Un mondo in bilico tra crisi e rivolta
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21 Gennaio 2016di Alessandro Giardiello
Ripubblichiamo nel novantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre due classici del marxismo: Stato e rivoluzione e le Tesi d’aprile. Due testi di Lenin che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’orientare il partito bolscevico e i lavoratori alla conquista del potere.
Dopo l’89, il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss, si sono spesi fiumi di inchiostro sul “secolo breve”, sulla “fine della storia”, sugli orrori che ha prodotto la rivoluzione del ’17. Al coro da destra si univa quello degli ex stalinisti che in passato difendevano ogni singola scelta provenisse dal blocco sovietico e oggi considerano fallita l’intera esperienza comunista.
Chi come noi difende integralmente la traiettoria politica e teorica del bolscevismo, almeno fino alla morte di Lenin, si sente pertanto responsabile, in primo luogo verso le nuove generazioni, di mettere in evidenza non solo le conquiste materiali della rivoluzione russa, ma anche e soprattutto il patrimonio politico e teorico che da quell’esperienza ci viene trasmesso grazie agli scritti dei grandi rivoluzionari dell’epoca, al di sopra dei quali c’era senza dubbio Lenin.
Qualcuno si sprecherà in stupide ironie sull’antiquariato del movimento operaio salvo poi accorgersi che i “moderni” libri di Bertinotti, Revelli, Negri, i cosiddetti intellettuali del “nuovo movimento operaio” a distanza di qualche anno nessuno li ricorda più, mentre quelli di Lenin, a quasi un secolo dalla loro pubblicazione, sono assolutamente attuali e utili per comprendere la realtà che ci circonda e intervenire in essa.
Per carità di patria non torneremo sulla polemica che ci ha visto impegnati negli anni scorsi su questioni come l’imperialismo e la conquista del potere; sarebbe troppo facile ironizzare sul fatto che chi ha teorizzato il superamento di queste categorie del marxismo sia finito oggi col gestire il potere della borghesia (entrando nel governo e occupando la terza carica dello Stato) e vota in parlamento il finanziamento della missione imperialista in Afghanistan.
Non c’è alcun disprezzo in questa affermazione, solo la volontà di reagire a quella furia iconoclasta che si è scatenata negli ultimi anni, tesa a sradicare ogni residuo di leninismo dalle organizzazioni del movimento operaio.
Ma per quanto impegno possa essere profuso in questa campagna le idee del marxismo sono ancora lì, presenti, più vive che mai, proprio perché non sono le speculazioni di qualche intellettuale isolato. Sono il frutto dell’esperienza viva del movimento, razionalizzata e sistematizzata sul piano teorico da grandi pensatori, che prima ancora di essere degli intellettuali sono stati dei dirigenti politici della classe operaia. Intellettuali organici, come li definiva Antonio Gramsci.
Non si può certo dire che oggi abbondino figure di questo tipo, ed è così che ad ogni sviluppo decisivo della lotta di classe le “nuove teorie” vengono spazzate via e il pensiero dei grandi marxisti del novecento (Lenin, Trotskij, Gramsci, Rosa Luxemburg) riaffiora dalle ceneri come l’araba fenice.
Come capire il processo rivoluzionario in America Latina, il conflitto iracheno ed afghano, la crisi dei mercati mondiali senza servirsi del metodo marxista? Chi ha messo Marx e Lenin in soffitta semplicemente non è più in grado di leggere questi fenomeni da un punto di vista di classe.
Si finisce così col commettere gli errori di valutazione più grossolani. Basta leggere le pagine di Liberazione e i resoconti dal Venezuela, dalla Bolivia e da Cuba per rendersene conto.
L’unico modo per contrastare questa decadenza ideologica è ripartire dalle fasi più alte dello scontro rivoluzionario. Un’intera generazione di marxisti si è formata studiando e apprendendo dalle lezioni dell’Ottobre e per quanto ci riguarda continuerà ad essere così anche in futuro.
Ma andiamo ora al contenuto dei testi.
Lenin e le Tesi di aprile
Un duro confronto politico divide il partito bolscevico sulle Tesi d’aprile. Lenin, inizialmente isolato, riesce nel corso della polemica a convincere i suoi compagni che in Russia le condizioni sono mature per la rivoluzione socialista.
A tale punto è isolato, che le Tesi vengono inizialmente pubblicate dalla Pravda a titolo personale, accompagnate da una nota critica della redazione (diretta da Stalin e Kamenev) che si dissocia dalle posizioni leniniane. Addirittura, prima del ritorno di Lenin dall’esilio, menscevichi e bolscevichi stavano avviando un processo di riunificazione.
Prima del suo arrivo sul celebre vagone blindato, i bolscevichi, legati ad un vecchio schema, avevano appoggiato la borghesia perché completasse la rivoluzione democratica e la Pravda (diretta da Stalin) non si era differenziata in nulla di sostanziale dai menscevichi.
La realtà, e Lenin si curava della realtà più che delle formule, si era però incaricata di mostrare che la borghesia russa non aveva alcuna volontà rivoluzionaria; si trattava di una classe debole e totalmente compromessa con il potere degli zar. Spettava così ai lavoratori, attraverso i loro consigli (soviet) completare quel processo che essi stessi avevano aperto nel febbraio del ’17.
Questo significava che oltre ai compiti classici della rivoluzione borghese (di cui il più importante era l’esproprio del latifondo e la distribuzione della terra ai contadini poveri) si dovevano affrontare i compiti iniziali della rivoluzione proletaria (nazionalizzazione dell’industria, del sistema bancario, dei trasporti e delle comunicazioni sotto il controllo dei lavoratori).
Il leader bolscevico in questo periodo viene accusato da molti dei suoi compagni (tra cui Kamenev) di trotskismo perché in definitiva le Tesi di aprile sposavano la teoria della rivoluzione permanente di Trotskij. Non a caso il gruppo di Trotskij (i Mezrajontsi) nel giro di poche settimane si unì al partito bolscevico.
I punti centrali delle Tesi erano:
– la guerra è imperialista, di rapina. È impossibile finire con essa con una pace democratica, senza rovesciare il capitalismo.
– Il compito attuale della rivoluzione è mettere il potere nelle mani dei lavoratori e dei contadini poveri. Nessun appoggio al governo borghese.
– I bolscevichi sono ancora minoranza nei soviet. Devono pertanto sviluppare un paziente lavoro di spiegazione e di propaganda.
– Nazionalizzazione di tutta la terra del paese e sua assegnazione ai soviet locali composti da braccianti e contadini. Nazionalizzazione delle banche sotto il controllo operaio.
– Convocare immediatamente un congresso del partito. Costruire una nuova Internazionale rivoluzionaria che rompa con la Seconda Internazionale che ha sostenuto la guerra imperialista
Se il partito si fosse mantenuto sulla posizione delle due tappe la rivoluzione sarebbe stata sconfitta.
Le poche pagine delle Tesi vennero poi illustrate in un opuscolo che riproduciamo integralmente, intitolato I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione.
Stato borghese e Stato operaio
A dimostrazione dell’intimo legame che esiste tra teoria e prassi, Lenin elaborò una teoria compiuta sullo Stato operaio solo un mese prima dell’Ottobre, cioè quando i compiti pratici della rivoluzione imponevano alla direzione del partito bolscevico di sviluppare le riflessioni di Marx sullo Stato dopo la sconfitta della Comune di Parigi, raccolte nell’opuscolo La guerra civile in Francia e successivamente nella Critica al programma di Gotha.
Stato e rivoluzione viene terminato nel settembre 1917. Lenin aveva già scritto L’imperialismo fase suprema del capitalismo, in cui aveva dimostrato che la guerra mondiale altro non era che una guerra imperialistica tra Stati protagonisti della trasformazione del capitalismo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica.
L’idea cardine di Stato e rivoluzione è di polemizzare con la socialdemocrazia internazionale che era indisponibile a farla finita con la guerra mondiale trasformando la guerra imperialistica in guerra civile, all’interno di ogni singolo paese belligerante.
Alla Seconda Internazionale era sfuggito che il capitalismo, trasformandosi da sistema concorrenziale a sistema monopolistico, avrebbe acutizzato ancor più i conflitti di classe e soprattutto i conflitti tra paesi capitalisti con differenti gradi di sviluppo, portando a guerre internazionali per la ripartizione del mondo.
Il miglioramento delle condizioni della classe operaia tra il 1870 e il 1910, anche in seguito allo sfruttamento coloniale, aveva fatto credere allo sviluppo progressivo, inevitabile, della società capitalistica.
Kautsky, il principale teorico della II Internazionale, era addirittura convinto che l’imperialismo avrebbe non acuito ma attenuato i contrasti nazionali.
Già nel primo capitolo di Stato e rivoluzione Lenin si lamenta che la sinistra europea è “marxista” o “socialista” solo sul piano teorico, mentre resta “borghese” o “sciovinista” su quello pratico. È una sinistra che in nome della difesa della propria nazione, ha tradito se stessa, i propri ideali e non ha saputo impedire lo scoppio della guerra.
Detto questo, egli cerca di capire le ragioni di fondo di questo tradimento e del fallimento della II Internazionale e le individua sopra ogni cosa nella diversa concezione che dello Stato hanno i marxisti a lui contemporanei, rispetto a quella che avevano Marx ed Engels.
Si capisce che Lenin dà una valore generale alle sue considerazioni sullo Stato e che la sua non è una riflessione sugli specifici problemi della rivoluzione russa. Non a caso nella prima prefazione al libro motiverà l’importanza del tema trattato con il maturare della “rivoluzione proletaria internazionale” e della rivoluzione russa in corso che “non può essere concepita se non come un anello della catena delle rivoluzioni proletarie socialiste provocate dalla guerra imperialista”.
Le esperienze concrete della rivoluzione russa sono citate di passata nel testo e il settimo e ultimo capitolo sulle rivoluzioni russe del 1905-1917 non vedrà mai la luce per il precipitare degli eventi politici.
Come si può osservare da questi frammenti Lenin non concepiva lo sviluppo del socialismo al di fuori del quadro della rivoluzione mondiale, e avrebbe avuto orrore della teoria del socialismo in un paese solo che non a caso venne sviluppata da Stalin solo dopo la sua morte.
Viene ripresa dall’Origine della famiglia di Engels l’idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e sul significato dello Stato: “Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi”.
Da cui ne deriva che “l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili”. Attorno a questa linea viene tracciata l’incompatibilità con le idee riformiste di Kautsky. Lo Stato borghese è un organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe su un’altra.
È inevitabile pertanto che le classi oppresse nella lotta per la loro emancipazione debbano porsi l’obiettivo di abbatterlo, ma l’analisi non si esaurisce qui. Resta da capire cosa sostituire ad esso.
Nel terzo capitolo, quello che tratta dell’esperienza della Comune di Parigi, si dice: “In Marx non v’è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società ‘nuova’… Egli ‘si mette alla scuola’ della Comune, come tutti i grandi pensatori rivoluzionari non esitavano a mettersi alla scuola dei grandi movimenti della classe oppressa, senza mai far loro pedantemente la ‘morale’.” E aggiunge “Non sarebbe possibile distruggere di punto in bianco, dappertutto, completamente la burocrazia. Sarebbe utopia… Noi non siamo degli utopisti. Non sogniamo di fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati sull’incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno in comune con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati”.
Estinzione dello Stato operaio (o semi-Stato)
Ma allora potrebbe domandarsi qualcuno: se si tratta di sostituire uno Stato con l’altro e dunque uno strumento di oppressione con un altro, non c’è il rischio che la rivoluzione non comporti alcun cambiamento sostanziale?
A più riprese Lenin parla nel suo libro di estinzione dello Stato nella società socialista. Ma questa prospettiva non si è realizzata né in Urss né in nessun altro paese in cui il capitalismo è stato rovesciato. Perché?
Nel 1939, dopo aver sterminato fisicamente le opposizioni interne, da quella trotskista a quella buchariniana, Stalin rispose a questa domanda con l’argomento che da parte dei marxisti ci sarebbe stata una sottovalutazione del ruolo dello Stato socialista.
“Su quale terreno è potuta sorgere tra di noi questa sottovalutazione? Essa è sorta sul terreno di un’elaborazione incompleta e insufficiente di alcune tesi generali della dottrina marxista sullo Stato” (dal rapporto di Stalin al XVIII congresso del Pcus).
Per cui volendo interpretare in maniera “non dogmatica” il pensiero di Lenin, Stalin si sbarazza senza troppi scrupoli della sua analisi e del metodo di investigazione scientifica, subordinando tutto al bisogno di giustificare l’esistenza di una burocrazia che aveva usurpato il potere della classe operaia.
In realtà in Stato e rivoluzione Lenin difende più volte i principi di democrazia rivoluzionaria su cui doveva basarsi il nuovo Stato operaio. Il grande significato storico della Comune di Parigi viene visto non tanto e non solo nell’aver spezzato la vecchia macchina statale della borghesia, ma nell’averla sostituita con un nuovo tipo di Stato, dove il potere non è più separato dal popolo ed esprime una forma più avanzata di democrazia, quella sovietica, che il parlamentarismo non potrà mai raggiungere.
Una forma di democrazia che non si limita a inserire una scheda in un’urna ogni 4 o 5 anni, ma che si appoggia su un sistema consiliare, partecipato, basato sull’eleggibilità e la revocabilità di ogni carica. Dove i funzionari non percepiscono un salario superiore a quello di un operaio, dove la polizia e l’esercito vengono sostituiti da una milizia popolare.
Contemporaneamente è altrettanto chiaro a Lenin che una società nuova non può sorgere solo a partire da una costruzione politico-amministrativa, con interventi di tipo sovrastrutturale. Come ci ricorda, nel quinto capitolo del libro (Le basi economiche dell’estinzione dello Stato): dopo l’abbattimento del capitalismo e la socializzazione dei mezzi di produzione, le fonti della disuguaglianza non spariscono di colpo. A maggior ragione se il capitalismo viene abbattuto in uno dei suoi anelli deboli, nella Russia arretrata e semifeudale e in condizioni di isolamento, senza l’auspicata estensione del socialismo ad Occidente pur nella crisi rivoluzionaria che attraversò il vecchio continente tra il ’17 e il ’23.
Per superare le disuguaglianze è necessario raggiungere un tale sviluppo delle forze produttive da eliminare ogni contrasto teso ad assicurare il consumo individuale di ciascuno: una società dove l’abbondanza è tale da abolire l’esistenza delle classi sociali. Solo a queste condizioni si può parlare di una società pienamente comunista dove lo Stato finisce per estinguersi.
Le oscene degenerazioni che abbiamo visto nei paesi dell’est non dimostrano il fallimento del marxismo, dimostrano semplicemente che non basta l’espropriazione dei capitalisti e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione per garantire il socialismo, queste sono misure che ne costituiscono solo la premessa.
Ciò su cui Lenin ci avverte è che il socialismo ha un bisogno assoluto della democrazia per vivere. Se viene meno il controllo dei lavoratori su ogni singolo aspetto della vita economica e politica del paese è inevitabile che una casta parassitaria si approprierà del potere e la rivoluzione ne uscirà sconfitta. Nella misura in cui difenderà i propri privilegi questa casta finirà col creare le premesse per la restaurazione del capitalismo.
E, per dirla con Marx, “tutto il vecchio ciarpame tornerà a galla”. È quanto abbiamo visto in questi anni in Russia, nell’Est europeo e in Cina, paesi nei quali le concezioni marxiste venivano formalmente omaggiate ma negate nella sostanza.
Ma ciò non toglie che la rivoluzione d’Ottobre rappresenti il punto più alto mai raggiunto dalle classi oppresse nella loro lotta per la libertà, la giustizia e l’emancipazione sociale.
Siamo eredi di una lunga tradizione, di grandi movimenti e di grandi partiti che nella loro storia forse hanno subito più sconfitte che vittorie. Dopo ogni sconfitta ci sono sempre le diserzioni, ma anche nuovi settori che si uniscono alla lotta.
Lenin apre Stato e rivoluzione denunciando l’opera della borghesia e degli opportunisti tesa a rendere Marx un’icona inoffensiva, un trattamento spesso riservato ai rivoluzionari dopo la loro morte.
Lo stesso trattamento venne riservato a lui dagli stalinisti per oltre mezzo secolo. Oggi molti di loro si definiscono liberali o nel migliore dei casi preferiscono una sinistra “senza aggettivi”. Si disfano così del “fardello leninista”.
Un fardello di cui ci carichiamo volentieri. Il novantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre non è una semplice ricorrenza, ma un’occasione per ribadire un impegno.
Che continuino a vivere quegli ideali nelle lotte di domani dipende anche da noi, soprattutto da noi, e di certo non mancheremo al nostro impegno.
Ottobre 2007