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La terra trema. Il dissesto idrogeologico in Italia

di Massimiliana Piro

“Attraverso la propria esperienza molti scienziati arriveranno alla conclusione che l’unico sbocco allo stallo sociale, culturale ed economico è attraverso un qualche tipo di società pianificata, in cui la scienza e la tecnologia siano messe a disposizione dell’umanità e non del profitto. (…)” Ted Grant e Alan Woods

Premessa

L’Italia è un territorio geologicamente giovane che inizia a formarsi appena 70 milioni di anni fa, e nel quale i rilievi (in particolare quelli dell’Appennino) stanno ancora innalzandosi, mentre le pianure tendono ad abbassarsi riempiendosi dei sedimenti depositati dalle alluvioni. Dunque, l’Italia non è stata livellata dall’erosione nel corso di centinaia di milioni di anni, come è accaduto, ad esempio, a vaste, e geologicamente stabili, aree del Nord Europa, e presenta tutte le tipologie di rischio geologico ed idrogeologico collegate alla formazione delle catene montuose.

Questo significa che mentre nel Nord Europa i rischi prevalenti sono principalmente quelli causati dalle alluvioni e dai possibili disastri dovuti alle dighe ed è necessario investire quasi esclusivamente in questa direzione, in Italia occorrono investimenti decisamente superiori per rendere accettabile il livello di rischio in quanto, oltre alle alluvioni e alle problematiche dovute alla gestione delle dighe, occorre fronteggiare anche eventi franosi più diffusi e distruttivi, terremoti ed eruzioni vulcaniche. Appare, dunque, evidente che l’unico strumento con cui si può rendere accettabile il rischio derivante da questa difficile convivenza è quello di riuscire a programmare azioni volte alla prevenzione e di avere a disposizione con continuità – e non in emergenza – i fondi per attuarle.

Ad esempio, grazie ai progressi compiuti nei campi della sismologia e dell’ingegneria sismica nella seconda metà dello scorso secolo il numero delle vittime dei terremoti è stato ridotto, a livello mondiale, di un quarto, nonostante la popolazione sia quasi raddoppiata.Tuttavia questo obiettivo è stato raggiunto solo in un numero limitato di paesi a rischio sismico, quelli più ricchi; per estendere il risultato a livello planetario la comunità internazionale dovrebbe programmare e realizzare l’adeguamento antisismico a partire dalla aree del pianeta a rischio più elevato.

Per il fronte riformista questo significherebbe convincere i capitalisti che possono fare dei buoni profitti anche investendo nella tutela ambientale, o per dirla con il loro linguaggio “far passare l’idea che sia altrettanto remunerativo spostare l’investimento di capitali da settori e comparti a elevata redditività economica, ma a scarsa o nulla redditività sociale, a un campo di interventi ed azioni a buona redditività economica diretta, a elevata redditività economica indiretta e a elevatissima redditività sociale (come tutte le azioni volte a restituire vivibilità all’ambiente e dare sicurezza al territorio)2. Purtroppo le leggi del profitto non sono governabili, così quanto oggi potrebbe sembrare dettato dal buon senso si rivela molto più utopico ed arduo da attuare che seguire la strada della rivoluzione, mettendo nelle mani della classe lavoratrice il potere politico e le risorse economiche necessarie nel campo della prevenzione ambientale e della sicurezza del territorio, con il pieno coinvolgimento ed il controllo democratico delle popolazioni.

Il concetto di rischio accettabile

Ma vediamo cosa significa rendere un rischio accettabile partendo dal concetto stesso di rischio. Sulla superficie di Marte vi è il più grande vulcano del sistema solare, alto ben 260 chilometri, ma fino a quandonon sorgeranno basi spaziali nell’area interessata dalle eruzioni,il rischio vulcanico su Marte sarà uguale a zero. Questo in quanto il concetto di rischio “è strettamente collegato con la possibilità di misurare un danno. Quindi è un concetto che si riferisce quasi esclusivamente all’uomo, ai suoi insediamenti e alle sue attività produttive.3 Ancora “il rischio è relativo alla quantità di persone, di risorse, di beni ambientali, di valori paesaggistici esposti.Il rischio viene, dunque amplificato dai livelli di antropizzazione di un dato territorio esposto.4

E’ noto, ad esempio, il caso del Vesuvio, che non sarebbe ad elevato rischio sea partire dall’epoca dei governi democristianinon si fosse costruito così tanto e così male, senza garantire adeguatamentela possibilità di un rapido esodo della popolazione. Ci fu chi cercò di opporsi all’assenza di una pianificazione urbanistica e al conseguente aumento del rischio come, ad esempio, il consigliere comunale comunista Mimmo Beneventano, ammazzato dalla camorra nel 1980 in quanto il sistema di potere democristiano e la rete di interessi dietro ad esso non ammettevano opposizioni di sorta.

Ma, come spiega Ugo Leone, “esiste un rischio accettabile? C’è un livello di accettabilità rischio per rischio? Ad esempio, che cosa significa il ricorrente slogan No risk, no Energy? Significa che non esiste produzione di energia che non abbia la probabilità di alimentare un rischio per la popolazione, per gli animali, per l’ambiente in generale.Dunque, se – come unanimemente affermato – non esiste rischio zero, bisogna anche scegliere quali rischi valga comunque la pena di correre, dati gli obiettivi che si intende raggiungere e dei quali non si ritiene di poter fare a meno. E’ proprio questo il concetto di rischio accettabile5

La scelta degli obiettivi da raggiungere presupponenecessariamente un ampio dibattito democratico ed una pianificazione che possa articolarsi su ciò che è prioritarionell’interesse delle specie viventi e del benessere generale, e  di non esserecontinuamente sabotata dalle leggi del profitto, come avviene nella società capitalista. Ad esempio nel dopoguerra si poteva senz’altro ricostruire e costruire alle pendici del Vesuvio, ma occorreva farlo sulla base delle conoscenze scientifiche già acquisite e quindi ponendo precisi limiti alla densità di popolazione, costruendo edifici antisismici e progettando una viabilità adeguata ad una rapida evacuazione dell’area, azioni che gli interessi economici delle lobby dei costruttori, spalleggiate dalla camorra, impedirono allora e continuano ad impedire oggi (la lotta per ridurre la densità abitativa e combattere l’abusivismo edilizio non ha fin qui avuto i risultati sperati ed in queste condizioni l’allerta in caso di eruzione potrebbe non essere sufficiente a garantire del tutto la sicurezza degli abitanti).

Solo in una società socialista, grazie all’espropriazione del grande capitale, le aree a più alto rischio geologico ed idrogeologico del pianeta potrebbero ricevere costanti ed adeguati finanziamenti a livello internazionale.

Terremoti d’Italia

Scriveva il sismologo Enzo Boschi, purtroppo recentemente scomparso: “Negli ultimi 3500 anni gli italiani hanno subito più di 30mila terremoti, perciò dovrebbero essere abituati al sisma e aver appreso come difendersene. Eppure ogni volta che si presenta, in media ogni quattro-cinque anni, è accolto con fatalismo e rassegnazione. Al punto che nella storia secolare d’Italia si potrebbero cogliere le costanti scandite dal “dopo-terremoto”: popolazioni abbandonate a sé stesse, ricostruzioni avviate e puntualmente fallite, ruberie e vessazioni.6

Nonostante i criteri di costruzione antisismica adottati a Messina dopo il terremoto del 1908 siano stati presi a modello dal Giappone, in Italia, come nella maggior parte dei paesi a sismicità elevata le leggi del profitto non consentono di attuare adeguate politiche di prevenzione e si torna inesorabilmente alle “costanti del dopo-terremoto”. Ad esempio nelle Marche in seguito allo sciame sismico del 2016, gli edifici inagibili sono 50mila, di questi 40mila hanno riportato danni gravi7 mentre i progetti di ristrutturazione fin qui approvati non superano la decina. Non solo ma le casette provvisoriesono state costruite così male (acqua calda non funzionante, infiltrazioni dai tetti ecc.) chetanti preferiscono trasferirsi altrove.

Se si guarda al numero delle vittime provocate dai terremoti tettonici in Italia dal dopoguerra al 1990 esse sono 41608, cui bisogna aggiungere le diverse centinaia di vittime dei terremoti successivi al 1990. Sesi spinge solo un po’ più avanti lo sguardo, cercando di ipotizzare l’entità dei futuri grandi terremoti, in particolare in Sicilia ed in Calabria, il numero delle vittime potrebbe essere anche dell’ordine delle decine di migliaia.Questo nonostante dopo il terremoto del 1980, su forte iniziativa di esperti di area comunista9, sia stata compilata in Italia una classificazione delle zone sismiche che individua precise priorità e consente di programmare gli interventi a partireda quellestoricamente interessatedai terremoti più distruttivi,che ricorronoin media ogni 50 anni.
Fa esplicito riferimento ad una di queste aree il geologo Mario Tozzi, in occasione deiterremoti di origine vulcanica del dicembre 2018 a Catania, spiegando che mentre quelli avvenutisono stati “terremoti con ipocentro poco profondo e magnitudo relativamente bassa”, ben diversi sono “quelli che, invece, di origine tettonica, fanno della Sicilia Sud-Orientale la zona più pericolosa d’Italia. (…) Questi terremoti sono causati dai movimenti lungo un enorme spaccatura, lunga 300 chilometri, che costeggia la Sicilia Orientale (la scarpata di Malta) e sarebbero in grado di causare decine di migliaia di morti nel capoluogo etneo, uccidendo quasi la metà della popolazione e radendo al suolo una città che non è assolutamente preparata a reggere l’impatto di quello che potremmo (impropriamente) chiamare il nostro Big One.10

Che i paesi etnei non siano preparati appare chiaro anche dall’entità dei danni provocati dai terremoti di bassa energia del 2018. Va specificato che un livello di rischio così elevato è da paese tecnologicamente arretrato e non in grado di adeguate politiche nei campi dell’ingegneria antisismica, delle tecniche edilizie e della pianificazione urbanistica. Fondamentale, in particolare nelle aree della Sicilia e della Calabria, sarebbe anche la gestione di quei sistemi di preavviso che purtroppo non hanno funzionato nel caso del maremoto del dicembre 2018 in Indonesia e che possono risultare decisivi per ridurre il numero delle vittime causate dagli tsunami.

In tempi di crisi quasi nessuno può permettersi misure classiste come il sisma bonus, il sistema di detrazioni fiscali per chi effettua a proprio carico i lavori di ristrutturazione. Anche quanti possono permettersi d’intervenire sugli edifici danno priorità ad evitare che cadano i calcinacci ed al risparmio energetico: ad esempio nel 2014 sono stati spesi 17 miliardi per le ristrutturazioni, 3,3 per la riqualificazione energetica e solo 240 milioni per la messa in sicurezza sismica11.

Evidenti le responsabilità delle classi dirigenti nel caso di scuole, ospedali ed altri edifici pubblici; le mappe ci sono, le indicazioni sono chiare ma gli interventi di adeguamento antisismico non vengono effettuati, come risulta anche da un recente rapporto del MIUR dal quale emerge che 9 scuole su 10 non sono antisismiche. Rispetto ai costi, da un’intervista al geologo Mario Tozzi risulta che: “La stima per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano è intorno ai 300 miliardi”. Una cifra realisticamente non spendibile ma ammortizzabile negli anni a venire se spalmata in un piano strutturale più esteso. “Con un paio di miliardi all’anno qualcosa la fai ma se non inizi mai, non finisci mai.12

Questa è una stima della cifra minima che servirebbe, mentre il Piano nazionale per la prevenzione del rischio sismico previsto dall’articolo 11 della legge 77 del 2009, approvata dopo il terremoto dell’Aquila, destina a questo scopo solo 965 milioni di euro in 7 anni (dal 2010 al 2016). Dunque meno del 7% della spesa minima che sarebbe necessario stanziare annualmente. Inoltre per utilizzare bene le risorse servirebbe una cabina di regia nazionale che stabilisca le priorità, a partire dalle aree a maggior rischio. Inoltre “Abbiamo un sistema di Protezione Civile tra i più avanzati ed efficaci ma molti comuni non hanno mai attivato i sistemi di monitoraggio e allerta o recepito il sistema di allertamento regionale con le attività di informazione alla popolazione e le esercitazioni. Occorre investire concretamente in una vasta opera di prevenzione che preveda una campagna di informazione capillare, che consenta ai cittadini di poter mettere in pratica i comportamenti  più idonei nell’emergenza13. In particolare va specificato che quasi la metà dei comuni della Sicilia è priva di quei piani di protezione civile che potrebbero contribuire a ridurre il numero delle vittime, a cominciare dalle zone a rischio sismico elevato della Sicilia orientale.

Vulcani d’Italia (e non solo)

I vulcani possono dare eruzioni più o meno esplosive. “La violenza di un’eruzione si misura con il Volcanic Explosivity Index (VEI), compreso in una scala che va da zero (eruzione non esplosiva) a 8 (megacolossale). La creazione di una scala che assegnasse alle eruzioni un indice di esplosività è molto recente, essendo utilizzata solo dal 1982. (…) A mezza strada tra i due estremi vi sono eruzioni definite pliniane (VEI 5) come, appunto, quella del Vesuvio nel 79 d.C.14

In Italia i vulcani si concentrano nel meridione, quelli più pericolosi in Campania e sono il Vesuvio ed i Campi Flegrei. Le altre aree vulcaniche attive sono: Etna ed Isole Eolie in Sicilia e vulcani sottomarini sul fondo del Tirreno tra Campania e Sardegna, tra questi ultimi il Marsili che potrebbe causare frane sottomarine e conseguenti maremoti.

Il Vesuvio è un vulcano che ha dato frequenti eruzioni in epoca storica, la quasi totalità delle quali con VEI molto inferiore a 5, eruzioni intervallate da periodi di quiete come quello attuale. Come già scritto l’elevato rischio raggiunto dal Vesuvio è dovuto principalmente alla densità abitativa delle popolazioni che vivono ai suoi piedi; la prevedibilità, infatti, anche nel caso di eruzioni di tipo esplosivo, può consentire di mettere in salvo la popolazione, ma se l’area esposta è stata densamente popolata ed urbanizzata, i beni immobili non possono essere salvati15.

In genere le eruzioni vulcaniche sono precedute da sismi che in prossimità del vulcano possono essere anche significativi, dunque una prima forma di prevenzione consiste nella messa in sicurezza degli edifici, a partire da quelli pubblici come scuole ed ospedali. Più in generale per il rischio vulcanico “la prevenzione consiste essenzialmente nella pianificazione urbanistico-territoriale dell’area esposta con l’obiettivo di non superare determinati livelli di densità di popolazione.16
A rischio elevato e problematica è l’area flegrea, che diede luogo in epoca storica, nel 1538, all’eruzione che portò alla formazione del cono del Monte Nuovo, nel corso della quale persero la vita quasi tuttigli abitanti di un piccolo borgo medioevale. Oggi il costante monitoraggio può consentire di evitare vittime (non danni) nel caso del ripetersi di eruzioni con tali caratteristiche. Ma la problematicità dell’area è tutt’altra ed è dovuta alla possibilità che possa verificarsi un’eruzione con caratteristiche megacolossali come quella che avvenne 39mila anni fa e che secondo alcuni recenti studi accelerò l’estinzione dell’uomo di Neanderthal.

La periodicità stimata per questo tipo di eventi è di 10mila anni, quindi un periodo ben più lungo di altri tipi di eruzioni, per cui il fenomeno potrebbe ripresentarsi anche fra millenni, ma la distruttività di questo tipo di fenomeni, oltre a radere al suolo interi centri abitati e vasti territori della Campania, andrebbe ben oltre la nazione in cui si generano (da cui il titolo del paragrafo). Infatti, nel caso dell’eruzione avvenuta 39mila anni fa, pare che le ceneri emesse dai Campi Flegrei abbiano impedito ai raggi solari di raggiungere l’Europa e parte dell’Asia per almeno due anni, con drastici abbassamenti delle temperature, carestie e piogge acide. A subirne gli effetti diretti ed indiretti più devastanti furono gli uomini di Neanderthal, le cui popolazioni, da quel momento, si ridussero alla sola penisola iberica.

Sarebbe, dunque, importante definire meglio le aree che possono essere oscurate in caso di eruzioni megacolossali dalla decina di vulcani terrestri che possono dare luogo ad eruzioni con queste caratteristiche. Questo anche per la scelta delle fonti energetiche alternative in quanto perle aree oscurate dalle ceneri potrebbe divenire fondamentale puntare prioritariamente sualtre rinnovabilirispetto al solare, mentre in altre aree del pianeta il solare potrebbe diventare la fonte principale. E’ evidente che un simile livello di programmazione e pianificazione a livello globale non è nemmeno immaginabile nell’attuale mondo capitalista, dove non siamo ancora interamente riusciti a liberarci di fonti energetiche obsolete e dannose come il carbone.

Il dissesto idrogeologico in Italia

I fenomeni di dissesto idrogeologico sono quelli dovuti all’interazione tra le acque ed il suolo e/o il sottosuolo e sono frane, alluvioni, arretramento dei litorali e fenomeni locali di subsidenza (sprofondamento o abbassamento del terreno). In base a dati ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) sono 7.145 (l’88% del totale) i comuni italiani che hanno almeno un’area classificata come ad elevato rischio idrogeologico, corrispondenti a circa il 15,8% del territorio italiano.

Le alluvioni sono fenomeni naturali che non solo non si possono fermare ma i cui depositi, accumulandosi nelle grandi piane in sprofondamento, contrastano l’ingresso del mare. Del resto, com’è esperienza comune, nel corso dei secoli il destino degli edifici è stato quello di essere coperti da depositi alluvionali e ricostruiti più in alto. Se questi fenomeni non si possono fermare si possono però adottare delle misure per ridurre il numero delle vittime e per limitare i danni. Allo stesso modo è impossibile fermare, in generale, i processi franosi che è però possibile contrastare localmente con interventi di tipo non strutturale (maggiore vigilanza sugli incendi, misure di allerta ecc.) e con opere di tipo strutturale. Il problema, come già scritto, è come rendere accettabili i rischi, derivanti da questi fenomeni, non aggravandone gli effetti. Questo significa prioritariamente:

•fermare i condoni edilizi e adottare politiche abitative che consentano l’uscita dal fenomeno dell’abusivismo ed una progressiva riduzione della densità abitativa nelle zone rosse (quelle a più elevato rischio);

•prevedere(ed applicare) i piani di protezione civile che consentono di mettere in salvo le popolazioni in emergenza;

•prevedere opere di messa in sicurezza che non aggravino i rischi;

•una diversa progettazione urbana e soluzioni innovative per rischi come quello alluvionale.

Quanto avvenuto dopo le frane di Sarno (SA) del 1998 può chiarire bene cosa significhi aggravare, invece di ridurre, il rischio17. La tragedia di Sarno si verificò nella notte tra il 5 ed il 6 maggio del 1998, oltre 2 milioni di metri cubi di materiali franarono dalle montagne, con velocità dell’ordine dei 10 metri al secondo, investendo gli abitati di Sarno, Siano, Quindici, Bracigliano e San Felice a Cancello. Le vittime complessive furono 160, furono distrutte 180 case e ne furono danneggiate oltre 450.

Eppure nello stesso anno di questa immane tragedia i vigili urbani scovarono ben 74 cantieri abusivi in zona rossa, seguiti da centinaia di altri negli anni successivi, ed un cittadino su tre di questi territori ha fatto richiesta di condono. Già, perché invece di mettere in campo una seria opera di prevenzione, negli ultimi venti anni i governi succedutisi hanno pensato bene di approvare ben 3 condoni edilizi, ai quali l’attuale governo ne ha aggiunti altri 2, uno dei quali condona, ad Ischia, specificamente gli edifici esposti a rischi idrogeologici. Purtroppo non ebbe alcuna percezione del rischio nemmeno l’ex-sindaco di Sarno, Gerardo Basile, condannato dalla magistratura per omicidio plurimo colposo, in quanto pur disponendo di un piano di protezione civile approvato 3 anni prima, non fece evacuare le abitazioni nel corso delle frane, come fece invece il sindaco di Quindici. Questo nonostante già dopo le ore 16 del 5 maggio fosse chiaro che le colate di fango stavano assumendo una gravità sempre maggiore. Grazie all’evacuazione a Quindici il numero delle vittime fu molto minore, dieci persone che avevano rifiutato di lasciare le loro abitazioni, mentre a Sarno le vittime furono ben 137.

Dopo le frane furono presi dei provvedimenti di “messa in sicurezza” degli abitati, ma da allora la situazione si è aggravata e non solo perché ci sono nuove case costruite in zona rossa. Infatti fra le cause che provocarono le frane vi furono gli incendi che riducono la tenuta della vegetazione sui terreni e che puntualmente si ripetono in estate, non essendo state intensificate misure antincendio per questi versanti (né per gli altri della Campania su cui poggiano i terreni all’origine di questo tipo di frane).

Non solo, ma la “messa in sicurezza” avviata dal Commissariato straordinarionel 1998, con opere di tipo strutturale, si è tradotta in una colata di cemento, con un complesso sistema di canalizzazioni edi vasche nelle quali, non si capisce in base a quali criteri, le colate di fango dovrebbero scegliere di accomodarsi e per le quali è prevista una manutenzione costosa e rimasta inattuata. Più probabilmente le nuove frane passerebbero sopra e/o altrove rispetto alle opere in cemento, con la possibilità di raggiungere le aree abitate. Nonostante fossero raccomandate da ambientalisti ed esperti già nel 1998, non sono state invece adottate soluzioni basate sulla natura (NBS)18 meno costose ed utili per aumentare la tenuta dei terreni. Trascorsi gli anni dell’emergenza, lascia a desiderare anche la vigilanza sulle aree di possibile distacco di nuove frane.

Aggravano la situazione, a Sarno come nelle altre aree ad elevato rischio, anche le conseguenze dell’effetto serra. Da tempo gli esperti segnalano che in seguito all’aumento delle temperature terrestri c’è una maggiore energia disponibile e che ciò espone ad eventi estremi sempre più distruttivi, motivo per il quale è sempre più necessario un piano nazionale di adattamento al clima.
Come accennato, in occasione dell’alluvione che tra fine ottobre e gli inizi di novembre 2018 ha colpito l’Italia, anche il cosiddetto “governo del cambiamento” si è schierato dalla parte di coloro che aggravano i rischi idrogeologici, con dichiarazioni ed azioni ad esclusivo beneficio delle lobby del cemento. Infatti, nell’evento del 2018 il maggior numero delle vittime sono state causate da “un normale nubifragio autunnale, violento ma non catastrofico (60 millimetri di pioggia in Sicilia). Ben 9 le vittime a Casteldaccia (Palermo), dove il torrente Milicia ha sommerso una villetta abusiva costruita proprio dentro il corso d’acqua, oggetto dal 2008 di un’ordinanza di demolizione mai eseguita. Il Comune di Casteldaccia non ha un piano di protezione civile per evacuare la popolazione in caso di pericolo.(…) Da un dossier di Legambiente risulta che in Italia sono 71mila le ordinanze di abbattimento di cui l’80% non eseguite, come a Casteldaccia, percentuale che sfiora il 100% in alcune regioni del Meridione (97% in Campania). Quasi la metà dei comuni della Sicilia non ha un piano di protezione civile e non interviene a tutela della popolazione nemmeno nei casi più gravi, come quello di Casteldaccia.”19

In generale le pubbliche amministrazioni non assumono gli esperti che servirebbero per i presidi territoriali e per le azioni di prevenzione necessarie.

Alla cementificazione illegale, particolarmente nel centrosud, se ne aggiunge una legale nel centronord dove, in base ai dati ISPRA, il consumo di suolo nel biennio 2016-2017 ha superato il 12% nel Veneto e nella Lombardia, governati dalla Lega, a fronte di un dato nazionale del 7,75%. Si aggiunga che in tutt’Italia, anche a seguito dei tagli, i comuni tendono a concedere qualsiasi cosa ai costruttori pur d’incassare gli oneri di urbanizzazione e far quadrare i conti. Sempre nella cementificazione legale va inserita quella operata sui corsi d’acqua con interventi che aumentano l’impatto delle piene, oltre alle impermeabilizzazioni dei suoli che possono favorire frane e dissesti.

Di fronte a tutto questo il premier Conte dichiara immediatamente che negli interventi si dovranno ignorare i vincoli ambientali, mentre il governo sceglie di proseguire in un vero e proprio assalto speculativo al territorio e ai fiumi italiani.

L’assalto speculativo inizia con ben due condoni nazionali nel “Decreto urgenze”: uno sul sisma in centro Italia ed uno sul sisma di Ischia che consente di condonare edifici esposti a rischi idrogeologici, cioè quegli stessi rischi per i quali hanno perso la vita le nove persone a Casteldaccia.

A ulteriore vantaggio delle lobby del cemento arriva poi un progetto di legge presentato dalla Lega alla Camera per riprendere a scavare gli alvei di fiumi e torrenti, nonostante lo stop da decenni a questa pratica pesantemente distruttiva, che aggrava i fenomeni di piena a valle e l’erosione delle coste. Il testo concede per tre anni poteri straordinari ai presidenti delle Regioni per dare ai privati l’autorizzazione ad estrarre “ciottoli, ghiaia e altre materie” dai fiumi, materiali che saranno donati ai cavatori, come compensazione del lavoro svolto; un bel dono ai cementificatori, se non fosse sufficientemente chiaro a favore di quali interessi stia agendo la Lega! Un progetto di legge in aperto contrasto con tutte le conoscenze e la normativa nazionale ed internazionale in materia; del resto è intuitivo, la soluzione non è quella di una profondità maggiore dell’alveo, che fa danno a valle e contiene volumi esigui di acqua, ma quella di aumentare il deflusso sotterraneo dei fiumi verso le falde, non ostacolandolo con le cementificazioni.

Anche la prevenzione dalle valanghe va attuata evitando di costruire nelle aree a rischio più elevato, come quella di Rigopiano.

La riduzione dei rischi idrogeologici ed in particolare del rischio alluvioni passa anche per una diversa progettazione urbana con soluzioni innovative, di tipo NBS, come quella realizzata a PotsdamerPlatz a Berlino20 dove un sistema di nuovi canali e zone umide di diverse migliaia di metri quadrati creano un piccolo “parco” urbano, un grande serbatoio in grado di accumulare oltre 4000 metri cubi di acque di pioggia, cui si aggiungono alcune centinaia di metri cubi che vengono immagazzinati nei tetti verdi degli edifici. Queste acque, purificate attraverso un sistema di fitodepurazione (un sistema di depurazione naturale delle acque) perfettamente inserito nel paesaggio urbano, vengono sollevate e distribuite per vari usi. Tra le soluzioni innovative per la difesa dalle mareggiate vi è invece la realizzazione di case su palafitte come realizzato negli Usa in località Bethany Beach, Delaware.

E’ però significativo che anche nei paesi capitalisti più avanzati l’adozione di queste soluzioni d’avanguardia sia ancora limitata e conviva con fenomeni molto più arretrati. Per cui in Giappone, dove esistono eccellenti strutture antisismiche, abbiamo assistito alla catastrofe della centrale nucleare di Fukushima del 2011. Anche negli USA, a fianco delle migliori tecniche di prevenzione contro i terremoti, per esempio in California, ci sono stati casi come quello dell’uragano Katrina nel 2005, che ha provocato più di 1.800 morti.

Il rischio dighe

In Italia ci sono quasi 11mila dighe21 delle quali solo 800 sono controllate dal Servizio nazionale dighe (SND) mentre le altre oltre 10mila non sono invece sottoposte alla manutenzione del SND perché considerate dalla legge “non sufficientemente grandi”. “Una diga, infatti, per rientrare tra quelle vigilate deve superare i 15 metri di altezza o contenere almeno 1 milione di metri cubi di acqua. Eppure il rischio idraulico a valle delle dighe è assimilabile a vere e proprie bombe d’acqua.22 Furono, infatti, 268 le vittime uccise da una di queste oltre 10mila dighe nel 1985 in Val di Stava (TN). Principale causa di questa tragedia fu il mancato investimento per la sicurezza da parte delle società che si sono succedute nella gestione della diga, né furono adeguati i controlli da parte degli enti locali23. Controlli che con le riduzioni di personale avvenute nelle pubbliche amministrazioni, ci si chiede quanto possano essere migliorati da allora.

Per un piano nazionale di riassetto idrogeologico

Sono 61,5 i miliardi di euro spesi tra il 1944 ed il 2012 solo per i danni provocati dagli eventi estremi nel territorio italiano. Per risarcimenti e riparazioni di danni da eventi di dissesto dal 1945 l’Italia paga in media circa 3,5 miliardi all’anno. Eppure sappiamo che 1 euro speso in prevenzione farebbe risparmiare fino a 100 euro in riparazione dei danni24. Le cifre che si spendono effettivamente in prevenzione abbiamo visto che sono irrisorie (per i terremoti, gli eventi più devastanti per numero di vittime e danni, meno del 7% della cifra minima che occorrerebbe), con una spesa per il riassetto del territorio che è da sempre tra le più esigue delle finanziarie.

Come scritto da Ted Grant ed Alan Woods in una società non pianificata non si riesce a mettere scienza e tecnologia a disposizione dell’umanità e non c’è da stupirsi se le indicazioni degli esperti non siano tradotte in adeguate e diffuse politiche di prevenzione. In una prospettiva socialista questo potrebbe avvenire mediante un piano nazionale di riassetto del territorio da coordinare con un piano di edilizia popolare attraverso il censimento e il riutilizzo delle case sfitte. Il presupposto è che finché gli alloggi resteranno dei beni d’investimento difficilmente si potrà attuare una programmazione urbanistica in grado di ridurre i rischi.

Questo vale in particolare nelle regioni meridionali, duramente colpite dalla deindustrializzazione e dalla crisi economica, nelle quali non a caso continua a dilagare l’abusivismo edilizio e, nonostante la gravità della situazione, non s’interviene con l’adeguamento antisismico. Diverso sarebbe se gli alloggi e la sicurezza degli stessi divenissero un diritto socialmente garantito e, attraverso il riutilizzo delle case sfitte, si potessero programmare gli abbattimenti degli edifici, a partire dalle aree a più elevata pericolosità e senza danno economico per chi vi abiti.

In quest’ottica diventerebbe più agevole anche una programmazione urbanistica che metta al centro la difesa dai rischi, non limitandola a progetti pilota nei paesi più ricchi, come il caso di PotsdamerPlatz a Berlino citato in precedenza.

Molte le informazioni che possono essere veicolate dai piani comunali di protezione civile, dal consiglio di recarsi immediatamente ai piani alti nel caso l’acqua s’innalzi rapidamente nel corso di precipitazioni consistenti e di non imboccare i viadotti se si è in auto, ai comportamenti da tenere in caso di terremoto. Non solo, ma come visto nel caso della tragedia di Sarno, evacuare in tempo le popolazioni può far scendere il numero delle vittime di un ordine di grandezza e più. E’ chiaro che costruire una cultura della prevenzione va contro gli interessi delle lobby del cemento ed è particolarmente difficile farlo laddove questi interessi sono più radicati nel tessuto economico.

Va aggiunto che a livello nazionale la normativa sulla protezione civile “ha finito per esitare in una scomposta esaltazione dell’emergenza preferendola rispetto al presidio del territorio, alla pianificazione, all’esercitazione e alla predisposizione di piani di soccorso, all’approntamento e alle sinergie di moduli operativi integrati.”25 Grave anche l’uso indiscriminato e antidemocratico delle ordinanze di protezione civile che viene fatto negli ultimi anni “che, tra l’altro, accentrano tutti i poteri nelle mani di un semplice funzionario dello Stato, che è chiamato a svolgere, temporaneamente, la funzione di Capo Dipartimento e di Sottosegretario, nonché commissario del G8; nonché commissario in pectore dell’expo 2015; nonché commissario dei grandi eventi papali; nonché commissario dei mondiali di nuoto; nonché commissario dei mondiali di ciclismo; nonché commissario straordinario della cultura e dei beni archeologici, nonché … – perché no -, futuro commissario della Repubblica italiana. Tale concentrazione di potere effettuale, in uno Stato repubblicano, non dovrebbe essere nelle mani di un funzionario dello Stato, che ha come aggravante di essere l’unico solo fiduciario e depositario di tanto potere.”26

Per i fiumi e per la difesa dalle alluvioni servirebbero soluzioni di gestione integrata secondo le tecniche, approvate a livello internazionale, basate sulla natura (NBS) e non certo con estrazioni in alveo, tagli ad una vegetazione che contribuisce a trattenere materiale nel corso delle piene ed ulteriori colate di cemento che purtroppo gli enti preposti continuano spesso a privilegiare sulla spinta delle lobby del cemento.

Ancora, nel piano nazionale di riassetto del territorio la questione climatica assumerebbe finalmente la dovuta centralità, questo sia grazie al coordinamento con altri piani come quello energetico per l’uscita dalle fonti fossili, che mediante l’elaborazione e la progressiva attuazione dei piani di adattamento al clima.

Trotskij scriveva che “L’economia pianificata ha bisogno della democrazia come il corpo umano ha bisogno dell’ossigeno” e l’ossigeno del piano nazionale di riassetto del territorioè chiaramente il percorso costruito dal basso, di cui sarebbero protagonisti i lavoratori del settore edile, i giovani disoccupati, le popolazioni, gli ambientalisti e i tecnici. Da qui potrebbe nascere un piano socialista di nuova edilizia pubblica che, essendo finalizzata al benessere generale, potrebbe riuscire laddove l’attuale sistema fallisce.

Una nuova edilizia pubblica in grado di mettere in sicurezza gli abitati a partire dagli adeguamenti sismici di scuole, ospedali ed edifici pubblici nelle aree a rischio più elevato; di riallocare nelle aree più sicure le popolazioni garantendo il loro pieno coinvolgimento in tutto il processo decisionale; di ridurre le superfici impermeabilizzate, facilitando il deflusso delle acque nel sottosuolo, e riportare alla luce i corsi d’acqua urbani, come è stato fatto a Zurigo; di prevedere serbatoi urbani per l’accumulo delle acque piovane come avviene a Potsdamer Platz a Berlino; di investire cifre adeguate nella prevenzione, garantendo la gestione e la riqualificazione ecoefficace di città e territori.

 

Bibliografia

Boschi, Enzo. Bordieri, Franco. Terremoti d’Italia. Milano: Baldini&Castoldi, 1998

Catenacci, Vincenzo. Il dissesto geologico e geoambientale in Italia dal dopoguerra al 1990. Roma: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992.

Conte, Giulio. Nuvole e sciacquoni. Milano: Edizioni Ambiente, 2008.

Davis, Mike. Olocausti tardovittoriani. Milano: Feltrinelli, 2010

Leone, Ugo. Fragile: il rischio ambientale oggi. Roma: Carocci Editore, 2015.

Leone, Ugo. Terra mia: estinguersi o evolvere? Napoli: Guida Editori, 2018.

Lucchi, Graziano. Stava perchè. Trento: Curcu& Genovese, 2005.

Sezione Problemi dello Stato della Direzione del PCI e del Gruppo del PCI della Regione Lazio. Protezione e difesa civile: esperienze e proposte di riforma: atti del convegno. Castelgandolfo, 16 ottobre 1981

Woods, Alan. Grant, Ted. La rivolta della ragione: filosofia marxista e scienza moderna. Milano: A.C. editoriale Coop, 1997.

 

Note

1 Cit. Leone 2015, p. 102

2 Cit. Leone 2015, p. 104

3 Cit. Leone 2018, p. 67

4 Cit. Leone 2018, p. 67

5 Cit. Leone 2015, p. 111

6 Cit. Boschi-Bordieri 1998, copertina

7 Cit. DiVito, Mario “Ancora in attesa delle casette e i riflettori si sono spenti” Il Manifesto 7 gennaio 2018

8 Cit. Catenacci 1992, p. 276

9 “Insieme a D’Alessio prima ci domandavamo quale effetto potrebbe avere la definizione della mappa dei rischi a proposito della speculazione edilizia. E’ evidente che se si facesse un’operazione del tipo giapponese, di cui qui ci è stato detto con molta efficacia, e cioè si indicasse chiaramente, pubblicamente, la sismicità del territorio e gli effetti che ciò può provocare, e l’opinione pubblica fosse messa in grado di capire, ma anche di controllare, credo che si darebbe un colpo molto forte alla speculazione edilizia, a quella politica di rapina del territorio che è stata fatta in questi anni. E questo dato forse non spiega perché vi è un ritardo assai grave nell’apprestamento di tutto ciò che era ed è necessario per una efficace protezione civile?”

Cit. Ciofi, Paolo, p.101 da Sezione Problemi dello Stato della Direzione del PCI e del Gruppo del PCI della Regione Lazio. Protezione e difesa civile: esperienze e proposte di riforma: atti del convegno. Castelgandolfo, 16 ottobre 1981

10 Cit. Mario,Tozzi. “Quel mare di magma che scorre sotto Catania e la paura del Big One” Dossier in La Stampa 27/12/2018

11 Cit. Stella, Gian Antonio “Prendersi cura del paese” Corriere della Sera 30 dicembre 2018

12 Gargagliano, Daniele “Sisma, Mario Tozzi: Per sicurezza territori manca volontà politica” ofcs.report 31/08/2016

13 Cit. Muroni, Rossella “Prevenzione, la grande opera che serve davvero” Il Manifesto 25 agosto 2016

14 Cit. Leone 2015, pp 37-38

15 Cit. Leone 2015, p 108

16 Cit. Leone 2015, p 78

17 Dossier di Legambiente “FANGO Il modello Sarno vent’anni dopo” link: https://www.legambiente.it/contenuti/dossier/la-frana-di-sarno-venti-anni-dopo17

18 Si tratta di interventi che utilizzano e/o imitano i processi naturali e che possono servire da regolatori per le piene, filtri per gli inquinanti, opere strutturali per la difesa dalle frane ecc. Le NBS sono raccomandate a livello internazionale nel Rapporto Mondiale delle Nazioni Unite sulle Sviluppo delle Risorse Idriche 2018.

19 Cit. Piro, Massimiliana. “L’alluvione fa danni il governo di più” Rivoluzione n.51 – 21 novembre 2018

20 Cit. Conte 2008, p 76

21 Cit. Leone 2015, p 109

22 Cit. Leone 2015, p 109

23 Cit. Lucchi 2005, p 209

24 Dossier di Legambiente “FANGO Il modello Sarno vent’anni dopo” link: https://www.legambiente.it/contenuti/dossier/la-frana-di-sarno-venti-anni-dopo

26 Dossier CGIL link: https://www.fpcgil.it/linkres.php?obj=/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/0%252F1%252F5%252FD.9a81842fd81a97078867/P/BLOB%3AID%3D30748/E/pdf

27 Dossier CGIL link: https://www.fpcgil.it/linkres.php?obj=/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/0%252F1%252F5%252FD.9a81842fd81a97078867/P/BLOB%3AID%3D30748/E/pdf

 

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