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11 Ottobre 2016Marxismo o campismo?
12 Ottobre 2016di Alessandro Giardiello*
* L’autore è debitore nei confronti di Fred Weston, dirigente della Tendenza marxista internazionale, e della sua relazione di apertura del dibattito sull’imperialismo nel corso del Comitato esecutivo internazionale della Tmi, a cui si è ispirato per preparare questo testo.
Risulta evidente che la recessione economica cominciata nel 2008 non ha carattere congiunturale ma è una crisi profonda e di tipo strutturale del sistema capitalista.
Uno degli elementi che sta facendo emergere è che l’imperialismo Usa non ha più la forza del passato, né dal punto di vista economico, né da quello politico-militare.
Le esperienze in Afghanistan, in Iraq e più di recente in Siria, dimostrano fino a che punto l’amministrazione a stelle e strisce non sia in grado come in passato di fare la voce grossa ed esercitare la propria egemonia sul globo.
Questo fenomeno si presenta assieme a un rafforzamento di paesi come i Brics (in particolare la Cina) che tentano di ritagliarsi, riuscendoci in buona parte, un ruolo maggiore nello scacchiere internazionale.
Un rapporto diverso va stabilendosi tra l’imperialismo americano e paesi come Cina e Russia. Di che tipo di rapporto si tratta?
Rispondere correttamente a questa domanda è di importanza vitale per chiunque si batta contro la barbarie del capitalismo e per un mondo liberato dalle guerre e dallo sfruttamento.
Per inquadrare la questione è necessario però tornare ai fondamentali della teoria marxista.
L’Imperialismo, un libro ancora attuale
Lenin ne L’imperialismo1 sottolinea come si sia estinto il “vecchio capitalismo”, in cui domina la “libera concorrenza” e l’esportazione di merci, per essere sostituito da un sistema controllato dai monopoli, in cui l’esportazione di capitali prevale su quella delle merci.
Riassumiamo i capisaldi della sua analisi:
1) la concentrazione della produzione e del capitale crea i monopoli che svolgono una funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione tra capitale bancario e capitale industriale produce un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquisita dall’esportazione di capitali rispetto a quella delle merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta spartizione della Terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
L’impianto di questa analisi rimane sostanzialmente valido a distanza di un secolo, con buona pace di Toni Negri2 e di coloro che hanno tentato di confutarlo in questi anni, il che non significa che alcuni aggiornamenti non siano necessari.
È lo stesso Lenin che indica la via, quando nel libro sostiene che nessuna definizione ha contenuto scientifico al di fuori del suo quadro di riferimento; troppi elementi dinamici compongono un fenomeno per darne una definizione completa e valida per tutte le stagioni.
Evoluzione dei rapporti internazionali
Volendo riassumere i principali cambiamenti potremmo identificare i seguenti:
1) Le gigantesche fusioni di questi ultimi vent’anni hanno spezzato il controllo verticale delle aziende (di tipo familiare) dedite ad una particolare produzione, generalizzando il controllo orizzontale di aziende diversificate, controllate fondamentalmente da banche e fondi d’investimento.
2) La “fusione” tra capitale industriale e bancario è stata sostituita da una totale sottomissione dell’industria al capitale globale; la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia relega i movimenti industriali e commerciali a un’infima parte del movimento dei capitali. Ciononostante è la produzione che valorizza il capitale, di conseguenza il sistema si aggroviglia in una crisi dalla quale non sembra trovare una via d’uscita.
3) Il movimento dei capitali giganteggia oggi effettivamente su quello delle merci, ma l’enormità della differenza induce cambiamenti qualitativi; mentre il commercio internazionale in rapporto al prodotto è ormai fermo da molti anni al dato precedente la Prima guerra mondiale (e tende a ridursi sempre più), il traffico finanziario è immenso e molto più globalizzato rispetto ad esso: il 95% di massa finanziaria contro il 5% di merci.3
4) Le “associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti” rispondono sempre meno al richiamo degli Stati, al contrario fanno muovere tutti al loro ritmo, compresi gli Stati Uniti. Ciononostante gli Stati continuano a svolgere un ruolo decisivo di equilibrio e di “salvataggio”, con fiumi di denaro pubblico che vengono utilizzati a tutela del sistema, ogni volta che si apre una voragine finanziaria provocata dalle bolle speculative.
5) La spartizione fra le potenze imperialistiche ha subito un drastico mutamento rispetto al 1916, sia come effetto dello scontro di classe con le rivoluzioni del XX secolo, sia per dinamiche economiche, intrinseche al sistema capitalista di produzione.
Dunque fino a che punto in questi anni si è prodotta un’inversione dei rapporti di dipendenza tra paesi imperialisti e paesi dominati?
Bisogna in primo luogo fare una premessa: quando Lenin parla di “ultimo stadio del capitalismo”, intende riferirsi allo stadio in cui le potenze coloniali hanno completato la suddivisione del mondo in colonie, non nel senso che dopo di esso non ve ne possono essere altri e che ulteriori suddivisioni siano impossibili. In altre parole per Lenin “ultimo stadio” significa che il sistema capitalista di produzione è penetrato in ogni angolo del pianeta.
Nuove ripartizioni del mondo sono non solo possibili, ma per certi aspetti sono inevitabili. Vecchi paesi coloniali vengono affiancati o rimpiazzati da nuovi e le colonie possono passare dal dominio di un paese ad un altro.
Nel dopoguerra abbiamo assistito a varie trasformazioni nei rapporti internazionali; prima con la crescita del blocco sovietico e un vastissimo movimento di liberazione dei popoli coloniali. Tali profonde trasformazioni (dal carattere puramente politico) hanno investito anche i rapporti economici tra paesi imperialisti e paesi coloniali.
Una conseguenza non trascurabile è che dopo la crisi degli anni ’30 e fino alla fine degli anni ’70 si è assistito a una sensibile diminuzione dell’esportazione di capitali verso i paesi dominati, ed è diminuita la partecipazione di questi ultimi al commercio internazionale, fino quasi a delineare una progressiva marginalizzazione delle aree ancora non capitalisticamente sviluppate rispetto al funzionamento dell’economia internazionale. Di conseguenza si è assistito a una crescita sostanziale dell’intervento pubblico nell’economia (anche nei paesi capitalisti).
Questa situazione è cambiata drasticamente negli anni ’80, ’90 e 2000 e il capitalismo è tornato, su basi infinitamente più alte, a somigliare molto di più a quello analizzato da Lenin nel 1916.
Con la sconfitta del movimento operaio degli anni ’80, la restaurazione capitalista in Russia e Cina, le politiche ultra-liberiste inaugurate da Reagan e Thatcher, il capitalismo, per così dire, è tornato a mostrare la sua faccia più autentica.
La cosiddetta globalizzazione non è un fenomeno nuovo. Nel 1914 l’internalizzazione del commercio e del capitale finanziario era un elemento altrettanto fondamentale dell’economia mondiale, quanto lo è oggi4.
Multinazionali e colonie
Come si diceva, la caratteristica principale dello sviluppo capitalista è il dominio delle “associazioni monopolistiche del grande capitale”, che oggigiorno chiamiamo multinazionali. Gli Stati sono necessari per difendere e promuovere gli interessi delle multinazionali attraverso una serie di politiche, anche militari. Ovviamente i due ordini di interessi non sono sempre convergenti, il che non significa che si sia spezzato il nesso di interdipendenza dialettica che esiste tra di loro.
Un’analisi seria delle principali multinazionali nel mondo può facilmente dimostrare come, pur operando sui mercati mondiali ed avendo piattaforme produttive in ogni angolo del pianeta, nel 95% dei casi hanno una base nazionale, vale a dire che mantengono il quartier generale in una determinata nazione, nella quale concentrano il loro know-how5.
Per Lenin il principale interesse dei paesi imperialisti verso le colonie si dirige principalmente verso l’esproprio di materie prime. L’esempio attuale più macroscopico è il petrolio. Ma la caccia alle materie prime non è il solo motivo del dominio coloniale, l’aspetto centrale è il trasferimento di plusvalore (attraverso il basso costo della manodopera e la partecipazione al commercio mondiale che svolge un ruolo decisivo nel contrastare la tendenza al calo del saggio di profitto).6
Lenin evidenzia che non vi sono solo due gruppi di nazioni, i paesi coloniali e le colonie stesse. Vi sono anche nazioni che, pur essendo politicamente indipendenti, sono invischiate in una rete di dipendenza finanziaria. Lenin le chiama semi-colonie finanziarie e commerciali.
La dipendenza finanziaria dei paesi debitori nei confronti dei paesi creditori è particolarmente evidente nella situazione attuale in cui il debito privato del sistema finanziario e quello dello Stato si accumulano raggiungendo livelli mai visti nel passato.
Nel colonialismo tradizionale: 1) le colonie forniscono le materie prime alle nazioni colonizzatrici da cui importano prodotti finiti, ecc.; 2) a causa di questo rapporto, nelle colonie non vi è un processo rilevante di sviluppo capitalista e di diversificazione dell’economia.
Nell’imperialismo moderno invece, vi può essere nei paesi dominati uno sviluppo economico capitalista, con conseguente diversificazione e accumulazione del capitale. Tuttavia questo è uno sviluppo dipendente nel senso che: 1) il capitale nei paesi dominati adatta la sua produzione e le sue attività economiche ai bisogni del centro imperialista e diversifica la sua struttura interna secondo questi bisogni; 2) il centro esporta ai paesi dominati quello di cui i paesi dominati hanno bisogno ma soprattutto quello di cui hanno bisogno (per esempio, infrastrutture) affinché questo rapporto di dominazione possa continuare; 3) il centro esporta ai paesi dominati anche tecnologie relativamente avanzate, ma non le più moderne, in modo da trasferire plusvalore verso il centro e mantenere una dipendenza tecnologica; 4) data questa dipendenza tecnologica, i paesi dominati devono far ricorso a salari più bassi relativamente a quelli del centro e/o alla svalutazione della loro moneta.
Quindi, l’essenza della relazione di dominio imperialista è che alcuni paesi, i paesi dominanti, espropriano ricchezza e plusvalore dai paesi dominati. Salvo che non ci siano ragioni politiche che costringano l’imperialismo ad agire diversamente (è il caso ad esempio della Corea del Sud a cui nel dopoguerra è stato permesso un certo sviluppo in chiave anti-sovietica).
Ma la situazione non è statica nel senso che una nazione dominata è condannata a rimanere tale per sempre. In determinate circostanze una nazione dominata può tentare di liberarsi da questo rapporto di dominio imperialista per diventare essa stessa un paese imperialista. È quello che stanno tentando di fare i cosiddetti paesi emergenti. Essi provano a rompere la loro dipendenza e cioè a limitare e persino di bloccare l’esproprio di plusvalore. Il loro scopo è l’introduzione di tecnologie alla pari di quelle dei paesi dominanti, di differenziare la propria economia e di accumulare capitale.
Lenin analizza i diversi paesi imperialisti, tra quelli che chiama “giovani” paesi capitalisti (si riferisce ad America, Germania e Giappone) e spiega che i progressi in questi paesi erano stati straordinariamente rapidi.
Parla poi delle vecchie potenze come la Gran Bretagna e la Francia, i cui progressi erano molto più lenti. Sappiamo quanto è accaduto nella storia: il rallentamento dello sviluppo dell’imperialismo britannico ha significato il passaggio del testimone all’imperialismo americano.
Questi passaggi di testimone normalmente si collocano in contesti di forte rottura sistemica quali sono le guerre, le rivoluzioni o i crack economici che hanno un carattere dirompente (tali possiamo considerare la crisi del 1929 o quella cominciata nel 2008).
Rispetto all’imperialismo russo Lenin lo descrive come: “il più arretrato nei riguardi economici, dove il più recente capitalismo imperialista è, per così dire, avviluppato da una fitta rete di rapporti pre-capitalistici”.7
La Russia era un mix di rapporti pre-capitalisti con sacche di capitalismo più avanzato. È stato il capitale straniero che ha sviluppato il capitalismo in Russia e tuttavia Lenin la include nella lista dei paesi imperialisti.
La Prima e la Seconda guerra mondiale sono state rotture della situazione precedente con una nuova spartizione delle zone di influenza: “Il capitalismo sta crescendo con la massima rapidità nelle colonie e nei paesi d’oltremare”.8
Lenin mette in evidenza il diverso livello di sviluppo nei diversi paesi e dice che tra questi ultimi stanno emergendo nuove potenze imperialiste tra cui cita il Giappone di cui osserva il potere crescente. Nota che lo sviluppo delle forze produttive in Germania, ad esempio, è stato incomparabilmente più rapido che in Gran Bretagna. Questo doveva portare inevitabilmente a un cambiamento dei rapporti di forze. Si riferisce anche ai paesi più competitivi, vale a dire i paesi in cui la produttività cresce più rapidamente: questi paesi diventano più forti in una situazione dominata dalla tendenza alla stagnazione e al deperimento, caratteristica della fase monopolistica, che in alcune fasi avvolge alcuni settori industriali e alcuni paesi, per determinati periodi di tempo.
L’ultra-imperialismo
È tuttavia evidente che l’unico modo in cui può crescere la potenza di un paese o di un blocco imperialista è a scapito di altre potenze o blocchi, poiché il mondo è già stato ripartito.
Chi ambisce a una nuova spartizione sarà spinto a lottare per essa generando conflitti e guerre. È sulla base di questo ragionamento che Lenin attacca la teoria dell’ultra-imperialismo di Kautsky, che definisce una “ultra-stupidità”, la quale prevedeva l’esaurimento di ogni contraddizione attraverso l’unificazione del “capitale finanziario internazionale”.
La cosa non è priva di interesse visto che queste idee vengono riproposte oggi da intellettuali neo-kautskiani, quali Ernesto Screpanti, che sognano (perché di un sogno si tratta) un pianeta libero dalle guerre, sulla base di un supposto dominio del capitale multinazionale e un ruolo sempre più marginale degli Stati.9
Il ragionamento di Screpanti è tanto semplice quanto sorprendente: se gli Stati svolgono una funzione residuale anche le contraddizioni inter-imperialiste hanno un carattere secondario, e quindi non possono sfociare in guerre aperte e prolungate.
Difficile ipotizzare un distacco più grande dalla realtà per un libro scritto nel 2013, l’anno che ha fatto registrare il maggior numero di guerre dalla fine della Seconda guerra mondiale.10
La realtà è che, dopo il crollo dell’Urss, stiamo assistendo a un’impennata di conflitti bellici in ogni parte del mondo.
L’analisi di Screpanti, così come a suo tempo quella di Kautsky, fa acqua da tutte le parti e si basa da una parte su un pio desiderio e dall’altra su una visione meccanica del rapporto esistente tra il capitale finanziario e gli Stati. Una visione di cui non c’è traccia nell’opuscolo di Lenin, che non a caso basa sempre la sua analisi sulla relazione dialettica tra soggetti che, pure diversi, appartengono al medesimo sistema di sfruttamento.
In un passaggio Lenin dice: “si può immaginare che nel corso di 10-20 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangono immutati? Assolutamente no. Pertanto nella realtà capitalista, e non nella volgare fantasia filistea dei preti inglesi o del ‘marxista’ tedesco Kautsky, le alleanze ‘inter-imperialistiche’ o ‘ultra-imperialistiche’ non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra.”11
Questa osservazione è stata confermata dalla storia, possiamo applicarla a un paese come gli Stati Uniti, che quando Lenin scriveva era una potenza imperialista nascente e ora sta subendo un processo simile a quello che ha attraversato la Gran Bretagna un secolo fa.
Gli Stati Uniti tra il 1890 e il 1950 hanno visto una crescita fenomenale della produttività, mai vista prima e ben maggiore di quanto accaduto in precedenza in Gran Bretagna. Questo ha trasformato l’equilibrio delle forze a livello globale. Nel 1890, quando l’America era in ascesa come potenza, il senatore dell’Indiana, Albert J. Beveridge disse: “le fabbriche americane producono più di quanto gli americani possano consumare. Il suolo americano produce più di quanto possiamo consumare. Il destino ha scritto la nostra politica per noi. Il commercio mondiale del mondo deve essere nostro e sarà nostro. Dobbiamo stabilire avamposti commerciali in tutto il mondo per la distribuzione dei beni americani”.12
Qualcosa di simile potremmo dirlo oggi per la Cina. La quantità di merci che produce necessita di uno sbocco sui mercati mondiali.
La crescita americana nel passato è stata incredibile: nel 1926 gli Stati Uniti producevano l’84% delle auto di tutto il mondo, il 60% dell’acciaio e il 50% del carbone. Il reddito nazionale era due volte e mezzo quello di Gran Bretagna, Francia, Germania e Giappone messi assieme, ossia delle quattro grandi potenze imperialiste che stavano dietro l’America.
Alla fine della Seconda guerra mondiale l’America produceva più del 50% del Pil mondiale con una popolazione di 140 milioni di abitanti, poco meno del 6% di quella mondiale. Questo è quello che ha permesso agli Stati Uniti di dettare la politica economica su scala mondiale e di sostituire il dollaro all’oro come misura universale del valore, e le ha permesso di scrivere gli accordi di Bretton Woods e del Gatt perché favorissero la riduzione delle barriere e l’enorme espansione del commercio mondiale.
Durante il boom del dopoguerra (nonostante un terzo del pianeta fosse sotto l’influenza sovietica, e dunque sottratto all’economia di mercato), il Pil degli Stati Uniti, crebbe, tra il 1940 e il 1960, del 250%. La produzione di automobili aumentò di quattro volte. Le condizioni della classe operaia cambiarono di conseguenza. Questo fu il periodo della dominazione degli Stati Uniti ma anche dell’inizio del suo declino.
Già tra il 1968 e il 1982 la produttività negli Stati Uniti passava dal crescere mediamente del 3% l’anno all’1,2%, subendo così un forte rallentamento.
Per alcuni anni il tasso di crescita è risalito, ma non si è avvicinato neanche lontanamente ai tassi sperimentati negli anni d’oro. Nel 1980 l’America vantava uno dei più alti tassi di crescita al mondo. Adesso, la produttività ha una crescita sempre più lenta e arriva a stento a un +0,5% l’anno, così come gli investimenti.
Come proporzione del Pil mondiale, quello americano passa dal 50% nel 1945 al 22% nel 1980 e rappresenta oggi il 16% (nelle stime del Fmi). Le proiezioni mostrano un’ulteriore riduzione. Questo non vale solo per gli Stati Uniti. Se guardiamo la forza relativa delle vecchie potenze imperialiste, le principali economie avanzate, nel 1980 tutte assieme facevano oltre la metà del Pil mondiale. Ora rappresentano poco più del 30%.
Le spese militari degli Stati Uniti come percentuale del Pil sono scese tra il 1988 e il 2000, poi risalite, poi ridiscese dal 2008-’09. Ciò che colpisce è che oggi le forze armate degli Stati Uniti come percentuale della forza lavoro non arrivano all’1% contro l’1,7% del 1990: quasi la metà.
Nel periodo 2000-2010, mentre la Cina cresceva a una media del 10,5%, la crescita dell’America era dell’1,6%, un caso di sviluppo diseguale, con una crescita di un paese e il relativo declino di altri.
Naturalmente gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza imperialista a livello mondiale. Sono ancora di gran lunga il paese dominante in termini di multinazionali, se guardiamo alla sua presenza nella lista Fortune 500.
Tuttavia, se guardiamo ai dati nel corso degli anni, il numero delle aziende cinesi cresce ogni anno di più, mentre quelle americane diminuiscono.
In questo momento ci sono 98 multinazionali cinesi contro le 128 degli Stati Uniti. Questo relativo declino dell’imperialismo statunitense sta portando a una maggiore instabilità su scala globale, perché non esiste almeno per ora una potenza che possa sostituire l’imperialismo statunitense, neanche la Cina.
Nel XX secolo abbiamo visto come, a un certo punto, la Gran Bretagna è stata costretta a cedere il ruolo di poliziotto mondiale all’America, una sua ex colonia, assurta a rango di nazione più potente del pianeta.
Per l’indebolimento dell’imperialismo americano e per la mancanza di una superpotenza alternativa, vediamo il sorgere di diverse potenze regionali: la Cina è una di queste, la Russia un’altra. La Russia ha ripreso forza ed ora è in fase offensiva, lo si vede per come è cambiato il suo atteggiamento in Ucraina, in Georgia e in Siria, molto meno remissivo rispetto a quello che tenne Eltsin nella crisi jugoslava.
La Turchia e l’Arabia Saudita, che in passato erano fantocci dell’imperialismo americano, oggi sostengono mercenari che combattono contro le truppe americane e si scontrano con gli Usa anche sul terreno economico (si pensi al conflitto nell’Opec tra gli Usa e l’Arabia Saudita).
Dall’Atlantico al Pacifico
Sulla questione delle esportazioni di capitali, c’è un interessante articolo dell’Economist che spiega: “dal 1970 il commercio attraverso il Pacifico ha ampiamente superato quello sull’Atlantico. (…) Da una stima del 2010, la Cina ha fatto più prestiti in America Latina della Banca mondiale, della Banca interamericana di sviluppo e della Banca degli Stati Uniti per l’Import-Export messe assieme. Si tratta di una esportazione massiccia di capitali cinesi”. E aggiunge: “la Cina ha interrotto gli investimenti e il commercio con i paesi vicini che si oppongono alla sua aggressività territoriale, come il Giappone, le Filippine e il Vietnam”.13
La Cina cerca di utilizzare il suo peso economico per imporsi su scala globale: gasdotti, ferrovie e strade, principalmente per fornire materie prime alla propria economia. Secondo il Centro di studi strategici e internazionali di Washington, “sta usando la centralità del suo potere per convincere altre nazioni che semplicemente non vale la pena sfidare la Cina su questioni territoriali”.14 Si riferisce alle nazioni del Pacifico, che oscillano tra gli Stati Uniti e la Cina.
La Cina però non esporta solo capitali verso i paesi coloniali o meno sviluppati. Acquista grandi aziende negli Usa e in Europa, oltre che nel resto del mondo. Il vibrante commercio con l’America Latina è in forte aumento da anni. Il commercio tra America Latina e Asia è cresciuto di quattro volte negli ultimi dieci anni. L’Asia ha superato l’Ue come secondo partner commerciale dell’America Latina, dopo gli Stati Uniti. La Cina è il principale esportatore asiatico verso l’America Latina dove esporta merci finite e importa risorse naturali. Nel caso del Brasile, del Cile e del Perù, ha superato gli Stati Uniti come primo partner commerciale. È stato scritto molto sui rapporti tra Cina e Africa: gli investimenti in paesi come Nigeria, Angola e Gabon per la costruzione di ferrovie e strade e per la gestione di miniere e terreni, ecc. hanno sostituito le controparti occidentali.
Le cifre sull’esportazione di capitali mostrano che la Cina esporta capitale su scala mastodontica. Non esporta capitale americano ma il capitale che ha accumulato proprio in questi anni.
In termini di presenza militare, un articolo molto approfondito, pubblicato nella War College Review della marina, scritto da un capitano della marina coreana,15 descrive la situazione che la Cina si trova ad affrontare. In questo articolo si spiega la necessità che ha il paese di un flusso costante di materie prime e di proteggere le relative rotte di navigazione. Si evidenzia la crescente potenza marittima cinese e il declino di quella americana e il fatto che Xi Jinping, il presidente cinese, abbia espresso più volte la necessità di sviluppare la presenza marittima del suo paese.
Nel testo si elencano i diversi conflitti locali in cui è implicata la Cina e si fa riferimento alla tattica cinese di lungo periodo di provocare piccole sfide nel Pacifico, un atteggiamento volto a mettere gli avversari di fronte al fatto compiuto. Vengono anche menzionati i piani cinesi per costruire portaerei, campo in cui scontano un forte ritardo nei confronti degli Stati Uniti.
Xi Jinping ha espresso la volontà di sviluppare la capacità marittima allo scopo di trasformare la Cina in una potenza marittima commisurata alla forza economica e geostrategica del paese.
Se la Russia, che nel 1916 era infinitamente più arretrata rispetto alla Cina di oggi, poteva essere considerata da Lenin un paese imperialista, come si può rifiutare tale definizione alla Cina di oggi, come si ostinano a fare degli intellettuali che si considerano marxisti e leninisti?16
Naturalmente questo non significa che non ci saranno contraccolpi anche violenti in campo economico: è chiaro che la Cina sta subendo i colpi della crisi mondiale, la crescita è sempre più lenta e questo avrà un enorme impatto su scala mondiale.
Non è pensabile una situazione in cui l’imperialismo americano consegni il testimone ai cinesi dicendo: “aiutateci coi debiti e vi nomineremo poliziotti del mondo”, che è quello che hanno fatto gli inglesi con gli americani. La crisi economica produrrà nuovi terremoti politici che finiranno col determinare nuovi squilibri sul piano internazionale.
Di questi “terremoti” l’unico che può avere un approdo progressivo per i lavoratori è l’approdo rivoluzionario e il superamento del sistema capitalista di produzione.
Il compito dei comunisti non è quello di scegliersi il blocco imperialista dietro cui accodarsi, ma di lottare per uno sbocco del genere che necessita dell’indipendenza del proletariato da ogni rappresentanza della borghesia, di qualunque nazione essa sia.
Note
1. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1974.
2. Il riferimento è a: M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002.
3. Secondo R. Gilpin, Politica ed economia delle relazioni internazionali (Il Mulino, Bologna, 1990), già nel 1984 gli scambi di valuta raggiunsero i 35 trilioni di dollari, cioè quasi venti volte il valore complessivo del commercio mondiale. Oggi il rapporto è almeno il doppio di quello di trent’anni fa.
4. Sul processo di globalizzazione che si realizzò tra il 1870 e il 1914 si suggerisce: M. Mac Millian, 1914: Come la luce si spense sul mondo di ieri, Rizzoli, 2013.
5. “L’impostazione più frequentemente seguita è quella del mantenimento nella casa madre delle funzioni aziendali come marketing, ricerca e sviluppo e tutto ciò che riguarda gli aspetti intangibili del processo produttivo; parallelamente vi è un’apertura verso il mercato estero di gran parte delle fasi di produzione”, in C. Gianni, Il ruolo delle imprese multinazionali nel mercato globale, Edizioni Proteo, Roma, 2002.
6. Nel terzo volume del Capitale, XIV capitolo: Cause antagonistiche al calo del saggio di profitto, Marx include l’aumento della partecipazione nel commercio mondiale.
7. Lenin, ibidem, pag. 119.
8. Lenin, ibidem, pag. 121.
9. E. Screpanti, L’imperialismo globale e la grande crisi, Deps, Siena, 2013.
10. Secondo l’istituto Heidelberg.
11. Lenin, ibidem, pag. 161.
12. citato da N. Ferguson in: Colossus, The Rise and Fall of the American Empire, pag. 43 (traduzione nostra).
13. Dall’inserto speciale dell’Economist dal titolo The Pacific Age del 15 novembre 2014.
14. La citazione è di Bonnie Glaser del Centre for Strategic and International Studies di Washington. Citato nello stesso inserto dell’Economist del 15 novembre 2014, http://www.economist.com/news/special-report/21631799-asia-has-built-web-economic-interdependence-which-china-would-be-ill-advised.
15. Si tratta del capitano Sukjoon Yoon, ammiraglio della Corea del Sud in pensione. L’articolo pubblicato da Naval War College Review, Summer 2015, Vol. 68, No. 3, si intitola “Implications of Xi Jinping’s ‘True Maritime Power’ – Its Context, Significance, and Impact on the Region” (traduzione nostra).
16. A tal proposito si veda in questa stessa rivista l‘articolo di Franco Bavila Marxismo o campismo?.