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28 Gennaio 2025
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La storia è storia di lotta di classe – Un’introduzione al materialismo storico

di Emanuele Nidi

Il materialismo storico consiste nell’applicazione della filosofia marxista allo studio della società. A più di 150 anni dalla sua elaborazione, rimane un indispensabile strumento teorico per comprendere la realtà e trasformarla. La chiave della concezione materialistica della storia sta tutta nella celebre frase di Marx: “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.”

Marx ed Engels hanno preso le mosse da un concetto piuttosto intuitivo: chiunque deve, prima di potersi dedicare a occupazioni intellettualmente più stimolanti, provvedere a bisogni fisiologici elementari. Per quanto la Bibbia insegni che l’uomo non vive di solo pane (un’affermazione meno banale di quel che si potrebbe pensare), senza mangiare e bere sarebbe difficile occuparsi di scienza o arte. Questo significa che la chiave per comprendere i processi storici non può essere ricercata, come di solito avviene, nell’avvicendarsi di idee, interessi o aspirazioni individuali. Al contrario, il pensiero può svilupparsi soltanto a partire da determinate condizioni oggettive. Sottoposte a un’analisi materialista anche le idee che appaiono eterne e “naturali”, come quelle di famiglia, proprietà o moralità rivelano il loro contenuto storico, si mostrano per quello che sono: concezioni ideologiche che hanno avuto un inizio e avranno una fine, al pari della società che le ha generate.

 

La concezione materialistica della storia

Per poter rivendicare un valore scientifico, l’analisi della società deve partire dalle condizioni di esistenza della società stessa. Nella loro storia gli esseri umani, in misura incomparabilmente superiore agli altri animali, hanno dovuto contare sulla loro capacità di trasformare il resto della natura per poter garantire la sopravvivenza della specie e a questo scopo hanno elaborato nel corso dei millenni tecniche e strumenti sempre più avanzati. Questa capacità trasformatrice corrisponde a quelle che i marxisti definiscono “forze produttive” e costituisce l’unico parametro accettabile per misurare il progresso di una determinata società o, per utilizzare un termine più preciso, di un determinato modo di produzione. Lo sviluppo delle forze produttive ha permesso al genere umano di intervenire in modo più efficace sulla realtà e, soprattutto, di farlo con un dispendio sempre minore di tempo e di forze, organizzando conseguentemente nuove forme di divisione del lavoro. A partire da questa base si sono sviluppati tra gli individui determinati rapporti, che non trovavano fondamento nella loro volontà soggettiva ma nel ruolo ricoperto da ciascuno all’interno della vita economica.

Questi rapporti di produzione hanno costituito la struttura su cui si è potuta innalzare una sovrastruttura politica e culturale. Da un punto di vista materialista le ideologie, i rapporti giuridici e gli stessi apparati statali che sembrano ergersi al di sopra delle società non sono che espressioni più o meno mascherate di relazioni economiche. Perfino il caso, un fattore della massima importanza nella storia, può dispiegare i suoi effetti dirompenti solo entro i confini stabiliti da determinate condizioni materiali. Chiaramente il rapporto tra la struttura e la sovrastruttura non deve essere inteso come una dipendenza meccanica, ma come una relazione dialettica tra due elementi che si influenzano l’un l’altro. Ma, in ultima analisi, la struttura ricopre il ruolo decisivo.

 

Nascita e declino della società di classe

È importante evidenziare come Marx non abbia elaborato questa concezione a tavolino, ma sia partito da un’analisi scrupolosa della società del suo tempo e di quelle passate.

Uno dei passaggi più incisivi del Manifesto del Partito comunista recita: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotta di classi.” Successivamente, Engels ha ritenuto opportuno aggiungere una nota correttiva: “O, a dir meglio, la storia scritta.” In effetti per la maggior parte della sua esistenza l’umanità ha vissuto in società senza classi sociali basate sulla caccia e il raccolto, uno stadio che i marxisti definiscono comunismo primitivo. Indubbiamente un modello molto distante da quella che oggi verrebbe definita “civiltà”, anche se è lecito supporre che i valori di solidarietà che animavano queste comunità fondate sulla cooperazione fossero di molto superiori, se non altro da un punto di vista etico, all’individualismo esasperato promosso dal capitalismo. In ogni caso si trattava, quantomeno nelle sue espressioni storiche più semplici, di un collettivismo basato su una faticosa lotta per la sopravvivenza.

Lo sviluppo nel tempo dell’agricoltura stanziale comportò una crescita senza precedenti delle forze produttive. Non è questa la sede per una discussione, anche sommaria, di questo processo epocale. Basti dire che proprio gli effetti di quella che l’archeologo Gordon Childe definì “Rivoluzione Neolitica” portarono alla comparsa delle classi sociali. Per la prima volta si generava un surplus che permetteva a uno strato privilegiato di distogliere l’attenzione dalle attività immediatamente rivolte al sostentamento per concentrarsi sulla scienza, l’arte e la religione. Ma questo straordinario avanzamento era basato sullo sfruttamento del lavoro umano e sul perfezionamento di nuovi strumenti di oppressione.

La lotta tra chi materialmente produce la ricchezza, cioè gli sfruttati, e chi se ne appropria è una costante di ogni società di classe. Marx studiò la traiettoria che portò in Europa dagli antichi modi di produzioni schiavistici, in cui la ricchezza era prodotta dal lavoro schiavile, fino al feudalesimo, basato sul lavoro servile. Chi abitava queste società era assolutamente convinto che il modo di vivere e lavorare del suo tempo fosse il solo concepibile e che sarebbe durato per sempre. In realtà, ciascuno di questi modi di produzione conobbe una fase di declino e un crollo finale.

Tra i meriti principali del materialismo storico vi è quello di aver individuato le cause profonde di questo processo di decadimento che attraversò sistemi così diversi tra loro, ricercandole nella contraddizione tra il modo di produzione da una parte e lo sviluppo delle forze produttive dall’altra. A un determinato livello di sviluppo i rapporti di produzione non riflettono più il contenuto materiale della base economica e ostacolano l’emergere di una nuova società già contenuta in embrione all’interno della vecchia. È proprio in questi momenti che la lotta tra le classi assume il carattere più acceso fino ad arrivare a un punto di rottura che traduce finalmente sul piano sociale e politico le trasformazioni maturate a livello economico.

L’esempio classico da questo punto di vista è la Rivoluzione francese. I rapporti di produzione feudali erano nella Francia del XVIII secolo superati oggettivamente dall’ascesa di forme di produzione e scambio di tipo capitalistico. Ma perché la contraddizione si risolvesse, non nei libelli illuministi ma nella realtà materiale del nuovo Stato francese, fu necessario che cadesse più di una testa (letteralmente). Dopo la rivoluzione la Francia avrebbe assunto le forme di organizzazione statale più diverse, alternando repubbliche, monarchie e dittature bonapartiste per quasi un secolo. Ma il nuovo carattere borghese dello Stato non fu messo in discussione.

Da molti punti di vista, le contraddizioni che portarono al crollo del feudalesimo in tutta Europa impallidiscono di fronte a quelle che attraversano il capitalismo. Nella sua fase di ascesa, il capitalismo ha svolto un ruolo storicamente progressivo, anche se questa affermazione può di primo acchito suonare tragicamente ironica. La creazione di un’economia capitalista globale fu possibile solo attraverso la guerra, la schiavitù razziale, lo sterminio di intere popolazioni, l’inferno della rivoluzione industriale. Ma questo meccanismo terrificante ha comportato uno sviluppo impetuoso delle forze produttive per una fase storica. Col capitalismo per la prima volta il genere umano ha conquistato i mezzi per soddisfare potenzialmente i bisogni sociali di tutta la popolazione del pianeta. Paradossalmente questo processo si è sviluppato all’interno dello stesso sistema che costringeva (e costringe tuttora) alla miseria una larga maggioranza, a tutto vantaggio di una microscopica minoranza di sfruttatori.

Karl Marx comprese fino in fondo le implicazioni di questa contradizione. Nei suoi scritti, dimostrò che nel capitalismo l’economia diventava globale, ma rimaneva condizionata dagli Stati nazionali; che la ricchezza era prodotta socialmente, ma appropriata da privati; che lo sviluppo del sistema poneva la classe che produceva quella ricchezza, la classe lavoratrice, nelle condizioni di prendere in mano le leve dell’economia e creare una società nuova. Una volta di più, i vecchi rapporti di produzione si erano trasformati in un ostacolo allo stesso sviluppo delle forze produttive. Così l’idea di un mondo senza classi e senza confini trovava un solido fondamento materiale, senza che la causa comunista perdesse un atomo della sua urgenza morale.

 

Il ruolo dell’attività cosciente

Fin dalle sue prime formulazioni, il materialismo storico è stato accusato di trascurare il ruolo delle idee e delle azioni umane, dando peso solamente all’elemento economico. Engels in persona ebbe modo di rispondere a queste distorsioni, scrivendo: “Secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta, insignificante, astratta, assurda.”

Limitarsi a ripetere che la produzione è alla base dei fenomeni sociali non basta. Come indicò Engels, in determinati momenti elementi sovrastrutturali possono esercitare un’influenza decisiva sul corso degli avvenimenti. In certe condizioni perfino i fattori psicologici di una singola personalità assumono un ruolo decisivo. Vivendo in un’epoca che ha testimoniato non una ma due volte l’ascesa di Donald Trump alla guida della principale potenza mondiale, sarebbe impossibile sottovalutare il peso storico delle peculiarità individuali, comprese le più grottesche.

Questo vale a maggior ragione se rivolgiamo l’attenzione a elementi sovrastrutturali di portata epocale come le guerre e le rivoluzioni. Nei momenti rivoluzionari, in particolare, l’attività umana cosciente si esprime in tutto il suo potenziale. Durante una rivoluzione le lavoratrici e i lavoratori, che in tempi “normali” si sentono impotenti di fronte alle grandi trasformazioni storiche, prendono direttamente la parola, sviluppano nuovi organismi di potere, superano pregiudizi secolari. Certo, questa attività creativa non deriva semplicemente da un mutamento arbitrario nella coscienza collettiva. Ancora una volta, le idee cambiano sulla base di una pressione sociale e tanto questa è forte (nel caso di un processo rivoluzionario, è incontenibile) tanto più l’effetto è simile anche su individui con caratteristiche molto diverse. Come osservò Lev Trotskij, al solletico le persone reagiscono in modo diverso; al ferro incandescente, invece, allo stesso modo. Ma se sono le circostanze materiali a generare l’evoluzione della coscienza, essa a sua volta esercita l’influenza più poderosa su quelle stesse circostanze arrivando a rovesciare i vecchi rapporti di produzione per crearne di nuovi.

Vale la pena sottolineare come questo esito sia tutt’altro che scontato. Il materialismo storico è in grado di dimostrare che le contraddizioni interne al capitalismo non possono essere risolte in forma progressiva se non con una rivoluzione socialista. Ma nessuna teoria di per sé può garantire che una rivoluzione, per quanto storicamente necessaria, avrà successo. D’altra parte se fosse così la militanza politica sarebbe del tutto inutile e basterebbe attendere pazientemente che lo sviluppo economico faccia il suo corso. In realtà, come gli stessi Marx ed Engels hanno osservato, la crisi di un modo di produzione può anche sfociare nella “comune rovina delle classi in lotta” e questo non è mai stato vero come nell’epoca di declino del capitalismo. All’interno di questo sistema ci attende un futuro di guerre, povertà e catastrofe ambientale. Al contrario, un’economia pianificata sotto il controllo democratico della classe lavoratrice aprirebbe la strada a una società fondata sulla condivisione delle risorse per il soddisfacimento dei bisogni collettivi, non più sulla base della scarsità come nel comunismo primitivo ma di una straordinaria ricchezza. Di fronte a questo bivio il motto di Rosa Luxemburg, socialismo o barbarie, assume un’attualità bruciante.

 

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