La rivoluzione democratica nel Rojava. Limiti, potenzialità e prospettive delle lotte del popolo curdo.

Lettera aperta alla rete “Non una di meno”
6 Aprile 2017
L’improbabile riscossa liberale (con sinistra di complemento)
7 Aprile 2017
Lettera aperta alla rete “Non una di meno”
6 Aprile 2017
L’improbabile riscossa liberale (con sinistra di complemento)
7 Aprile 2017
Mostra tutto

La rivoluzione democratica nel Rojava. Limiti, potenzialità e prospettive delle lotte del popolo curdo.

di Andrea Davolo

 

La Rojava è l’esperienza politica che più speranze ed entusiasmo sta generando lungo tutto un settore di attivisti, soprattutto giovani, che vedono in questa esperienza e in questo modello la promessa non solo della sconfitta delle forze reazionarie che stanno dietro l’Isis, ma anche la possibilità più in generale dello sviluppo di un vero e proprio processo rivoluzionario in tutto il Medio Oriente.

“Rojava” significa “Occidente” e indica la parte occidentale della zona  curda che si trova in territorio siriano. Si compone di tre cantoni: Cizîrê, Kobanê e Afrin. Dal luglio 2012, c’è una sorta di auto-governo conosciuto come “autonomia democratica” che è stato stabilito dopo che le unità armate dello Stato siriano si sono ritirate dalla regione.

La forza politica principale in Rojava è il PYD, Partito dell’Unione Democratica, partito fratello siriano-curdo del turco-curdo PKK , il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Rojava è venuta all’attenzione di tutto il mondo grazie alla resistenza contro l’Isis durante la difesa della città di Kobanê nel 2014, resistenza armata che è stata portata avanti vittoriosamente proprio dalle organizzazioni militari legate al PYD e cioè l’YPG, l’Unità di Difesa Popolare e l’YPJ, l’Unità di Difesa delle Donne. Da allora molti a sinistra hanno presentato l’autonomia democratica in Rojava come una sorta di rivoluzione anticapitalista e hanno paragonato questa esperienza alla guerra civile spagnola del 1936-39.

Ocalan, dalla lotta di liberazione nazionale al confederalismo democratico

Fra i “popoli senza Stato”, i curdi sono quello più numeroso. Circa 4,5 milioni di curdi vivono in una zona prevalentemente compresa tra gli attuali stati di Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Solo nel nord dell’Iraq esiste un governo autonomo curdo introdotto in seguito della disintegrazione del paese avvenuta dopo la guerra di aggressione da parte degli USA e la caduta di Saddam Hussein.

Ma in Iraq l’autonomia curda, finanziata dai ricchi giacimenti di petrolio, è dominata da fenomeni di estesa corruzione ed è governata da partiti pro-capitalisti esplicitamente filo-Usa come il Partito democratico curdo (KDP) di Mas’ud Barzani e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) di Jalal Talabani. Entrambi questi partiti collaborano strettamente, non solo con gli Stati Uniti ma anche con il regime di Erdogan in Turchia. Questa cosa è particolarmente odiosa soprattutto se consideriamo che in Turchia, come anche in Iran, ai curdi vengono negati i più elementari diritti democratici.

All’interno della Turchia, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ha condotto la lotta per la liberazione nazionale a partire dalla fine degli anni 70, sotto la guida di Abdullah Ocalan, attualmente in carcere, in una cella di isolamento da 18 anni. Per molti anni questa lotta è stata perseguita con la guerriglia, impiegando i metodi del terrorismo. Più recentemente è stato però avviato un finto processo di pace  tra la Turchia e il PKK che infatti è poi stato interrotto da una campagna di attacchi aerei dei militari turchi sulle postazioni del PKK nel luglio 2015, come ritorsione contro le vittorie riportate sull’Isis in Siria. La reazione sanguinosa dello Stato turco, che aveva sostenuto attivamente l’Isis, ha causato migliaia di vittime e le città curde al confine con la Siria hanno subito dei veri e propri assedi. Mentre il PKK ha trascorso molti anni in lotta per uno stato curdo indipendente, si è recentemente allontanato da questa rivendicazione negli ultimi tempi, in seguito ad  un riallineamento politico seguito all’arresto di Ocalan nel 1999.

Il testo principale in cui Ocalan descrive la nuova teoria chiamata “confederalismo democratico” è “Al di là dello stato, del potere e della violenza”, scritto in carcere nel 2004. E’ importante approfondire la teoria esposta in questo testo perché l’autogoverno curdo in Rojava si basa esplicitamente sulle idee del leader e fondatore del PKK. Nei suoi scritti Ocalan non si occupa solo del movimento curdo, ma inizia fornendo un’interpretazione generale della storia, in cui rompe apertamente con la visione marxista. Ocalan infatti rifiuta il materialismo storico – e cioè l’idea che le società di classe  nelle varie forme successive (schiavismo, feudalesimo, capitalismo) si siano evolute attraverso lo sviluppo delle forze produttive – e sostiene che una società libera dallo sfruttamento si sarebbe potuta costruire in qualsiasi momento della storia, sulla base di una semplice volontà generale.

Ocalan continua a descrivere se stesso come un socialista; tuttavia, mentre il marxismo definisce il socialismo come la fase successiva al capitalismo, che è possibile costruire solo sulla base di un enorme sviluppo della tecnologia, della scienza e della produzione, Ocalan considera il socialismo come un ideale astratto di giustizia e di fratellanza. Così Ocalan ignora la base materiale richiesta dallo sviluppo del socialismo.  Il leader curdo sembra quindi essere tornato alle idee pre-marxiste del socialismo utopico, che vedeva  il socialismo come una necessità morale, non come il risultato della lotta di classe.

E difatti nei suoi scritti Ocalan arriva a respingere con forza la lotta di classe, sostenendo che quando gli interessi di una classe sono messi sopra quelli di un’altra, vi è sempre il rischio di una dittatura. Sembra che Ocalan voglia ignorare a tutti i costi il significato delle classi e della lotta di classe, perché sono concetti che non si adattano al suo concetto di “società senza classi spontanea”, che a suo dire è sempre esistita come contrappeso al dominio di classe e allo Stato, e che dovrebbe riaffermarsi in modo naturale.

Ocalan vede il sistema capitalista entrato in una fase caotica che si evidenzia soprattutto in Medio Oriente e che in Medio Oriente deve essere risolto.

La sua fissazione per il Medio Oriente suona un po’ mistica a volte, ma in considerazione della drammatica situazione in Iraq e Siria e della possibilità di conflitti etnici e religiosi ancora più diffusi, è del tutto giustificato vedere l’alternativa del “socialismo o barbarie” in questa regione.

Secondo Ocalan non è più tempo di lotte di liberazione nazionale finalizzate a creare nuovi stati, e sono quindi necessarie nuove soluzioni.

Allontanandosi dall’idea originale del PKK della “guerra di popolo”, la proposta di Ocalan sostiene ora la necessità di creare delle unità di auto-difesa, idea che poi sarà la pratica politica e militare del YPG / YPJ in Rojava.

L’obiettivo dell’autodifesa del movimento curdo in Turchia così come in Rojava è l’ autonomia democratica.

 A parere di Ocalan, lo Stato è “probabilmente lo strumento più pericoloso della storia”. I rivoluzionari che mirano a creare un stato diverso – uno stato operaio – non lo fanno, secondo Ocalan, rompendo con la logica della repressione e dello sfruttamento. Come si è visto, dice Ocalan, l’applicazione storica delle teorie marxiste non ha prodotto un cambiamento di sistema, ma ha solo prolungato la durata del sistema capitalista.

Tutto questo suona come se Ocalan fosse diventato anarchico, ma lui in realtà subito dopo prende esplicitamente le distanze da questa possibilità, dicendo che lo Stato capitalista non dovrebbe essere distrutto, come vorrebbe gli anarchici, ma deve invece “morire lentamente”.

Non applicando un’analisi di classe, la vaga idea che “l’alternativa allo Stato è la democrazia”, è uno dei principi fondamentali di Ocalan.

Ocalan presuppone che il sistema capitalistico con i suoi Stati continuerà ad esistere, ma che il suo carattere violento e repressivo sarà sempre più mitigato e destinato a sparire grazie all’estensione della “democrazia”.

Pertanto Ocalan pensa che sia possibile superare il dominio di classe capitalista senza alcun tipo di rottura rivoluzionaria. In una democrazia non ci sarebbe la repressione, non ci sarebbe un ingiusto sfruttamento né “l’avidità estrema per i profitti”.

La democrazia inoltre dovrebbe ridurre al minimo le principali cause di crisi come lo squilibrio tra la domanda e l’offerta, i prezzi, l’inflazione ecc…

Secondo Ocalan, “la democrazia” dovrebbe organizzare i settori dell’istruzione, della sanità, l’arte e lo sport attraverso forme organizzative politico-sociali che a livello locale sono chiamate “case del popolo” e che si riuniscono poi a livello statale in un “Congresso del popolo”. Anche in questi passaggi molto concreti del libro, non si parla però di pianificazione dell’economia per la società nel suo complesso.

Ciò che Ocalan descrive come “democrazia” non quindi è una nuova forma di società, e nemmeno il seme di una nuova società all’interno della vecchia, né una forma di dualismo di potere. Piuttosto si tratta di una riorganizzazione della gestione di alcuni servizi in forme di democrazia partecipata che dovrebbe vedere un rafforzamento delle piccole cooperative e delle piccole imprese, in una un’economia basata sulla solidarietà a livello locale. Non pare sia qualcosa di molto diverso da quello che avevamo visto per esempio a inizio degli anni 2000 in esperienze come quelle di Porto Alegre in Brasile dove c’era la partecipazione diretta dei cittadini in organismi che gestivano gli enti locali interagendo con le amministrazioni.

Sia chiaro però che, a differenza di Porto Alegre, qui stiamo parlando di teorie che stanno prendendo forma nel fuoco vivo di una guerra civile e che nessuno può svilire o sottovalutare nelle loro implicazioni politiche.

Rojava è un modello per la regione mediorientale?

Nelle regioni curde della Siria, il PYD è riuscito a costruire strutture di autogoverno parallelo dopo che nel luglio 2012 le forze di sicurezza siriane si erano in gran parte ritirate dal Rojava.

Aldilà della versione del PYD che parla di un’insurrezione che ha cacciato l’esercito siriano, si è molto probabilmente trattato di un accordo tra il regime di Assad e il PYD come dimostrato dal fatto che le installazioni militari dell’esercito siriano continuano a funzionare in Rojava e l’esercito conserva ancora  il controllo di importanti punti strategici come l’aeroporto e la stazione ferroviaria. Inoltre i dipendenti del settore pubblico continuano a ricevere i loro stipendi da Damasco. Il PYD giustifica questa situazione affermando che l’accettazione di una presenza limitata del regime di Assad serve a prevenire una guerra civile in Rojava.

In Rojava il PYD punta verso un’ampia attivazione e partecipazione della popolazione alla gestione del governo autonomo. Questo processo di auto-organizzazione, pur non essendo un movimento dal basso, come fu per esempio nella rivoluzione russa del 1917 quando i lavoratori si auto-organizzarono nei soviet, ma piuttosto un movimento diretto dal PYD, riesce tuttavia a coinvolgere strati diversi della popolazione, arabi, turcomanni e non solo la popolazione curda.

Gli eventi in Rojava segnano quindi l’inizio di un processo rivoluzionario che ha portato certamente ad un cambiamento nel potere politico, ma che ha lasciato intatta la base economica della società.

Senza dubbio Rojava vanta condizioni che la maggior parte delle persone in Siria possono solo sognare. C’è una democratizzazione delle strutture amministrative e la formazione di organi a livello locale, noti come “consigli”, che secondo molti rapporti coinvolgono ampi settori della popolazione nei processi di discussione e di decisione. Allo stesso tempo ci sono certamente sforzi per coinvolgere le minoranze etniche nei tre cantoni di Cizîrê, Kobanê e Afrin. In particolare le donne stanno giocando un ruolo speciale: vi è una quota del 40% di donne nella maggior parte degli organi di amministrazione. Tutto questo sembra l’unico raggio di speranza in una regione segnata da guerre etniche e settarie e dagli interventi militari imperialisti.

Naturalmente tutto il progresso democratico e sociale in Rojava deve essere difeso, proprio come i tre cantoni stessi devono essere difesi contro gli attacchi da parte dell’ ISIS o, come è probabile che si possa verificare in futuro, da parte della Turchia. Ma la questione è se Rojava sia davvero un modello per l’intera regione in termini di superamento dell’oppressione e dello sfruttamento, come sostenuto dal PKK e PYD. Le riforme in Rojava sono riforme radicalmente giuste e progressiste per le quali molte persone in Kurdistan, e non solo, sono pronte a combattere. Ma senza un cambiamento radicale delle strutture economiche, non sarà possibile continuare a garantire queste riforme. La realtà concreta in Rojava sembra confermare questo verdetto. Un confronto con la rivoluzione spagnola degli anni 30 è fuorviante, perché la Spagna a quel tempo era nel bel mezzo di una rivoluzione sociale che metteva in discussione il potere economico e le strutture economiche della società, con occupazioni di terre e luoghi di lavoro, espropriazioni e una vasta mobilitazione della classe operaia con un obiettivo socialista.

I dirigenti del PYD, in linea con le tesi del confederalismo democratico di Ocalan, sostengono di non voler superare i rapporti economici capitalistici (in particolare: la proprietà privata dei mezzi di produzione, la produzione orientata al profitto, la concorrenza e le relazioni di mercato), ma piuttosto di mettere questi a servizio della società nel suo insieme.  In quanto tale, il contratto sociale dei tre cantoni, la “costituzione” di Rojava, parla di protezione della proprietà privata, che però deve collaborare al bene comune anziché entrare in competizione. Questa è chiaramente un’illusione, un po’ più comprensibile in una società prevalentemente rurale come Rojava, ma incapace di poter essere un modello per stati industrializzati come la Turchia o l’Iraq, per non parlare di Europa o Nord America. Una chiara espressione del tentativo di conciliare gli interessi dei ricchi, degli imprenditori e dei proprietari dei terreni con quelli delle masse povere è il fatto che Akram Kamal Hasu, uno dei più ricchi uomini d’affari in Siria, è diventato Primo Ministro del cantone di Cizîre. Ma Rojava è anche parte di un’economia mondiale dominata dall’imperialismo. E, nel lungo periodo, è impossibile costruire isole autosufficienti in grado di resistere alla pressione del mercato mondiale e consentire la ricostruzione economica e un buon tenore di vita e di progresso. Ogni elemento di cambiamento sociale oltre il capitalismo deve estendersi a livello internazionale al fine di essere in grado di sopravvivere. Per essere in grado di difendersi contro questa pressione, almeno per un tempo determinato, sarebbe necessaria una rottura con le strutture dell’economia di mercato. Questo è concepibile solo sulla base di un’economia nazionalizzata e democraticamente organizzata, di una pianificazione economica e un monopolio statale del commercio estero. L'”autonomia democratica” in Rojava non prevede invece la fine delle relazioni di mercato nell’economia. Paradossalmente nelle condizioni esistenti di embargo economico, di assedio e di guerra civile, questo modello ha una  possibilità di sopravvivere per un certo periodo di tempo. In tempi di pace, invece, ci sarebbero scambi economici con gli Stati capitalisti della regione che esporrebbero l’economia cooperativa della Rojava a dover concorrere con prodotti a basso costo, finendo per distruggerla.

Molti a sinistra, compreso il PYD, descrivono le strutture amministrative di Rojava come un sistema  di democrazia diretta. In effetti il contratto sociale dei tre cantoni contiene molti obiettivi progressisti. In particolare, come già accennato, il carattere multietnico dell’autogoverno e il ruolo assegnato alle donne. Il diritto di sciopero e di manifestazione sono diritti sanciti, così come il diritto di asilo politico e di un divieto generale di espulsione dei richiedenti asilo. La creazione di monopoli è vietata. Tuttavia, il sistema amministrativo ha più in comune con una democrazia parlamentare borghese, con un alto livello di autonomia locale, piuttosto che con la democrazia socialista, basata sul potere dei lavoratori. Le elezioni per le posizioni a tutti i livelli si svolgono ogni quattro anni, e non vi è alcun diritto di revoca immediata.  Inoltre non c’è alcun limite sugli stipendi dei rappresentanti eletti, cosa che sarebbe un prerequisito determinante per prevenire strutture burocratiche e per raggiungere una vera uguaglianza sociale. I “consigli” sembrano essere meno coinvolti nel prendere importanti decisioni politiche, mentre invece il loro compito sembra essere principalmente di natura amministrativa. Tutto sommato, il vero potere decisionale sembra rimanere pesantemente nelle mani della dirigenza del PYD.

Tutti i rapporti da Rojava devono essere presi con cautela. Questo vale per le relazioni del PYD, così come per i rapporti per esempio provenienti dall’agenzia di stampa di Barzani, il leader avversario del partito curdo iracheno. La probabilità che le informazioni e i resoconti siano colorati da interessi di parte è troppo grande. Naturalmente la situazione deve essere vista nel contesto storico dato. Nessuna rivoluzione potrebbe lasciarsi alle spalle tutte le vestigia della società vecchia. E questo è ancora più vero in una società dominata da arretratezza economica e da una situazione di guerra o assedio. Però è un problema, per esempio, che il PYD non riesca ad avere una posizione chiara per quanto riguarda gli arabi che nel 1960 sono stati inviati dal governo siriano a stabilirsi in queste regioni a maggioranza curde. Mentre il PYD ufficialmente sottolinea sempre il coinvolgimento di tutti gli strati della società nel loro progetto sociale, il leader del PYD Salih  propone che gli arabi vengano espulsi dal Rojava al termine della guerra. Almeno una cosa sembra chiara: se si guarda allo stato da un punto di vista marxista, come formazione di persone armate che sostengono alcuni rapporti di potere e di proprietà, allora è ovvio che uno stato ancora capitalistico dominato dalla PYD e la YPG esiste in Rojava – non un progetto socialista di autogoverno che trascende le strutture di uno stato. Un esercito (YPG, YPJ), la polizia (Asayîş), le carceri e un apparato legale separato: che cosa è questo se non uno Stato? Magari uno Stato più democratico di altri, ma pur sempre uno Stato.

Il destino di Rojava tuttavia non sarà deciso dentro i confini stessi del Rojava. Uno dei problemi più gravi è rappresentato dal ruolo dell’imperialismo. Gli Stati Uniti, in mancanza di alleati affidabili nella zona, si sono infatti affidati anche all’YPG per combattere contro l’Isis. Non è un caso che nella parte finale della battaglia per Kobane siano affluite in città anche le milizie curde irachene dei Peshmerga, legate ai filostatunitensi Barzani e Talabani. L’illusione di poter ottenere l’autonomia attraverso l’aiuto dell’imperialismo statunitense rappresenta oggi il pericolo più grave per il popolo curdo. A Washington non hanno nessun interesse all’emancipazione dei curdi, così come di nessun altro popolo oppresso. Se gli Usa hanno dato qualche appoggio militare (peraltro limitato) alle milizie curde, lo hanno fatto solo perché avevano un tornaconto nel contenimento dell’Isis, ma oggi la situazione è cambiata e gli Usa non sono più gli unici attori internazionali attivi in Medioriente. E’ aumentato il ruolo della Russia e, se Erdogan si è avvicinato diplomaticamente a Mosca, è stato soprattutto per avere via libera ad un intervento militare turco oltre la frontiera siriana volto a ridimensionare le forze curde. Nella sua partita diplomatica con Russia e Turchia, la Casa Bianca non si farà nessun problema, dopo aver utilizzato per i suoi interessi gli “alleati” curdi, ad abbandonarli al loro destino.

Dalle manovre imperialiste di qualche protettore internazionale in collaborazione con le elite curde, come verificatosi molte altre volte nella storia della regione, non può nascere nessuna reale indipendenza per il popolo curdo. L’autodeterminazione dei curdi non può essere ottenuta se non su basi rivoluzionarie, mettendo cioè in discussione i regimi reazionari che governano la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. Una lotta che non è possibile senza la collaborazione delle masse turche, iraniane, irachene e siriane. L’aspirazione multietnica della Rojava può svolgere un ruolo importante in questo senso a patto di rappresentare il primo passo verso la costruzione dell’unità tra i lavoratori e i poveri di tutta la regione, al di là di ogni barriera etnica o religiosa.

Condividi sui social