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22 Aprile 2017di Roberto Sarti
Ripubblichiamo questo articolo di Roberto Sarti del 2002 che descrive le mobilitazioni che in quel periodo attraversarono l’Argentina a seguito del default e che pensiamo possano fornire insegnamenti preziosi anche per la nostra epoca di crisi economica.
Due settimane, tra dicembre e gennaio, e il volto dell’Argentina è completamente cambiato.
Il 19 dicembre il Presidente Fernando De La Rúa decretava lo stato d’assedio in tutto il paese, mentre il superministro dell’Economia Domingo Cavallo presentava un’ennesima finanziaria all’insegna dell’austerità con tagli per 6 miliardi di dollari.
Il 23 dicembre un nuovo presidente era eletto dal Parlamento, il peronista Adolfo Rodriguez Saá, che subito annunciava la sospensione del pagamento del debito estero. Nemmeno una settimana dopo, anche quest’ultimo sulla spinta della protesta popolare è costretto a lasciare. Un nuovo governo di unità nazionale presieduto da Eduardo Duhalde è ora in carica.
Ciò che ha cambiato la situazione è stato l’irruzione sulla scena delle masse. Centinaia di migliaia di lavoratori, disoccupati, giovani, tranquille signore della piccola borghesia sono scesi in strada decisi a farla finita con un sistema di potere che li aveva derubati di tutto. Nella giornata del 20 dicembre, ventinove di loro hanno pagato con la vita il sacrosanto desiderio di ribellione e di giustizia.
Due anni di conflitto permanente
Gli avvenimenti di queste settimane rappresentano il culmine di un processo di radicalizzazione delle masse argentine che si protrae da circa due anni a questa parte. Principale causa di tale processo è stata la crisi economica che ha colpito il paese dalla fine degli anni novanta.
Il prodotto interno lordo è crollato del 10% negli ultimi tre anni, la produzione industriale dell’11% nel solo 2001. Il debito estero era arrivato a 132 milioni di dollari, tutti gli istituti finanziari internazionali pongono l’Argentina in testa tra i paesi a maggior rischio per gli investimenti, mentre i tassi d’interesse bancari erano schizzati oltre il mille per cento. Uno dei paesi più ricchi del mondo si trova con 14 milioni di poveri (su 36 milioni di abitanti) e con più del 35% della popolazione disoccupata o sottoccupata.
È il risultato della politica dettata dal Fmi e dalla Banca mondiale, di cui l’Argentina ha rappresentato per anni l’allievo modello. Privatizzazioni a tutto spiano, totale apertura ai capitali esteri, parità peso-dollaro 1 a 1. Tutto ciò all’inizio degli anni novanta ha messo fine all’iperinflazione e dato il via a un effimero boom, che si basava sulle speculazioni a breve termine dei grandi pescecani della finanza americani ed europei. Il mercato interno è stato distrutto, le esportazioni rese impossibili dal legame con il dollaro. Quando il Brasile, colpito da una grave crisi finanziaria e principale partner economico di Buenos Aires, ha svalutato il Real, la sua moneta, il tunnel per l’economia argentina si è fatto tremendamente più buio.
Il governo di De La Rúa, formato da un’alleanza tra i radicali (il partito tradizionale della borghesia) e il Frepaso (un fronte comprendente pezzi della sinistra peronista, ex comunisti e socialisti) ha proseguito nell’applicazione delle politiche neoliberiste. Non a caso, perché nel capitalismo attuale erano le uniche possibili. Un’altra politica avrebbe implicato scontrarsi con la borghesia americana e anche con quella nazionale.
De la Rua ha deciso di fare pagare ancora una volta la crisi ai lavoratori e alle loro famiglie. Emblematico è stato il ritorno di Cavallo al potere, l’artefice dell’equivalenza peso-dollaro, come superministro dell’economia dieci mesi or sono. Subito ha lanciato nuove provocazioni, come il taglio del 30% di pensioni e salari degli statali.
Questa volta, però, la classe operaia argentina ha deciso di rispondere agli attacchi. Sei scioperi generali in 18 mesi, decine di blocchi stradali sulle principali strade del paese attuati dai piqueteros, un movimento di disoccupati e lavoratori precari che in alcune regioni ha assunto un carattere di massa. Nel giugno scorso c’è stata una situazione semi insurrezionale a General Mosconi, nella provincia settentrionale di Salta. Infine, il voto di ottobre per le elezioni legislative, dove contando anche l’astensione (il voto è obbligatorio) e le schede bianche e nulle, l’85% della popolazione ha votato contro il governo.
Il Fallimento del “Centrosinistra”
Almeno da un anno de La Rúa continuava a mantenere il potere perché nessuno, e principalmente i peronisti, voleva porsi come alternativa. L’Fmi sottoponeva l’Argentina a condizioni inaccettabili per allentare i cordoni della borsa. Ricordiamo che il debito argentino sarebbe stato in linea con i parametri di Maastricht! Il differenziale tra i tassi praticati dall’Fmi a Washington e a Buenos Aires è del 30%. Come ogni usuraio sa, i buoni affari si realizzano mantenendo i debitori in un perenne stato di difficoltà: con il ricatto di non rinnovare più il prestito si impongono interessi sempre maggiori, applicando questi ultimi i debiti non finiranno mai.
Ubbidendo totalmente ai diktat dell’imperialismo, De La Rúa e Cavallo si sono alienati le simpatie non solo dei lavoratori e degli strati più poveri, ma anche delle classi medie.
Per evitare la fuga dei depositi bancari, il governo all’inizio di dicembre stabilisce che non si possono ritirare più di 250 dollari alla settimana dalla propria banca. Una provocazione verso la piccola borghesia, particolarmente i piccoli commercianti, quando allo stesso tempo i grandi capitalisti avevano trasferito all’estero 15 miliardi di dollari nel corso del 2001.
Il 13 dicembre le tre centrali sindacali organizzano il settimo sciopero generale contro il governo, la partecipazione è ancora una volta massiccia. Dal giorno seguente cominciano una serie di assalti e saccheggi ai supermercati e agli ipermercati, che arriveranno a circa 600 in una settimana (nell’89 all’epoca di Alfonsin furono 800 in 52 giorni). Partendo dalle province arrivano fino al Gran Buenos Aires e acquisiscono un vero e proprio carattere di massa. Le forze di polizia non riescono a fermare i saccheggiatori perché sono l’espressione di una disperazione che proviene da ogni settore della società, a parte, naturalmente, il grande capitale. “Alla testa della folla impazzita c’erano i nostri clienti abituali” affermerà un direttore di un supermercato a Rosario.
La cecità dell’elite al potere è disarmante. “Saccheggi? Quali saccheggi? Sono solo fatti isolati” dichiara il ministro dell’Interno Ramon Mestre. Così arriva il discorso del Presidente il mercoledì 19 che declina ogni responsabilità per la crisi e decreta lo stato d’assedio.
Subito parte un impressionante cacerolazo (forte percussione di pentole e casseruole) che coinvolge centinaia di migliaia di persone in tutto il paese che scendono in strada, incuranti del divieto del governo. A Cordoba alle 2 di notte 10mila persone marciano verso il municipio, dopo che per tutta la giornata i dipendenti comunali avevano occupato l’edificio e ci erano scontrati ripetutamente con la polizia.
Chi, anche a sinistra, si riempie la bocca riguardo “all’individualismo sfrenato che pervade la società” o alla “frantumazione della classe operaia” ha ricevuto una risposta più che convincente dagli avvenimenti in Argentina. Ecco come, spinti dai propri interessi comuni, di classe, decine di migliaia di individui si possono unire in maniera in apparenza spontanea e divenire un soggetto collettivo in azione.
Insurrezione
L’apparato dello Stato sperava che al risveglio, la mattina del 20, la gente sarebbe tornata a casa o al lavoro. Niente di più lontano dalla realtà. Spinte dal basso, le due Cgt (ufficiale e dissidente), legate al peronismo, convocano uno sciopero generale ad oltranza.
A Buenos Aires la folla si raduna presso la Casa Rosada, residenza del Presidente, e a Plaza de Mayo, luogo simbolico di raduno del movimento operaio da sessant’anni a questa parte.
La polizia vuole impedire che la piazza si riempia, i manifestanti ingrossano le loro fila di continuo. Inizia una vera e propria battaglia, che si estende in ogni strada del centro della capitale e nel resto del paese. In prima fila negli scontri ci sono giovani e giovanissimi, precari, disoccupati, studenti. Sono loro che pagheranno il prezzo più alto per la brutale repressione della polizia, lasciando ventinove di loro senza vita sul terreno.
Alle quattro del pomeriggio, quando lancia l’appello a un governo di unita nazionale, De La Rúa è già un uomo finito. I peronisti non lo raccolgono, sarebbe stato il loro un vero e proprio suicidio politico. L’ormai ex-presidente è costretto a fuggire con un elicottero dal tetto della Casa Rosada.
Se avesse continuato la repressione del movimento, la crisi rivoluzionaria si sarebbe senza dubbio approfondita.
Non abbiamo infatti paura a definire queste giornate come rivoluzionarie e non come la stampa borghese le ha definite, caos o “opera di qualche banda di anarchici”.
Una rivoluzione consiste nell’irruzione delle masse sulla scena politica, che decidono di prendere in mano il loro destino. In Argentina abbiamo assistito a un’azione indipendente delle masse, che hanno usato tutti i mezzi a loro disposizione per cacciare via il governo. Abbiamo visto porre in discussione, certo in maniera non del tutto cosciente, la legalità dello stato borghese, attraverso la sfida allo stato d’assedio e la “battaglia” di Plaza de Mayo.
La classe lavoratrice era determinata ad andare fino in fondo. Le classi medie sono scese in piazza con il proletariato. La borghesia è debole e divisa al suo interno sulla politica da portare avanti.
Queste sono tre delle quattro classiche condizioni di Lenin per definire una rivoluzione. Perché sia vittoriosa deve esistere anche un partito rivoluzionario con una base di massa. Oggi un tale partito purtroppo non esiste in Argentina.
Polizia ed Esercito impotenti
Sotto la spinta della pressione popolare Rodriguez Saá promette mari e monti a tutti, ma non vuole sbloccare i depositi bancari, mentre intende emettere una nuova moneta con cui pagare salari e pensioni, che non sarebbe altro che carta straccia.
Ma le masse argentine non accettano più di essere prese in giro. Solo una settimana prima avevano fatto cadere il governo di De La Rúa e, coscienti della propria forza, sono scese di nuovo per le strade per un nuovo cacerolazo. Questa volta è bastata la sola mobilitazione, non meno massiccia, nella capitale per ottenere le dimissioni del nuovo presidente. I più esasperati hanno fatto irruzione nel parlamento devastandone diverse stanze, ma quello che colpisce di più è l’impotenza delle “forze dell’ordine”. Colpisce ma non deve stupire, perché l’incapacità della reazione di contrattaccare è una delle caratteristiche della fase di ascesa di una rivoluzione. L’abbiamo già visto in Albania nel ’97 e in Ecuador nel 2000.
La piccola e media borghesia, che tradizionalmente costituiscono la base d’appoggio per svolte repressive (la cosiddetta “maggioranza silenziosa”), sono totalmente dalla parte dei manifestanti. I giornali argentini numerosi episodi di discussioni tra dimostranti e poliziotti in cui questi ultimi si dimostravano imbarazzati e solidali rispetto alla repressione della settimana precedente. Il quotidiano Pagina 12 riporta alcuni casi di insubordinazione vera e propria davanti all’ordine degli ufficiali di caricare la folla.
La sollevazione popolare in un quartiere della periferia di Buenos Aires, dove centinaia di persone hanno preso d’assalto la caserma locale della Polizia rifugio di un ex poliziotto che aveva appena assassinato a sangue freddo tre ragazzi in un bar, è un’altra dimostrazione eloquente del clima attuale. La sfida e la contestazione diffuse della legalità borghese è un ulteriore segnale di una situazione rivoluzionaria.
Il Governo Duhalde
L’eventualità di un colpo di stato militare è quindi da scartare. La destra se ne rammarica e prova la carta estrema di un governo di unità nazionale. Eduardo Duhalde è il nuovo uomo della Provvidenza. Vice di Menem fino al 1995, ex governatore di Buenos Aires e candidato peronista sconfitto da De La Rúa nel ’99, incarnerebbe l’anima “progressista” del peronismo. Ha dichiarato di “voler seguire la seguire la dottrina sociale della chiesa” nell’opera di governo. In parole povere, l’elemosina ai poveri e la tutela delle ricchezze dei potenti “senza eccessi”, naturalmente!
Radicali, peronisti e la maggior parte di deputati del Frepaso (la coalizione di sinistra) hanno votato a favore di Duhalde. Sarà un governo che perseguirà come unico scopo quello di “riportare l’ordine” e quindi di salvare il capitalismo in Argentina, ma, malgrado l’amplissima base di appoggio parlamentare, il consenso nella società appare estremamente ridotto.
E si ridurrà ancor di più, osservando le prime indiscrezioni sul programma. Il ministro dell’industria sarà il presidente della Confindustria argentina! Si andrà verso una svalutazione controllata, legando il peso non solo al dollaro ma anche all’euro e al real. Il governo assicura che tariffe e dei prezzi dei beni primari non aumenteranno, ma è una pia illusione, come dimostrano la mancanza perfino del pane nei negozi di Buenos Aires e le ondate di rialzi dei prezzi di tutti i beni d’importazione in questi giorni.
Se veramente il governo volesse andare fino in fondo nella tutela dei salari di fronte all’inflazione, si troverebbe di fronte una fuga dei capitali degli industriali. Ma lo scontro con le esigenze del capitale non è nel codice genetico dell’attuale governo. Ulteriore prova ne è la finanziaria per il 2002, che si propone a deficit zero, proprio come quella di Cavallo!
La sinistra rappresentata in Parlamento ha dimostrato ancora di più la sua bancarotta. Graciela Fernandez Meijide, importante esponente del Frepaso, giustifica l’appoggio del suo partito a Duhalde col “timore dell’anarchia”. Ancora una volta i riformisti per paura della rivoluzione preferiscono prostrarsi davanti alla borghesia. Dimenticavamo: gli esponenti più coraggiosi del Frepaso e dell’Ari (una nuova formazione di natura piccolo borghese fuoriuscita dall’Alianza) hanno marcato la loro differenziazione… astenendosi!
Tutti partiti tradizionali sono in crisi, così come nessuno si fida più di tutte le istituzioni borghesi: il governo, la magistratura, il sistema finanziario.
Il peronismo è drammaticamente diviso. La caduta di Rodriguez Saá e la scesa in campo di Duhalde hanno precipitato la sua crisi a livelli visti raramente nella storia.
Le organizzazioni che si richiamano al marxismo in Argentina hanno un’opportunità storica. La credibilità della direzione sindacale peronista è stata e sarà messa a dura prova da questa crisi rivoluzionaria. L’appoggio di ambedue le Cgt alle promesse di Rodriguez Saá e di Duhalde non è certo passato inosservato agli occhi della base nelle fabbriche. Il leader della Cgt ribelle (sempre più solo di nome), Hugo Moyano, al momento dell’insediamento di Rodriguez Saá aveva subito “messo la classe operaia a sua disposizione”.
In questi ultimi giorni di gennaio il periodo di tregua per Duhalde sembra proprio finito. L’attenzione della popolazione non era mai scesa, la mobilitazione di piazza è ripartita a uno stadio più elevato di coscienza. Il 25 gennaio un nuovo cacerolazo ha paralizzato il paese: l’iniziativa è partita dal coordinamento delle Assemblee Popolari di Buenos Aires.
Nelle rivendicazioni, non solo la fine del corralito e del governo, ma anche la nazionalizzazione delle banche. Quattro giorni dopo Plaza de Mayo è stata di nuovo riempita, questa volta dai piqueteros, che per la prima volta sono stati apertamente appoggiati dai residenti di Buenos Aires (piquetes y cacerolas, la lucha es una sola, scandivano i manifestanti). È avvenuto quello che governo e borghesia temevano, l’unione tra piquetes e cacerolas. Tre giorni dopo la Corte suprema ha dichiarato sotto la pressione delle proteste di massa, l’incostituzionalità del corralito. A solo un mese dal suo insediamento Duhalde affronta la sua prima crisi. Una nuova tappa del dramma argentino, che sta assumendo sempre più i contorni di una crisi rivoluzionaria prolungata.
Il ruolo della sinistra
Il peronismo costituisce un movimento bonapartista, con aspetti populisti e radicali, ma anche apertamente reazionari al suo interno e nella sua storia. Ha potuto assumere un ruolo chiave nel movimento operaio argentino grazie all’eccezionalità della situazione del dopoguerra. Il grande boom economico degli anni quaranta, le riforme anche molto avanzate realizzate da Juan Domingo Peron, la contemporanea debolezza, sia organizzativa che politica, dei partiti socialista e comunista, hanno fornito e forniscono una riserva considerevole di consensi al Partito Giustizialista fra i lavoratori argentini.
Le varie formazioni di sinistra hanno visto aumentare non poco i loro consensi nell’ultimo periodo, sintomo del processo di radicalizzazione descritto in precedenza. Alle ultime elezioni a Buenos Aires e provincia le otto liste progressiste e di sinistra hanno raggiunto oltre il 25% dei voti. A Salta il Partido Obrero ha ottenuto circa il 10%, riconoscimento per il ruolo non secondario giocato nella lotta di General Mosconi.
Tuttavia la strada perché una di queste formazioni acquisisca un ruolo di massa sembra ancora lunga. Nei giorni della caduta di De La Rua la Cta, la terza centrale sindacale (di orientamento socialdemocratico) si è trovata lontana dagli avvenimenti, sostanzialmente a traino dei sindacati peronisti, arrivando a revocare il giorno prima una manifestazione a Plaza de Mayo convocata per il 20. Luis D’Elia, leader del movimento dei piqueteros ha condannato i saccheggi. La Cta e D’Elia avevano assunto una posizione di sostanziale appoggio nei confronti di Rodriguez Saá.
Il Partido Obrero e altre formazioni hanno partecipato alle manifestazioni, si sono opposti al nuovo governo peronista, ma la proposta di “assemblea costituente” o di “assemblee popolari” come governo di transizione a una democrazia operaia mostra un’incomprensione della fase storica del capitalismo argentino.
Affrontiamo l’argomento in un articolo più specifico qui a fianco, ma l’Argentina ha già vissuto lunghi periodi di “democrazia borghese”, l’ultimo dei quali dura da 18 anni. Non ha bisogno di un’assemblea costituente o popolare che attui la transizione a un regime più democratico, ma sempre capitalista.
Un nuovo ordine rivoluzionario
Ci troviamo in una situazione dove le masse sanno perfettamente cosa non vogliono ma non hanno le idee chiare su cosa metterci al suo posto.
Da una parte è necessario fare convergere l’odio verso gli organismi “rappresentativi” della democrazia borghese, tanto più in un momento in cui sono sull’orlo di un crollo, verso la costruzione da parte delle masse di propri organismi di contropotere. La costruzione di comitati di fabbrica e di azienda, e poi a livello più vasto di quartiere, da dove venga esclusa la borghesia, con delegati che si coordinano a livello cittadino, provinciale e nazionale costituisce la priorità per il proletariato argentino e per la sua avanguardia.
Dall’altra tali comitati dovrebbero dotarsi di un programma, che parta dalle esigenze quotidiane, come il controllo dei prezzi, l’autodifesa dagli attacchi delle forze reazionarie, l’andamento della produzione nei posti di lavoro. Allo stesso tempo dovrebbero collegare queste esigenze a un programma rivoluzionario più complessivo che nazionalizzi sotto il controllo dei lavoratori tutti gli istituti finanziari e i grandi complessi industriali, nazionali e stranieri, ponendo fine al capitalismo.
La classe operaia argentina è la più forte di tutta l’America Latina, seconda solo a quella brasiliana. Una trasformazione rivoluzionaria del paese trasformerebbe la situazione in tutto il continente. Ma per farlo i lavoratori devono costruire un proprio partito, armati di un programma, di una tattica e di una strategia marxista, che conduca il resto delle masse oppresse alla conquista del potere. Compito delle forze migliori della sinistra di classe argentina è inserirsi e velocizzare un simile processo.
Il nostro compito in Italia è trarre ispirazione da questi avvenimenti per sviluppare qui e ora una forza rivoluzionaria. Ecco come aiutare i nostri compagni argentini!
La questione del potere e la sinistra in Argentina
Una delle lezioni più importanti del movimento rivoluzionario in Argentina, è come lo sviluppo stesso delle mobilitazioni e della presa di coscienza delle masse pongano come centrale la questione del potere. Ed è clamoroso come la maggior parte dei dirigenti della sinistra riuniti per il Forum sociale a Porto Alegre, parlino continuamente dell’Argentina, sostengano a parole la lotta delle masse, ma glissino completamente sull’argomento. Anzi il segretario del Prc Bertinotti si spinge ad affermare “il potere, il suo raggiungimento, non può essere staccato dalla trasformazione. Ancora più precisamente la trasformazione deve precedere il potere.” (Liberazione, 02/02/2002)
L’esperienza argentina dimostra esattamente il contrario. I lavoratori argentini hanno cacciato due governi e tengono in ostaggio l’attuale. Ma non hanno ancora attuato nessuna trasformazione economica o sociale, proprio perché il potere statale non è ancora nelle loro mani.
Allo stesso tempo tutta una serie di slogan e di azioni intraprese tra vasti settori del movimento in Argentina una domanda simile la pongono con forza: chi deve controllare il potere politico ed economico?
La rivendicazione più ricorrente, “se ne vadano tutti”, rivolta non solo al governo ma all’intera elite politica e alla Corte suprema, è esemplificativa del rifiuto generalizzato delle istituzioni borghesi. Nelle ultime settimane è stata affiancata dalla richiesta di nazionalizzazione del sistema bancario, risposta conseguente da parte delle masse alla confisca dei risparmi e dei salari ad opera del governo mentre miliardi di dollari continuano ad uscire dal paese.
Ambedue queste proposte sono state approvate delle Assemblee popolari di quartiere di Buenos Aires, che si sono date un coordinamento a livello cittadino e sono state i principali propulsori del cacerolazo del 25 gennaio. Il ruolo giocato da queste assemblee è sempre più importante e la partecipazione ad esse sempre più massiccia, tanto da prefigurarsi come embrioni di organismi di contropotere. E nella situazione attuale la creazione di un potere alternativo a quello borghese costituisce il compito principale dei rivoluzionari in Argentina.
La domanda da porsi è se “la moltiplicazione” di queste assemblee o la loro unione con i piqueteros possa essere sufficiente.
Se prendiamo ad esempio l’esproprio delle banche, è impensabile attuarlo finché non si coinvolgano i lavoratori del settore, non solo come singoli che spesso partecipano alle assemblee del proprio quartiere, ma organizzati attraverso le proprie rappresentanze. Il controllo dei lavoratori non può essere disgiunto dalla nazionalizzazione.
Più in generale, una serie di organizzazioni con un ruolo importante nelle mobilitazioni, come la Cta, diffondono l’idea che “la chiave non sta nella fabbrica ma bensì nel quartiere“. Così impongono al lavoratore di “autoridurre” la grande forza di cui dispone, cioè la possibilità di bloccare i trasporti, i servizi, la produzione, e di presentarsi come semplice “cittadino” nelle assemblee, accontentandosi di percuotere la propria pentola ogni venerdì.
Su Pagina12 (28/01/02) un lavoratore commentava “C’è democrazia nel barrio (quartiere) ma non nei posti di lavoro“. Questo è proprio il problema centrale: la costituzione di organismi di democrazia operaia, il completo rinnovamento delle rappresentanze dei lavoratori e la battaglia per dei sindacati da parte dei lavoratori.
Le organizzazioni che si vogliono porre su un terreno rivoluzionario nel paese non possono ignorare questo compito e devono impegnarsi nella lotta per scalzare gli attuali dirigenti sindacali, peronisti e socialdemocratici, dalle loro posizioni. A questo riguardo una corretta analisi sul ruolo che ancora gioca il peronismo nel controllo della classe operaia industriale non si può eludere.
L’unità tra piqueteros e cacerolas è una novità importante e rappresenta uno stadio nuovo della lotta di classe ma deve essere utilizzata per penetrare e rendere protagonisti i settori “pesanti” della classe operaia industriale, non illudersi che questa unione possa “soppiantare la Cgt nella convocazione di scioperi attivi” come pensa il Partido Obrero (Prensa Obrera, 31/01/02).
Proprio per la paura che hanno della potenziale influenza del movimento piqueteros presso i lavoratori attivi, i dirigenti della Cta e della Ccc (corrente classista e combattiva, i cui dirigenti hanno origini maoiste) continuano ad ostacolare la convocazione della terza assemblea nazionale dei piqueteros.
Anche in Argentina sono i lavoratori dipendenti, potendo impadronirsi delle leve dell’economia, che devono assumere il ruolo guida nel cambiamento rivoluzionario: gli organi del potere alternativo, socialista, devono detenere un preciso connotato di classe.
Le assemblee che si stanno formando tendono automaticamente a porsi il problema del potere, almeno su scala locale: organizzano rifornimenti, battono moneta, ecc. Se in questi organismi verrà integrata una rappresentanza diretta dei lavoratori in quanto classe, cioè basata sui luoghi di lavoro, allora potranno trasformarsi in una nuova edizione dei soviet.
Assemblea Costituente?
In un contesto del genere la proposta avanzata da diverse organizzazioni della sinistra, tra cui il PO, di “un Assemblea Popolare costituente che si faccia carico della riorganizzazione politica e sociale del paese” (Bollettino del PO, 02/02/02), anche se giustamente affronta il nodo di chi debba amministrare il potere statale, ci pare ambigua, soprattutto per la spiegazione teorica che lo stesso partito fornisce.
L’appello per una Assemblea costituente “sovrana” sarebbe “una alternativa transitoria o transizionale di potere che potrebbe essere la via che educhi e prepari le masse alla lotta per un proprio governo dei lavoratori.” (Prensa Obrera, 07/12/01).
Trotskij spiegava nella Storia della rivoluzione russa che l’Assemblea Costituente costituisce “la forma più democratica di rappresentanza parlamentare“, ma sempre all’interno del capitalismo.
Si afferma che le assemblee popolari e quelle dei piqueteros dovrebbero “convertirsi in un potere del popolo sfruttato” (ibid., 02/02/02). Ma quale classe dovrebbe possedere l’egemonia all’interno del popolo? Dopo vent’anni di democrazia borghese, sicuramente imperfetta e corrotta, non si avverte il bisogno di una transizione a una democrazia borghese “migliorata”.
La democrazia necessaria è di tipo diverso, operaia, con delegati eleggibili e revocabili in ogni momento, con uno stipendio non superiore a quello di un lavoratore specializzato. Tale democrazia dovrebbe operare la transizione a un nuovo sistema economico, socialista, dove proprietà privata dei mezzi di produzione e logica del profitto siano spazzate via.
30 marzo 2002