismo come rivoluzione democratica, come attuazione dei principi, tuttora incompiuti, della Costituzione.” (G. Liguori, op. cit., pag. 69). Una “via italiana al socialismo”, attraverso un compresso con la borghesia democratica che arrivava decisamente fuori tempo massimo.
Visti gli esiti del congresso, non potevano che crescere le pressioni di quella stessa borghesia democratica e progressista che, di fronte all’impasse del sistema politico italiano, non avendo la forza e la capacità di far nascere un proprio partito, voleva far diventare il Pci il “proprio” partito. Un partito che potesse governare, cosa difficile da accettare nel mondo occidentale per un partito che si chiamasse ancora “comunista”. Era quella parte di classe dominante raccolta attorno a la Repubblica e al suo gruppo editoriale, che cominciò a martellare sulla questione del nome del partito. Bisognava eliminare, secondo Eugenio Scallfari, quell’anomalia del “partito comunista non più comunista”. Tale campagna fu ripresa da intellettuali di “riferimento” all’interno del Pci, come Michele Salvati e Salvatore Veca durante l’estate dell’89 (“Cambiare il nome. Se non ora, quando?” fu il titolo di un articolo su Rinascita), e rilanciata anche dal viaggio di Occhetto negli Usa (prima volta per un segretario Pci) dove accreditandosi davanti al mondo politico ed economico, il segretario non aveva problemi a rilasciare dichiarazioni come “In America la parola “liberal” ha un significato che assomiglia molto a ciò che in Europa si intende con sinistra. Così in America, parlando del Pci, si potrebbe parlare di un “Italian Liberal Party” (G. Liguori, op.cit., pag. 74).
Sulla questione del nome, in verità, c’era già stato un affondo da parte dell’intellighenzia progressista dopo la morte di Berlinguer, nel 1985, ma quasi subito si comprese che la questione era troppo prematura. Ora invece la strada era spianata.
La svolta della Bolognina
A fornire un’accelerazione agli avvenimenti fu senza dubbio il crollo del muro di Berlino, nel novembre del 1989. Quell’avvenimento, che avrebbe portato rapidamente alla dissoluzione dei regimi dei paesi dell’Est e della stessa Unione sovietica, ebbe un effetto profondo sulle coscienze di milioni di persone, ma soprattutto sul modo di ragionare della maggior parte dei dirigenti del Pci.
Per il quadro medio del partito comunista, quei paesi erano quelli del socialismo reale. Anche se i comunisti italiani avevano sviluppato una strategia autonoma, da Togliatti in poi, era a quel modello che tutti guardavamo come obiettivo da raggiungere. Crollato il riferimento a cui ispirarsi, perchè chiamarsi ancora comunisti, si chiedevano in molti a Botteghe Oscure?.
L’orizzonte del comunismo scompariva di colpo, una volta che dal panorama la stella dell’Urss si cominciava a dileguare. Ci sarebbe stato bisogno di un’analisi sulla degenerazione della Rivoluzione d’ottobre, apprendendo dall’analisi preziosa che Trotskij, uno dei protagonisti di quegli avvenimenti, fece fin dagli anni trenta. Era necessario prendere energicamente posizione a difesa della proprietà statale dei mezzi di produzione e della pianificazione dell’economia, sottolineando che la principale causa dei problemi dell’Urss e dei paesi satelliti risiedeva nel controllo della burocrazia sullo stato e sull’economia. Per difendere le conquiste della pianificazione, quel sistema non si poteva riformare ma doveva irrompere una rivoluzione politica che riportasse nelle mani della classe operaia le leve dell’economia e dello stato.
Solo in questo modo sarebbe stato possibile, anche in Occidente, resistere alle sirene della socialdemocrazia e quindi del capitalismo. Invece il crollo dello stalinismo levò anche l’ultimo ostacolo, nella mente della maggioranza dell’apparato, per una definitiva socialdemocratizzazione del Pci.
Una svolta che era, come abbiamo visto, nell’aria da diversi mesi, ma che rappresentò un vero e proprio shock per tantissimi militanti, anche per le modalità con cui fu annunciata.
Tenendo fede alla politica “ad effetto” a cui era legato, Achille Occhetto annunciò il possibile cambiamento del nome del partito il 12 novembre 1989, ai margini della commemorazione della Battaglia partigiana della Bolognina. In quell’occasione, dopo il discorso ufficiale ai vecchi combattenti radunati per l’occasione, dove aveva insistito sulla necessità di “impegnarsi in grandi trasformazioni”, aveva interloquito con un paio di giornalisti che gli avevano chiesto se tra quei grandi cambiamenti fosse contemplato anche il nome del Pci. Occhetto rispose: “Tutto è possibile”. Il risultato fu la sorpresa di quei centinaia di migliaia di militanti del partito che dovettero apprendere dai telegiornali serali la notizia che “il Pci cambiava nome”.
Nei giorni e nelle settimane successive si aprì un grande dibattito a tutti i livelli del partito. Le sezioni dopo anni di abbandono tornarono piene di gente, iscritti e simpatizzanti che discutevano fino a notte fonda. Chi scrive si ricorda bene che, anche nella città e nello stesso quartiere della svolta, la maggioranza degli interventi erano chiaramente contro la scelta del segretario. Eppure nel giro di un paio di mesi questo ambiente cambiò e il “sì” alla svolta della Bolognina si imporrà con i due terzi del partito a favore.
Come fu possibile ciò? Una delle ragioni fu sicuramente oggettiva. Si era in una fase di riflusso del movimento dei lavoratori in Italia, che si rifletteva nel calo delle iscrizioni al Pci (vedi tabella a fianco). Una perdita di quasi il 20% di iscritti dal 1977 al 1989, pari a 400mila unità. Fu un calo di iscritti rilevante soprattutto fra gli operai, che calano da 828mila nel 1977 a 588mila nel 1988 e nel cuore industriale del paese, quel Nord ovest che vedeva nel medesimo periodo una diminuzione del 31% dei tesserati. Parallelamente, il 40% degli iscritti aveva più di 50 anni. (tutti i dati sono tratti da Viaggio nel cuore del Pci, Ediz. Rinascita, Roma 1990).
La tendenza all’unanimismo, pratica adottata dai vertici dei partiti comunisti dopo la degenerazione stalinista, creava a tutti i livelli la tradizione di essere comunque d’accordo con quello che diceva il segretario o il Comitato centrale. Si era sviluppata da tempo una logica perversa che favorì la svolta: “Le sezioni erano da tempo disabituate ad essere sedi di lavoro di massa, di formazione quotidiana di quadri, erano straordinariamente attive solo nell’organizzazione delle Feste dell’Unità, e ancor più nelle scadenze elettorali; le cellule di lavoro erano poche e delegavano quasi tutto al sindacato” (Lucio Magri, op.cit., pag. 364).
Nonostante ciò, l’opposizione alla svolta trovò notevoli consensi. Al XIX congresso, celebrato a Bologna nel marzo 1990, le due mozioni del “no”, una capeggiata da Ingrao e l’altra da Cossutta, ottennero assieme il 33,9%. Un risultato considerevole, se si pensa che gran parte dell’apparato era schierato per il sì, soprattutto in regioni come l’Emilia-Romagna, dove Occhetto conseguì oltre il 79%. Questa area di un terzo degli iscritti (la cui consistenza fu ribadita anche al Congresso di Rimini del 1991) che resistevano allo scioglimento del Pci aveva grandi potenzialità. Potenzialità che rimasero in buona parte solo tali.
Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, l’area del “no” era un aggregato di diverse sensibilità molto differenti fra di loro, unite dall’opposizione alla deriva occhettiana. Non aveva una strategia comune veramente alternativa da opporre alla maggioranza. Quando si provava, nelle mozioni presentate, ad elaborare alcune idee, queste erano pesantemente viziate dalla visione riformista e gradualista propria del Pci del dopoguerra. Nella seconda mozione, quella di Ingrao, si poteva leggere ad esempio: “Comunismo vuol dire anche, e qui è un suo connotato essenziale, che tutto ciò è possibile solo con il graduale superamento di una formazione sociale fondata sulla priorità del profitto e del mercato.” (Documenti per il congresso straordinario del Pci, Vol. 3, L’unità, Roma 1990, pag. 52). Tale gradualismo pervadeva anche la terza mozione di Cossutta, quando affermava: “La transizione dal capitalismo al socialismo non può che essere vista come processo mondiale di lunga durata ” (op. cit., pag. 65) o con formule quantomeno ambigue, come il fatto che fosse decisivo per il Pci “un progetto sovranazionale di dominio della politica sulla spontaneità dei mercati, in quanto prospettiva di transizione a nuove forme di democrazia socialista nella comune casa europea.”(op. cit., pag. 78).
Il problema di fondo era il rifiuto di collegarsi all’esperienza della rivoluzione russa e al pensiero di Lenin, concetto che troviamo ribadito dalla relazione introduttiva di Lucio Magri nel convegno di Arco del settembre 1990, dove si trovarono gli esponenti del fronte del no per unire gli sforzi in vista dellla battaglia finale.
Per Magri la parola comunista “stava ad indicare la linea di demarcazione stabilita dal leninismo e dalla rivoluzione di Ottobre e dunque soprattutto alcuni punti discriminati: la necessità di una rottura rivoluzionaria, il concetto di dittatura proletaria, la statizzazione quasi integrale dei mezzi di produzione, la pianificazione centralizzata, la soppressione del mercato per via amministrativa. In questo senso tale parola risulta tanto logorata dai fatti da non essere oggi difendibile.” (G. Liguori, op. cit. pag. 172).
Magri sottolineava l’esigenza di “una idea di società, futura ma non utopica, radicalmente liberata dai tratti essenziali del sistema capitalistico e della società classista e mercantile.”(G. Liguori, op. cit., pag. 173).
In quel convegno Pietro Ingrao fece un famoso intervento in cui annunciava che preferiva “restare nel gorgo”, e cioè che avrebbe aderito alla nuova formazione politica che sarebbe nata nel congresso di Rimini, il Partito democratico della sinistra.
Tale annuncio, per il carisma di cui godeva l’ex Presidente della Camera, divise l’opposizione e ne depotenziò molto la battaglia nel periodo successivo. A Rimini furono solo una novantina di delegati su 1.245 a fondare quello che poi sarebbe diventato il Partito della Rifondazione comunista. In momenti successivi, la maggioranza di coloro che condivisero la battaglia del “no” approdarono comunque al Prc, vista l’impossibilità di condurre un’azione minimamente efficace come “comunisti democratici” nel Pds.
Dal punto di vista delle nude cifre, la scelta di sciogliere il Pci si rivelò subito fallimentare. Nel 1991 il partito aveva ancora 1.420mila iscritti. Al Pds nel 1992 si scrissero poco meno di 800mila persone. Se si sommano i 117mila del Prc (dove trovavano posto anche gli 8500 di Dp), si può notare come oltre mezzo milione di persone non si iscrissero ad alcuna delle due formazioni eredi del Pci. I voti persi nelle prime elezioni, quelle politiche delle 1992 furono circa due milioni rispetto al 1987 e un milione e mezzo rispetto alle europee del 1989.
Ancora più devastanti sono stati gli effetti politici. Il Pds, nella rincorsa disperata all’ottenimento di un pieno riconoscimento da parte della borghesia italiana, ha fondato assieme alla Margherita (vale a dire una dei principali eredi della Democrazia cristiana) un nuovo partito borghese, il Partito democratico. Senza grandi fortune, visto che fin dalla nascita versa in uno stato di crisi permanente.
Altrettanto grave è stata la deriva del Prc, un partito che negli anni successivi alla sua nascita, e per oltre un decennio, aveva suscitato grandi speranze in centinaia di migliaia di giovani e lavoratori. Tutti coloro che speravano in una vera rifondazione del comunismo hanno visto tradite le proprie aspirazioni da un gruppo dirigente che, rifiutandosi di operare in un’ottica anticapitalista, ha investito sulla possibilità di operare riforme graduali, alleandosi in due occasioni con forze appartenenti al campo della borghesia col proposito di andare al governo.
Nel 2008, ed è storia per tutti noi ancora viva e che ancora brucia, ciò ha comportato, per la prima volta da 120 anni (fascismo escluso), la scomparsa di una forza comunista o socialista dal parlamento italiano.
Oggi ci troviamo a lottare faticosamente perchè i comunisti non siano cancellati dal panorama politico di questo paese. Crediamo che tale eventualità sia del tutto improbabile: questo sistema crea tali contraddizioni e tali disuguaglianze talmente gigantesche che le idee del comunismo torneranno prepotentemente popolari nelle lotte del prossimo futuro. In queste lotte i comunisti potranno giocare un ruolo decisivo, a condizione che sappiano veramente imparare dai propri errori, comprendere l’irriformabilità del capitalismo e lottare per un programma che non rimandi al lontano futuro il cambiamento della società, ma collochi la rottura con le compatibilità del sistema capitalista nel contesto delle rivendicazioni che vengono avanzate in ogni lotta quotidiana.