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La sconfitta dell’Isis in Siria

di Claudio Bellotti

La sconfitta dell’Isis in territorio siriano è ormai solo questione di tempo. Non solo lo Stato islamico ha dovuto abbandonare l’obiettivo di conquistare il paese, ma è ormai accerchiato da una coalizione di forze eterogenee, capaci però di respingerlo e di tagliare le sue vie di rifornimento. Nella stessa “capitale” del califfato in Siria, Raqqa, ci sono rapporti di primi movimenti della popolazione contro il governo dell’Isis. Si parla di manifestazioni, forse scontri armati, defezioni fra le truppe del califfato. Le notizie sono riportate da fonti russe, americane e degli Emirati Arabi Uniti.
Le truppe del califfato si disgregheranno. Una parte ritornerà in Iraq, dove godono per ora di una più vasta base di appoggio; un’altra cambierà bandiera trasformandosi in opposizione “moderata” nel tentativo di inserirsi nel nuovo scenario politico e militare creatosi dopo la tregua fissata da Usa e Russia; un’altra, probabilmente il grosso dei mercenari e dei volontari stranieri, cercherà altri paesi nei quali offrire i propri servigi. La Libia è il primo candidato.
La liberazione di parte del paese dall’occupazione del califfato e la tregua che per ora resiste permettono inoltre il ritorno di almeno parte della popolazione che era fuggita per sottrarsi al dominio dei fondamentalisti. Per quanto ancora limitato, questo controesodo rafforzerà ulteriormente le basi della tregua e darà sostegno delle forze anti Isis, compreso il governo di Assad.
Il precipitare della Siria nella guerra civile dal 2012 in avanti ha segnato il punto più nero della reazione nel mondo arabo dopo i movimenti rivoluzionari del 2011. Ora questo punto nero viene superato e ciò apre di nuovo lo spazio per movimenti di massa a carattere progressista e rivoluzionario nella regione.

Perché fallisce la jihad

L’idea della jihad globale che si contrappone all’imperialismo occidentale è sempre stata una falsificazione, sostenuta in modo speculare sia dalle formazioni fondamentaliste che dai portavoce dell’imperialismo. Questa rappresentazione non trova alcun riscontro nella storia dell’ultimo mezzo secolo.
Seppure l’idea della “guerra santa” può avere catturato il sostegno in settori deprivati della popolazione, così come nei ghetti delle metropoli europee fra i giovani immigrati di seconda o terza generazione, il fondamentalismo non è mai stato una rivolta dei poveri contro il sistema.
Non esiste “un” fondamentalismo il cui fine principale sia quello di unificare il mondo arabo o l’Islam e di lottare contro le potenze occidentali o “cristiane”. Questa può essere l’ideologia di qualche migliaio di fanatici o di volontari (nonché di mercenari) che fanno parte di queste formazioni. Ma il grosso di queste forze è sempre stato impiegato dalla classe dominante in primo luogo come strumento di lotta di classe, contro i movimenti rivoluzionari che hanno attraversato il mondo islamico, e in secondo luogo come strumento di espansione su basi nazionali, etnico-religiose, tribali, ecc. Infine è stato, ed è tuttora, uno strumento utilizzato di volta in volta da diversi paesi e da diversi settori della classe dominante per i propri fini, il più delle volte in accordo con l’imperialismo Usa in particolare.
È stato così per la madre di tutte le jihad, la crociata antisovietica montata negli anni ’80 in Afghanistan con il sostegno decisivo del Pakistan e degli Usa. È stato così per Al Qaeda, organizzazione costruita tra i volontari arabi che andarono a combattere in quella guerra; è stato così per i talebani che, in alleanza con Al Quaeda e con il sostegno del Pakistan, conquistarono Kabul nel 1996 basandosi anche sul nazionalismo pashtun ai due lati della linea Durand, uno dei tanti confini artificiali tracciati dall’imperialismo nei secoli XIX e XX, che divide l’Afghanistan e il Pakistan tagliando in due la popolazione pashtun.
Fu così per l’intervento di queste forze nel conflitto jugoslavo, in particolare in Bosnia e Kosovo, e nel Caucaso.
È stato così, infine, per l’ascesa dell’Isis, spinta dal sostegno saudita, qatariota, turco e Usa (ormai il fatto è noto e conclamato) nel tentativo di riequilibrare la crescente egemonia iraniana in Iraq, basandosi sul risentimento della popolazione sunnita. Ma l’Isis non ha mai goduto di un vero sostegno di massa e durevole. Ha imposto il suo dominio sul terrore e su una repressione particolarmente cruenta, ma più che uno Stato, sia pure embrionale, ha costituito una sorta di occupazione militare del territorio che si limitava a sovrapporsi alla struttura socioeconomica esistente, taglieggiandola per sostenersi sul piano economico. Assomiglia più a una banda di pirati che occupa una città che a un regime statale in formazione.
I diversi sostegni internazionali hanno fatto apparire l’Isis assai più forte di quanto non fosse in realtà. Un esercito in buona parte mercenario, con scarse basi di appoggio nella società (come dimostrano gli esodi di massa dalle zone che ha occupato), che è crollato nel momento in cui sono venuti meno i presupposti internazionali della sua ascesa.

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Le cause fondamentali di questo rovesciamento delle fortune del califfato si possono riassumere così:

1) L’impotenza degli Usa, impossibilitati a condurre un intervento di terra dopo le catastrofi delle guerre in Afghanistan e Iraq.

2) I limiti del sostegno saudita. La monarchia saudita ha tentato di sviluppare una propria politica smarcandosi in parte dalle esigenze statunitensi. Il risultato è che il regno è sull’orlo di una crisi profonda, economica (crollo del petrolio), interna (crisi sociale e malcontento crescente), estera (intervento in Yemen).

3) I limiti del sostegno turco. Erdogan ha apertamente sostenuto l’Isis garantendone le retrovie logistiche in Turchia, lasciando transitare il petrolio esportato e massacrando i curdi sia in Iraq che in Siria nel momento in cui questi resistevano vittoriosamente a Kobane, infliggendo all’Isis la prima vera sconfitta sul campo. Tuttavia questa politica avventurista di Ankara ha urtato contro i suoi limiti, riaccendendo una guerra feroce nel Kurdistan turco e provocando l’intervento russo. Erdogan ha messo in moto forze più grandi di quelle che può fronteggiare.

4) L’intervento russo è stato decisivo nel rovesciare i rapporti di forza sul campo, ma anche nel far emergere in piena luce i reali schieramenti del conflitto siriano. Ha costretto gli Usa ad abbandonare il proprio sostegno appena mascherato all’Isis; ha introdotto un cuneo tra Turchia e Usa; ha tolto ogni credibilità all’obiettivo Usa (ma anche francese e britannico) di rovesciare Assad.
L’attentato di Parigi, per quanto sanguinoso e spettacolare, non è stato altro che una manifestazione della debolezza crescente dell’Isis di fronte a un quadro che volgeva sempre più a suo sfavore.

La rivoluzione araba è ancora incompiuta

La cronaca militare e diplomatica, il gioco di scambi e voltafaccia, non si può capire se non si guarda alla condizione storica del mondo arabo e alla natura del capitalismo in questa regione.
Il dato fondamentale è l’incompiutezza della rivoluzione borghese e dello sviluppo capitalistico nel mondo arabo. A un secolo dalla Prima guerra mondiale e dalla fine dell’impero ottomano, la nazione araba rimane divisa. La borghesia araba non è stata in grado di superare i confini largamente artificiali tracciati dopo il ritiro delle potenze coloniali.
Sul piano economico questa borghesia si distingue per la sua natura estremamente parassitaria, particolarmente nei paesi del Golfo Persico, le cui cricche dominanti hanno accumulato enormi ricchezze col petrolio reinvestendole nella finanza internazionale o in progetti faraonici e grotteschi di natura puramente speculativa senza generare alcun reale sviluppo sociale. Costruiscono le torri più alte del mondo usando manodopera semischiava importata dal subcontinente indiano, comprano per il loro svago calciatori e altri giullari a prezzi favolosi, speculano sull’immobiliare a Londra o a Milano, e qui si esaurisce il loro contributo allo sviluppo economico e sociale dell’umanità.
Sul piano politico, gli apparati statali sono dominati dalle divisioni confessionali, etniche e tribali. Non solo sono regimi autocratici e dittatoriali, ma mantengono numerosi elementi di natura precapitalistica inestricabilmente intrecciati al dominio del capitalismo.
Sul piano internazionale, tutte queste cricche sono sempre state divise e in concorrenza tra loro, sempre pronte a vendersi all’imperialismo, unite solo nella paura delle masse e nell’odio per la rivoluzione.
Questa incapacità di costruire la nazione araba nelle condizioni del capitalismo moderno determina, inoltre, l’incancrenirsi di numerose contraddizioni nazionali, da quella palestinese a quella curda, strumentalizzate in diversi momenti da tutti questi regimi, ma mai veramente sostenute da nessuno di essi e più volte represse quando i movimenti di liberazione minacciavano di destabilizzare il loro dominio. Questo è particolarmente vero per il popolo palestinese.
Questo quadro generale non è ovviamente omogeneo. Nell’ultimo secolo quasi tutti questi paesi hanno visto grandi movimenti rivoluzionari nei quali le masse hanno tentato di scrollarsi di dosso il dominio imperialista, diretto e indiretto, cercando di affrontare questi giganteschi problemi storici lasciati irrisolti dallo sviluppo tardivo, parassitario e storicamente retrogrado del capitalismo nel mondo arabo. Basti citare qui la rivoluzione nasseriana in Egitto, la rivoluzione irachena, la guerra d’indipendenza algerina, la rivoluzione siriana e quella libica. Questi movimenti, tutti condotti sotto bandiere laiche e confusamente “socialiste”, hanno determinato ulteriori differenziazioni nel mondo arabo, le cui conseguenze sono visibili ancora oggi. Tuttavia anche i più avanzati fra gli esponenti del nazionalismo progressista arabo, come Nasser, si dimostrarono incapaci di completare una rivoluzione borghese arrivata troppo tardi sulla scena storica. Lo stalinismo e la burocrazia sovietica ebbero inoltre un ruolo determinante nell’impedire qualsiasi sbocco socialista alla rivoluzione araba, subordinando ovunque i partiti comunisti alla direzione dei partiti borghesi nazionalisti. Sul piano storico questi due fattori determinarono la sconfitta della rivoluzione araba1.
In particolare, dagli anni ’80 in avanti l’egemonia sulla regione è stata riconquistata dai settori più reazionari legati alla monarchia saudita, creando un grande vuoto a sinistra nel quale le forze fondamentaliste hanno costruito le loro fortune.

Le primavere arabe e la nuova situazione

La sconfitta dell’Isis in Siria apre oggi una nuova situazione. Nel 2011 giganteschi movimenti di massa hanno rovesciato i regimi in Tunisia e in Egitto, scuotendo tutto il mondo arabo. Tuttavia la “primavera araba” è entrata in stallo. L’assenza di un programma chiaro, di una direzione politica capace di portare il movimento fino allo sbocco rivoluzionario ha aperto la strada ad altri sviluppi. L’Egitto è passato prima sotto il governo dei Fratelli musulmani e, quando questo è crollato sotto la spinta di una nuova gigantesca mobilitazione di massa, l’esercito è riuscito ad elevarsi al di sopra del movimento, colpendo a destra e a sinistra con il classico metodo bonapartista per riportare il paese sotto il proprio controllo.
Dopo lo scoppio delle “primavere” arabe, tutte le potenze regionali e occidentali si sono precipitate a intervenire nel processo. Hanno scatenato la guerra civile in Siria, sono intervenute in Libia, hanno sostenuto le varie fazioni fondamentaliste gettando la regione in un nuovo caos sanguinoso.
Ma questi dolorosi passi indietro non sono stati la fine della storia, come erroneamente molti hanno sostenuto anche a sinistra.
L’imperialismo Usa è indebolito, i nuovi rapporti di forza che si stanno manifestando a livello mondiale con il ritorno della Russia e il crescente conflitto con la Cina, non permettono più al gendarme del mondo di comandare a suo piacimento. Al contrario, Obama e Kerry hanno dovuto fare il più umiliante dei voltafaccia, cercando la conciliazione con il “nemico” iraniano e accordandosi con la Russia in Siria nel tentativo di non essere di nuovo coinvolti nell’incendio mediorientale.
Ma soprattutto le masse arabe non hanno nulla da aspettarsi né dal fondamentalismo, né dai regimi cadenti che governano la regione.
La crisi economica spalanca nuove contraddizioni, persino la cassaforte del regime saudita rischia di svuotarsi con il tracollo del prezzo del petrolio. La pace sociale interna può essere mantenuta solo con la spesa pubblica, tanto che quest’anno il bilancio avrà un deficit pari al 15% del Pil. L’intervento brutale in Yemen (sul quale la stampa occidentale non spreca inchiostro) si è impantanato e costa sangue e denaro senza sbocchi visibili (tanto che ora si parla di possibile tregua), lo storico nemico iraniano guadagna terreno con la fine delle sanzioni e allarga la sua influenza in Iraq e in Siria… il regno è tutto tranne che stabile!

Il ruolo della Turchia e la questione curda

A partire dal 2011, Erdogan si è lanciato in una politica aggressiva e avventurista volta ad affermare l’influenza turca sia in direzione del Caucaso che nel mondo arabo. Dopo essersi ipocritamente atteggiato a protettore della causa palestinese ha attivamente sostenuto le forze islamiche in Egitto, Iraq e Siria ed è intervenuto nel conflitto libico assieme al Qatar. Seguendo questa strada tuttavia si è infilato in un vicolo cieco. L’accordo con la Russia sugli oleodotti, favorito dal conflitto ucraino, è saltato di fronte all’inconciliabilità dei rispettivi interessi in Siria.
Il regime di Ankara ha sostenuto attivamente l’Isis e soprattutto ha lanciato una feroce offensiva nel Kurdistan turco (anche qui assordanti i silenzi dei media borghesi in Europa) e sul confine siriano. Le provocazioni turche, compreso l’abbattimento di un caccia russo in Siria, non hanno tuttavia sortito l’effetto sperato. Gli Usa e la Nato non sono in condizione di sostenere la Turchia in un conflitto aperto con la Russia e, pur fra mille sospiri e invettive, hanno dovuto passare la mano.
Risultato del conflitto siriano è che nelle province curde in Siria si è radicato più che mai il sostegno alla milizia curda delle Ypg (Unità di difesa popolare), organizzazione sorella del Pkk, che oggi in Siria sono la seconda forza combattente per consistenza e, probabilmente, la prima per morale e compattezza. La difesa eroica e vittoriosa di Kobane contro l’Isis lo scorso anno ha suscitato ammirazione e sostegno a livello mondiale, riaccendendo l’attenzione sulla secolare lotta dei curdi per il diritto all’autodeterminazione.
La reazione sanguinosa dell’esercito turco ha causato migliaia di vittime e le città curde hanno subìto veri e propri assedi.
Ma il movimento per l’autodeterminazione curda ha radici profonde e conta su un sostegno popolare che nessuna repressione può cancellare. Il popolo curdo è da un secolo diviso fra quattro Stati (Turchia, Siria, Iran e Iraq), ma oggi due di questi, Iraq e Siria, non sono in grado di mantenere con la forza il dominio su questo popolo. Il regime di Erdogan tenta di farsi forza giocando sia 
la carta nazionalista, sia quella religiosa. Tuttavia su questa strada la base di consenso di Erdogan, che pure tuttora si mantiene soprattutto nella regione anatolica, culla della rivoluzione nazionale turca del secolo scorso, non potrà che logorarsi sempre di più. Nonostante la censura, la repressione, la propaganda nazionalista, la classe operaia turca non è disposta a lasciarsi trascinare in una nuova guerra infinita, della quale porterebbe tutto il peso in termini economici e sociali. I massacri perpetrati con gli attentati di Suruc e Ankara lo scorso anno, con la evidente complicità dei servizi di sicurezza turchi, hanno suscitato ripulsa e opposizione non solo fra i curdi di Turchia. Il movimento dei giovani di Gezi Park è una memoria ancora recente e non passerà molto tempo prima che la piazza torni a farsi sentire. Quando al movimento giovanile si unirà la classe operaia turca, suonerà l’ora della fine per Erdogan.
Nella disgregazione dei diversi Stati generata dalle guerre degli ultimi 25 anni, i dirigenti dei partiti borghesi curdi hanno manovrato nel modo più spregiudicato. Le élite borghesi curde che governano il Kurdistan iracheno (Upk e Dpk) non sono diverse da tutte le borghesie della regione. Hanno sempre manovrato tra le diverse potenze, Turchia compresa, cercando di ritagliarsi uno spazio di autonomia che garantisse loro un micropotere. La loro natura parassitaria e il loro autoritarismo le rendono del tutto incapaci di porsi alla testa di un autentico movimento popolare, anche se l’opposizione della popolazione curda all’Isis ha garantito una certa efficacia delle milizie curde irachene (i peshmerga) inviate a combattere contro l’Isis dopo che l’esercito ufficiale iracheno si era squagliato come neve al sole abbandonando Mosul al califfato.
Dalle manovre di queste cricche non può nascere alcuna reale indipendenza per il popolo curdo, ma oggi all’ordine del giorno c’è la possibilità di un movimento di massa che ponga la questione dell’autodeterminazione per i curdi su basi rivoluzionarie.

Conseguenze della sconfitta del califfato

La sconfitta dell’Isis in Siria non significa automaticamente la fine del conflitto o la scomparsa di questa forza reazionaria. Le forze che l’hanno alimentata non sono certo prosciugate e cercheranno su altri scenari la rivincita per la sconfitta siriana. La guerra tornerà a spostarsi verso l’Iraq, dove pure è probabile che il califfato venga seriamente indebolito, ma anche in Libia e Tunisia. Dalla Nigeria al Caucaso, non mancano certo i fronti sui quali combattere.
Anche gli attacchi terroristici in Europa sono destinati a ripetersi. Per compiere un massacro indiscriminato sparando tra la folla in una grande città non servono grandi mezzi né grande logistica, mentre è massima la risonanza mediatica e politica, che l’Isis tenterà di usare per coprire l’effetto politico della sua sconfitta in Siria.
Ma il messaggio fondamentale che arriva dalla svolta siriana è tutt’altro: la reazione non è invincibile, non è vero che il fondamentalismo è destinato a sommergere qualsiasi movimento di massa, e che l’unica alternativa è tra il califfato e l’imperialismo.
Le cause economiche e sociali che hanno generato le primavere arabe sono ancora tutte presenti. Particolarmente in Turchia e in Egitto, oltre che in Iran, la classe operaia ha un peso sociale determinante e lo ha già fatto sentire negli scorsi anni con scioperi di massa che hanno sfidato la repressione, in alcuni casi vittoriosamente. La gioventù, protagonista principale di tutti i movimenti di questi anni, non sarà disposta a restare ancora a lungo sotto il tallone della repressione, tanto più nel momento in cui lo spauracchio fondamentalista subisce una evidente sconfitta. Nella prossima fase la parola tornerà al movimento di massa, reso più consapevole e più maturo dalle drammatiche esperienze di questi anni.

 

aprile 2016

 

Note

1. A questo proposito si veda: Nazionalismo, movimento pan-arabo e ruolo dei Partiti comunisti. Alcuni cenni storici sulla rivoluzione coloniale nel mondo arabo AC Editoriale, Milano, 2010. Disponibile su: http://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/storia-delle-rivoluzioni/109-nazionalismo-movimento-pan-arabo-e-ruolo-dei-partiti-comunisti-alcuni-cenni-storici-sulla-rivoluzione-coloniale-nel-mondo-arabo.

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