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L’emancipazione femminile in Russia prima e dopo la rivoluzione

di Elisabetta Rossi

 

La rivoluzione d’ottobre del 1917 rappresentò un momento importante della lotta per l’emancipazione femminile nella storia della Russia. Il riferimento a questa esperienza permette di comprendere più chiaramente gli sviluppi che il movimento per la liberazione della donna ha avuto fino ai giorni nostri, ma soprattutto, in base all’esperienza della favolosa lotta condotta dalle donne bolsceviche, fornisce importanti indicazioni sul percorso migliore per il superamento dell’oppressione femminile.

Un fenomeno che incise profondamente nella presa di coscienza del proprio stato di sfruttate per le donne in Russia così come in tutto il mondo, fu, nel XVII-XVIII secolo, l’avvento dell’industrializzazione che mutò radicalmente i rapporti all’interno della famiglia. Con l’affermazione del modo di produzione capitalistico, infatti, si eclissò il modello di economia familiare fondato sulla produzione per l’autoconsumo, nel quale la donna si esauriva e, pur oppressa dall’uomo, non era cosciente dei limiti imposti allo sviluppo della sua individualità e, tantomeno, della privazione di fondamentali diritti sociali. Dapprima come figlia e poi come moglie e madre trascorreva la sua vita fra le mura domestiche, e l’unica società che concretamente conosceva era il nucleo famigliare.

L’oppressione di genere viene percepita concretamente come un limite alla libertà femminile quando si afferma il modo di produzione capitalistico e si diffonde l’utilizzo delle macchine che seppelliscono la produzione autonoma e portano le donne delle classi sociali del nuovo sistema economico a cercare fuori della propria casa un senso per la loro vita. A questo punto le donne acquistano coscienza della mancanza di diritti che permettano la tutela dei loro interessi e si sentono discriminate rispetto agli uomini.

Storicamente le rivendicazioni per l’emancipazione femminile trovano dapprima dimora nel movimento borghese munito di migliori risorse culturali e finanziarie, ma solo diffondendosi fra il proletariato femminile acquistano una forza prorompente tale da permettere importanti vittorie. Le donne delle classi altolocate, infatti, si battono per diritti civili diretti a tutelare prioritariamente gli interessi esclusivi del proprio stato sociale e di cui, perciò, non necessariamente beneficiano anche le lavoratrici.

Il marxismo, non a caso, non affronta la questione femminile come risultato solo dell’oppressione di genere, ma attribuisce un ruolo fondamentale all’oppressione padronale che si verifica nel capitalismo: è lo sfruttamento del capitale che favorisce il permanere delle discriminazioni fra i sessi, ma nei diversi ceti sociali sono profondamente diverse sia queste discriminazioni sia i metodi e le finalità di lotta messe in campo dalle donne. Nel momento decisivo ogni donna si schiera con la classe sociale a cui appartiene: un’esponente della medio-alta borghesia non esisterà a favorire leggi antisindacali a detrimento delle sue “sorelle” operaie se ciò contribuisce ad accrescere il suo patrimonio.

Ciò non toglie che i movimenti femministi borghesi, quando in difficoltà, cerchino il sostegno del proletariato femminile; sono, infatti, le lavoratrici la forza decisiva nella lotta, sia per la loro consistenza numerica sia per la capacità organizzativa.

La donna durante lo zarismo

Il gruppo che, come Engels riferisce, fu “il primo in Russia nel quale le donne giocarono un ruolo indipendente e attivo“, fu il circolo “Chaikovskii”1. Questa organizzazione nacque all’inizio del 1870 per opera di studenti di ambo i sessi, uniti da principi etico-morali, privi di una esplicita ideologia comune. Lo scopo del circolo era diffondere la propaganda socialista fra il popolo, reso cosciente dei soprusi subiti e della possibilità di riscatto tramite una rivoluzione basata socialmente sui contadini. Uno dei motivi portanti di questo gruppo, così come della maggior parte delle associazioni politiche che in quegli anni nascevano nel campo socialista, era la forte attenzione verso il problema di alfabetizzazione e acculturazione degli strati sociali più sfruttati. Ciò determinò l’ampia promozione di incontri-lezioni sul capitalismo e l’oppressione di classe, e l’impegno nella diffusione a basso costo di testi economico-politici di carattere divulgativo. Il circolo Chaikovskii ebbe il particolare merito di favorire l’emancipazione femminile coinvolgendo le donne, messe alla pari degli uomini, nella discussione e nell’attivismo politico. Le donne che appartenevano a questa struttura provenivano per lo più da circoli che vietavano la partecipazione maschile. Il separatismo e quindi la diffidenza verso le assemblee miste non deve stupire in un contesto arretrato come la Russia zarista, in cui il timore del dominio maschile, subìto sotto diverse forme nella famiglia e nella società, portava le militanti filo-socialiste a vedere nella presenza degli uomini una minaccia alla loro autonomia. Questo atteggiamento non è stato altro che uno stadio necessario, in quel contesto, di un processo di emancipazione individuale. Il separatismo nasceva dall’esigenza delle donne di sviluppare autonomamente la propria coscienza di sfruttate, superando ogni insicurezza e preparandosi ad agire politicamente con gli uomini senza più alcun sentimento di soggezione nei loro confronti. Dopo aver raggiunto una certa indipendenza economica e di giudizio, esse, provviste di adeguata coscienza di classe, sentivano la necessità di superare la lotta “personale” per abbracciare una lotta più ampia, di carattere sociale. Lo sviluppo politico di molte donne seguì lo stesso schema generale: la conquista dell’autonomia individuale le portava ad abbandonare il femminismo, nella sua accezione più restrittiva, per il radicalismo del circolo Chaikovskii e di iniziative analoghe, dove entrambi i sessi si trovavano uniti nella propaganda e agitazione socialista.

I circoli studenteschi2, fra cui particolarmente noto fu quello di Rosalia Jakesburg del 1872, erano prevalentemente influenzati dall’ideologia bakunista e vicini al partito “Terra e Libertà”, riflettendo in questo, non casualmente, l’orientamento maggioritario allora anche fra le avanguardie operaie e studentesche. In tali sedi le donne si formavano politicamente per esercitare la loro attività propagandistica fra gli operai. Queste militanti capivano che solo la sconfitta dello sfruttamento capitalistico che costringeva le operaie alla doppia schiavitù del lavoro in fabbrica e a casa, e la diretta responsabilizzazione nella gestione democratica dei processi produttivi e dell’organizzazione della società, poteva garantire l’effettiva libertà per la donna. Unicamente in tal modo, le lavoratrici medesime avrebbero potuto decidere e predisporre servizi e strutture in grado di emanciparle dai privati compiti di cura svolti all’interno della famiglia.

Questi furono gli obiettivi che spinsero diverse donne a partecipare direttamente al lavoro di propaganda a Mosca nel 1875 per una serie di scioperi. La maggior parte degli organizzatori di tali avvenimenti venne arrestata e a distanza di 3 anni ebbe luogo il primo dei grandi processi russi, il Processo dei Cinquanta, ovvero il “Processo delle donne moscovite”, destinato ad esercitare una importante influenza sulla coscienza politica delle allora, attuali e future generazioni di operaie. Kravinskij, pubblicista del movimento rivoluzionario di fine Ottocento in Russia, così descrisse il processo:

Prima di questo processo i socialisti erano conosciuti soltanto dai giovani. Adesso un pubblico stupefatto poteva vedere i visi radiosi di queste ragazze, che, con i loro dolci sorrisi infantili, si avviavano tranquillamente verso un luogo senza ritorno, senza speranza- verso le prigioni centrali, verso lunghi anni di pesantissimi lavori forzati-. La gente si diceva “Sono tornati i tempi dei primi cristiani, sta nascendo una nuova forza.3

Molte delle donne che avevano partecipato agli scioperi o avevano simpatizzato con “le Moscovite” arrestate in seguito aderirono al gruppo terroristico “Narodnaya Volya”, che si batteva, pur adottando metodi assai discutibili e in seguito lungamente criticati dallo stesso Lenin, con estremo spirito di abnegazione in difesa della causa proletaria contro l’oppressione zarista. Fra queste militanti spiccava Vera Figner, membro del comitato esecutivo e attivista socialista fin da metà ‘800 al fianco della sorella Lidia, processata a Mosca.

In seguito il movimento delle donne lavoratrici seguì parallelamente la mobilitazione dell’intero proletariato negli scioperi spontanei che negli anni 1870 e ’80 coinvolsero in particolar modo l’industria tessile, a prevalente occupazione femminile, e si conclusero con una legge che vietava il lavoro notturno per donne e bambini, quindi negli scioperi economici del 1894-’96 a Pietroburgo e nel grande sciopero dei tessili del 1896.

La rivoluzione del 1905 e il movimento femminista borghese

Il quadro generale cambia notevolmente con gli avvenimenti rivoluzionari del 1905 che videro la partecipazione di numerosissime operaie nelle organizzazioni del prete Gapon. In massa si batterono per l’estensione alle donne del diritto di voto per l’elezione della Duma. L’iniziale difficoltà a collegare la lotta contro la specifica oppressione di genere alla lotta di classe le rese facili prede per il movimento femminista borghese, che in tale occasione giocò un ruolo reazionario in quanto rivendicava l’organizzazione separata delle donne concentrate su “universali” problematiche di genere.

Così la Lega per l’uguaglianza delle donne e il partito progressista delle donne propagandavano l’armonia fra padroni e dipendenti, perché entrambi di sesso femminile. Ben presto le proletarie si allontanarono, però, da questi circoli e si ritrovarono nelle proprie categorie lavorative, con le altre compagne, concentrate su rivendicazioni di stampo prevalentemente sindacale. Nel frattempo la guerra contro il Giappone comportò un progressivo impoverimento delle campagne e quindi una radicalizzazione fra le contadine che più dovevano sopportarne le conseguenze: proprio esse furono protagoniste di importanti sommosse femminili negli anni 1904-5. Purtroppo, dal punto di vista politico, negli anni 1905-6 il movimento femminista borghese si diffuse in modo preoccupante fra menscevichi, socialrivoluzionari e alcuni attivisti bolscevichi. Nel 1905, al primo grande convegno femminile di Pietroburgo, le voci dissenzienti che rivendicavano l’unità di classe contro l’oppressione delle proletarie, furono assai esigue. Per contrastare il processo in atto, un gruppo di socialdemocratiche (bolsceviche e mensceviche) decise di orientare parte del loro lavoro propagandistico per la causa socialista specificamente verso le donne. Queste militanti organizzarono una campagna contro il femminismo borghese sostenendo l’interpretazione marxista della questione femminile. Esse, inoltre, promossero una mobilitazione particolare del partito e del sindacato sulle problematiche della donna lavoratrice.

La distanza nei diritti civili e politici fra uomini e donne della stessa classe sociale facilmente portava le operaie a simpatizzare per i collettivi borghesi che si focalizzavano sull’oppressione di genere, troppo a lungo trascurata all’interno delle tradizionali organizzazioni di lotta del movimento operaio. L’opera di bolsceviche come la Kollontaj permise, già nel 1907, al movimento delle donne lavoratrici di raggiungere dimensioni di massa tali da consentire alle sue dirigenti di indire autonomamente incontri pubblici in aperto antagonismo alle femministe borghesi. Tale risultato richiese una paziente e costante propaganda nei luoghi di lavoro e nelle assisi delle femministe.

Nel 1907 nacque il primo circolo femminile sotto il nome di “Associazione di mutua assistenza delle lavoratrici4 con libere iscrizioni per i componenti di entrambi i sessi ma che riservava le cariche direttive alle donne. La struttura interna del circolo era concepita per facilitare l’attivismo delle operaie, chiamate ad impegnarsi direttamente sul proprio specifico terreno di oppressione. L’associazione aveva lo scopo di diffondere il socialismo fra i proletari e di attrarre le lavoratrici isolate al sindacato e al partito socialdemocratico: esso non aveva perciò nessuna ambizione di divenire una entità politica autonoma, separata dalle tradizionali organizzazioni del movimento operaio, alle quali propagandava anzi l’adesione, avvicinando le donne alla politica. Il circolo non si focalizzava neppure nei contenuti solo su questioni attinenti unicamente all’oppressione di genere, ma legava quest’ultimo tema al contesto politico, sociale ed economico che lo determinava: lo scopo non era una specifica agitazione femminista, ma l’agitazione socialista fra le donne. L’associazione in particolare aveva intensi rapporti con il sindacato dei tessili ed era presente in vari settori del partito. Essa partecipò alla conferenza internazionale delle donne socialiste nel 1907 a Stoccarda. In tale occasione ci fu modo di confrontarsi su differenti posizioni politiche riguardo le rivendicazioni da difendere ma soprattutto riguardo i metodi da seguire per ottenerle. Alla conferenza partecipò anche Clara Zetkin la quale fece approvare una risoluzione che sosteneva il dovere per i partiti socialisti di tutti i paesi di “battersi con energia per l’instaurazione del suffragio universale per le donne (…) sia nelle assemblee legislative, sia in quelle comunali5. Nel presentare tale votazione la Zetkin sottolineò come il diritto al voto non fosse un fine, ma solo un mezzo per rinforzare, con la presenza del proletariato femminile, la lotta contro il dominio di classe e contro la proprietà privata, vera origine dell’oppressione di genere.

La risoluzione scatenò discussioni all’interno e all’esterno della conferenza dato che alcuni militanti maschi e femmine dei diversi partiti socialisti condividevano posizioni più prudenti come nel caso di Wally Zepler che chiedeva di limitare l’estensione del diritto di voto alle elezioni dei consigli comunali o Victor Adler, leader socialista austriaco, che voleva lasciare ad ogni partito la libertà di inserire o meno fra gli obiettivi immediati di lotta il suffragio universale femminile.

A partire dal 1907 i rapporti con le organizzazioni femministe borghesi si fecero particolarmente tesi, ma quando queste ultime decisero di organizzare un congresso di tutte le donne russe per il 1908, le socialdemocratiche con il grande supporto di Alexandra Kollontaj, approfittarono dell’occasione per portare avanti la propaganda socialista nei più vasti strati della società: organizzarono riunioni e incontri in condizioni di semiclandestinità per l’elezione delle delegate nelle sedi di sindacati e partiti. Nonostante tutti gli sforzi, però, le delegate proletarie presenti all’evento furono solamente 45 contro 700 femministe borghesi. Le compagne socialdemocratiche non si persero d’animo e sottolinearono in ogni occasione la propria differente caratterizzazione politica: si costituirono in un gruppo separato che presentò mozioni di carattere rivoluzionario su ogni tema discusso dalla sicurezza sul lavoro, al rapporto con i partiti, al voto per le donne. Tutte le risoluzioni presentate dalla componente proletaria furono respinte dalla maggioranza. In base al totale rifiuto espresso dal blocco femminista borghese sulla necessità di lottare contro la proprietà privata dei mezzi di produzione, risultò impraticabile l’unione con le lavoratrici organizzate in una unica entità politica interclassista. L’intervento al congresso ottenne il grande risultato di porre finalmente una netta linea di demarcazione fra le femministe e il movimento socialista rivoluzionario e quindi permise un notevole passo in avanti nella coscienza di classe delle donne proletarie.

Il suffragio universale

La seconda conferenza internazionale delle donne socialiste si tenne nel 1910 a Copenaghen e si concentrò sulla questione del suffragio femminile. A tale proposito Clara Zetkin vantava la più valida esperienza essendosi più volte battuta per il suffragio universale, contro le correnti borghesi che volevano limitare tale diritto solo a chi, indipendentemente dal sesso, fosse provvisto di un certo patrimonio.

La lotta per il diritto di voto vide nettamente contrapposti gli interessi di classe fra quelle donne che, secondo l’ipocrisia strumentale delle varie associazioni femministe, avrebbero dovuto battersi assieme indipendentemente dalle divisioni sociali. In quel contesto, la Zetkin spiegò come la proposta di consentire la partecipazione al voto alle sole donne agiate avrebbe aumentato il consenso attorno alle politiche borghesi, opposte alle rivendicazioni di maggiori diritti e tutele da parte di tutti i lavoratori (maschi e femmine) e quindi avrebbe indebolito la lotta del proletariato verso la sua emancipazione. Il voto alle borghesi non avrebbe aperto nessuna strada per il futuro riconoscimento di questo diritto a tutte le donne, perché proletariato e borghesia sono strati sociali antagonisti, tali per cui una concessione all’uno lede gli interessi dell’altro: le donne così come gli uomini borghesi traggono profitto dallo sfruttamento delle proletarie e perciò non favoriranno mai di propria spontanea volontà la loro liberazione. La partecipazione alle elezioni istituzionali non era altro che uno strumento per esercitare la propria politica di classe e, quindi, se limitata in base al censo, non sarebbe mai stata il primo passo verso l’emancipazione femminile, ma un grande passo avanti verso l’emancipazione del capitale, gli interessi del quale avrebbero contato maggiori sostenitori.

Citiamo le dirette parole di Clara Zetkin al congresso socialista internazionale di Stoccarda del 1907:

Il diritto di voto aiuta le donne borghesi ad abbattere quelle barriere che ostacolano la loro possibilità di formazione e di attività sotto forma di privilegi del sesso maschile. Per le proletarie questo diritto rappresenta un’arma per la battaglia che esse devono combattere perché l’umanità abbia il sopravvento sullo sfruttamento e sul dominio di classe; consente loro una partecipazione maggiore alle lotte per la conquista del potere politico da parte del proletariato al fine di superare l’ordinamento capitalista e di edificare quello socialista, il solo che permetta una radicale soluzione della questione femminile (…). Le proletarie non possono dunque contare sull’appoggio delle donne borghesi nella lotta per i loro diritti civili; le contraddizioni di classe escludono che le proletarie possano allearsi col movimento femminista borghese. Con ciò non si vuol dire che esse respingono le femministe borghesi se queste ultime, nella lotta per il suffragio femminile universale, dovessero mettersi al loro fianco e al loro seguito per battere su fronti diversi il comune nemico. Ma le proletarie devono essere perfettamente coscienti che il diritto di voto non si può conquistare attraverso una lotta del sesso femminile senza discriminazioni di classe contro il sesso maschile, ma solo con la lotta di classe di tutti gli sfruttati, senza discriminazioni di sesso, contro tutti gli sfruttatori, sempre senza alcuna discriminazione di sesso6.

Nel contrasto interno al movimento per il suffragio femminile, si evidenziarono chiaramente le differenze, gravide di conseguenze politiche, fra chi strumentalmente considerava centrale il conflitto di genere e chi invece lo subordinava alla lotta per l’emancipazione del proletariato, condizione necessaria (anche se non sufficiente) per l’emancipazione femminile.

L’organizzazione delle proletarie verso il 1917

Il movimento socialista femminile si trovava, però, nella difficile condizione di dover fronteggiare non solo le derive borghesi ma anche la forte diffidenza che gli uomini degli stessi partiti socialdemocratici nutrivano nei suoi confronti. I militanti, non vivendo direttamente l’oppressione di genere, tendevano a confondere le rivendicazioni delle loro compagne con concessioni a un certo radicalismo piccolo-borghese. L’opposizione internazionale dei partiti socialdemocratici impedì in questi anni la nascita di un bureau che seguisse specificamente l’agitazione in seno alle donne lavoratrici, come ripetutamente richiesto da A. Kollontaj: la paura di dare spazio ad una politica separatista rendeva difficilmente comprensibile la necessità di strutture appropriate che, provviste di un certo grado di autonomia organizzativa e di un forte legame politico e strategico al partito, si adoperassero per coinvolgere le donne nel processo rivoluzionario.

Pur con queste difficoltà, nel 19 marzo 1911 viene proclamata la prima giornata internazionale della donna7 con raduni e cortei che coinvolgono decine di migliaia di donne in Germania, grazie all’opera della leader del partito socialdemocratico tedesco, Clara Zetkin. In Russia questa data comincia ad essere valorizzata a partire dal 8 marzo del 1913 con il sostegno della “Pravda”, organo di stampa del partito bolscevico, e grazie all’opera di grandi compagne, fra le quali la Samoilova e la Kollontaj in particolar modo. Sempre più spesso nella stampa del partito si riservavano spazi sul lavoro e su specifiche problematiche femminili fino a quando si giunse, anche in base alle pressioni di Lenin, ad una pubblicazione speciale per le proletarie chiamata “La Lavoratrice” (“Rabotnitsa”)8. Nel 1914, nonostante la repressione zarista che causò l’arresto dell’iniziale comitato di redazione, venne edito il primo numero. Nello stesso anno il Comitato Centrale del partito bolscevico (Posdr) decise di istituire uno speciale comitato con il compito di organizzare gli incontri per la giornata internazionale delle donne: vennero stabilite assemblee nelle fabbriche e in sedi pubbliche per discutere i temi principali riguardanti l’oppressione femminile e quindi eleggere rappresentanti che, all’interno del nuovo comitato, avrebbero difeso ed approfondito le proposte emerse.

Questo, però, è anche l’anno in cui i partiti della Seconda Internazionale tradiscono le aspirazioni di milioni di lavoratori e votano il sostegno alla guerra imperialista e alle proprie borghesie nazionali nella Prima guerra mondiale. In tale contesto la difesa di una posizione rivoluzionaria sulla questione femminile era di notevole importanza per i bolscevichi, intenzionati a ricostruire su basi solide una nuova internazionale marxista. Nel frattempo la guerra imperialista rubava molte braccia al fronte e i posti di lavoro nelle fabbriche venivano occupati da donne e bambini, tanto che a Pietrogrado tra il 1914 e 1917 le donne giunsero a costruire un terzo della forza lavoro: una nuova massa di salariate diventava parte del grande macchinario della produzione sociale capitalistica. Nella fabbrica le lavoratrici acquisirono sempre più coscienza del ruolo che la propria classe avrebbe potuto giocare in una società nuova, presero maggiore confidenza con l’organizzazione industriale del lavoro e con le strutture sindacali.

La rivoluzione del 1917

Nel 1917 crebbe il consenso attorno alla propaganda che coraggiosamente i bolscevichi da soli avevano coerentemente portato avanti fin dal 1914 contro la guerra imperialista. Il 23 febbraio, a Pietrogrado, il governo cercò di impedire le manifestazioni per la giornata della donna provocando nella fabbrica Putilov scontri che sfociarono in una mobilitazione di massa: le donne scesero in piazza e conquistarono i soldati che si rifiutarono di sparare ai manifestanti e rivolsero le baionette contro la monarchia zarista. Così iniziò la rivoluzione di febbraio che in pochi giorni minò le fondamenta del regime zarista.

Aumentarono le richieste di adesione al partito bolscevico e ai sindacati da parte di giovani lavoratori, uomini e donne che non si sarebbero più fermati senza aver prima annientato la causa delle loro sofferenze sul lavoro e in guerra. Scoppiò lo sciopero delle lavandaie, lo strato più arretrato nella classe lavoratrice di allora, che rivendicava la nazionalizzazione delle lavanderie sotto il controllo delle municipalità locali, posizione considerata prematura da menscevichi e socialrivoluzionari, accolta solo dai bolscevichi.

Sempre più centrale era la propaganda nel giornale “Rabotnitsa” il cui comitato editoriale allora contava: la Krupskaja, Ines Armand, la Stahl, la Kollontaj, la Eliazarova, la Kudelli, la Samoilova, la Nokolajeva ed altre lavoratrici di Pietrogrado. Queste donne si dedicarono totalmente alla causa rivoluzionaria, organizzando incontri e assemblee contro la guerra: ogni fabbrica aveva il suo rappresentante nel comitato editoriale della rivista, che partecipava a incontri settimanali per discutere i rapporti dalle varie zone. La “Rabotnitsa” doveva fungere anche da strumento per sensibilizzare maggiormente le strutture politiche e sindacali ancora disorientate riguardo il lavoro fra le operaie. Nel marzo 1917 i bolscevichi crearono a Pietroburgo un ufficio per promuovere il lavoro di mobilitazione fra le donne, ma tale progetto rimase a lungo solo sulla carta. Grazie, però, alla loro ostinazione, le donne coinvolsero il corpo del partito nella convocazione di un congresso di operaie a Pietrogrado per discutere la strada migliore per coinvolgere e organizzare le donne nel movimento rivoluzionario.

Lenin stesso in questo periodo scrisse diversi articoli sulla necessità di individuare nuove strategie e modelli organizzativi ad hoc per avvicinare le operaie al socialismo.

Il congresso, che si tenne fra il 1917 e il 1918, fu inizialmente interrotto dalle giornate che segnarono la presa del potere da parte dei bolscevichi, processo nel quale si spesero anche molte proletarie e che comportò cambiamenti profondi nelle condizioni delle donne. La vittoria sul regime zarista permise alla nuova Russia sovietica la conquista di tutta una serie di diritti civili che mai il capitalismo avrebbe potuto garantire in quell’epoca. Il coinvolgimento, inoltre, delle operaie nella gestione diretta della produzione e dei servizi, tramite i soviet, apriva la porta alla effettiva emancipazione femminile.

In questo modo le “donne dell’Oriente” salutarono la rivoluzione nell’appello del 1921 delle partecipanti alla prima conferenza panrussa delle attiviste comuniste dell’Oriente alle operaie e contadine della Russia sovietica:

Schiave nascevamo e schiave morivamo. Così trascorreva la vita di migliaia, di milioni di donne e pareva che quello dovesse essere il loro destino eterno, che non ci potesse mai essere una mano capace di spezzare le loro catene. Ma ecco che, nell’ottobre 1917, apparve una stella rossa, mai vista prima, e fu così che le operaie e le contadine si unirono alla Rivoluzione e che questa cambiò le loro vite. Da noi arrivò notizia di quegli avvenimenti tardi e in modo confuso, saltuario. Perché giungessero a noi, donne dell’Oriente, dovettero penetrare attraverso le mura, le inferriate e i nostri parandjà.”9

Per molto tempo noi non ci abbiamo creduto. I mullah ci minacciavano e ci spaventavano con i castighi celesti mentre i nostri mariti, padri e fratelli facevano di tutto perché non avessimo dei contatti con il mondo. Le compagne lavoratrici che sono venute da noi dalla Russia sovietica hanno conquistato la nostra fiducia e molte di noi hanno cominciato a rispondere ai loro appelli, a seguire il loro esempio, a insegnare alle altre a liberarsi dalla soggezione, a non vergognarsi più, a non avere paura…Noi crediamo nella vostra energia e sappiamo che in avvenire ci verrete sempre in aiuto per impedire che noi donne dell’Oriente possiamo essere ricacciate nell’antica schiavitù, chiuse dietro le inferriate, soffocate sotto i veli della sottomissione e della solitudine.10

In un momento così cruciale per il giovane proletariato russo che doveva dimostrarsi in grado di preservare il nuovo modello sociale dall’aggressione esterna dei paesi capitalisti, assunse particolare importanza il momento della formazione; non fu casuale la scelta del congresso delle operaie di Pietrogrado, di istituire commissioni speciali (a prevalente presenza femminile) per educare le donne all’esercizio dei loro diritti e non fu casuale il ricorso ad una legislazione avanzata che permettesse loro, tramite una maggiore tutela sul lavoro, la partecipazione diretta alla attività politica e la liberazione da tutti i vincoli formali e sostanziali che in precedenza avevano subordinato il loro attivismo e spirito critico a quello maschile. Venne proposta una nuova legislazione sulla maternità comprendente un decreto sull’assicurazione in caso di malattia (approvato nel dicembre 1917). Fu istituito un fondo assicurativo pubblico senza trattenute sui salari fruibile sia dalle lavoratrici che dalle mogli degli operai.

Con la vittoria della rivoluzione, A. Kollontaj entrò nel nuovo governo come commissario per i servizi sociali, carica che le permise di partecipare alla stesura di nuove norme che riconoscevano la donna come cittadina di pari diritti all’uomo. Sei settimane dopo la rivoluzione, fu introdotto il matrimonio civile; entro un anno il nuovo codice matrimoniale stabiliva davanti alla legge l’uguaglianza fra marito e moglie, eliminava le distinzioni fra figli legittimi e illegittimi. Furono enormemente facilitate le pratiche di divorzio, che poteva essere ottenuto immediatamente sulla base del mutuo accordo o tramite il tribunale in caso di disaccordo, con la corresponsione degli alimenti nei sei mesi successivi al coniuge disoccupato o in difficoltà economica.

Nel gennaio del 1918 nacque ufficialmente il Dipartimento per la protezione della maternità e dell’infanzia, che assicurava l’assistenza alle partorienti e alle puerpere e provvedeva al rispetto di una severa legislazione la quale prevedeva: l’aspettativa di 16 settimane prima e dopo il parto, l’esenzione da lavori troppo pesanti, il divieto di trasferimento e licenziamento per le madri in attesa, la proibizione del lavoro notturno per donne in gravidanza e puerpere, l’istituzione di appropriate cliniche della maternità, ambulatori, consultori, asili per l’infanzia.

Per elaborare e favorire l’introduzione rapida di queste riforme, si adoperarono le commissioni stabilite al congresso del 1917, composte da rappresentanti dei soviet degli operai, dei soldati e dei contadini, delegati/e delle organizzazioni dei lavoratori e specialisti dei problemi per l’assistenza sociale all’infanzia. L’attenzione in particolare da parte di diversi uomini bolscevichi alle problematiche femminili indica l’importanza attribuita a questo fronte d’intervento, non più riservato a poche e isolate compagne particolarmente coinvolte. Le commissioni si dedicarono soprattutto a favorire l’accettazione delle riforme da parte della popolazione che doveva superare vecchi pregiudizi, residui della ormai trascorsa schiavitù al capitale.

Ma il 1918 fu l’anno dello scoppio della guerra civile e si poneva concretamente il problema di preparare le lavoratrici alla resistenza contro l’invasione dell’imperialismo internazionale. Le stesse responsabili del congresso di Pietroburgo decisero di convocare una conferenza rivolta a tutte le lavoratrici e contadine (con e senza partito) della giovane repubblica sovietica. Sverdlov, a nome del Comitato Centrale del partito bolscevico, supportò l’iniziativa e partecipò attivamente nell’organizzazione degli incontri preparatori per l’elezione dei delegati. La risposta da parte dell’intero partito, dalle campagne e dalle fabbriche fu enorme: all’incontro finale parteciparono più di 1000 delegate, numero considerevole date le terribili condizioni del viaggio per raggiungere Pietrogrado dai vari distretti della Russia sovietica. La conferenza permise un maggiore raccordo e unità d’azione con le zone più arretrate e lontane dai veri focolai della rivoluzione. In questo modo molte donne furono avvicinate al socialismo ed entrarono nel partito bolscevico, nelle milizie femminili delle Sorelle Rosse, per contrastare attivamente l’avanzata delle armate bianche. Visto il grande lavoro da svolgere su tale terreno, le singole commissioni si rivelarono strutture organizzative inadeguate e, nell’autunno del 1919, esse furono riorganizzate in una sezione formale del Comitato Centrale, nota come Genotdel e provvista di una pubblicazione mensile, “Kommunitska”: si sviluppò una rete di gruppi di base a stretto contatto con i comitati locali del partito11. Il Genotdel era guidato dai Bolscevichi ma non era una struttura di partito in quanto era rivolta a tutte le donne, iscritte e non, con il fine di avvicinare alle idee del POSDR le donne meno politicizzate. Alexandra Kollontaj e Lenin furono molto chiari sullo scopo che questa struttura doveva rivestire: portare le donne dentro il partito e coinvolgerle direttamente nel lavoro dei soviet e dello Stato, promuovendo nei soviet una sensibilizzazione e reale attuazione delle specifiche rivendicazioni delle donne proletarie. Per raggiungere questi scopi erano necessarie speciali forme di organizzazione e propaganda data la maggiore difficoltà nel contattare e politicizzare le donne, isolate nella famiglia e soggette alle violente reazioni di mariti e parenti che difficilmente tolleravano una loro effettiva emancipazione. Il Genotdel non fu, quindi, mai concepito come organizzazione separata: esso iniziava le donne alla politica indirizzandole verso il lavoro all’interno del partito, dei sindacati e del soviet.

Il partito bolscevico organizza le donne dopo la rivoluzione

Grazie a questa organizzazione, si moltiplicarono i congressi e le conferenze di donne in tutta la Russia, permettendo di avvicinare anche le contadine alla lotta delle lavoratrici. Al secondo congresso della Terza Internazionale, nel 1920, vennero approvate le direttive per il movimento comunista femminile le quali prevedevano una organizzazione nazionale e internazionale delle bolsceviche tale che:

Le donne appartenenti al partito comunista d’un dato paese non devono essere riunite in associazioni particolari ma iscritte quali membri effettivi con parità di diritti e di doveri nelle organizzazioni regionali del partito e chiamate alla collaborazione in tutti gli organi e in tutte le istanze del partito. Il Partito Comunista adotta tuttavia provvedimenti particolari e crea organi speciali che si incaricano dell’agitazione, dell’organizzazione e dell’addestramento delle donne.12

Venne perciò disposto un “comitato d’agitazione femminile” in ogni organizzazione regionale e distrettuale con il compito di promuovere l’iscrizione e l’attività delle donne nel partito, nel sindacato e in tutte le organizzazioni di lotta del proletariato, provvedere alla formazione teorica e politica dei membri del partito, organizzare mobilitazioni e conferenze. Ogni comitato doveva lavorare a stretto contatto con la direzione del partito, all’approvazione del quale erano vincolati tutti i provvedimenti e le risoluzioni. Nella direzione nazionale del partito era prevista la presenza di un comitato d’agitazione nazionale e di un segretario femminile nazionale, che si impegnavano a garantire contatti costanti e regolari con i comitati dei vari livelli territoriali.

Riguardo alla organizzazione internazionale, citiamo direttamente la risoluzione:

In seno all’esecutivo dell’Internazionale viene creato un segretariato femminile internazionale composto da tre a cinque compagne, proposte dalla Conferenza internazionale delle comuniste e confermate dal Congresso dell’Internazionale comunista o, in sua rappresentanza, dall’esecutivo. Il segretariato femminile lavora d’intesa con l’esecutivo dell’Internazionale al quale è vincolato per l’approvazione delle risoluzioni e dei provvedimenti che adotta. Una rappresentante del segretariato partecipa a tutte le sedute e ai lavoratori dell’esecutivo, con voto consultivo sulle questioni generali, con voto deliberativo sulle questioni particolari del movimento femminile.

I suoi compiti sono:

1. Collegamento attivo con i comitati femminili nazionali dei singoli partiti comunisti e il mantenimento di relazioni tra i singoli comitati;

2. Raccolta del materiale d’agitazione e documentazione relativo all’attività dei singoli comitati nazionali per eventuali consultazioni.13

Sempre in seno al congresso della Internazionale venne posto l’accento sulla necessità della socializzazione del lavoro domestico e vennero predisposti diversi servizi pubblici di mensa e lavanderia diretti a tutta la popolazione. Al fine di agevolare le donne che, versando in difficoltose condizioni economiche, non riuscivano a mantenere i figli e potevano contare solo su un limitato sostegno sociale, data la povertà che minacciava la Russia sovietica, nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Per cercare di combattere l’aborto clandestino, considerato un crimine, spesso causa di morte anche per la madre dopo terribili sofferenze, la Russia divenne il primo paese nel mondo in cui trovava applicazione questa norma giuridica.

Problemi irrisolti nella Russia post-rivoluzionaria

I primi anni della rivoluzione sono stati estremamente intensi. I bolscevichi hanno lottato incessantemente per far avanzare la rivoluzione in condizioni estremamente difficili: alla penuria dovuta alla prima guerra mondiale si aggiungevano quella della guerra civile e l’aggressione degli eserciti imperialisti in un contesto di arretratezza generale. La vittoria della rivoluzione in uno o più paesi avanzati avrebbe certamente alleviato le sofferenze del popolo russo, ma, per ragioni che non affronteremo qui l’ondata rivoluzionaria che toccò il proletariato mondiale subì una sconfitta cocente. In più nell’inverno del 1921 il paese venne prostrato da una pesante carestia.

In questo contesto il Posdr decise di avviare una politica di concessioni alle leggi del mercato capitalista, introducendo elementi di proprietà privata, particolarmente nelle campagne, per favorire la circolazione delle merci. Questa politica, nota come Nuova politica economica (Nep) portò ad un importante rallentamento del movimento di emancipazione femminile: molte donne persero il loro lavoro e la socializzazione del lavoro domestico fu parzialmente rimandata nel tempo. Essendo asili e mense poco redditizi, i nuovi borghesi creati dalla Nep (nepmen) erano poco propensi a investirvi denaro. Se le difficili condizioni del comunismo di guerra imponevano un sistema precario di servizi pubblici, la Nep consacrò il loro fallimento. Anche il tentativo delle comuni, associazioni di inquilini che avrebbero dovuto autogestire delle abitazioni organizzando comunitariamente i servizi domestici al fine di promuovere “lo spirito comunista” e di sopperire alla transitoria carenza di alloggi, non ebbero successo perché i vecchi pregiudizi trovavano terreno fertile nella miseria e nella inadeguatezza dei provvedimenti concepiti per sconfiggerla.

Secondo le parole di Trotskij:

La rivoluzione tentò eroicamente di distruggere il vecchio focolaio domestico, istituzione arcaica, soffocante e dominata dalla routine, nella quale la donna é condannata ai lavori forzati dall’infanzia alla morte. Alla famiglia, considerata come una piccola azienda chiusa, doveva sostituirsi, nelle intenzioni dei rivoluzionari, un sistema completo di servizi sociali: maternità, asili nido, scuole materne, mense, lavanderie, ambulatori, ospedali, sanatori, organizzazioni sportive, cinema, teatri, ecc. L’assorbimento completo delle funzioni economiche della famiglia da parte della società socialista, destinata a legare tutta una generazione nella solidarietà e nell’assistenza reciproca, doveva emancipare la donna, e di conseguenza la coppia, da questo giogo secolare. (…) “Non si era riusciti a prendere d’assalto la vecchia famiglia. Non per mancanza di buona volontà e neppure perché la famiglia avesse profonde radici nelle coscienze; al contrario, le operaie e, in seguito, le contadine più avanzate, dopo un breve periodo di diffidenza verso lo Stato, i suoi asili, le sue scuole materne e le sue svariate istituzioni, mostrarono di apprezzare gli immensi vantaggi dell’educazione collettiva e della socializzazione dell’economia famigliare. Purtroppo la società era troppo povera e troppo poco civilizzata. Le risorse reali dello Stato non corrispondevano ai piani e alle intenzioni del Partito comunista. La famiglia non può essere abolita; bisogna sostituirla. L’emancipazione vera e propria della donna é impossibile sul piano della “miseria socializzata”. L’esperienza rivelò ben presto questa dura verità formulata da Marx ottant’anni prima.”14

I Russi fuggivano dalle comuni nonostante i vari tentativi da parte di molti dirigenti bolscevichi (fra cui soprattutto Trotskij) di rivitalizzare questo progetto: il capitalismo internazionale imponeva l’isolamento e quindi la povertà della Russia, impedendo in tal modo una gestione rivoluzionaria dell’economia.

Nel 1923, il 58% dei disoccupati di Pietrogrado erano donne e le percentuali raggiungevano anche picchi dell’80-90% nell’industria tessile. Tale situazione favorì il proliferare della prostituzione, fenomeno sociale che il partito bolscevico si era sempre proposto di estirpare a differenza dei borghesi che lo consideravano ineliminabile. La vendita del corpo femminile era un evidente retaggio del passato capitalista, in cui i rapporti interpersonali erano regolati dal profitto: come un padrone acquistava la forza lavoro dell’operaia, così in un altro momento poteva comprare il suo corpo. In molte unioni matrimoniali nel capitalismo, il vincolo del denaro e della proprietà impedisce il dispiegarsi di un sentimento sincero, e spesso le mogli non fanno altro che fornire prestazioni sessuali assieme alle proprie braccia nei lavori domestici, in cambio di un più o meno dignitoso mantenimento. Una tale cultura e le vecchie tradizioni che vogliono la donna dipendente sempre dall’uomo fanno sì che, in condizioni di ristrettezze economiche, molte donne siano portate a cercare un’estrema salvezza su questa via degradante. Vi è perciò uno stretto legame fra economia e prostituzione: le crisi e l’aumento della disoccupazione storicamente si accompagnano ad un incremento del numero di donne sulla strada. La borghesia ha sempre promosso tale fenomeno, coprendo al tempo stesso di disprezzo le ragazze che ne sono vittime.

La soluzione a questa piaga sociale, sia da Lenin che dalla Luxemburg, veniva individuata nell’ingresso e nel reintegro di tali donne all’interno delle mansioni produttive, organizzate nei sindacati e nei partiti, coinvolte nella lotta contro le cause della loro povertà.

Lo sfruttamento che portava la donna a vendere il proprio corpo, poteva essere abolito solo con l’abbattimento del capitalismo come economia, sistema sociale e culturale. L’unica classe in grado di assumersi la guida di tale processo era il proletariato, depurato delle influenze culturali borghesi forti anche fra i lavoratori: perciò, per ottenere la propria emancipazione, le prostitute dovevano acquisire coscienza del proprio potenziale rivoluzionario e unirsi a questa classe, abbandonando la prostituzione, ovvero ribellandosi ad un processo di autodegradazione e totale soggezione alle regole del mercato.

Non esistono scorciatoie penali per l’eliminazione di questo fenomeno: la prostituta non è un criminale che compie un reato, ma è una vittima della società che la circonda e delle ristrettezze finanziarie che le vengono imposte. Nonostante in Russia si stesse costruendo una società nuova che avrebbe dovuto risvegliare i lavoratori dalla passività indotta dalla schiavitù capitalistica e impostare nuovi modelli culturali improntati all’eliminazione di tutte le precedenti discriminazioni presenti fra i lavoratori, le difficili condizioni economiche in un paese accerchiato dal capitalismo internazionale costituivano terreno fertile per la diffusione di tale triste fenomeno.

L’autunno scorso le Izvestija hanno pubblicato improvvisamente la notizia che <circa mille donne che si dedicavano nelle vie di Mosca al commercio segreto della loro carne> erano state arrestate. (…) E non può trattarsi qui di una sopravvivenza del passato, perché le prostitute si reclutano tra le donne giovani. Nessuno penserà a biasimare particolarmente il regime sovietico per questa antica piaga della civiltà, ma è imperdonabile parlare di trionfo del socialismo finché sussiste la prostituzione. (…) Il ritorno alle relazioni basate sul denaro implica inevitabilmente un nuovo aumento della prostituzione e dell’infanzia abbandonata. Dove ci sono privilegiati, ci sono anche paria!“.15

La degenerazione stalinista

L’impegno profuso dal regime sovietico nella battaglia per la liberazione della donna era dettato dalla necessità, vitale per la rivoluzione, di rendere le masse oppresse protagoniste della gestione del potere. Il nuovo stato operaio poteva difendere gli interessi rivoluzionari del proletariato se l’apparato statale, industriale e in generale economico fosse stato sotto il controllo dei lavoratori. L’azione energica rivolta alle donne quindi faceva parte di una politica generale del partito bolscevico volta a promuovere l’alfabetizzazione e l’innalzamento culturale delle masse sovietice affinchè fossero all’altezza dei compiti che la storia imponeva loro.

Questa battaglia durissima veniva condotta in condizioni, come abbiamo spiegato sopra, drammatiche. La miseria, il bassissimo livello culturale costringeva i bolscevichi ad usare molti elementi non proletari nella gestione dello Stato. Lenin e i suoi più stretti collaboratori sapevano bene che quella era una lotta contro il tempo, per la vita o la morte della rivoluzione: il proletariato russo era troppo arretrato per controllare lo Stato, era necessario elevare il suo livello culturale ed era necessario vincere la rivoluzione a livello internazionale. Se si fosse perduto queste battaglie la rivoluzione sarebbe naufragata.

In questo clima, la morte di Lenin nel ’24 ebbe l’effetto di accelerare un processo già in atto di burocratizzazione degli organismi dirigenti dei soviet e dei partiti: si afferma tutta una serie di funzionari capeggiati da Stalin che si proponeva come maggiore fine la tutela dei propri privilegi e abbandonavano la prospettiva della rivoluzione mondiale. La carestia e la guerra decimano gli elementi migliori del proletariato, i soviet si svuotano e facilmente trovano spazio elementi che prima giocavano un ruolo secondario.

Stalin favorì in un primo momento la politica della Nep e i suoi beneficiari, concedendo loro notevoli spazi economici e politici. In realtà la “Nuova Politica Economica” era stata concepita come una concessione al capitalismo, necessaria per la sopravvivenza dello Stato sovietico in attesa della rivoluzione in Occidente, ma provvisoria dato che necessariamente provocava un arretramento nelle condizioni dei lavoratori in quanto reintroduceva, sebbene in piccola parte, elementi dell’economia di mercato. A partire dal 1922, infatti, quando venne istituita la Nep, il numero di asili nido e case di accoglienza per le madri cominciò notevolmente a calare, giungendo al picco negativo di 9,3 posti in asilo ogni 1000 donne. Diversi articoli del giornale “Kommunitska” testimoniavano la paura dei lavoratori impiegati nei servizi pubblici per il futuro incerto di queste strutture.

Di fatto l’occupazione cominciò a risalire solo con il piano di industrializzazione forzata realizzato da Stalin a partire dal 1928, piano concepito a ritmi troppo intensi che (a differenza del progetto dell’Opposizione di Sinistra capeggiata da Trotskij) non rispettava minimamente l’economia russa, all’epoca ancora prevalentemente agricola e profondamente arretrata. L’industrializzazione si verificò in maniera selvaggia: se la disoccupazione passò dal picco di 1,74 milioni nel 1929, a 1,08 milioni nell’aprile 1930 e a 335.000 nell’ottobre del 193016, il processo non si accompagnò minimamente all’istituzione di una serie di servizi sociali che potessero sopperire all’impegno maggiore nel lavoro esterno all’ambito domestico. Tutto venne subordinato al fine di dimostrare la superiorità del modello del socialismo realizzato in Russia e, perciò, la assoluta maggioranza delle risorse umane ed economiche venne dedicata a potenziare l’industria sovietica senza, però, valutare la necessità di garantire condizioni sociali e formative adeguate ai lavoratori affinché la produzione migliorasse anche dal punto di vista qualitativo. Il piano di industrializzazione (che interessò soprattutto l’industria pesante) coinvolse, infatti, poche donne, le quali rimasero una componente prevalente della disoccupazione o furono relegate nei pochi spazi disponibili dell’industria leggera o nel lavoro domestico. L’organismo che avrebbe potuto giocare un ruolo nel riequilibrare tale processo, il Genotdel, non casualmente venne abolito in quegli anni perché giudicato “inutile”. In realtà questa struttura era stata responsabile di grandi conquiste per il proletariato femminile: aveva promosso la diffusione di testate giornalistiche femminili (che nel 1927 raggiunsero il numero di 18 con diffusioni di 400mila copie) e l’organizzazione di riunioni di formazione e discussione politica che avevano coinvolto solo nel 1928 2 milioni e mezzo di donne, ottenendo importanti risultati di crescita del numero di delegate dei soviet e iscritte al partito bolscevico. Particolarmente duro era stato il lavoro del Genotdel nelle regioni orientali dove esso aiutò le donne a liberarsi dall’oppressione del velo e della reclusione nelle case, pagando talvolta un alto prezzo: le ragazze venivano battute e punite duramente per il solo fatto di aver assistito alle riunioni dei circoli femminili e nel solo Uzbechistan, nel 1928, si verificarono 203 casi di donne che vennero uccise dai loro padri, mariti e fratelli per aver abbracciato con coraggio estremo la lotta per la loro liberazione.

Ora, per favorire una maggiore libertà d’azione nel reclutamento delle donne al lavoro, era necessario abolire il Genotdel, dichiarando l’emancipazione femminile già realizzata. Il piano industriale comprendeva anche capitoli speciali per la forza lavoro femminile, ma prevedeva servizi sociali di assistenza minimi, tali da riproporre di fatto la storica divisione del lavoro su base sessuale: nel calcolo solo della domanda per il pasto serale, per esempio, si verificò come solo 700mila lavoratori avrebbero potuto contare sull’opera di personale esterno, mentre le mogli avrebbero dovuto garantire tali servizi per i restanti 3 milioni di lavoratori. A Leningrado, inoltre, a fronte dell’ingresso nel lavoro di 74mila donne, si organizzò un solo asilo. Questa situazione vanificava i tentativi di formazione per le lavoratrici, che spesso lasciavano i corsi per fronteggiare il pesante carico dei lavori domestici. Avveniva, perciò, che la maggior parte delle donne che entrava nel mondo del lavoro durante il piano quinquennale, era assegnata prioritariamente a lavori a bassa qualificazione. A Leningrado, nel 1932, il 58,6% di tutti i lavoratori generici erano di sesso femminile; donne erano il 70% della forza lavoro non specializzata a Mosca, con percentuali ancora maggiori nelle realtà periferiche.

Il numero delle donne impiegate venne, perciò, anche forzatamente incrementato senza provvedere ad un miglioramento qualitativo della resa del loro lavoro. Il partito bolscevico di Lenin e Trotskij si era impegnato nel compito di cancellare quello che la burocrazia stalinista, con le sue politiche, non fece che accentuare: lo sfruttamento femminile dovuto alla doppia responsabilità del lavoro sociale e domestico. Del resto i nuovi funzionari sovietici avevano bisogno di un controllo maggiore della società, dalla quale si erano parzialmente resi indipendenti, e la forma della famiglia secondo il modello borghese si prestava ottimamente allo scopo, in quanto divideva i lavoratori nelle rispettive unioni familiari all’interno delle quali essi cercavano tutto quello che lo stato non voleva più garantire. La famiglia diventava la sede dove prima che altrove l’operaio si adoperava per superare le proprie difficoltà economiche, razionalizzando il bilancio e schiavizzando consorte e figli, i quali, isolati nelle case, non partecipavano alla attività politica e non potevano perciò costituire una potenziale fonte di dissenso contro la burocrazia.

La marcia indietro riveste forme di scoraggiante ipocrisia e si spinge molto più in là di quanto non esiga la dura necessità economica. Alle ragioni oggettive del ritorno a norme borghesi, quali il pagamento di assegni familiari, si aggiunge l’interesse sociale degli strati dirigenti ad approfondire l’introduzione di norme del diritto borghese. Il motivo più imperioso dell’attuale culto della famiglia é senza dubbio alcuno il bisogno, da parte della burocrazia, di una stabile gerarchia nei rapporti sociali e di una gioventù disciplinata da quaranta milioni di famiglie, che servano da punto d’appoggio all’autorità e al potere17.

Gran parte delle leggi che precedentemente miravano alla emancipazione della donna e dell’uomo in modo da rendere possibile l’espressione massima delle loro potenzialità, venne abolita. Nel 1934 l’omosessualità e la prostituzione vennero dichiarati crimini puniti con otto o più anni di prigione. Nel 1936 l’aborto legale venne abolito, il divorzio divenne più difficile da ottenere (e assai più costoso dal punto di vista economico).

Dimostrata la sua incapacità di fornire alle donne costrette all’aborto l’assistenza medica necessaria, ambulatori ed attrezzature igieniche, lo Stato cambia bruscamente rotta e sceglie la via della proibizione. Come in altri casi la burocrazia fa di necessità virtù. Uno dei membri della Corte suprema sovietica, Solc, specializzato nelle questioni che si riferiscono al matrimonio giustifica la prossima proibizione dell’aborto dicendo che, poiché la società socialista non ha disoccupati, ecc. ecc., la donna non può avere il diritto di respingere le “gioie della maternità”. (…) Questi signori hanno evidentemente dimenticato che il socialismo dovrebbe eliminare le cause che spingono la donna all’aborto, piuttosto che far intervenire vergognosamente il poliziotto nella vita intima di una donna per imporle le “gioie della maternità”. “La riabilitazione solenne della famiglia, che ha luogo – coincidenza provvidenziale – nello stesso momento di quella del rublo, é la conseguenza dell’insufficienza materiale e culturale dello Stato. Invece di dire “siamo troppo poveri e troppo incolti per stabilire relazioni socialiste tra gli uomini, lo faranno i nostri figli e i nostri pronipoti”, i capi del regime incollano i cocci rotti della famiglia e impongono, con la minaccia dei peggiori rigori, il dogma della famiglia, fondamento sacrosanto del socialismo trionfante. É penoso constatare l’ampiezza di questa ritirata!18.

La stampa sovietica fu inondata da articoli inneggianti al matrimonio, alle bellezze della maternità e della famiglia, elevata a principio morale comunista contro le degenerazioni borghesi del “libero amore”. Una legge del 1945 privò di ogni diritto l’unione di fatto, riconosciuta negli anni ’20. La nuova coscienza di uguaglianza fra i sessi che si stava sviluppando in quel periodo, subì pesanti contraccolpi.

La vittoria dell’Urss sul nazismo nel ‘45 diede maggiore stabilità allo stato sovietico. Inoltre la pianificazione dell’economia permetteva avanzamenti straordinari e impensabili per una economia di mercato. Tutto questo garantì un certo appoggio al sistema, nonostante i clamorosi arretramenti politici. Gli sforzi titanici dei bolscevichi per coinvolgere le masse nel partito e nei soviet vennero cancellati dalla mente delle masse.

Nonostante il ruolo reazionario dello stalinismo, grazie all’economia pianificata introdotta dall’Ottobre, Il numero di donne con una educazione superiore in URSS raggiunse, negli anni ’60 e ’70, livelli superati solo da 3 paesi occidentali: Francia, Finlandia e USA. Nel 1970 fu emanata una legislazione che aboliva il lavoro notturno e sotterraneo per le donne. Fra il 1960 e il 1971 la disponibilità di posti nelle strutture prescolastiche passò da 500mila a più di cinque milioni, incoraggiando in tal modo un sempre maggior coinvolgimento nel mondo del lavoro della mano d’opera femminile, la quale nel 1970 risultava così distribuita: 98% del personale infermieristico, 75% di quello medico, 75% nella scuola pubblica, 90% fra i bibliotecari. Il miglioramento del servizio sanitario pubblico provocò un incremento della vita media femminile che passò dai 30 anni del 1927 ai 74 del 1970 con una riduzione del 90% della mortalità infantile. Tali risultati non sono minimamente paragonabili ai relativi incrementi nella qualità di vita verificatisi nei paesi occidentali, i quali nello stesso periodo di tempo fecero progressi di portata assai inferiore nonostante gli elevati livelli economici di partenza. L’esaurimento dei benefici arrecati dalla crescita postbellica, seguito dal cedimento definitivo alle leggi del mercato capitalistico, inevitabilmente ha portato all’abbandono di tutte le conquiste del passato con il ritorno alla barbarie sociale del capitalismo. Citiamo direttamente dal libro sulla Russia di Ted Grant19:

Il passaggio verso il capitalismo ha ribaltato rapidamente le conquiste del passato, riportando le donne nello stato del più nero asservimento, ipocritamente nel nome della ‘famiglia’.

La maggior parte del peso della crisi viene scaricata sulle spalle delle donne. Le donne sono le prime ad essere licenziate, per evitare di pagare i sussidi sociali, come l’assegno famigliare e la maternità. Dato che fino a pochi anni fa le donne costituivano il 51 % della forza lavoro russa e che lavorava il 90% delle donne, la crescita della disoccupazione ha significato che più del 70% dei disoccupati della Russia sono ormai donne; in certe località la cifra è ormai del 90%.

Il crollo dei servizi sociali e la crescita della disoccupazione significa l’eliminazione sistematica di tutti i benefici dell’economia pianificata per le donne.

(…) Sotto il regime precedente, in media le donne ricevevano il 70% del salario maschile. La cifra è ora del 40%. Mantenere una famiglia con un solo salario era già difficile nella vecchia Urss; ora, con l’aumento drammatico della povertà, è praticamente impossibile. Così le donne sono le vittime principali di questo regime reazionario.

Mai più vere appaiono oggi le parole di Marx ed Engels ne “La sacra famiglia”:

Il cambiamento di un’epoca storica si può definire sempre dal progresso femminile verso la libertà, perché qui, nel rapporto della donna con l’uomo, del debole con il forte, appare nel modo più evidente la vittoria della natura umana sulla brutalità. Il grado dell’emancipazione femminile è la misura naturale dell’emancipazione universale“.

L’arretramento delle condizioni della donna sotto il capitalismo evidenziano la necessità di superare oggi, non solo in Russia, un sistema sociale ed economico ormai responsabile solo di una involuzione e un imbarbarimento umani; evidenziano la necessità di lottare per la trasformazione socialista della società a livello mondiale.

18 luglio 2002

Note

1 Vedi Socialist Women: european socialist feminism in the nineteenth and early twentieth centuries, a cura di M.J.Boxer & J.H.Quataert, Elsevier North-Holland, Inc, 1978

2 Vedi Donne in rivolta nella Russia zarista di Cathy Porter, Feltrinelli editore, 1977.

3 Vedi M.J.Boxer & J.H.Quataert, Op.Cit.

4 Vedi Vivere la rivoluzione di A.Kollontaj, Garzanti editore, 1979.

5 Vedi Zetkin femminista senza frontiere di G.Badia, Erre emme edizioni 1994.

6 Vedi G.Badià, Op.Cit.

7 Vedi Natasha – A Bolscevik Woman Organiser. A short biography Di L.Katasheva, presente sul sito www.marxism.com

8 Vedi Bolshevism – the road to revolution di A.Woods, Wellred Publications, London, 1999.

9 Lunghi veli che coprono le donne dalla testa ai piedi.

10 Vedi www.tightrope.it/user/chefare/donne/burqa/dorient.htm

11 Vedi Donne, Resistenza e Rivoluzione di S.Rowbotham, Piccola Biblioteca Einaudi 1972.

12 Vedi La questione femminile e la lotta al riformismo di Clara Zetkin, Gabriele Mazzotta editore 1975.

13 Vedi Clara Zetkin, Op.Cit.

14 Trotskij, La rivoluzione tradita, AC Editoriale, Milano 2000.

15 Ibidem.

16 Vedi articolo “The Five-Year Plan for Women’s Labour: Constructig Socialism and the ‘Double Burden’, 1930-1932” di T.G.Schrand in Europe-Asia Studies, Dec 1999.

17 Trotskij, Op.Cit.

18 Ibidem.

19 Vedi Russia: dalla rivoluzione alla controrivoluzione di Ted Grant, AC Editoriale 1998.

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