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30 Maggio 2016Introduzione al materialismo storico – parte seconda
1 Giugno 2016di Jordi Rosich
I. Cuba prima della rivoluzione
A Cuba si concentravano in forma estremizzata molti dei tratti caratteristici (storici, sociali, economici e politici) dei paesi latinoamericani, circostanza che ha avuto una conferma evidente nell’altrettanto particolare sviluppo della rivoluzione del 1959. Potremmo considerare la borghesia cubana come paradigmatica della sottomissione all’imperialismo che ha caratterizzato storicamente tutta la borghesia latinoamericana.
È importante ripercorrere per sommi capi alcuni aspetti della storia di Cuba. Essa fu una delle prime isole a cui approdò Cristoforo Colombo alla fine del XV secolo. Da allora Cuba rimase per quasi quattro secoli sotto il dominio spagnolo. Nel XVIII secolo l’Inghilterra cominciò a nutrire un certo interesse per la “perla delle Antille”, fino ad invaderla nel 1762. Gli inglesi sarebbero rimasti solo un anno nell’isola, ma da quel momento in poi avrebbero giocato un ruolo determinante nel suo sviluppo economico, rimpiazzati in seguito dagli Stati Uniti. In questo periodo iniziò la coltura intensiva della canna da zucchero e del tabacco nei latifondi, resa possibile dal massiccio ricorso alla manodopera schiava.
All’inizio del XIX secolo il movimento per l’indipendenza si diffuse in tutta l’America latina, salvo alcune eccezioni, e tra queste Cuba. Il comportamento della classe dominante dell’isola era determinato dalla paura che il suo isolamento rispetto al resto del continente avrebbe potuto facilitare la repressione spagnola e dal terrore che una rivoluzione per l’indipendenza potesse scatenare una ribellione di schiavi simile a quella avvenuta ad Haiti. Inoltre la colonia stava attraversando una lunga fase di crescita economica, in stretta connessione con l’economia nordamericana. A metà del XIX secolo Cuba era il principale produttore di zucchero del mondo, e gli Usa ne erano il principale acquirente. L’élite creola non aspirava all’indipendenza, anzi era più che altro attratta dalla possibilità di divenire uno degli stati dell’Unione nordamericana. Questo desiderio, sapientemente coltivato da alcuni circoli della borghesia di Washington, era molto indicativo delle caratteristiche della classe dominante cubana, completamente asservita al capitalismo nordamericano.
La prima guerra civile (1868-1876)
La realtà socio-economica cubana era un’espressione condensata della teoria dello sviluppo diseguale e combinato che Trotskij spiega magnificamente nella sua Storia della Rivoluzione Russa. A Cuba la penetrazione tecnologica e finanziaria dei paesi capitalisti avanzati non solo non entrò in contraddizione con il sistema schiavista vigente sull’isola, ma al contrario lo intensificò. Fu solo verso la fine del XIX secolo che quel sistema cominciò a entrare in declino.
Tutto ciò faceva da sfondo alle tensioni che portarono alla prima guerra civile per la liberazione nazionale, che durò dal 1868 al 1876. Una parte della classe dominante, composta soprattutto da produttori di caffè, piccoli e medi produttori di zucchero ed allevatori della parte orientale dell’isola, la più arretrata, si sentiva in condizioni di evidente svantaggio rispetto ai latifondisti della parte occidentale. Non potevano contare sullo sfruttamento intensivo della manodopera schiava, né sulla stessa capacità di rinnovamento tecnologico, né sul controllo dell’apparato dello Stato.
Nonostante la guerra avesse suscitato illusioni e partecipazione popolare, essa non culminò in una rivoluzione democratico-borghese. L’esercito spagnolo poté contare in quella occasione sull’appoggio degli Usa e per l’élite sociale della parte occidentale dell’isola era preferibile che Cuba continuasse ad essere una colonia spagnola, piuttosto che rischiare la destabilizzazione sociale che il conseguimento dell’indipendenza avrebbe potuto provocare. I latifondisti della parte orientale finirono per abbandonare la lotta in cambio di alcune concessioni da parte della corona spagnola, tradendo così la base reale del movimento: gli schiavi liberati e i contadini.
Questi avvenimenti e la storia successiva fino alla rivoluzione del 1959 dimostravano come la classe dominante cubana fosse incapace di realizzare i compiti della rivoluzione democratico borghese, a differenza di quanto avvenne in Francia nel 1789 e successivamente in altri paesi europei, dove si consolidarono gli Stati nazionali come base per lo sviluppo capitalista. La borghesia cubana era incapace di conseguire uno sviluppo industriale con una base propria o di distribuire la terra ai contadini e quindi di istituire una democrazia parlamentare relativamente stabile, tutto questo nella cornice di uno Stato nazionale.
Nell’epoca moderna le borghesie nazionali dei paesi ex coloniali, comparse troppo tardi sulla scena della storia, sono del tutto incapaci di assolvere a questi compiti. Questa è una verità storica confermata non solo dal caso di Cuba, ma ovunque il capitalismo si sia sviluppato tardivamente. La borghesia nazionale ad esempio non può realizzare una riforma agraria efficace a causa dei suoi profondi legami economici, familiari, sociali e politici con i grandi latifondisti. Non riesce a sviluppare una vera industria nazionale perché riveste un ruolo ausiliario e subordinato al capitale internazionale. Conseguentemente, nella misura in cui il capitalismo di questi paesi resta fondato sul selvaggio sfruttamento della manodopera e sul saccheggio delle risorse naturali, non c’è spazio per lunghi periodi di stabilità e una solida democrazia parlamentare borghese.
L’indipendenza di Cuba
Josè Martí, poeta e fondatore nel 1892 del Partito rivoluzionario cubano (Prc), guidò la seconda guerra di liberazione nazionale. Il suo movimento poté contare su un’ampia base popolare: i lavoratori, un largo settore della popolazione di origine africana, la piccola borghesia urbana, i piccoli proprietari, i contadini del tabacco, ecc.. Alla lotta per l’indipendenza si sommavano tutta una serie di rivendicazioni di tipo sociale. Nonostante tanti limiti, il programma di Martí aveva un carattere nettamente progressista, nella misura in cui faceva appello all’intervento delle masse per raggiungere gli obiettivi di tipo democratico nazionale. Inoltre Martí si rese conto che l’indipendenza formale dalla corona spagnola conquistata dagli altri paesi latinoamericani era solo il primo passo: era necessaria una “seconda indipendenza” che liberasse il paese dall’asfissiante dominio dell’imperialismo nordamericano in ascesa.
Senza dubbio il progetto di Josè Martí di una Cuba indipendente dalla Spagna e dagli Stati Uniti, democratica e libera, venne frustrato dagli eventi. Dopo la prematura morte del leader cubano nel maggio del 1895 sotto il fuoco dell’esercito spagnolo, la direzione del Prc consegnò il movimento di liberazione nelle mani della borghesia e dei latifondisti, che a loro volta propiziarono l’intervento degli Usa nella guerra. La lotta di Martí, però, lasciò in eredità al popolo cubano una profonda tradizione rivoluzionaria, basata sull’antimperialismo e sul coinvolgimento delle masse nella lotta, che avrebbe finalmente trovato espressione nel Movimento 26 Luglio fondato da Fidel nel 1955.
La repressione indiscriminata dell’esercito coloniale non riuscì a schiacciare l’ira crescente della popolazione contro la dominazione spagnola, così alla fine gli Usa decisero di approfittare della ghiotta occasione, intervenendo con la scusa di difendere l’indipendenza dell’isola. In poco tempo i nordamericani ebbero ragione dei militari spagnoli e il 10 dicembre del 1898, con il trattato di Parigi, si impossessarono del paese.
Il governo degli Stati Uniti considerò fin da subito Cuba come un proprio protettorato, nominando direttamente gli amministratori dell’isola e rifiutando di riconoscere i rappresentanti degli insorti e di condividere il potere con loro. Nel 1901 il senato Usa votò l’emendamento Platt, inserito come appendice nella prima costituzione cubana dall’Assemblea costituente composta dai maggiori esponenti della borghesia liberale dell’Avana, che così conferivano ufficialità al carattere servile e conservatore della loro classe sociale. L’emendamento Platt stabiliva tra l’altro che “il governo di Cuba accetta che gli Stati Uniti possano esercitare il diritto di intervento con il fine di proteggere l’indipendenza cubana e la salvaguardia di un governo adeguato alla protezione della vita umana, della proprietà e delle libertà individuali.” Con questa integrazione alla costituzione cubana gli Usa ratificavano il loro assoluto dominio su Cuba che sarebbe durato per diversi decenni.
Nel 1902 i marines tornarono a casa e Cuba divenne, formalmente, una repubblica indipendente, ma gli Usa continuarono ad influire pesantemente nella politica dell’isola, e dal punto di vista economico mantennero, anzi incrementarono il loro dominio. Se nel 1895 gli investimenti statunitensi erano stati di 50 milioni di dollari, nel 1902 questi aumentarono fino a 100 milioni di dollari, e la United Fruit Company acquistò 7.500 ettari di terra al prezzo di 50 centesimi di dollaro l’ettaro. Nel 1909 il 34% dello zucchero prodotto nel paese veniva prodotto da piantagioni di proprietà statunitense, il 35% da piantagioni di proprietà europea e solo il 31% da quelle di proprietà cubana, che comunque pagavano ipoteche a banche nordamericane. Le imprese multinazionali controllavano un territorio enorme. Nelle campagne tutta l’attività economica orbitava intorno alle grandi piantagioni, dalle quali dipendeva la grande maggioranza dei contadini. Persino i piccoli proprietari erano condizionati da questo dominio schiacciante.
La nascita della classe operaia e delle sue organizzazioni
I presidenti che si succedettero in quei primi anni di “libertà” – tra tentativi di colpi di Stato, interventi militari nordamericani e frodi elettorali – erano, in generale, poco più che burattini dello Zio Sam.
Il periodo che va dalla Prima guerra mondiale agli anni ’20, rappresentò una nuova epoca di espansione economica, durante la quale Cuba conquistò il primato assoluto mondiale nella produzione dello zucchero. Parallelamente si svilupparono i primi scioperi di massa, soprattutto nel settore del tabacco, che portarono nel 1920 alla formazione della Federazione operaia dell’Avana, il primo sindacato operaio.
Nel 1921 scoppiò una nuova crisi, dovuta fondamentalmente alla caduta del prezzo dello zucchero da 22,6 a 3,7 centesimi la libbra. Solo a gran fatica i governanti furono capaci di contenere lo scontento sociale e le proteste che esplodevano una dopo l’altra. Nel febbraio del 1924 fu fondato il sindacato dei ferrovieri, che poco dopo si rese protagonista di uno sciopero di tre settimane. Le università erano in continuo stato d’agitazione. Il 1925 cominciò con una grande ondata di scioperi, tra i quali il più importante fu quello degli operai tessili, soffocato nel sangue, a colpi d’arma da fuoco. Lo stesso anno fu fondata la Confederazione nazionale dei lavoratori, che riuniva i sindacati dei vari settori.
Nell’agosto dello stesso anno si formava il Partito comunista cubano (Pcc) per iniziativa di alcune decine di operai cubani, di studenti universitari e di un gruppo di operai emigrati. Il partito nasceva in un momento favorevole per la crescita di una forza rivoluzionaria di massa nel paese, ma purtroppo anche mentre era in fase avanzata il processo di degenerazione burocratica dell’Internazionale comunista. Per il giovane partito ciò significò una rottura precoce con le vere tradizioni bolsceviche dell’Ottobre del 1917. Tutti i dirigenti poco inclini a genuflettersi davanti a Stalin furono allontanati dall’Internazionale comunista, mentre la linea politica oscillava tra la collaborazione di classe con la “borghesia progressista” nei paesi coloniali e il settarismo più cieco nei paesi capitalisti avanzati.
Il 1925 segnò anche la fine dei governi “democratici” a Cuba. Due anni prima il presidente Zayas era stato messo sotto la tutela di una commissione nordamericana presieduta dal generale Crowder, che in modo velato deteneva il potere reale. Questo potere mafioso successivamente appoggiò la candidatura alla presidenza del generale Gerardo Machado, il prototipo del futuro dittatore latinoamericano, capace di mescolare grandi dosi di demagogia alla più brutale repressione contro gli oppositori. Molti dirigenti comunisti furono assassinati in questo periodo, ricordiamo in particolare il caso del fondatore e dirigente del Partito comunista e dei sindacati cubani Juan Antonio Mella, assassinato a Città del Messico nel 1929.
La crisi del ’29 colpì duramente Cuba. La produzione di zucchero si manteneva ai suoi livelli più alti, mentre al contrario il prezzo raggiungeva il suo minimo storico di 0,71 centesimi di dollaro la libbra. Nel 1930 uno sciopero generale nella zona occidentale dell’isola scosse dalle fondamenta il regime di Machado. Il 19 aprile 50mila persone manifestarono a L’Avana contro la dittatura. L’anno successivo i comunisti riuscirono a prendere il controllo della Centrale nazionale operaia cubana (Cnoc), precedentemente diretta dagli anarco-sindacalisti.
La rivoluzione del 1933
Alla vigilia dell’esplosione rivoluzionaria del 1933 esistevano a Cuba tutte le condizioni per una riedizione dell’Ottobre russo del 1917, ovvero per la presa del potere da parte del proletariato cubano in alleanza con i contadini e le altre classi oppresse.
Il paese viveva in uno stato di enorme arretratezza, ma allo stesso tempo erano presenti alcuni aspetti della più moderna economia capitalista. Gli statunitensi avevano costruito una rete di trasporto efficiente e nelle campagne la maggior parte dei lavoratori erano salariati, mentre il numero di piccoli proprietari contadini non era molto significativo. Il 57% dei cubani viveva in città. L’Avana era una delle metropoli più importanti del Centroamerica e delle Antille. Il 16,4% della popolazione economicamente attiva era costituito da operai, una percentuale superiore a quella della Russia del 1917. A questi si aggiungeva un 37% della forza-lavoro impiegata nel settore terziario. La classe operaia era l’unica che, di fronte all’inettitudine della borghesia nazionale, poteva liberare l’isola dal dominio imperialista, e dal suo sottosviluppo.
Per uscire dalla condizione di ritardo che paralizzava lo sviluppo sociale ed economico di Cuba sarebbe stato necessario abbattere la borghesia, nazionalizzare l’economia e gestirla attraverso un piano di produzione centralizzato che rispondesse agli interessi della immensa maggioranza della popolazione. La classe operaia era realmente l’unica classe che avesse potenzialmente la forza per farsi carico di questa necessità e realizzare in modo cosciente un tale programma.
Comprendere quale fu il ruolo che giocò nell’arco di molti anni la direzione del Pcc è fondamentale per capire le peculiarità del processo rivoluzionario cubano. Paradossalmente il partito non ebbe un peso determinante nella rivoluzione del 1959. Neppure nella situazione rivoluzionaria degli anni ’30 il partito propose la prospettiva di una rivoluzione di carattere socialista nel paese. La ragione di questo fatto non risiede nella mancanza di radici del partito, anzi il Pcc era uno dei partiti comunisti più forti dell’America latina e negli anni ’40 contava 80mila militanti su una popolazione di sei milioni, cifra di tutto rispetto se consideriamo che il partito bolscevico nel febbraio del 1917 aveva solo ottomila militanti su una popolazione di più di cento milioni di abitanti. Ma qual era la politica del gruppo dirigente del Pcc nel 1933? Come tutti gli altri dirigenti dei partiti comunisti dell’America latina, formatisi alla scuola stalinista, essi confidavano in una alleanza con una immaginaria “borghesia nazionale antimperialista”, che avrebbe diretto “una rivoluzione democratica, liberale e nazionalista”.
Nella primavera del 1933 scoppiò un grande sciopero generale organizzato dalla Cnoc. La posizione di Machado si faceva via via più insostenibile e la probabilità di un intervento nordamericano era crescente. In questo frangente l’atteggiamento della direzione del Pcc non fu quello di adottare una linea favorevole all’indipendenza di classe allo scopo di promuovere l’alternativa socialista a Machado. Al contrario, appellandosi alla logica del male minore, Cesar Vilar, comunista e segretario generale della Cnoc, concluse un patto con il dittatore che pose fine allo sciopero. Tutto questo, si diceva, per evitare un intervento diretto degli Usa. Ad agosto entrò in sciopero il settore dei trasporti. Dopo alcune settimane Vilar tentò nuovamente di frenare il movimento con un accordo, ma stavolta lo sciopero non venne sospeso. A questo punto Machado provò a ricorrere all’esercito, ma i militari si rifiutarono di intervenire. Nella parte orientale dell’isola i lavoratori formarono dei soviet in alcune fabbriche di zucchero.
L’ascesa delle mobilitazioni aveva raggiunto il proprio apice e la popolazione scese in massa nelle strade per reclamare la fine della dittatura. Machado fu destituito e al suo posto si insediò un governo filoamericano, con Carlos Manuel Cespedes in prima linea. Il movimento, nonostante la caduta di Machado, non si arrestò. Un gruppo di sottufficiali, con l’appoggio degli studenti e di alcuni settori della piccola borghesia radicale, deposero il governo di Cespedes e spinsero al potere una giunta di cinque persone presieduta da Grau San Martín, professore universitario e vecchio oppositore di Machado. Il leader dei militari era il sergente Fulgencio Batista.
La direzione del Pcc, rendendosi conto che altri personaggi e formazioni politiche stavano approfittando del processo rivoluzionario che si era aperto, fece una svolta di 180 gradi nella sua politica, ma era già troppo tardi per evitare di sprecare un’occasione d’oro. Tentarono di rimediare alla precedente politica opportunista lanciando lo slogan “tutto il potere ai soviet”, però senza alcuna preparazione e quando il movimento si trovava già in riflusso. Inoltre il partito aveva già sperperato molto del suo prestigio, sia tra la piccola borghesia, sia nei confronti della classe operaia, a causa della posizione tenuta nei confronti di Machado. Questa situazione facilitò l’esercito nella repressione contro i militanti comunisti, che pagarono con il sangue gli errori politici dei loro dirigenti.
Il Pcc e la politica di fronte popolare
Batista e i militari tramarono per prendere il sopravvento. A gennaio del 1934 si erano già sbarazzati del governo di Grau, sostituito da uomini più manovrabili:il primo passo di Batista verso il potere. Segnato dalla sconfitta della rivoluzione, il movimento operaio e contadino aveva bisogno di tempo per risollevarsi. Parallelamente iniziò un periodo favorevole per l’economia, che permise al governo di fare alcune concessioni, come la riduzione ad otto ore della giornata lavorativa. Nel 1935 comunque il 25% della popolazione restava ancora analfabeta e una percentuale simile continuava ad essere disoccupata.
Ridotto in clandestinità il Pcc provava a riflettere sui suoi errori passati, ma la linea approvata nel VII congresso dell’Internazionale comunista (1935), che impose una nuova virata politica di 180 gradi con la riaffermazione della politica dei fronti popolari, finì indubbiamente con annullare il Pcc in quanto organizzazione rivoluzionaria. Il fronte popolare prevedeva la ricerca di alleanze ad ogni costo con partiti e personalità della borghesia “antifascista” o progressista, vera o, quasi sempre, presunta tale.
Nell’ambito del fronte popolare le organizzazioni della classe operaia rinunciavano al programma anticapitalista, e ai propri metodi naturali di lotta (l’istituzione di consigli operai, l’occupazione delle fabbriche, il controllo operaio e la formazione di milizie indipendenti dallo stato borghese, ecc.) sacrificandoli sull’altare dell’alleanza con la presunta borghesia antifascista, che però in pratica non contribuiva in alcun modo alla lotta contro il fascismo. Nulla a che vedere con la politica di fronte unico tra le differenti organizzazioni della classe operaia contro il nemico fascista. La differenza è qualitativamente importante.
La politica del fronte popolare, che tra le altre cose portò alla rovina della rivoluzione spagnola del 1936-39, fu applicata con zelo anche a Cuba. Nel dicembre del 1936, Blas Roca, segretario generale del partito, scriveva: “la stessa borghesia nazionale, entrando in contraddizione con il capitalismo che la soffoca, accumula energie rivoluzionarie che non devono essere sprecate (…) Tutti gli strati della nostra popolazione, dal proletariato alla borghesia nazionale possono e devono formare un ampio fronte popolare contro l’oppressore straniero.” L’appello a formare un’alleanza fu rivolto a Grau e al suo Partito rivoluzionario autentico (di carattere borghese), il quale comunque respinse al mittente l’invito.
Batista e il Pcc
Dal 1937 in poi Batista, consigliato dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt, concesse una certa apertura democratica ed introdusse un maggior controllo dello Stato sull’economia, specialmente sulla produzione di zucchero e tabacco. Improvvisamente il Pcc, che definiva Batista “traditore della nazione e servo dell’imperialismo”, si rese protagonista di un’ulteriore svolta di 180 gradi. “Batista aveva cominciato a non essere più il principale esponente della reazione” affermava Blas Roca nel luglio del 1938 e continuava: “l’esplosione rivoluzionaria che nel settembre del 1933 lo aveva indotto a ribellarsi al potere, non ha cessato di esercitare pressione su di lui.” Il governo di Batista aveva ricevuto da Roosevelt l’etichetta di “democratico”, e in quella congiuntura la burocrazia stalinista non voleva frapporre ostacoli alle sue relazioni economiche e politiche con il presidente nordamericano. Da quel momento i principali nemici di Cuba secondo il Pcc divennero i fascisti, non più Batista (!). Come attestato di riconoscenza da parte del dittatore, il Pcc fu legalizzato nel 1938.
Quando nel novembre del 1939 si celebrarono le elezioni per l’Assemblea costituente si confrontarono due coalizioni: Batista e i comunisti da una parte e il Pra di Grau e i radicali dell’Abc dall’altro. Vinsero questi ultimi e il Pcc ottenne il 10% circa dei voti. L’anno seguente in un’elezione non proprio limpida Batista fu eletto presidente. Nel 1942 due comunisti, Juan Marinello e Carlos Rafael Rodríguez, entrarono nel governo di Batista.
Nel corso di questo periodo il Pcc aveva cambiato nome assumendo quello di Partito socialista popolare, uno tra i partiti più a destra dell’Internazionale comunista. Il secondo congresso del Psp considerò opportuno salutare il presidente Batista con queste parole: “Desideriamo ribadire che potete contare sul nostro rispetto e sul nostro affetto e stima per i vostri princìpi di governante democratico e progressista.”
La critica all’imperialismo statunitense era ormai cosa del passato. Sostenendo l’inutilità delle nazionalizzazioni delle proprietà straniere, il Psp si proponeva “la collaborazione in un programma di economia espansiva che consentirebbe di pagare interessi ragionevoli per gli investimenti stranieri, principalmente inglesi e nordamericani.” I sindacati, nell’80% dei quali i comunisti avevano conquistato una posizione dirigente, pubblicarono un opuscolo intitolato La collaborazione tra imprenditori e operai.
Compiendo un’ulteriore capriola politica i dirigenti del Psp offrirono in seguito la loro collaborazione al nuovo presidente Grau San Martin, per essere da questi respinti e passare all’opposizione nel 1946. La reiterazione di svolte, oscillazioni e tradimenti da parte di dirigenti che si arrogavano il titolo di “eredi delle tradizioni dell’Ottobre” a Cuba, rappresenta un caso esemplare della disastrosa confusione che lo stalinismo provocò nell’insieme del movimento rivoluzionario dell’America latina. Il partito aveva un’influenza decisiva nel movimento operaio cubano, ma la sua direzione, in nome del comunismo e delle tradizioni dell’Ottobre, praticava la peggiore politica menscevica di collaborazione di classe. Questo tradimento non poteva che lasciare la sua impronta negativa sulla politica cubana.
A fronte della traiettoria politica del Psp possiamo immaginare quanto fosse difficile per i lavoratori e i contadini cubani comprendere le vere idee del comunismo e della tattica bolscevica. Le idee di Marx e di Lenin furono sepolte sotto montagne di terribili aberrazioni. Per tutta una generazione di giovani che entrarono in politica nel segno della lotta antimperialista lo zigzagare del Pcc provocava come minimo indifferenza, quando non fastidio o aperto rifiuto. Per molti i comunisti erano troppo pavidi e arrendevoli nei confronti dell’imperialismo americano, mentre per altri, sui quali la nozione di comunismo e la rivoluzione d’Ottobre avrebbero potuto esercitare una potente attrazione, conoscerne l’autentico sviluppo e assimilarne le preziose lezioni era un compito quasi impossibile.
Julio Antonio Mella
È molto interessante confrontare la politica della direzione del Pcc descritta fino ad ora con quanto propugnava il suo segretario generale Julio Antonio Mella. Il suo assassinio in Messico nel 1929 troncò ogni possibilità che il partito adottasse una politica genuinamente leninista, chiaramente contrapposta alla politica stalinista di alleanza tra le classi. Citiamo alcuni paragrafi dei suoi scritti che non necessitano di ulteriore commento:
“[…] nella sua lotta contro l’imperialismo – il rapinatore straniero – la borghesia – ovvero il rapinatore nazionale – si unisce al proletariato, buona carne da cannone. Però ad un certo punto [i borghesi] capiscono che è meglio allearsi con l’imperialismo che in fondo persegue un interesse simile. Da progressisti si convertono in reazionari. Tradiscono le concessioni che facevano al proletariato per averlo dalla propria parte quando questo, nella sua avanzata, diventa un pericolo tanto per i rapinatori internazionali che per quelli nazionali.”
“I rivoluzionari d’America che aspirano ad abbattere le tirannie dei loro rispettivi paesi non possono disconoscere questa realtà; quelli che sembrano negarla lo fanno perché la loro ignoranza o la loro malafede impedisce loro di vederla. Non si può vivere con i princìpi del 1789. Nonostante la mente ritardata di qualcuno, l’umanità ha progredito e fare la rivoluzione in questo secolo vuol dire fare i conti con nuovi fattori: le idee socialiste in generale, che seppur con diverse sfumature sono radicate in tutti gli angoli del mondo.”
“La causa del proletariato è la causa nazionale. Esso rappresenta l’unica forza capace di lottare con possibilità di trionfo per gli ideali di libertà nell’epoca attuale. Quando il proletariato si solleva rabbioso come un nuovo Spartaco nelle campagne e nelle città, si solleva per lottare per gli ideali di tutto il popolo. Vuole distruggere il capitalismo straniero che è nemico della nazione. Vuole instaurare un regime di uomini del popolo, perché comprende che questa è l’unica garanzia di giustizia sociale […] Sa che la ricchezza nelle mani di pochi è la causa degli abusi e delle miserie, per questo pretende di socializzarla.”
“I comunisti aiuteranno, così come hanno aiutato finora – vedi il Messico, il Nicaragua, ecc. – i movimenti nazionali di emancipazione, anche se questi hanno una base borghese democratica. Nessuno nega questa necessità, a condizione che siano veramente movimenti di emancipazione e rivoluzionari. Ma qui mi soccorre quello che continua a consigliare Lenin al secondo Congresso dell’Internazionale: ‘L’Internazionale deve appoggiare i movimenti nazionali di liberazione […] nei paesi arretrati e nelle colonie, solamente a condizione che gli elementi dei futuri partiti proletari, comunisti non solo di nome, si raggruppino e si educhino nella coscienza dei propri differenti compiti, i compiti cioè di lotta contro i movimenti democratico borghesi nelle proprie nazioni. La I.C. deve marciare in alleanza temporanea con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma senza fondersi con questa e salvaguardando espressamente l’indipendenza del movimento proletario, anche sulle questioni più rudimentali.”
Mella riconosceva l’esistenza di due nazionalismi, quello borghese e quello rivoluzionario:
“Il primo vuole una nazione per far vivere la propria casta come un parassita sulle spalle del resto della società, cibandosi delle briciole che gli lascia il capitale sassone. L’altro vorrebbe una nazione libera per farla finita con i parassiti di casa propria e con gli invasori imperialisti, riconoscendo che il principale cittadino in tutta la società è quello che contribuisce ad elevarla con il proprio lavoro quotidiano, senza sfruttare i propri simili.”
Instabilità politica e miseria sociale
Tra il 1939 e il 1945 il Pil era raddoppiato, ma la borghesia cubana era incapace di elaborare un piano di sviluppo che liberasse l’economia dalla dipendenza dalla canna da zucchero, che costituiva l’80% delle esportazioni. In questo modo tutta l’economia era condizionata dalle fluttuazioni internazionali del prezzo di questa merce sul mercato mondiale. Dopo la seconda guerra mondiale Cuba avrebbe affrontato una nuova crisi. Le lotte politiche e l’instabilità economica minavano gravemente la “democrazia” cubana, mentre il gangsterismo diveniva pratica abituale, sostenuto direttamente dalla presidenza della Repubblica che sovvenzionava con 18.000 dollari al mese gruppi di azione squadristi con fondi nascosti nel bilancio sotto la voce “assegnazioni particolari”.
Nel 1947, denunziando la corruzione del governo Grau, il senatore Chibas e altri esponenti di primo piano dell’ala più nazionalista della borghesia fondarono il Partito del popolo cubano, più comunemente conosciuto come Partito ortodosso, al quale aderì il giovane universitario Fidel Castro.
Alcuni anni prima della rivoluzione Cuba era senza ombra di dubbio un paradiso per i ricchi turisti americani, ma era anche un inferno per la maggioranza della popolazione, nonostante fosse considerata una delle nazioni più benestanti di tutta l’America latina. Tra il 1950 ed il 1954 le entrate medie annuali pro capite dello stato più povero degli Stati Uniti, il Mississipi, ammontavano a 829 dollari, mentre a Cuba erano di 312 dollari, cioè pari a solo 6 dollari la settimana. Un quarto della popolazione era analfabeta e la percentuale di bambini che frequentavano la scuola era più bassa che negli anni ’20. Nel 1954 solo il 15% delle case in città e solo l’1% di quelle in campagna avevano un bagno. Allo stesso tempo a L’Avana circolavano più Cadillac che in qualsiasi altra città del mondo. Meno di 30.000 proprietari possedevano il 70% dei terreni agricoli, mentre il 78,5% dei contadini occupavano solo il 15% del totale. I terreni coltivati direttamente dai proprietari non arrivavano al 33% della superficie totale. Il latifondismo era ancora più evidente nella coltivazione della canna da zucchero, dove 22 grandi proprietari possedevano il 70% delle terre coltivabili.
“Il processo di disgregazione della classe contadina, su cui si era innestata la proprietà straniera, era arrivato a un punto tale che i rapporti capitalistici di proprietà erano ormai predominanti, mentre le forme di appropriazione fondiaria precapitalistica si erano ridotte a un settore del tutto marginale. D’altra parte, l’esistenza di un forte nucleo di proletariato agricolo conferma la forza di penetrazione del capitalismo nelle campagne cubane […] Il proletariato agricolo cubano era ormai completamente distaccato dalla terra; esso era molto più portato a rivendicare, attraverso i suoi sindacati, dei miglioramenti sindacali e sociali che a chiedere l’accesso alla proprietà della terra.”
Gli abitanti di Cuba erano in quegli anni poco più di sei milioni. Nel 1957 i salariati agricoli erano 975.000, dei quali almeno un terzo non lavoravano più di 100 ore l’anno. Lo storico Hugh Thomas parla di “400.000 famiglie del proletariato urbano” negli anni ’50. Secondo questi dati la classe operaia urbana era pari al 20% della popolazione economicamente attiva. Se si aggiungono i proletari agricoli, gli impiegati statali, ecc., la maggioranza della popolazione lavoratrice cubana era costituita da salariati, in buona parte organizzati sindacalmente. Con questo peso nella società la classe operaia cubana era in condizioni di contendere il potere alla borghesia, e di giocare un ruolo da protagonista nel processo di distruzione del capitalismo, trascinando dietro di sé i contadini poveri e parte della classe media in rovina. Ma come abbiamo visto in precedenza, il Pcc non giocò lo stesso ruolo dei bolscevichi nel 1917, nonostante questi ultimi avessero affrontato rapporti di forza nella società molto più sfavorevoli.
Il colpo di Stato di Batista e l’assalto alla Moncada
Si avvicinavano le elezioni del 1952 e con ogni probabilità avrebbero segnato il trionfo del Partito ortodosso, in quel momento alleato con i comunisti. La situazione rischiava di sfuggire di mano all’imperialismo nordamericano, così senza esitazioni in marzo dello stesso anno gli Usa appoggiarono il colpo di stato di Batista.
L’opposizione al golpe era molto forte tra gli studenti e gli intellettuali. Il 26 luglio del 1953 un gruppo di circa 120 giovani raccolti attorno a Fidel Castro assaltarono la caserma della Moncada, a Santiago de Cuba, con lo scopo di scatenare un movimento sociale che propiziasse la fine della dittatura.
Anche se terminò con la morte e la fucilazione della maggioranza dei suoi partecipanti e con l’incarcerazione dei sopravvissuti, tra i quali Fidel e suo fratello Raul, l’assalto ebbe una risonanza propagandistica enorme, e la figura di Fidel cominciò ad essere molto conosciuta. La forte campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri della Moncada, coincise con la necessità per il regime di dare un’immagine di normalità. Ciò favorì due anni dopo la liberazione di Castro, che si recò in esilio in Messico e fondò il Movimento 26 Luglio (M26-J).
Nel 1956 Fidel ruppe definitivamente con il Partito ortodosso. Il proclama che avrebbe dovuto essere letto dagli insorti una volta presa la stazione radio, se il piano non fosse fallito prima, recitava così: “La Rivoluzione dichiara la sua ferma intenzione di porre Cuba su un piano di benessere e di prosperità economica […] La Rivoluzione dichiara il proprio rispetto dei lavoratori e l’instaurazione della totale e definitiva giustizia sociale, fondata sul progresso economico e industriale sotto un piano nazionale ben ideato e sincronizzato […] La Rivoluzione riconosce e si basa sugli ideali di Martí […] e adotta come proprio il programma rivoluzionario della Joven Cuba, dei radicali Abc e del Ppc [gli ortodossi]. La Rivoluzione dichiara il proprio assoluto e riverente rispetto per la Costituzione data al popolo nel 1940 […] In nome dei martiri, in nome dei sacri diritti della Patria.”
La rivendicata Costituzione del 1940 era piena di belle parole e niente più. Lo stesso Hugh Thomas, analizzando il programma della Moncada, commenta: “Tutte queste misure erano ben poco radicali e di per sé non avrebbero soddisfatto l’esigenza di un’indipendenza internazionale di Cuba; non si parlava di nazionalizzazione dell’industria dello zucchero, una misura che sarebbe stata certo giustificata dalla singolare struttura di tale industria e dal fatto che la nazione ne dipendeva in misura enorme, e che nel programma, per esempio, dei laburisti inglesi, sarebbe stata ai primi posti.”
Questo programma, confermato successivamente nel famoso discorso La storia mi assolverà, che Fidel Castro pronunciò durante il suo processo, sebbene rivelasse chiaramente la volontà di lotta per riforme profonde, non prevedeva la necessità di lottare per la trasformazione socialista della società.
L’ideale di Fidel, profondamente ispirato da Martí, era quello di un sviluppo prospero, socialmente giusto e indipendente di Cuba, ma senza che questo portasse alla rottura con il capitalismo né implicasse una politica di indipendenza di classe. La storia però non si ripete mai allo stesso modo. All’epoca di Martí la classe operaia poteva a mala pena avere un ruolo politico indipendente. Mezzo secolo dopo la classe operaia aveva già acquisito un peso decisivo nella società e questo avrebbe avuto implicazioni nel futuro sviluppo del processo rivoluzionario cubano. La rivoluzione cubana fu una chiara conferma della teoria della rivoluzione permanente. Come scrisse il grande rivoluzionario russo Lev Trotskij ne La Rivoluzione Permanente riferendosi ai paesi a sviluppo borghese ritardato: “la soluzione integrale ed effettiva dei suoi fini democratici e della sua emancipazione nazionale può essere concepita unicamente attraverso la dittatura del proletariato.”
II. La guerriglia al potere
Nel novembre del 1954 Batista si fece rieleggere presidente. Intanto il movimento operaio cubano si stava rianimando. Nel dicembre del 1955 scoppiò uno sciopero di mezzo milione di lavoratori delle fabbriche di zucchero. Tale fu la forza di quel movimento che Batista, davanti al pericolo che la produzione dello zucchero restasse paralizzata, fu costretto a cedere alle rivendicazioni dei lavoratori.
Frattanto nell’esilio messicano Fidel concentrava tutte le sue energie nel raggruppare quelli che sarebbero stati i protagonisti del movimento guerrigliero a Cuba, tra i quali l’argentino Ernesto Guevara, il Che. Nel settembre del 1956 Fidel per il Movimento 26 Luglio e Josè Echevarria, per il Direttivo Rivoluzionario15, firmarono il Patto del Messico, con il quale entrambe le organizzazioni offrivano al popolo cubano la sua “liberazione prima della fine del 1956”, mediante un’insurrezione seguita da uno sciopero generale.
Il 25 novembre del 1956, 82 persone si imbarcarono sulla mitica Granma e partirono dal porto messicano di Veracruz per approdare sulle coste cubane il 2 dicembre. Dopo lo sbarco, vari scontri con la polizia praticamente dissolsero il gruppo. Solo dodici guerriglieri ne uscirono vivi. Come se non bastasse erano falliti tutti i piani coordinati con il movimento insurrezionale all’interno dell’isola, che avrebbe dovuto spalleggiare lo sbarco, come accadde per la prevista ribellione di Santiago. Fidel credeva, similmente a quanto era avvenuto con l’assalto alla caserma della Moncada, che avrebbe potuto scatenare un movimento più ampio con una azione spettacolare, ma così non fu.
Alcune settimane dopo si riunirono sulla Sierra Maestra i superstiti, tra i quali Fidel, il Che, Camilo Cienfuegos e Raul Castro, per formare il primo nucleo guerrigliero. Se c’era qualcosa che non mancava a questi uomini era il coraggio.
Un avvenimento politico che probabilmente aveva segnato i dirigenti guerriglieri fu l’esperienza di Arbenz in Guatemala, un generale progressista che provò a portare avanti una riforma agraria in un paese che in pratica era di proprietà della multinazionale americana United Fruit Company. Il Che si trovava in Guatemala quando fu destituito Arbenz, e probabilmente questa fu la sua prima esperienza politica importante. Indignato, non comprendeva come il regime legalmente costituito non distribuisse armi al popolo per difendersi dalle colonne golpiste che si stavano organizzando con gli auspici degli Stati Uniti e con la collaborazione di dittature come quella di Somoza in Nicaragua. Nonostante il fatto che si fosse puntato alla organizzazione di una milizia per difendere il governo, questa non entrò mai in azione.
Una delle ossessioni dei guerriglieri cubani era di non fare la stessa fine di Arbenz. Volevano una democrazia vera, una autentica democrazia borghese nella quale neppure la stessa borghesia credeva, tanto da non essere minimamente interessata a favorirla o consolidarla. La vera scelta, tuttavia, non poteva essere tra “democrazia” e “dittatura”, ma tra rivoluzione socialista o continuazione del dominio di una minoranza di privilegiati basato sulla repressione. Una delle peculiarità più evidenti della rivoluzione cubana fu che i suoi dirigenti arrivarono al potere senza la prospettiva di abolire il sistema capitalista e in seguito dovettero orientare diversamente tutto il processo, davanti al pericolo che la controrivoluzione potesse riorganizzarsi per assestare un colpo mortale alla rivoluzione.
Il Che era posizionato chiaramente all’ala sinistra del movimento rivoluzionario, ma quando gli fu chiesto, cinque anni dopo la rivoluzione, se nella Sierra Maestra avesse previsto che la rivoluzione avrebbe potuto prendere una direzione così radicale rispondeva: “Lo avvertivo istintivamente. Naturalmente non si poteva prevedere la direzione che avrebbe preso la rivoluzione né la violenza del suo sviluppo. Neppure era prevedibile la formulazione marxista-leninista […] Avevamo un’idea più o meno vaga di risolvere i problemi che vedevamo più chiaramente e che colpivano i contadini che lottavano con noi e i problemi che vedevamo nella vita degli operai.”
Sulla Sierra Maestra
I guerriglieri, che si stabilirono inizialmente nella zona orientale, la parte più povera e con tradizioni di lotta contadina, si opponevano ad un regime apparentemente forte, ma in realtà corroso e putrefatto. Batista non aveva nessun tipo di appoggio sociale e riusciva a mantenersi solo grazie alla repressione e all’inerzia politica.
Il più che accidentato viaggio del Granma e il fallimento dei piani insurrezionali nelle città fecero svanire la prospettiva di una vittoria immediata. Dopo la battaglia di El Uvero, che era stato il primo scontro vinto dai ribelli nel quale si contarono serie perdite, la guerriglia si concentrò durante il mese di giugno del 1957 in un piano di recupero. Per tutto un periodo non ci furono combattimenti nella Sierra, ma questo intervallo fu dedicato ad intense manovre politiche, dalle quali nacque il Patto della Sierra, firmato il 12 luglio.
Secondo lo storico Hugh Thomas: “Fino ad allora, da quando era arrivato nella Sierra, Fidel Castro aveva evitato di dare il suo nome a qualsiasi programma […] Però l’aver provocato grandi aspettative nella classe media professionale rese questo silenzio dottrinale non più a lungo sostenibile. Ai primi di luglio [del 1957] Raul Chibas e Felipe Pazos, il dirigente ortodosso in carica e l’economista più conosciuto di Cuba, si diressero alla Sierra. Chibas racconta di esserci andato per dare prova di fiducia nella maturità della lotta armata. Il 12 di giugno, dopo alcuni giorni di discussione, vide la luce un manifesto generale, firmato da Fidel Castro, Chibas e Pazos. Fidel ne aveva scritto la maggior parte. Faceva appello a tutti i cubani per formare un fronte civico rivoluzionario per ‘farla finita con il regime della forza, la violazione dei diritti individuali, e i crimini infami della polizia’; si dichiarava che l’unico modo per assicurare la pace a Cuba era celebrare elezioni libere e costituire un governo democratico. Il manifesto insisteva nell’affermare che i ribelli stavano lottando per il bell’ideale di una Cuba libera, democratica e giusta. Si formulava agli Stati Uniti una richiesta: che fossero sospesi gli invii di armi a Cuba durante la guerra civile. E inoltre si rifiutavano tutti gli interventi o le mediazioni straniere. Si considerava inaccettabile la sostituzione di Batista con una giunta militare. Al suo posto avrebbe dovuto esserci un presidente provvisorio imparziale e non politico, e un governo provvisorio che avrebbe celebrato le elezioni l’anno seguente alla presa del potere, elezioni che si sarebbero celebrate secondo il dettato della Costituzione del 1940 e il codice elettorale del 1943.”
In quanto al programma economico e sociale, continua Thomas, “tra le altre cose si esigevano l’abolizione del gioco d’azzardo e della corruzione, la riforma agraria, che portasse alla distribuzione delle terre incolte tra i lavoratori che non avevano terra, l’incremento dell’industrializzazione e la conversione dei fattori affittuari e dei coloni in proprietari. Non si faceva nessuna menzione alla nazionalizzazione delle imprese dei servizi pubblici, né la collettivizzazione della terra, né, ovviamente, dell’industria.”
I negoziati con i membri dell’opposizione borghese coincisero con l’arrivo di Guevara dal fronte di guerra e furono per lui una vera doccia fredda. “Il Che si mostrò prudente nei commenti annotati sul suo diario il 17 di luglio, ma era evidente che non gli piacesse verificare l’influenza che Chibas e Pazos avevano su Fidel. Secondo lui, il Manifesto portava il sigillo indelebile di questi politici ‘centristi’, la cui specie risvegliava in lui il più grande sdegno e sfiducia.” Retrospettivamente, nonostante il suo disgusto, lo stesso Che giustificava il Patto della Sierra, ma è interessante leggere attentamente le sue argomentazioni: “Non ci soddisfaceva il compromesso, ma era necessario, in quel momento era qualcosa di progressivo. Non sarebbe potuto durare più in là del momento nel quale avrebbe rappresentato un freno allo sviluppo rivoluzionario […] Sapevamo che era un programma minimo, un programma che limitava i nostri sforzi, ma […] sapevamo che non era possibile realizzare la nostra volontà dalla Sierra Maestra e che per un lungo periodo avremmo dovuto fare i conti con tutta una serie di ‘amici’ che cercavano di utilizzare i nostri sforzi militari e la grande fiducia che il popolo aveva già in Fidel Castro per i loro loschi propositi e […] per mantenere il dominio dell’imperialismo a Cuba, per mezzo della borghesia importata, tanto vincolata ai suoi padroni nordamericani […] Per noi fu solo una piccola sosta nel cammino, dovevamo continuare nel nostro compito fondamentale di sconfiggere il nemico sul campo di battaglia” (nostra sottolineatura).
La caratterizzazione che il Che fa delle intenzioni della borghesia antibatistiana è brillante, perché rende evidente in che misura fosse la borghesia ad aver realmente bisogno dell’autorità politica dei rivoluzionari e non il contrario. Quali erano dunque i suoi fini? Cambiare tutto perché tutto, essenzialmente, restasse uguale, e in ogni momento, incluso nei primi mesi dopo la presa del potere da parte della guerriglia, il suo unico ruolo fu quello di porre limiti al processo rivoluzionario, cioè cercare di arrestarlo.
In realtà, il bagaglio politico che tanto il Che quanto Fidel si portavano appresso nella Sierra, in relazione alla politica di alleanza, era un sentimento di sfiducia verso i politici borghesi screditati, che però non era fondato sulla convinzione che la classe operaia potesse essere il motore centrale dell’abbattimento della dittatura, né della prospettiva del socialismo. La debolezza della borghesia tuttavia era tale, e le pressioni dal basso scatenate dal processo rivoluzionario erano al contrario tanto gigantesche, che poco servì aggrapparsi alla sacralità dei patti. Fidel e il Che, dopo la rivoluzione, rimediarono all’errore rompendo l’alleanza con la borghesia (o con la sua ombra), un errore che nella maggior parte dei processi rivoluzionari ha avuto conseguenze fatali.
L’atteggiamento dell’imperialismo americano
Verso la metà del 1957 si produssero alcune divisioni tra i differenti organismi attraverso cui agiva l’imperialismo nordamericano. I settori legati all’esercito, per esempio, continuavano a difendere Batista, senza pensare alle conseguenze del prolungare un regime fondato esclusivamente sulla repressione. Un altro settore, rappresentato dal nuovo ambasciatore Smith, mostrava disapprovazione verso Batista e vedeva la necessità di sondare il terreno per cominciare a pensare ad un sostituto. Egli non vedeva niente di sconveniente nel tentare approcci con lo stesso Movimento 26 Luglio (M26-J), il gruppo che era il candidato più serio a ricoprire un ruolo chiave nella caduta di Batista.
In una lettera a Fidel dell’11 luglio del 1957, pochi giorni prima di essere assassinato dalla polizia, Frank Pais esprimeva la sua preoccupazione per il carattere dei contatti che l’M26-J stava intrattenendo con l’ambasciata nordamericana: “Sono stufo di tutto questo avanti e indietro e di queste conversazioni con l’ambasciata e credo che ci converrebbe serrare le fila un po’ di più, senza perdere i contatti con loro, ma senza dargli tutta questa importanza come adesso; so che stanno manovrando, ma non vedo chiaramente quali sono i loro veri obiettivi.” Secondo lo stesso Anderson, “Il viceconsole era Robert Wiecha, in realtà un agente della Cia. L’altro uomo continua ad essere un mistero, ma avrebbe potuto essere il capo della Cia a L’Avana o il suo secondo, William Williamson; entrambi secondo Earl Smith erano ‘favorevoli a Castro’.” In seguito la Cia cambiò il suo orientamento.
Nel settembre del 1957 un ammutinamento navale a Cienfuegos, legato al M26-J, rivelò il malessere che la situazione provocava persino in alcuni settori del regime. In realtà si trattava di un piano che doveva coinvolgere tutte le caserme di Cuba, ma era stato mal preparato ed ebbe successo solo a Santiago, riuscendo a resistere solo per una settimana. Nella Sierra, la politica di terrore ed assassinio del governo e la convinzione che i guerriglieri avrebbero proseguito con tutte le loro forze la lotta contro la dittatura orientava i contadini verso la guerriglia. Tra gli esiliati si ebbe la firma del Patto di Miami (10 novembre 1957) con la partecipazione di tutti i partiti dell’opposizione borghese e di alcuni individui che millantavano di rappresentare l’M26-J. Dal patto nasceva una cosiddetta Giunta di liberazione nazionale.
Gli avvenimenti a Cuba però seguivano una dinamica propria. Il Che aveva preteso da Fidel una denuncia pubblica di questo patto minacciando le proprie dimissioni. A dicembre l’esercito ribelle di Fidel inflisse una sconfitta importante all’esercito di Batista, e Fidel Castro, il 14 dello stesso mese, pubblicò una lettera di critica aperta al patto, denunciando che l’accordo raggiunto a Miami non si opponeva esplicitamente alla formazione di una giunta militare né all’intervento straniero. Il Patto di Miami – che era una manovra per mettere il movimento guerrigliero in secondo piano nella lotta contro Batista – a quel punto si disgregò rapidamente, cosa che rende ancor più chiara la tremenda inconsistenza e l’assoluta mancanza di autorità dell’opposizione borghese a Batista.
La farsa elettorale di Batista
Alla fine del 1957, un anno prima della resa di Batista, l’esercito ribelle poteva contare solo su trecento uomini. Quell’anno comunque, nonostante le tensioni politiche, fu particolarmente buono dal punto di vista economico. Lo zucchero aveva prodotto entrate per 680 milioni di dollari, 200 milioni in più che nel 1956, il migliore risultato dal 1952. I nuovi investimenti del capitale straniero raggiungevano un totale di 200 milioni di dollari.
Nonostante le paure che le cose potessero sfuggire di mano a Batista, il rappresentante del governo Usa per gli affari caraibici, Wieland, aveva modo di affermare ad un giornalista: “So che molti considerano Batista un figlio di puttana[…] ma anzitutto mettiamo gli interessi americani […] almeno è il nostro figlio di puttana, non fa il gioco dei comunisti.” Il piano di Batista per trovare una via d’uscita in quella situazione consisteva nell’organizzare elezioni dagli esiti già preordinati, e anche se lui non avrebbe potuto presentarsi, si sarebbe riservato una ruolo chiave nell’esercito.
Così descrive la situazione Hugh Thomas: “La lotta sembrava ridursi all’unico duello tra Batista e Fidel. Gli autentici come Grau, Prio e Varona; gli ortodossi come Ochoa, Agramante, Bistè e Marquez Sterling; Salandrigas o Martinez Saenz, gli antichi leader dell’Abc, tutti rimasero fuori dal gioco. I politici dei partiti con più storia, come i liberali (il primo partito dei primi giorni della Repubblica), che avevano aiutato in tutto e per tutto Batista, alla fine si videro persi. Lo stesso accadde con molti politici che avevano servito Cuba e se stessi durante i precedenti 25 anni […]. Riassumendo, nel corso degli anni Batista aveva completato l’opera che gli altri avevano iniziato: la corruzione, il gangsterismo, la disoccupazione massiccia e il ristagno economico. Il popolo cubano aveva perso completamente la fiducia negli uomini che lo avevano governato, ma, siccome parliamo di un popolo di grande vitalità, non si rassegnava ad una vita meramente vegetativa, e conservava nell’anima un potenziale enorme di fiducia e speranza, che in seguito Castro mobilitò.” È difficile non vedere un certo parallelismo con l’acuta crisi d’autorità che vivono oggi i partiti borghesi in molti paesi dell’America Latina, dopo anni di privatizzazioni, impoverimento e saccheggio della ricchezza nazionale.
Il primo di marzo del 1958 i vescovi lanciarono una proposta di pace proponendo la formazione di un governo provvisorio e l’abbandono della lotta armata, che correttamente fu respinto al mittente dai dirigenti guerriglieri.
Il fallimento della “Operazione Estate” della dittatura
Fidel Castro aveva annunciato uno sciopero generale, ma senza fissare una data. Non poteva contare sull’appoggio dei sindacati, né su quello dei dirigenti comunisti, l’unico gruppo dell’opposizione con una influenza reale nel movimento operaio organizzato. Il fatto è che alla fine l’organizzazione dello sciopero “restò nelle mani dei comitati di azione del M26-J, senza nessun contatto vero con il mondo del lavoro”.
K. S. Karol, a questo proposito commenta: “Essi [i guerriglieri] concepirono lo sciopero del 9 aprile 1958 come una serie di azioni armate, in vari punti della città, a un’ora nota a poche persone; 2.000 uomini armati passarono infatti all’azione alle undici del mattino, mentre la radio annunciava che lo sciopero era cominciato e invitava tutti a lasciare il lavoro. L’azione di massa era stata prevista come un supporto, non di più.”
Lo sciopero fu un fiasco, ma ebbe importanti conseguenze sulla situazione: in relazione alle tensioni tra la pianura e la Sierra, all’interno del Movimento 26 Luglio, si riaffermò l’egemonia della Sierra, ovvero di Fidel e dei dirigenti guerriglieri nei confronti di quelli che portavano avanti il lavoro principalmente nelle città. Politicamente significò la riaffermazione dell’autorità dei settori più decisi e radicali del M26-J.
Per conto suo Batista interpretò invece il fallimento dello sciopero come un segnale di appoggio al suo governo e prese coraggio per lanciare un’ambiziosa offensiva contro la guerriglia. Ma si trattò di una valutazione sbagliata e la cosiddetta “Operazione Estate” lanciata nella Sierra Maestra si concluse con una sconfitta dalle conseguenze risolutive per la dittatura di Batista. “Le conseguenze di questo rovescio furono straordinarie. L’Alto Comando di Batista, che ora era ridotto a una banda demoralizzata di ufficiali corrotti, crudeli e pigri, senza esperienza di combattimento, cominciò a temere di essere totalmente eliminato da un nemico del quale non conoscevano con esattezza né i numeri né i nascondigli.”
In realtà da un punto di vista militare i guerriglieri costituivano una forza molto piccola, ma “le forze di Batista non potevano avanzare neppure un metro senza che in pochi minuti arrivasse qualcuno, correndo e sudando, a riferirlo a Castro.” Le diserzioni nell’esercito erano sempre più frequenti, perfino ai vertici. Nel luglio del 1958 la ritirata dalla Sierra Maestra divenne totale. Lo sbandamento e la disorganizzazione della ritirata furono tali che i guerriglieri riuscirono a venire in possesso anche dei codici segreti di comunicazione del nemico, con i quali impartirono ordini che depistarono anche le forze aeree.
Il 20 di luglio si saldò il Patto di Caracas, firmato in Venezuela tra il M26-J e tutti i partiti dell’opposizione, con l’eccezione del Psp (anche se a quel tempo c’erano già contatti tra il settore più a sinistra del M26-J e i comunisti, vista l’incapacità di arrivare ai lavoratori manifestata dai dirigenti più liberali del movimento attivi nelle zone pianeggianti), e dei partiti che si erano prestati a partecipare alla farsa elettorale fine a se stessa organizzata da Batista. Il patto fissava “una strategia comune per abbattere la dittatura con l’insurrezione armata”, un governo provvisorio di breve durata, “che condurrà […] ad un procedimento pienamente costituzionale e democratico; […] un piano per garantire il castigo ai colpevoli […] i diritti dei lavoratori, il rispetto degli accordi internazionali […] e il progresso economico e politico del popolo cubano […] Il distinto avvocato Mirò Cardona fu nominato coordinatore del Fronte [delle organizzazioni che siglarono il patto] e Castro fu nominato comandate supremo delle forze della rivoluzione. Il giudice Urrutia fu designato Presidente della Cuba in armi.”
Il ruolo della classe operaia nei momenti decisivi
La situazione della dittatura era insostenibile, così l’imperialismo puntò tutto su una “giunta civico militare”, rifiutando il piano di Batista di affidare, nel febbraio del 1959, la presidenza a Rivero Aguero, sulla base della farsa elettorale organizzata a novembre ed alla quale aveva partecipato meno del trenta per cento degli aventi diritto al voto. La conquista di Santa Clara da parte delle forze comandate dal Che annunciò l’inevitabile crollo del regime di Batista. Nella guerra contro Fidel Castro l’esercito registrò non più di trecento caduti, ma già nel 1958 era impossibile reclutare gente nell’esercito, mentre allo stesso tempo diversi ufficiali stavano già passando tra le file dei ribelli.
La sconfitta dell’esercito e il mancato intervento degli Stati Uniti avvertivano Batista che le sue ore erano contate. Il 31 dicembre, davanti all’avanzata della guerriglia in tutto il paese, il dittatore abbandonò Cuba – nel mezzo dei festeggiamenti per la fine dell’anno – rifugiandosi a Santo Domingo. Di fronte alle manovre dei militari che volevano instaurare un governo batistiano senza Batista, Fidel convocò lo sciopero generale. Questa volta fu un successo, la partecipazione massiccia. L’azione della classe operaia fu allora determinante e fondamentale. “Per tutta la settimana è lo sciopero generale che costituisce nella capitale l’elemento decisivo della situazione, impedendo a chiunque di colmare il vuoto di potere […]. L’esercito ribelle non è sufficientemente numeroso da infliggere da solo, senza questo potente movimento di sciopero, il colpo di grazia alle vecchie strutture politiche.”
La classe operaia entrava con tutta la sua forza sulla scena politica, ma a differenza della Rivoluzione del 1917 non avrebbe potuto giocare il ruolo centrale che sempre avevano sostenuto Lenin e i bolscevichi e che sarebbe stata la base della democrazia operaia e della struttura sovietica nei primi anni della rivoluzione russa.
III. Il capitalismo è battuto
Le aspettative di cambiamento
La dissoluzione dell’apparato repressivo di Batista, cioè dell’apparato borghese, non condusse automaticamente a un sistema di economia pianificata, né alla proclamazione da parte dei dirigenti dell’esercito ribelle di una Cuba socialista. Non esisteva un piano premeditato, cosciente, di mettere fine al capitalismo sull’isola.
Nonostante questo, la vittoria dell’insurrezione aveva scatenato pressioni sociali, tanto da parte della classe operaia e dei contadini, come da parte della borghesia e dell’imperialismo, che spingevano costantemente i dirigenti della guerriglia a prendere una decisione in un senso o nell’altro. La vittoria della guerriglia incrementò ancora di più le simpatie sulle quali questa già poteva contare prima della caduta dell’odiato Batista. Finalmente avrebbero potuto realizzarsi le aspettative di miglioramento sociale a lungo sospirate. Le pressioni e le lotte per aumenti salariali si fecero sentire immediatamente. “Nella parte interna di Cuba seimila lavoratori della Cuba Electric Company si dichiararono in ‘sciopero bianco’ per ottenere un aumento salariale del venti per cento, mentre seicento operai che erano stati licenziati dalla compagnia nel 1957-1958 iniziarono uno sciopero della fame accampandosi in un punto del palazzo presidenziale per rivendicare di essere riassunti. E scesero in lotta anche gli operai delle ferrovie che erano rimasti senza lavoro e quelli di una cartiera vicino a L’Avana, che aveva chiuso. Tremila lavoratori edili andarono via dalla Bahia de Moa. I lavoratori dei ristoranti minacciarono lo sciopero se non fossero stati riaperti i casinò. Ventuno mulini di zucchero subirono ritardi nel raccolto a causa delle rivendicazioni salariali. La rivoluzione aveva risvegliato speranze: come le avrebbe soddisfatte?” Proprio qui stava il cuore di una questione ancora irrisolta.
Il governo Urrutia
Quando trattò la resa di Santiago, Fidel prestò giuramento davanti al magistrato Manuel Urrutia, che sarebbe diventato il primo presidente dopo la rivoluzione. Paco Ignacio Taibo II, nella sua biografia di Guevara, spiega che il primo governo era “un governo nel quale dominava l’opposizione borghese, con incrostazioni del 26 luglio, e dal quale erano assenti le forze alleate del 26 Luglio: il Psp e il Direttorio.” H. Thomas commenta i primi passi del governo: “Le misure di Urrutia, tuttavia, si limitarono a proporre la fine del gioco d’azzardo e la chiusura dei bordelli”.
In realtà Urrutia si trovava sospeso in aria. Ora che lo stato borghese si era disintegrato completamente, il potere reale era nelle mani della guerriglia. Il suo fu un governo effimero, che soccombette rapidamente alle tensioni della lotta di classe scatenate dal processo rivoluzionario. Solo nel mese di marzo si cominciarono a prendere le prime misure concrete per rimediare alla precaria situazione del popolo. Vennero ridotti drasticamente gli affitti degli appartamenti; inoltre “i proprietari di terreni edificabili vuoti erano obbligati a venderli all’appena costituito Istituto del Risparmio Nazionale e delle Abitazioni o a chiunque voglia comprarli per costruirvi una casa”, furono ridotte le tariffe telefoniche con un intervento – ancora non una nazionalizzazione – nei confronti della compagnia telefonica; le importazioni di duecento prodotti di lusso subirono limitazioni; si cercò di limitare l’evasione fiscale mentre si confiscavano tutte le proprietà di Batista e dei suoi ministri a partire dal 1952, ed anche quelle di tutti gli ufficiali delle forze armate che avevano preso parte alla guerra civile. Ma tutte queste misure, pur avendo un carattere progressista, non erano concepite come parte di un piano per abbattere il capitalismo, neppure nel medio termine. Piuttosto somigliavano da vicino alle misure che in vari momenti presero governi nazionalisti come quello di Perón in Argentina o di Nasser in Egitto.
Le tensioni sociali continuavano ad aumentare e questo aveva un impatto sul governo e sulle relazioni degli Usa con Cuba. L’imperialismo nordamericano, a quel tempo, come prima della caduta di Batista, era diviso. Anche se alla fine risultò predominante l’ostilità alla rivoluzione cubana – fattore molto importante nella sua radicalizzazione a sinistra – l’ambasciatore Usa a Cuba dell’epoca, Bonsal, aveva la ferma convinzione che Fidel non fosse comunista, e si scontrò duramente con quei diplomatici e militari che chiedevano “azione”. In occasione del suo viaggio negli Usa dell’aprile del 1959, Castro suscitò un’eccellente impressione nei mass media e in un settore della stessa borghesia. Eisenhower e soprattutto Nixon, però, erano completamente ossessionati dalla presunta presenza di comunisti nel governo cubano, un fatto all’epoca del tutto privo di fondamento. Lo stesso Castro non ebbe nessun problema a dichiarare pubblicamente di non essere comunista. Nei suoi piani in quel momento c’era la richiesta di crediti alla Banca Mondiale o all’Import-Export Bank.
Polarizzazione crescente
Quali che fossero i piani disegnati dall’alto, la dinamica reale proponeva scontri ogni volta più acuti. La riduzione degli affitti e l’obbligo di vendere i suoli edificabili erano molto lontani dall’essere provvedimenti comunisti, però gli speculatori che ne venivano danneggiati erano diventati completamente isterici, nessuno poteva togliere loro dalla testa l’idea che i passi fatti dal governo non fossero altro che il prodotto di oscure manovre dei marxisti, visibili o invisibili che fossero. Nonostante la cura posta dal governo nel circoscrivere fortemente le misure che erano state prese, tra l’aumento dei salari ottenuto a partire da gennaio e le misure relative agli affitti prese a marzo, la distribuzione del reddito nazionale era stata seriamente e visibilmente modificata. Secondo Thomas “i salari reali erano aumentati forse più del quindici per cento e di conseguenza erano diminuiti i guadagni di possidenti e imprenditori.”
Il 17 maggio del 1959 venne promulgata la Legge di riforma agraria, un primo timido passo che sotto ogni aspetto era meno radicale di molte delle analoghe riforme portate avanti a suo tempo dalle borghesie dei paesi capitalisti avanzati o della stessa riforma agraria degli Usa. Tuttavia divenne il catalizzatore dell’agitazione contro il “comunismo” da parte della reazione interna e dell’imperialismo, che gridavano ogni volta con toni più acuti.
Se qualche serio analista nordamericano avesse osservato più da vicino quanto stava succedendo a Cuba in quel momento, avrebbe visto che le tensioni tra Fidel e il Psp stavano entrando in una fase molto critica. Nelle sue dichiarazioni pubbliche Fidel provava sempre a scrollarsi di dosso l’etichetta di comunista che gli statunitensi volevano appioppargli. Va ribadito che non c’era niente di più lontano dalle intenzioni della direzione del Psp che spingere il processo rivoluzionario verso il socialismo, anche se già in quel momento accordava un appoggio a Fidel. Il 21 maggio in una intervista televisiva Fidel spiegò che il suo obiettivo era una rivoluzione differente sia dal capitalismo che dal comunismo che, per il suo essere autoctona, come la musica cubana, e umanista, non sarebbe stata né di destra né di sinistra, ma solo “un passo in avanti”. Il 22 maggio tornò in televisione per dichiarare che nella rivoluzione cubana non c’era posto per gli estremisti.
Tutti gli sforzi profusi a non “provocare” la suscettibilità degli imperialisti furono comunque vani. L’amministrazione nordamericana aveva già deciso di sabotare e schiacciare la rivoluzione indipendentemente da quanto avesse fatto o detto Fidel, un atteggiamento molto simile a quello che oggi vediamo nei confronti della rivoluzione venezuelana. Fidel, che contava su un vastissimo appoggio popolare, tentava di prevenire un ulteriore inasprimento della lotta di classe, ma questo era uno sviluppo inevitabile. Le riserve sociali della controrivoluzione, fino a quel momento latenti e che partivano da una situazione di estrema debolezza, cominciarono ad organizzarsi.
L’Associazione nazionale degli allevatori dichiarò con durezza che il limite massimo di 3.333 acri per la proprietà terriera non lasciava margine di profitto agli affari. I latifondisti cominciarono a comprare spazi nelle emittenti radio private per attaccare la legge e lanciarono una campagna di riunioni di protesta; si venne a sapere che l’Associazione aveva deciso di destinare mezzo milione di dollari per corrompere ed aizzare i giornali perché criticassero la riforma agraria. Questa campagna, sostenuta anche dall’imperialismo, fu uno dei fattori che spinsero i settori borghesi del governo ad abbandonarlo. In pratica i borghesi liberali nel governo non avevano la forza sufficiente per intervenire in modo decisivo nel processo. Dovevano la loro autorità all’alleanza con Fidel, che era il loro vincolo con la rivoluzione e con il movimento guerrigliero. Autonomamente non avrebbero potuto fare nulla. Le tensioni politiche portarono ad uno scontro pubblico di Fidel con Urrutia, il presidente della Repubblica, che si dimise il 17 luglio del 1959. Questa crisi non mise in pericolo il processo rivoluzionario, ma era sintomatica delle contraddizioni di classe che cominciavano a tormentare un progetto che non era “né di destra, né di sinistra”.
Fidel e i dirigenti guerriglieri basavano la loro forza sull’enorme prestigio popolare conquistato, sull’esercito rivoluzionario e sulla riforma agraria. A settembre il governo introdusse nuove tasse sulle importazioni di articoli di lusso e restrizioni alla politica di cambio della valuta. Continuavano ad essere misure che non valicavano i limiti del capitalismo, correzioni destinate ad alleviare i problemi tipici di un paese con un’economia molto vulnerabile. Non c’era stato ancora nessun cambiamento qualitativo nei rapporti di produzione capitalisti.
A quell’epoca la visita di Krusciov negli Stati Uniti aveva rinnovato lo spirito di moderazione che mai comunque era mancato alla direzione del Psp. Fedele alla politica stalinista della “coesistenza pacifica” praticata dall’Urss, Blas Roca, il segretario generale del Psp, predicava la moderazione e segnalava i pericoli del “sinistrismo” considerata la dipendenza di Cuba dal mantenimento del quadro internazionale e dalle importazioni. Come avvenne quindici anni dopo nella rivoluzione portoghese del 1974, i dirigenti comunisti non facevano altro che accodarsi ai militari, i quali effettivamente si stavano orientando a sinistra, ma lo facevano nonostante e non grazie ai dirigenti del partito.
Nel frattempo si accumulavano le provocazioni dei reazionari con base a Miami, come l’invio di aerei a sorvolare Cuba, e si moltiplicavano le tensioni interne, come le dimissioni del governatore militare di Camaguey ad ottobre, in polemica con le “infiltrazioni comuniste”. Anche se Castro continuava a dichiarare di non essere comunista, dato l’ambiente pieno di contrasti, di fatto chiunque altro facesse una dichiarazione anticomunista si stava allineando, in pratica, all’imperialismo e all’opposizione borghese, cosa molto poco conveniente. Il margine per una politica che provasse a conciliare gli interessi di classe sempre più opposti si faceva estremamente stretto. I rappresentanti della borghesia liberale nel governo diminuivano ad ogni crisi.
Il Che, dopo l’uscita della borghesia liberale dal governo, assunse la presidenza della Banca nazionale, oltre alla responsabilità della sezione di Sviluppo Industriale del Inra (Istituto nazionale della riforma agraria). Il fatto che un dirigente tanto identificato con la sinistra, che apertamente si proclamava marxista, assumesse questa responsabilità, causò un’ondata di “panico finanziario”. Alla fine del 1959, l’ambasciatore Bonsal, fino a quel momento fermo difensore della ricerca di un accordo con la rivoluzione cubana, giunse alla conclusione che “non possiamo sperare in nessun tipo di accordo con Castro”. L’ostilità crescente dell’imperialismo spinse la rivoluzione ancora più avanti. In Guatemala, sebbene la base d’appoggio della reazione fosse debole come a Cuba, il golpe contro Arbenz aveva trionfato. Questo precedente rappresentò un serio monito per i dirigenti guerriglieri.
Le nazionalizzazioni, la chiave per l’avanzata della rivoluzione
Alla fine del 1959, come riporta Thomas, “per le masse cubane, Castro ancora rappresentava non solo una speranza, ma una conquista. Le cooperative agricole erano novità emozionanti. Si stavano distribuendo un po’ di terre. La riduzione degli affitti e delle tariffe del telefono e dell’elettricità aveva aumentato il potere d’acquisto, e per il momento l’inflazione conseguente non aveva colpito i salari. I dazi contro le importazioni dagli Usa e le difficoltà a viaggiare avevano colpito i ricchi, non i poveri. La disoccupazione rurale non era cambiata molto, ma evidentemente l’istruzione e i servizi medici gratuiti erano ora alla portata di tutti, grazie alla riduzione delle spese basilari per tutti quelli che meno potevano affrontarle”.
L’8 gennaio del 1960, l’Inra s’impossessò di 29.000 ettari di proprietà nordamericana, provocando nuove proteste da parte dell’ambasciatore Usa Bonsal. Comunque il governo non cambiò la sua linea e, com’era sua abitudine, procedette a indennizzare i proprietari con buoni da riscattare in venti anni, con il 3,5 per cento di interesse.
La politica degli Usa continuava a dibattersi tra infinite contraddizioni. Un settore dell’amministrazione repubblicana di Eisenhower temeva che un atteggiamento eccessivamente aggressivo verso Cuba avrebbe prodotto una rottura con questo tradizionale alleato degli Stati Uniti. Non volevano presentarsi a ridosso delle elezioni, che si sarebbero tenute a novembre, prendendosi la responsabilità di un’altra crisi della portata di quella con l’Egitto nel 1956, quando Nasser aveva nazionalizzato il Canale di Suez. Il vicepresidente Nixon e la Cia avevano invece un approccio molto più ossessivo, vedevano comunisti sorgere dappertutto, così già alla fine del 1959 era in preparazione un piano militare per destituire Castro. L’esperienza della caduta di Arbenz in Guatemala non solo era ben impressa nella memoria dei dirigenti della rivoluzione cubana, ma rappresentava anche la “facile soluzione” che venne in mente agli strateghi della Cia, anche se col senno di poi si può affermare che fosse un’idea disastrosa per gli Usa.
In verità, per quanto un settore dell’imperialismo americano, che alla fine risultò determinante, si ostinasse a vedere una “influenza comunista” negli sviluppi cubani, ciò che è sicuro è che la condotta dell’Urss non fu mai volta ad alimentare nell’isola il processo di rottura con il capitalismo. Thomas a questo proposito riporta come il governo sovietico non fosse all’epoca particolarmente “entusiasta dell’idea che i partiti comunisti prendessero il potere nel nuovo mondo. Evidentemente se ciò fosse avvenuto gli Usa ne sarebbero stati contrariati, cosa che probabilmente sarebbe stata d’ostacolo nel mantenimento del modus vivendi raggiunto con l’Unione Sovietica, e questo allora sembrava un obiettivo politico importante. Stalin ebbe un problema simile con la Spagna nel 1936-1939: se in Spagna si fosse impiantato un nuovo stato comunista, l’avvicinamento all’Inghilterra e alla Francia, che allora erano i suoi principali obiettivi diplomatici, sarebbe divenuto più difficile.” La rivoluzione spagnola fu deliberatamente tradita in ossequio agli interessi della burocrazia russa rappresentata da Stalin, ma anche nel caso cubano la burocrazia del Cremlino non fece nulla per incoraggiare il movimento rivoluzionario. Le aspirazioni dell’Urss erano rappresentate dalla politica confusa e opportunista della direzione del Psp, della quale abbiamo parlato diffusamente. Per i dirigenti dell’Urss l’internazionalismo era accessorio a quelli che essi consideravano i loro “interessi” strategici, ovvero la politica di “coesistenza pacifica” con gli Usa disegnata dagli accordi di Yalta (1945) e la divisione del mondo in sfere d’influenza.
Gli accordi commerciali stretti da Cuba con l’Urss all’inizio del 1960 non avevano un senso politico sostanzialmente differente dalle relazioni commerciali che l’Urss aveva stabilito ad esempio con l’Egitto, senza che questo significasse che gli stalinisti difendessero una rivoluzione socialista nel paese arabo. In precedenza, Cuba aveva già venduto zucchero all’Urss – più di un milione di tonnellate tra il 1955 e il 1958, cioè nel pieno della dittatura di Batista. Detto questo, è ovvio che esistessero tensioni molto forti tra Usa e Urss, nella misura in cui rappresentavano sistemi socio economici contrapposti ed inconciliabili, ma l’asse centrale della politica estera sovietica era mantenere lo status quo e, in ogni caso, alimentare la tensione con “colpi ad effetto” che però non mettessero in pericolo la tranquillità e la stabilità della burocrazia.
Questa fu anche l’opinione di Thomas: “Un accordo commerciale con l’Urss, e perfino uno militare, non esprimevano necessariamente l’accettazione di un’ideologia marxista-leninista, con tutte le conseguenze interne ed esterne che questo comportava. L’Urss forse avrebbe preferito un Castro neutrale piuttosto che un Castro allineato. E se alla fine si allineò, è qualcosa che, ad ogni modo, non può essere attribuito unicamente all’Urss – e forse non le può essere attribuito per niente – semmai principalmente a Castro, più che ai comunisti cubani.” Più avanti: “La rivoluzione cubana non era stata progettata dall’Urss. La rapidità degli avvenimenti aveva colto il governo sovietico di sorpresa. Forse, come sembrava indicare la lettera di Krusciov trasmessa attraverso Alexayev, l’Urss avrebbe preferito una Cuba neutrale a una Cuba alleata.”
L’orientamento che alla fine assunse la rivoluzione cubana fu un fattore di prestigio per la burocrazia russa, che si appuntò una medaglia sul petto in pieno conflitto con la burocrazia cinese, ma fu un processo che appoggiò a fatti avvenuti. Tanto è vero che quando il governo cubano lanciò la politica di nazionalizzazioni alla metà del 1960, Blas Roca, il segretario generale del Psp, difese l’idea che “l’impresa privata che non è imperialista … è ancora necessaria”. Anibal Escalante, impersonando uno degli esempi di cecità politica più grotteschi provocati dalla teoria stalinista delle due fasi, insistette ancora all’ottavo Congresso del Psp, celebrato nell’estate del 1960, che la rivoluzione doveva cercare di mantenere la borghesia “dentro il campo rivoluzionario”. Ovviamente, la realtà non si fermò davanti a queste strane teorie, ma è importante rimarcare che il passo qualitativo che diede la rivoluzione cubana nel 1960 non fu spinto, in nessun modo, dall’Urss o dalla politica del Psp a Cuba.
Al termine della campagna saccarifera del 1960, l’Inra espropriò quasi tutti i terreni destinati alla coltivazione della canna da zucchero di proprietà dei mulini, e li diede in gestione ad un migliaio di cooperative. Tra questi erano inclusi i 111mila ettari appartenenti alla Cuban Atlantic, alla Cuban American e alle altre grandi compagnie nordamericane, che come al solito furono indennizzate con buoni di pagamento a scadenza ventennale. Non furono toccati i mulini in quanto tali, che avrebbero potuto comprare la canna da zucchero dalle cooperative nel raccolto successivo.
Il 23 maggio il governo avvisava le raffinerie delle compagnie petrolifere operanti a Cuba (Texaco, Royal Dutch e Standard Oil), che avrebbe chiesto loro di raffinare il petrolio russo che sarebbe arrivato in conseguenza degli accordi commerciali siglati in febbraio. Alla metà di giugno, le compagnie risposero che non avrebbero raffinato petrolio sovietico. Il 28 giugno fu approvato il progetto di legge che dava carta bianca ad Eisenhower perché riducesse o sopprimesse la quota di zucchero cubano che importavano gli Usa ogni anno, pari a circa la metà delle esportazioni cubane. Il 6 luglio entrò in vigore la sospensione dell’acquisto di zucchero per l’anno in corso. In risposta il 9 luglio più di seicento compagnie nordamericane ricevettero l’ordine da parte del governo cubano di presentare dichiarazioni giurate sulle scorte di materie prime, riserve, scorte di magazzino e quant’altro fosse in loro possesso, un primo passo verso quella che si sarebbe presto convertita in una nazionalizzazione completa della proprietà nordamericana sull’isola.
Parallelamente l’Urss annunciò che si sarebbe fatta carico di acquistare la quota di zucchero rifiutata dagli Usa. La rapidità con la quale l’Urss firmò questi contratti con Cuba si spiegava per il contesto creato dalla rottura cino-sovietica (nel 1960 l’Urss aveva ritirato gli aiuti alla Cina, dopo anni di tensioni a tutti i livelli), che apriva una chiara competizione tra le due burocrazie per il prestigio internazionale nei differenti ambiti della sinistra e dei movimenti di liberazione nazionale.
Intanto gli Usa avevano richiamato in patria tutti i diplomatici e gli incaricati di rilievo da Cuba, fino a quel momento impegnati a tentare di smorzare le crescenti tensioni tra i due paesi. Gli Usa erano nel pieno della campagna elettorale presidenziale e la questione cubana diventò così uno dei punti centrali di battaglia fra i contendenti. Il candidato democratico Kennedy si fece difensore di una posizione ancora più intransigente del presidente uscente Eisenhower. Nel corso della campagna prese piede una specie di competizione tra democratici e repubblicani per vedere chi risultasse più convincente nella difesa di una politica volta ad “estirpare il comunismo”. Kennedy accusò Eisenhower di aver creato la “prima base del comunismo nei Caraibi”. Eisenhower, dal canto suo, reagì il 13 ottobre con la sospensione di tutte le relazioni economiche con Cuba. Kennedy replicò definendo queste misure come tardive e insufficienti e invocando un intervento militare.
A Cuba la risposta fu rapida. Durante il fine settimana tra il 14 e il 15 ottobre l’Inra espropriò 382 imprese private, comprese tutte le banche, tutti i mulini di zucchero che restavano in mano a privati e diciotto distillerie. Dieci giorni dopo venne annunciata una nuova serie di nazionalizzazioni che colpivano 166 imprese nordamericane, tra cui Westinghouse, Coca Cola ed altre importanti multinazionali.
L’invasione della Baia dei Porci
Con l’elezione di Kennedy nel novembre del 1960, quando ormai si era al culmine del processo di nazionalizzazioni, l’invasione da parte degli Usa era considerata a ragione imminente. Questa prospettiva provocava una mobilitazione generale nella popolazione cubana. La Cia, sottostimando clamorosamente le grandi riserve d’appoggio che aveva la rivoluzione, confidava nel fatto che un’invasione avrebbe innescato una rivolta interna che avrebbe fatto cadere Fidel. Secondo i calcoli dell’intelligence statunitense, la controrivoluzione poteva fare affidamento su 2500 militanti attivi nell’esercito, su ventimila sostenitori nelle città e, al loro seguito, su una quarta parte della popolazione cubana. Nonostante tutto fosse ormai pronto, c’erano negli Usa voci contrarie all’invasione, per le insidie implicite in un coinvolgimento diretto (si sa quando comincia ma non quando finisce) e per gli effetti politici che questo poteva provocare tanto a Cuba come nel resto dell’America latina. Come ebbe a commentare un senatore, “il regime di Castro è una spina infilzata nella carne… non un coltello nel cuore”. Altri si lamentavano dell’impazienza che si stava manifestando nei confronti di Cuba, affermando al contrario che si sarebbe dovuto aspettare, ma l’orientamento predominante fu quello che spingeva ad agire “adesso o mai più”, e che pronosticava una sconfitta dei castristi tanto rapida come quella di Arbenz in Guatemala.
L’invasione cominciò nelle prime ore del mattino del 15 aprile 1961 con un volo di bombardieri americani su cui era stata dipinta la bandiera cubana perché sembrasse una questione interna, ma subito si dimostrò che gli aerei erano in realtà americani, e Kennedy, spaventato dalle implicazioni che ciò avrebbe potuto avere sul piano internazionale, sospese l’appoggio aereo all’invasione. Secondo periti del governo cubano, i 1500 uomini che componevano il piccolo esercito addestrato per l’invasione avevano posseduto a Cuba prima della rivoluzione 400mila ettari di terra, 10mila case, settanta fabbriche, cinque miniere, due banche e dieci mulini di zucchero. Politicamente lo spettro andava dalla estrema destra a settori risentiti del M26-J che avevano combattuto con Castro, ma che non erano d’accordo con la direzione di sinistra che aveva preso la rivoluzione.
L’esercito guerrigliero era uno strumento insufficiente per far fronte alla pressione militare a cui veniva sottoposta la rivoluzione cubana. In un clima di crescente ostilità da parte degli Usa che preparava l’invasione, Fidel dovette basarsi sulla creazione di milizie popolari, che avrebbero in poco tempo inquadrato 200mila cubani, uomini e donne che “dopo il lavoro quotidiano, si mettevano l’uniforme e prendevano i fucili per otto ore alla settimana, e presidiavano gli edifici pubblici ed altre installazioni importanti perché non fossero attaccati dai controrivoluzionari.”
L’invasione fu un fallimento completo e finì per provare l’appoggio popolare di cui godevano i dirigenti della rivoluzione, oltre a celebrare il funerale del capitalismo sull’isola. Rendendosi conto che le conquiste rivoluzionarie erano minacciate dall’invasione imperialista, la massa della popolazione reagì con determinazione e coraggio per bloccarla. Le varie milizie rivoluzionarie costituite sotto la pressione della mobilitazione popolare facevano a gara tra di loro per guadagnarsi l’onore di essere le prime a schiacciare la reazione. Il popolo e i 200mila miliziani armati capivano perfettamente che la vittoria degli invasori avrebbe significato la fine della rivoluzione: essere ricacciati nella precedente condizione di schiavitù sotto il giogo dei latifondisti, patire nuovamente la fame e condizioni di vita subumane, senza considerare la vendetta dei vecchi padroni che avrebbero scatenato i loro scagnozzi in una feroce campagna di omicidi e torture.
La catastrofe subìta dall’imperialismo fu completa: in soli due giorni, dei 1400 partecipanti all’abortita invasione, 1200 furono fatti prigionieri. Fu in questo contesto che, il 16 aprile, durante la sepoltura delle prime vittime tra i miliziani, Castro parlò per la prima volta di “rivoluzione socialista”. Il primo maggio del 1961, il carattere socialista della rivoluzione cubana veniva annunciato alle masse.
La rottura con il capitalismo diventa definitiva
La questione politica più importante da evidenziare in questa situazione è che la rivoluzione doveva avanzare per sopravvivere. Come segnalò il Che in un discorso pronunciato ad Algeri alla fine del 1963: “I grandi latifondisti, molti dei quali nordamericani, sabotarono immediatamente la legge della riforma agraria. Pertanto ci confrontavamo con scelte che si presentano immancabilmente in una situazione rivoluzionaria: una situazione nella quale una volta imbarcati, è difficile tornare indietro. Tuttavia sarebbe stato più pericoloso retrocedere perché questo avrebbe significato la morte della rivoluzione […]. La direzione più giusta e più pericolosa era quella di andare avanti […]. Così quello che noi avevamo ipotizzato, ovvero che sarebbe stata una riforma agraria di tipo borghese, si trasformò in una lotta violenta.” Il Che condensò in questa frase delle preziose lezioni per comprendere il carattere della rivoluzione cubana e quello che dovette fare per sopravvivere.
In realtà i dirigenti guerriglieri aspiravano a una rivoluzione borghese che permettesse loro di portare a compimento le misure democratiche e la riforma agraria, ma per i latifondisti e per l’imperialismo perfino i provvedimenti più modesti della rivoluzione erano inaccettabili e lo erano tanto per il loro contenuto intrinseco, nella misura in cui colpivano il potere e i privilegi degli imperialisti e dei loro alleati nell’isola, quanto per l’effetto che avevano sulle masse, che risultavano galvanizzate da ogni vittoria, accentuandone lo stato di agitazione e radicalizzazione.
Il processo rivoluzionario cubano contiene un’altra lezione chiave per qualsiasi rivoluzione oggi in America Latina: tutte le aspirazioni alla sovranità nazionale e all’indipendenza dall’imperialismo possono essere raggiunte solo con una politica risolutamente socialista che si imponga l’abbattimento del capitalismo come primo compito. Non c’è alcuna possibilità di sovranità finché non venga spezzato il giogo del capitalismo e lo schiacciante dominio del mercato mondiale e dei grandi monopoli imperialisti. Tracciare una via nazionalista di liberazione rispettando i limiti del capitalismo è stato, per decenni, una fonte di disastrose sconfitte per i movimenti rivoluzionari in America latina e nel resto del mondo. L’esempio di Cuba è significativo: la sovranità nazionale fu affermata nel momento in cui la rivoluzione espropriò la borghesia locale, la proprietà imperialista, i latifondisti, e ruppe definitivamente con il capitalismo. L’inizio fu questo, niente di più e niente di meno.
Garantire le conquiste della rivoluzione e la sua estensione esige anche, e questo è fondamentale, il trionfo della rivoluzione socialista in America latina e nei paesi capitalisti avanzati. Questo è un aspetto decisivo che affronteremo più avanti.
IV. Cuba dopo la rivoluzione
L’evoluzione della rivoluzione cubana fino a stabilire un sistema di economia pianificata gettò le basi per uno sviluppo economico e per alcuni progressi sociali che sarebbero stati impensabili sotto il capitalismo. Perfino oggi, nonostante l’embargo economico, commerciale e finanziario degli Usa e la caduta dei regimi dell’Est con i quali Cuba aveva la gran parte delle sue relazioni commerciali, è significativo l’abisso tra il livello della sanità, dell’istruzione e degli altri servizi sociali raggiunto da Cuba rispetto ad altri paesi centroamericani e perfino rispetto ai paesi capitalisti più sviluppati dell’America latina. L’eliminazione del capitalismo nell’isola portò enormi vantaggi ma anche nuove contraddizioni. Alcune derivavano dal fatto che l’economia predominante nel mondo continuasse ad essere capitalista e che l’economia del paese fosse stata modellata, nel corso di molti decenni prima della rivoluzione, dalla divisione mondiale del lavoro che aveva assegnato a Cuba il ruolo di produttore di zucchero. Altre contraddizioni provenivano dal carattere specifico di una società che rompeva con il capitalismo, ma che non era ancora socialista.
La transizione al socialismo: alcune considerazioni teoriche
Una questione elementare della teoria marxista è che il socialismo, inteso nel senso di una tappa specifica dello sviluppo sociale dell’umanità, non viene automaticamente come conseguenza della soppressione del capitalismo. Quello che è invece automatico, improvviso, è l’abbattimento della borghesia in quanto classe dominante, ovvero il fatto di togliere a questa classe il potere economico e politico che le conferisce il controllo dell’apparato statale. Nella rivoluzione cubana, come abbiamo visto, l’espropriazione economica della borghesia ebbe bisogno di un atto ulteriore, che permise così l’instaurarsi di un’economia pianificata e sancì la soppressione del capitalismo sull’isola. Un sistema di economia pianificata però non è di per sé il socialismo, è solo la precondizione per raggiungerlo.
Una differenza fondamentale tra una società socialista e una società in transizione verso il socialismo è che in quest’ultima permane il pericolo della restaurazione del capitalismo. Nonostante l’abbattimento del potere della borghesia persistono fattori esterni e interni che possono arrivare a frenare il processo e a farlo retrocedere. Solo capendo la natura specifica di una società in transizione tra il capitalismo e il socialismo, con i pericoli e le deviazioni sempre in agguato, si può apprezzare appieno l’importanza del fatto che la classe operaia giochi un ruolo cosciente in questo processo. La democrazia operaia è qualcosa di indispensabile, non un lusso, un’opzione, in funzione del tipo di via al socialismo che ogni paese scelga di perseguire. La lotta per l’estensione della rivoluzione in altri paesi, al pari della democrazia operaia, è l’altra direzione fondamentale verso cui una società in transizione deve dirigersi, se non vuole essere soffocata dai limiti imposti dallo Stato nazionale.
L’impraticabilità del socialismo in un paese solo
In realtà l’idea che sia possibile costruire il socialismo in un solo paese, propugnata per la prima volta da Stalin, riflettendo il carattere conservatore e miope della burocrazia di cui era il massimo rappresentante, è totalmente inconsistente e vìola i princìpi più elementari della teoria marxista.
La teoria del socialismo in un solo paese – che critichiamo fermamente – non ha niente a che vedere con la ovvia necessità, per ogni militante rivoluzionario, di difendere le conquiste rivoluzionarie raggiunte in qualsiasi paese in cui la classe operaia prenda il potere. Se la classe operaia raggiunge il potere in un dato paese, tutti i lavoratori in ogni parte del mondo devono lottare per difendere questa conquista ad ogni costo. Quello di assicurare la sopravvivenza di uno Stato operaio è un elementare dovere rivoluzionario, ma ciò non contraddice l’idea che la rivoluzione socialista possa trionfare solo su scala mondiale. Comprendere che il socialismo è possibile solo se è internazionale è il fondamento stesso dell’internazionalismo proletario. Questa idea, in pratica, implica che una rivoluzione, che necessariamente comincia in un paese, non possa rimanere confinata dentro le sue frontiere nazionali se non vuole rimanere soffocata.
L’economia mondiale è un organismo dotato di vita propria, non semplicemente la somma delle economie nazionali. La tendenza espansiva alla globalizzazione è un fenomeno che accompagna il capitalismo dalla sua nascita – come spiega Marx nel Manifesto Comunista – sulla base della spinta impressa dal commercio mondiale e dalla divisione internazionale del lavoro. Il problema per lo sviluppo dell’umanità, e in particolare nei paesi economicamente arretrati, non risiede nella globalizzazione o, per usare la terminologia classica del marxismo, nella internazionalizzazione del processo di produzione e scambio, ma nel dominio asfissiante che l’imperialismo esercita per mezzo di essa.
Da un punto di vista rivoluzionario e marxista il carattere internazionale conferito allo sviluppo delle forze produttive costituisce il punto di partenza per la costruzione del socialismo, ovvero l’internazionalizzazione getta le basi affinché, con un’economia pianificata a livello mondiale, i progressi dell’umanità possano essere vertiginosi. Pertanto, in questo senso, ha un contenuto progressista. Il vero ostacolo per il progresso sociale è la proprietà privata dei mezzi di produzione e la camicia di forza dello Stato nazionale, che è l’espressione materiale degli interessi nazionali delle varie borghesie.
La stella polare che ha guidato la politica di Lenin e dei bolscevichi in ogni fase della rivoluzione era che il compito più urgente e necessario per la stessa sopravvivenza dello stato operaio doveva essere l’estensione della rivoluzione ad altri paesi. Questa idea era solidamente radicata non solo tra i dirigenti e tra i militanti bolscevichi, ma anche in ampi settori del proletariato rivoluzionario. La Russia era un paese che ereditava dal capitalismo enormi elementi di ritardo economico e sociale. L’estensione della rivoluzione alla Germania, all’epoca già tra i paesi capitalisti più sviluppati, avrebbe permesso di accelerare notevolmente il passo dello sviluppo economico e migliorare le condizioni di esistenza delle masse sovietiche. Ciò aveva implicazioni politiche più importanti di quanto si sia portati a pensare perché lo sviluppo della tecnica e la riduzione dell’orario di lavoro dovevano essere una leva fondamentale per permettere e spingere alla partecipazione cosciente la classe operaia nel compito di costruzione del socialismo sovietico.
L’internazionalismo di Lenin non era astratto, ma concreto. Tutte le sue energie a partire dalla capitolazione della II Internazionale di fronte alla guerra, nell’agosto del 1914, furono dedicate a forgiare le forze necessarie per costruire una nuova internazionale. La III Internazionale, il partito mondiale della rivoluzione socialista, fu la concretizzazione dell’internazionalismo dei bolscevichi. L’Internazionale era allo stesso tempo lo strumento necessario per assicurare la sconfitta del capitalismo mondiale e l’unico modo per difendere la vittoria dell’Ottobre e l’Urss.
Lenin aveva aspramente combattuto le illusioni sulla presunta “costruzione del socialismo in un solo paese” ogni qualvolta emergesse la sola possibilità che il carattere internazionale della rivoluzione fosse negato. In innumerevoli scritti si ripropone costantemente questo leit-motiv. In una occasione, ad esempio, affermò: “Voi sapete bene fino a che punto il capitale è una forza internazionale, fino a che punto le fabbriche, le imprese e i commerci capitalisti più importanti sono tra loro vincolati in tutto il mondo, e conseguentemente è impossibile battere definitivamente il capitalismo in un solo luogo. Si tratta di una forza internazionale e per batterla definitivamente è necessaria l’azione comune degli operai su scala internazionale. Da quando abbiamo combattuto i governi repubblicani borghesi in Russia nel 1917, da quando abbiamo conquistato il potere dei soviet nel 1917, non abbiamo mai smesso di segnalare che l’obiettivo essenziale, la condizione fondamentale per la nostra vittoria risiedeva nell’estensione della rivoluzione quanto meno in alcuni paesi avanzati.”
Lo Stato e il periodo della transizione
In una società in transizione, che ancora non è socialista, e che in una certa misura trascina ancora con sé determinati aspetti del proprio recente passato capitalista, è fondamentale prestare attenzione alle caratteristiche che deve avere il nuovo Stato operaio.
Marx e Lenin erano perfettamente coscienti del fatto che il socialismo avesse bisogno di un periodo di transizione, durante il quale la classe operaia organizzata come classe dominante ha bisogno ancora di esercitare la propria coercizione sulle vecchie classi possidenti, la borghesia e i latifondisti. Ma la dittatura del proletariato, o in termini più attuali, la democrazia operaia, non rappresenta uno Stato alla vecchia maniera. Si tratta semmai di uno Stato le cui funzioni prettamente repressive si estinguono nella misura in cui le classi vadano scomparendo. In una situazione in cui non fosse più necessaria la repressione, venendo meno la resistenza dei capitalisti e delle vecchie classi possidenti, lo Stato in quanto tale si sarebbe progressivamente dissolto.
Noi marxisti non intendiamo il socialismo come un processo nel quale lo Stato si rafforza. Al contrario, il socialismo è una fase di transizione nella quale lo Stato, ovvero in questo caso lo Stato operaio, perde via via le sue funzioni e si dissolve. In Stato e rivoluzione, Lenin riassunse quelle che riteneva essere le condizioni per un regime di democrazia operaia sano, che potesse assicurare la transizione dal capitalismo al socialismo:
1) Tutto il potere ai soviet, cioè ai consigli degli operai, dei soldati e dei contadini.
2) Tutti i funzionari devono essere eleggibili e revocabili in qualsiasi momento e non riceveranno un salario maggiore di quello di un operaio qualificato.
3) Tutte le cariche nell’amministrazione devono essere a rotazione. Nelle parole di Lenin: “Anche una cuoca può essere primo ministro”.
4) Nessun esercito permanente, che deve essere sostituito da una milizia operaia.
L’emergere della burocrazia in Russia
Gli avvenimenti successivi alla rivoluzione d’Ottobre non si svilupparono come avevano previsto i bolscevichi. L’ondata rivoluzionaria che si scatenò in Europa e che colpì numerosi paesi non portò ad alcun successo. In Germania la rivoluzione fallì a causa del tradimento della socialdemocrazia che si comportò da principale sostegno del regime capitalista. L’assassinio dei più importanti leader del proletariato tedesco, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fu un duro colpo per le giovani forze del comunismo in Germania e per l’insieme dell’Internazionale.
Per un lungo periodo la rivoluzione russa rimase isolata mentre all’interno dell’Urss si verificò un profondo processo di sfinimento della classe operaia. La rivoluzione era stata una grande divoratrice di energie, seguita dalla guerra civile e da quella contro l’intervento di ventuno eserciti stranieri. Decine di migliaia tra i migliori quadri comunisti perirono sui campi di battaglia. In questo contesto lo Stato sovietico dovette basarsi su un’economia di guerra che impose condizioni di vita anche più dure di quelle che esistevano sotto lo zarismo.
Il riflusso del moto di “orgoglio plebeo” – parafrasando Trotskij – che era stato il sostegno di tutto il processo rivoluzionario e della difesa della rivoluzione, indebolì il controllo sull’apparato dello Stato che la classe operaia esercitava con la sua attività e la sua partecipazione. In questo contesto i settori più passivi della società, i funzionari e la gran quantità di ufficiali smobilitati e privi di una indicazione precisa su quali avrebbero dovuto essere i loro compiti una volta terminata la guerra, cominciarono ad acquisire maggiore indipendenza e coscienza del loro ruolo privilegiato.
L’ultima battaglia di Lenin, quando già era gravemente ammalato, fu dedicata a combattere questo fenomeno di crescente burocratizzazione dello Stato. Come Marx aveva segnalato da tempo, in mezzo alla miseria, alla necessità e alla lotta per la sopravvivenza quotidiana era inevitabile che “tutta la vecchia immondizia” cominciasse a venire a galla. In queste condizioni oggettive era estremamente ingannevole parlare di socialismo, cosa che Lenin aveva ben presente quando avvertiva con la consueta chiarezza i suoi compagni dei pericoli che minacciavano il giovane Stato operaio sovietico: “Si dice che era necessario un apparato statale – scrisse Lenin nella lettera Meglio meno ma meglio – Da dove proviene questa convinzione? Non sarà per caso dallo stesso apparato russo che, come ho segnalato in un altro capitolo del mio diario, prendemmo dallo zarismo ungendolo con dell’olio sovietico? Senza dubbio questa misura si sarebbe dovuta rinviare fino a quando non avessimo potuto garantire un apparato autonomo. Ma adesso dobbiamo ammettere coscientemente il contrario: l’apparato dello Stato che chiamammo nostro non lo è ancora, di fatto, ma ci è abbastanza estraneo, è una mescolanza borghese e zarista e durante gli ultimi cinque anni non c’è stata nessuna possibilità di liberarcene perché non abbiamo potuto fare affidamento sull’aiuto di altri paesi e perché durante la maggior parte del tempo siamo stati occupati in affari militari e lottando contro la fame.”
La morte di Lenin impedì tragicamente che egli potesse esercitare tutta la sua autorità politica e morale in questa lotta, ciò accelerò il soffocamento della democrazia operaia russa da parte della reazione burocratica di cui Stalin si fece principale interprete. Il risultato fu l’affermazione di uno Stato burocratico e oppressivo. Nonostante la sconfitta e la completa degenerazione della direzione stalinista, le tradizioni bolsceviche di partecipazione della classe operaia russa non erano dimenticate e avrebbero potuto riemergere in qualsiasi momento. Per questo, per il proprio definitivo consolidamento, la burocrazia doveva recidere ogni legame vivo con le tradizioni rivoluzionarie, liquidare fisicamente qualsiasi referente che ricordasse e potesse interdire il ruolo della burocrazia nella società, perché l’esistenza di una casta burocratica privilegiata non era un ingrediente necessario ma semmai un ostacolo al processo di transizione al socialismo.
Nei primi tempi della rivoluzione Lenin aveva ben chiaro come la scarsità di tecnici rendesse inevitabile l’utilizzo intelligente del personale tecnico qualificato, anche di chi fosse stato ostile al governo dei soviet. Per questo motivo fu una scelta obbligata quella di mantenere una certa divaricazione salariale. Perfino Trotskij, che dovette costruire l’Armata rossa praticamente dal nulla, attinse dalle conoscenze degli ufficiali del vecchio esercito zarista a fini rivoluzionari. In ogni caso però si stabiliva un limite ragionevole alle differenze salariali e, cosa ancora più importante, le decisioni politiche non dipendevano da questo settore che viveva in condizioni più agiate, ma dall’avanguardia rivoluzionaria e dalla massa degli operai e dei contadini a cui era affidato il compito di controllare cosa facesse questo apparato.
Nella misura in cui la burocrazia prendeva coscienza dei propri privilegi, essa cominciò a sopprimere la democrazia operaia nel partito e nei soviet e rese impossibile il controllo da parte dei lavoratori della produzione (sostituendo il controllo operaio con la gestione burocratica), il pericolo di un’involuzione sociale si fece a quel punto ancora più forte.
Il ruolo asfissiante e parassitario della burocrazia fu reso meno evidente per un lungo periodo dallo sviluppo delle forze produttive assicurato dalla superiorità della pianificazione economica sull’anarchia capitalista, ma inevitabilmente si raggiunse il punto in cui gli sprechi e la mala gestione burocratica neutralizzarono totalmente i progressi dell’economia pianificata. Ben lontani dal voler rinunciare agli enormi privilegi accumulati, i burocrati finirono per decidere che l’impasse non era causata dal loro dominio soffocante, ma fosse dovuta alla stessa economia pianificata. In questo modo imboccarono il percorso che li avrebbe portati a capitolare di fronte alla restaurazione del capitalismo, con la speranza di conservare i propri privilegi convertendosi a loro volta in capitalisti.
Il tradimento finale da parte della burocrazia “comunista” provocò una catastrofe sociale e politica che travolse la vita di centinaia di milioni di lavoratori in Russia e nelle ex repubbliche sovietiche al momento della disgregazione dell’economia pianificata.
Differenze tra la rivoluzione russa e la rivoluzione cubana
Nel caso di Cuba, per le particolarità che qui ebbe il processo rivoluzionario, la classe operaia non arrivò mai a giocare un ruolo dirigente nella rivoluzione e nello Stato cubano. Mentre in Russia i soviet costituivano l’embrione dello Stato operaio già prima della rivoluzione, ed era tramite questi che la classe operaia partecipava e avanzava nella sua coscienza – aiutata in questo processo dal ruolo determinante della politica difesa dai bolscevichi – l’elemento di contropotere a Cuba, invece, fu l’esercito guerrigliero. Ciò introdusse necessariamente distorsioni fin dal principio.
Lo sciopero generale a L’Avana nei primi giorni del gennaio 1959 fu fondamentale per far fallire il piano che, con la formazione di un governo militare provvisorio, puntava ad allontanare la guerriglia dal potere e a dare continuità ad un regime batistiano senza Batista. Nonostante il carattere decisivo che ebbe l’intervento della classe operaia per il successo della rivoluzione, essa non aveva nelle proprie mani la direzione politica del movimento rivoluzionario, così come la concepiva Lenin e come in effetti era accaduto nella rivoluzione russa.
Era difficile che i dirigenti del M26-J potessero sviluppare una concezione leninista del ruolo della classe operaia nella lotta per il socialismo quando, in realtà, il socialismo non era neppure tra gli obiettivi da loro considerati, tenendo anche presente che le idee del socialismo erano state infangate ai loro occhi dalla deplorevole politica seguita dal Psp. Certamente la rivoluzione risvegliò la classe operaia portandola a partecipare alla lotta politica.
L’autorità morale e politica conquistata da Fidel, dal Che e dagli altri dirigenti rivoluzionari era immensa e la partecipazione delle masse cubane al processo rivoluzionario fu piena e reale. L’entusiasmo rivoluzionario si manifestò con ancora maggiore chiarezza dopo la vittoria della guerriglia e durante tutta la fase di scontro con la borghesia e l’imperialismo che sfociò nelle nazionalizzazioni e si concluse nella sconfitta dell’invasione imperialista. L’enorme base d’appoggio sociale che aveva il regime instaurato dai guerriglieri è fuori discussione, ma questo di per sé non significava che a Cuba esistesse un regime di democrazia operaia come nei primi anni della rivoluzione russa, un regime che fu conseguenza diretta del ruolo che aveva giocato la classe operaia nel periodo precedente alla conquista del potere.
Nel 1959 il regime esistente nell’Urss ormai non aveva più niente a che spartire con quello che esisteva quando era in vita Lenin. Già da tempo Stalin aveva dissolto la Terza Internazionale, nonostante fosse stata uno dei contributi politici più importanti della rivoluzione russa e di Lenin al socialismo mondiale. Che importanza poteva avere l’Internazionale per i burocrati se era possibile raggiungere il socialismo in un solo paese? Se la burocrazia sovietica volle trasmettere alcunché alla rivoluzione cubana, queste non furono le tradizioni bolsceviche, ma le deformazioni burocratiche che corrodevano come un cancro dall’interno le ultime vestigia della rivoluzione russa, la più importante delle quali era l’economia pianificata.
Per i bolscevichi il partito era uno strumento di organizzazione e di intervento fondamentale. Senza il partito bolscevico anche il ruolo dei soviet, gli organi di partecipazione democratica dei lavoratori durante il periodo di dualismo di potere e i primi anni di autentica democrazia sovietica, sarebbe stato diverso. Inoltre il partito faceva da cornice al dibattito permanente e democratico. La discussione, nonostante le divergenze più aspre, non fu mai sinonimo di disgregazione, e questa era la grande forza del centralismo democratico, il regime vigente all’interno del partito, forgiato da decenni di lotta politica rivoluzionaria.
All’opposto della traiettoria e del ruolo giocato dal partito bolscevico, la direzione del Psp ebbe un ruolo deplorevole. Il nuovo Partito comunista cubano non sarebbe stato fondato che sette anni dopo la rivoluzione e fino al 1976, secondo la stessa storiografia ufficiale, non furono creati organismi di potere popolare. In Russia, prima della sconfitta del capitalismo, esistevano già i soviet, che erano organismi di potere operaio, e che avrebbero costituito poi la base del nuovo Stato. In qualche modo la rivoluzione cubana si trovò a pagare un prezzo per la propria audacia, per un fatto veramente particolare: il capitalismo fu abolito sull’isola senza che la classe operaia avesse un ruolo dirigente e senza che alla guida del processo rivoluzionario esistesse un partito di tipo bolscevico, ma al contrario, un movimento di carattere democratico rivoluzionario, basato fondamentalmente sui contadini poveri.
L’importanza della democrazia operaia
Non si tratta di alimentare polemiche sterili ma questo punto riveste un’enorme importanza pratica per il futuro della rivoluzione cubana. Nel capitalismo la necessità di accumulare profitti da parte dei capitalisti è ciò che muove l’economia e modella la sovrastruttura politica. In una economia pianificata il compito di dare impulso al funzionamento del sistema spetta al ruolo cosciente della classe operaia, che deve godere della più assoluta democrazia per gestire, amministrare e controllare ogni istante del processo produttivo e del funzionamento dell’apparato statale. In caso contrario il sistema sarà soffocato per l’inefficienza e gli sprechi che prima o poi lo porteranno al collasso, come accadde nell’Urss e nell’Est europeo.
L’importanza del controllo democratico della classe operaia è facile da capire. Sotto il capitalismo è il meccanismo della domanda e dell’offerta inerente all’economia di mercato, che regola il peso che devono avere i differenti rami produttivi e che esercita un controllo sulla qualità dei prodotti, ecc. Questo meccanismo non è in grado di evitare, ovviamente, le crisi di sovrapproduzione, lo sfruttamento o le crescenti disuguaglianze e neppure la cattiva qualità di determinate merci, ma questo è il meccanismo che esiste nel mercato e, a suo modo, funziona.
Quando si sopprime il mercato organicamente legato al capitalismo, è necessario sostituirlo con qualcosa, che non può essere che la partecipazione democratica dei lavoratori nell’assunzione delle decisioni ad ogni livello dell’economia e della politica. I compiti di controllo e decisione sotto un’economia pianificata necessitano di un’ampia partecipazione democratica della classe operaia. Non è un optional, un fatto decorativo, come se in paesi differenti si potesse scegliere un “modello” di socialismo con o senza democrazia operaia, a seconda delle “peculiarità” locali. In nessun caso i compiti della pianificazione possono basarsi esclusivamente su una minoranza specializzata senza che questo comporti il pericolo di un’involuzione burocratica.
Nel 1966 K. S. Karol visitò una delle più grandi fabbriche di nichel dell’isola. Riportiamo alcune righe del suo interessante resoconto: “Passammo poi all’ufficio del sindacato per discutere sui rapporti di lavoro. C’era qualche forma di gestione o di controllo operaio? Sorpresa e imbarazzo: ‘Un’industria nazionalizzata è di per sé socialista e funziona in accordo con il popolo senza bisogno di questi organismi’. Passammo ai salari il cui ventaglio ci sembrò enorme: qualche ingegnere guadagnava 1700 pesos al mese (l’equivalente di 1700 dollari), mentre l’operaio medio non superava i 100. […] Gli operai avanzano rivendicazioni salariali o di altra natura? E come? ‘Ma no. Gli operai sanno che lavorano per il popolo e si accontentano’. E qual era il compito del sindacato? ‘Entusiasmare le masse perché lavorino meglio e contribuiscano al progresso della Rivoluzione’.”
In Russia i bolscevichi stabilirono che nessun ingegnere o quadro tecnico potesse guadagnare più di quattro volte il salario di un operaio qualificato, e nel caso fossero stati membri del partito non avrebbero potuto neppure avvalersi di questo privilegio. Lenin condusse un’accanita battaglia nel X Congresso del Partito nel 1920 perché i sindacati non si convertissero in una semplice appendice dell’apparato statale, ma al contrario potessero difendere i lavoratori contro i possibili abusi che l’apparato statale avrebbe potuto commettere in quel delicato momento di transizione.
Ad ogni modo, nonostante tutte le distorsioni dovute all’assenza del controllo operaio, gli effettivi benefici dell’economia pianificata erano evidenti. Dal 1958 al 1968 il numero degli ospedali passò da 44 a 221 e la disponibilità di posti letto si raddoppiò. La stessa cosa si può dire per il numero di scuole primarie e dei bambini che le frequentavano. I passi avanti compiuti per debellare l’analfabetismo erano impressionanti. Anche per questi motivi l’appoggio sociale sul quale poteva contare il governo era indiscutibile.
L’ambiente rivoluzionario era palpabile. Quando il governo chiamò il popolo alle armi contro il tentativo controrivoluzionario nella Baia dei Porci, 200mila persone risposero all’appello, un popolo intero in armi per rispondere all’invasione imperialista. Esisteva una grande volontà di partecipazione ma le masse non avevano un canale attraverso il quale potessero esercitare un controllo sull’apparato statale della stessa rivoluzione che avevano contribuito in modo decisivo a far trionfare. I Comitati in difesa della rivoluzione, sebbene fossero luoghi in cui si esprimeva la volontà d’azione e partecipazione delle masse, non avevano, in realtà, potere decisionale sulle questioni fondamentali, ad eccezione di qualche aspetto più che altro legato alla vita nei quartieri e alla mobilitazione popolare per le manifestazioni o le altre iniziative convocate dalla direzione del Pcc.
A metà degli anni ’70 furono create istituzioni locali, gli Organi del potere popolare (Opp), con la funzione di dirigere i programmi di investimento locale in modo da raggiungere gli obiettivi fissati dal piano generale. Il potere decisionale nell’economia però continuava ad essere concentrato in alcuni ministeri. L’elezione diretta vigeva solo per gli Opp, però sotto il controllo del partito e con candidature da esso proposte.
La questione del partito unico
Un altro aspetto straordinariamente controverso è la convinzione che l’instaurazione di uno Stato operaio escluda l’esistenza di partiti politici e debba essere per forza un regime a partito unico. In realtà questa non è altro che una distorsione introdotta dallo stalinismo quando consolidò il suo potere nell’Urss alla fine degli anni ’20 e negli anni ’30.
Quando trionfò la rivoluzione d’Ottobre, Lenin e i bolscevichi non proibirono l’esistenza di altre formazioni politiche, eccetto le Centurie Nere (un’organizzazione fascista). Il primo governo sovietico fu una coalizione tra bolscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra.
All’interno del partito bolscevico esisteva la massima libertà di discussione che si spingeva fino a riconoscere il diritto di organizzare frazioni in caso le divergenze toccassero aspetti tattici di rilevante importanza. Questo fu il caso dei cosiddetti “Comunisti di sinistra” capeggiati da Bukharin e Preobrazhenski che difendevano la prosecuzione rivoluzionaria della guerra contro la Germania proprio mentre erano in corso le trattative di pace di Brest-Litovsk. Lenin combatté duramente il loro punto di vista ma non pensò mai di esigere la loro espulsione dal partito.
La formazione di raggruppamenti attorno a piattaforme politiche era considerata qualcosa di naturale nei periodi congressuali o quando le discussioni riguardavano questioni importanti. L’evidente e preziosa coesione ideologica del partito non fu prodotta dall’imposizione, da una ferrea struttura gerarchica o dal comando burocratico, semmai era il frutto dell’autorità politica che la direzione si era conquistata nell’arco di un ventennio in cui la spiegazione paziente, l’esempio, il sacrificio e la critica fraterna erano stati i suoi metodi abituali.
La rivoluzione russa si sviluppò in un contesto estremamente ostile. L’opposizione borghese si levò subito in armi contro il potere operaio. Lo stesso fecero altre tendenze che si definivano “socialiste”, come i socialisti rivoluzionari e una parte dei menscevichi. In queste condizioni, quando le forze della controrivoluzione imperialista si allearono con la controrivoluzione interna, che aspirava alla restaurazione del vecchio ordine zarista, i bolscevichi misero fuori legge quelle formazioni che si erano sollevate in armi contro lo Stato operaio. Si trattava di un provvedimento difensivo assolutamente giustificato. Non bandire queste formazioni avrebbe significato lasciare nelle mani della borghesia zarista e degli imperialisti un’arma potente che avrebbe permesso loro di distruggere più facilmente il potere sovietico.
Durante il X congresso del partito, in piena guerra civile e con la ribellione armata di Kronstadt in corso, i delegati bolscevichi votarono a favore del divieto temporaneo – sottolineiamo temporaneo – di formare piattaforme politiche all’interno del partito. L’esigenza della massima centralizzazione e disciplina nell’azione era dettata dal momento critico che attraversava la rivoluzione.
Come abbiamo spiegato in precedenza, la combinazione di tutta una serie di sconfitte nelle rivoluzioni in Europa, la catastrofe economica che devastava l’Urss, la smobilitazione dell’Armata rossa, la stanchezza, la fame, lo sterminio di una parte considerevole dei quadri comunisti durante la guerra civile, tutti questi furono fattori che contribuirono a creare le condizioni perché una casta di burocrati acquisisse un potere crescente.
Sfruttando provvedimenti adottati in momenti di eccezionalità questa casta burocratica si sbarazzò della democrazia operaia nel partito e nelle istituzioni sovietiche.
Il fatto che fosse rimasto un solo partito non significava però che solo il proletariato rivoluzionario potesse avere il monopolio dell’espressione politica, al contrario ciò implicava che le pressioni delle classi sociali ostili al proletariato avrebbero avuto modo di esprimersi esclusivamente all’interno dello Stato e del partito unico. Il partito bolscevico, che era stato fino a quel momento senza dubbio l’espressione del proletariato rivoluzionario, fu epurato fisicamente per trasformarlo in un docile strumento nelle mani della burocrazia. Centinaia di migliaia di quadri operai e di giovani del Komsomol che si opponevano alla direzione presa da Stalin furono espulsi, perseguitati, imprigionati e uccisi. L’ideologia del “partito unico” fu la conseguenza del dominio della burocrazia in tutte le sfere della società.
Purtroppo l’esempio che avevano davanti a sé Fidel e i dirigenti della rivoluzione cubana quattro decenni dopo la rivoluzione d’Ottobre non fu il partito bolscevico di Lenin, ma il Pcus stalinizzato. Il nuovo partito comunista cubano fondato nel 1965 celebrò il suo primo congresso dieci anni dopo. Durante tutto questo tempo gli uomini incaricati della direzione erano nominati da Fidel o dai suoi più stretti collaboratori.
Nei primi trentacinque anni di vita del partito comunista cubano furono celebrati appena quattro congressi. Il paragone con il partito bolscevico dei primi anni della rivoluzione deve farci riflettere: anche durante la guerra civile i bolscevichi tenevano un congresso ogni anno.
In realtà il partito unico, come sinonimo dell’unica linea possibile, dell’assenza di un ambiente di discussione genuinamente democratico, rappresenta il terreno più fertile per l’incubazione delle forze ostili alla rivoluzione e che potrebbero allearsi alla controrivoluzione capitalista. Il caso cinese è evidente. Il partito unico non sta guidando il popolo cinese al socialismo, ma alla restaurazione capitalista.
Detto questo è anche necessario sottolineare chiaramente che la rivoluzione cubana ha tutti i diritti di difendersi dall’imperialismo e dalla controrivoluzione. La campagna cinica della borghesia mondiale si basa sulla denuncia della mancanza di libertà a Cuba, ma non è nient’altro che un ripugnante esercizio di ipocrisia. Quelli che mantengono da decenni un embargo criminale contro il popolo cubano sono gli stessi poteri, gli stessi interessi che hanno appoggiato dittature sanguinose come quella di Batista a Cuba, di Pinochet in Cile, della Giunta militare in Argentina, di Zia ul-Haq in Pakistan, di Suharto in Indonesia; sono quelli che appoggiarono la dittatura di Franco per circa quarant’anni e non si sono fermati di fronte all’esercizio della violenza più spietata per difendere i propri interessi, neppure di fronte a guerre come quella contro il Vietnam, l’Afghanistan o l’Iraq dove centinaia di migliaia di innocenti sono stati massacrati. Questi “paladini” della democrazia non hanno nessuna autorità morale per criticare Cuba.
Da marxisti, respingiamo le condanne ipocrite da parte delle “democrazie” occidentali. La storia dimostra che quando vengono messi in pericolo i loro interessi imperialistici, le potenze occidentali sono sempre state pronte a premiare chi distrugge la libertà di espressione e di organizzazione del popolo. Che altro è la campagna di attacco ai diritti democratici orchestrata dall’amministrazione Bush ed altri governi occidentali, prendendo per scusa la “guerra al terrorismo”?
Quando si parla di democrazia bisogna essere concreti. Da un punto di vista marxista ci sono solo due democrazie possibili nell’epoca moderna: la democrazia borghese e quella operaia. Nella democrazia borghese è contemplato il diritto di esprimere la propria opinione, sempre posto che il potere di decisione sia riservato alle banche e alle grandi concentrazioni di capitale. Difendere questo tipo di democrazia a Cuba significa porsi apertamente nel campo della controrivoluzione. In realtà questa sarebbe una delle forme che potrebbe adottare, anche se non la più probabile, la controrivoluzione capitalista a Cuba.
La democrazia operaia invece colpisce quello che per la democrazia borghese è intoccabile: gli interessi derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. La democrazia operaia è in realtà l’unica democrazia autentica nella quale la maggioranza della società può decidere su tutti gli aspetti fondamentali che incidono nella vita di una nazione.
Poste le condizioni di persecuzione brutale da parte dell’imperialismo a cui Cuba è soggetta, è evidente che elementi di coercizione da parte dello Stato operaio sono necessari. Non viviamo nel mondo delle favole. Quello che sosteniamo è che questa coercizione deve essere esercitata in modo efficace contro gli elementi controrivoluzionari dentro e fuori del paese e che in realtà questa lotta sarebbe molto più efficace se si combinasse con una genuina democrazia operaia.
Non chiediamo libertà per i sabotatori della rivoluzione, per gli agenti infiltrati dall’imperialismo. Questo è un elemento fondamentale. Ma veramente la rivoluzione è minacciata solo da questi elementi? Secondo noi non è così. Nel campo delle forze conservatrici che mettono in pericolo le conquiste della rivoluzione si trovano anche quei settori che si appropriano di parte della ricchezza nazionale per sostentare il loro ruolo privilegiato nella società. In realtà questi settori non giocano nessun ruolo sociale nel processo produttivo e, in un determinato momento potrebbero decidere di scommettere sulla prospettiva di una restaurazione del capitalismo. Anche per questi settori la democrazia operaia rappresenta un pericolo mortale, perché metterebbe a nudo i loro privilegi, legali e illegali.
Svolte nella politica internazionale
Sarebbe tuttavia sbagliato affermare che il governo cubano seguisse alla lettera le direttive e l’esempio dell’Urss e che nessuna divergenza emergesse con la burocrazia del Cremlino. La necessità di difendersi dalle forze controrivoluzionarie tanto all’interno come all’esterno del paese favorì lo sviluppo nei primi anni di una politica estera piuttosto radicale. La seconda dichiarazione dell’Avana ne è la principale testimonianza, con il suo appello alla rivoluzione in America latina e la denuncia della politica conciliatrice portata avanti dai vari partiti comunisti a livello continentale. Questa politica della direzione cubana era un portato della rivoluzione e, soprattutto nel primo periodo, della spinta rivoluzionaria delle masse.
Gli appelli rivoluzionari di Guevara e Fidel, soprattutto negli anni ’60 e ’70, suscitarono l’entusiasmo di molti giovani e lavoratori nel mondo intero. I due leader erano, e sono tuttora, punti di riferimento per la gioventù ribelle, mentre sono stati dimenticati i grigi rappresentanti della burocrazia russa come Breznev, Chernenko o Gorbaciov. Il governo cubano sostenne con armi, soldati e risorse economiche l’eroica lotta dei contadini e dei lavoratori dell’Angola e del Mozambico contro le forze controrivoluzionarie dei sudafricani e degli imperialisti. Queste azioni entravano in collisione ovviamente con gli atteggiamenti conservatori della burocrazia russa rispetto ai processi rivoluzionari dei paesi ex coloniali. Nonostante ciò, dopo le divergenze dei primi anni, Cuba avvicinò la sua politica estera a quella degli altri paesi del cosiddetto “socialismo reale”.
La portata di questa svolta nella politica estera del governo cubano è resa evidente da alcuni fatti. Il governo cubano approvò senza riserva l’invasione sovietica in Cecoslovacchia “per prevenire un male peggiore”, sostenendo che “la Cecoslovacchia stava scivolando verso il capitalismo”. La posizione del governo cubano si identificava completamente con la politica di Mosca e del Patto di Varsavia.
Negli anni successivi la linea di appoggio all’Urss di Fidel Castro fu mantenuta rispetto a tutti gli avvenimenti più significativi. La direzione del Pcc mantenne il silenzio più assoluto anche quando nel maggio del 1968 milioni di lavoratori occuparono le fabbriche in Francia sfidando il potere della borghesia. Nonostante la grande simpatia che i giovani e i lavoratori francesi mostrarono per la rivoluzione cubana, la direzione del Pcc sostenne pienamente la linea del Pcf contraria ad una risoluta politica socialista finalizzata alla vittoria della rivoluzione quando le condizioni erano più che favorevoli. Venne adottata la strategia della “coesistenza pacifica”, vera stella polare per la burocrazia sovietica, una politica che influenzava in modo nefasto quella dei partiti comunisti di tutto il mondo. Destabilizzare lo “status quo” con una rivoluzione socialista in Francia era l’ultima cosa che la burocrazia dell’Urss avrebbe mai potuto auspicare.
Nel corso dello stesso anno esplose la protesta studentesca in Messico, innescata dalla repressione della manifestazione del 26 luglio 1968, in commemorazione dell’assalto alla Moncada a Cuba. Il 2 ottobre centinaia di studenti vennero massacrati nella piazza di Tlatelolco (ribattezzata delle Tre Culture). Ciononostante, il 19 di quello stesso mese gli atleti cubani salutavano il presidente messicano nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi.
La causa di questo atteggiamento ha a che vedere più con gli interessi diplomatici cubani che con un atteggiamento di stimolo alla rivoluzione socialista messicana: il Messico era l’unico paese latinoamericano che manteneva relazioni commerciali con Cuba.
Certamente perfino uno Stato operaio ha bisogno di intessere relazioni diplomatiche che gli permettano di trarre vantaggio il più possibile dalle sue relazioni con gli altri paesi. Sarebbe una posizione dogmatica, sterile e suicida quella di negare da un punto di vista rivoluzionario che uno Stato operaio abbia il diritto di stringere determinati accordi, ad esempio commerciali, con paesi capitalisti. Il punto fondamentale da capire però a questo proposito è che mai la politica estera di uno Stato operaio deve entrare in contraddizione con la lotta generale per la rivoluzione mondiale, pena l’isolamento e la sconfitta. Nessun accordo può essere fatto a costo di pregiudicare la rivoluzione in altri paesi.
Nel 1989 la burocrazia cinese massacrò i giovani che protestavano in piazza Tien’an’men. Questi giovani protestavano cantando l’Internazionale e volevano un socialismo senza corruzione e privilegi. Anche in questo caso la direzione cubana preferì non entrare in conflitto con la Cina, così Fidel dichiarò che “la protesta degli studenti era un problema interno cinese. Le immagini non sono arrivate qui … Conosciamo tuttavia la versione ufficiale del governo cinese e non abbiamo ragioni per dubitare delle loro spiegazioni” (cfr. G. Minà, Fidel). Quasi vent’anni dopo, chi ha restaurato il capitalismo in Cina? L’esperienza storica dimostra che non sono stati gli studenti di piazza Tien’an’men, ma i burocrati che si sono macchiati del loro sangue ad aver aperto la via per il capitalismo.
La prova dei fatti ha dimostrato che la politica della burocrazia russa e di quella cinese, interamente volta a mantenere lo “status quo” nei rapporti con le potenze capitaliste, non solo non raggiunse lo scopo prefisso di contenere la controrivoluzione capitalista ma, al contrario, frustrò qualsiasi tentativo di instaurare un sistema di democrazia operaia e ostacolò lo sviluppo dei processi rivoluzionari in atto nei paesi capitalisti. Seppellendo la rivoluzione, la burocrazia accelerò il processo di restaurazione capitalista.
Tutta l’esperienza storica insegna quanto sia di vitale importanza una politica internazionale fondata sulla prospettiva della rivoluzione socialista e della lotta inconciliabile contro il capitale. Questa è l’unica strada per permettere alla rivoluzione a Cuba di avere un futuro e perché le sue conquiste storiche possano essere tutelate. La diplomazia, gli accordi temporanei con questo o quel paese, le concessioni al capitale privato, per quanto possano essere necessari in determinati momenti, non possono sostituire la lotta rivoluzionaria per il socialismo della gioventù e della classe operaia a livello mondiale.
La direzione del partito comunista cubano non si è mai pronunciata a favore di una federazione socialista, almeno per l’America latina. In occasione del primo congresso del Pcc nel 1975, Fidel Castro dichiarò che “l’America latina non era pronta per cambiamenti globali che possano portare, come a Cuba, a trasformazioni socialiste, anche se queste non sono impossibili in alcuni paesi del continente”.
Una possibilità concreta si manifestò quattro anni dopo, con la rivoluzione in Nicaragua, e persino in El Salvador, dove la guerriglia del Fmln fu molto vicina a prendere il potere. Tuttavia Fidel Castro e i leader del Pcc convinsero i dirigenti sandinisti a non seguire l’esempio cubano. Parlando in Nicaragua l’11 gennaio 1985 Fidel affermò: “Ieri abbiamo avuto la possibilità di ascoltare il discorso di Daniel Ortega e devo congratularmi con lui. Era serio e responsabile. Ha spiegato gli obiettivi del Fronte sandinista in ogni settore – per l’economia mista, il pluralismo politico e per una legge sugli investimenti esteri – … So che c’è spazio nella vostra idea per un’economia mista. Potete avere un’economia capitalista. Quello che sicuramente non avrete è un governo al servizio dei capitalisti.” Gli avvenimenti successivi avrebbero smentito tristemente le previsioni di Fidel. L’assenza di un deciso orientamento verso l’economia pianificata e l’espropriazione delle oligarchie locali e delle proprietà dell’imperialismo, insieme all’isolamento della rivoluzione nicaraguense, portarono alla vittoria elettorale della reazione capeggiata da Violeta Chamorro nel 1990, la quale seppe approfittare, tra l’altro, dello scontento e della disillusione provocata da dieci anni di “economia mista” combinata con l’aggressione militare ed economica degli Stati Uniti e dei Contras.
Nuove svolte nella politica economica
Dopo un periodo nel quale ci si era spinti a nazionalizzare persino i piccoli negozi, cosa assolutamente superflua in una economia socialista, verso la metà degli anni ’70 si realizzò un nuovo cambiamento nella politica economica. Furono introdotti incentivi per la produzione, soprattutto agricola, si istituirono i “mercati liberi contadini”, dove i piccoli proprietari potevano vendere il raccolto eccedente. Si permise ai direttori delle fabbriche di concedere incentivi materiali, solitamente più alti dei salari, il tutto sotto l’insegna del concedere autonomia alle imprese; ma nella misura in cui le imprese non erano sotto il controllo dei lavoratori, autonomia significava l’autonomia degli amministratori. Le differenze tra i salari aumentarono e “l’egualitarismo piccolo borghese” fu pubblicamente condannato. Mentre il salario medio di un operaio di una fabbrica statale era tra 80 e 100 pesos, la retribuzione di un impiegato di livello medio era tra 2.000 e 3.000 pesos e quella di un ministro arrivava a 6.000 pesos.
Durante questi anni di riforma aumentarono sensibilmente il numero dei casi di indisciplina sul posto di lavoro, chiaro sintomo dell’insofferenza dei lavoratori di fronte ai citati premi di produzione che accrescevano le differenze salariali all’interno delle singole imprese e tra di esse. I processi per indisciplina passarono da 9.988 nel 1979 a 25.672 nel 1985. Questi processi riguardavano ogni tipo di “delitti” come gli accordi segreti tra amministratori e rappresentanti dei lavoratori per stabilire livelli di salario, ritmo e condizioni di lavoro.
La rettifica del 1986
Durante la prima metà degli anni ’80 Cuba visse una nuova e profonda crisi economica. Risultava ogni volta più difficile raggiungere il tasso di crescita economica del 4% come succedeva all’inizio della rivoluzione. Il debito estero era cresciuto dell’11% nel 1985, arrivando a 6,5 miliardi di dollari. I prezzi del nichel e dello zucchero stavano precipitando sul mercato mondiale. Il governo cubano ammetteva un tasso di disoccupazione del 6% nel 1987, mentre nel 1981 era pari solo al 3,4%.
Questa situazione convinse la dirigenza cubana che era arrivato il momento di lanciare un “processo di rettifica delle tendenze negative”. I rappresentanti delle riforme economiche degli anni precedenti furono criticati e allontanati dai posti di responsabilità. Si proibirono molte attività private considerate poco prima legali, come i mercati liberi dei contadini. Si criticò l’indebitamento estero e si arrivò perfino a parlare di una moratoria nel pagamento degli interessi sullo stesso.
Nel luglio 1986, nella decima sessione della Assemblea Nazionale, Fidel denunciò: “abbiamo creato una classe di nuovi ricchi” riferendosi al fatto che un piccolo commerciante de L’Avana poteva guadagnare fino a venti volte di più di un cardiologo. Si verificarono casi di arricchimento personale di alcuni dirigenti a livelli veramente scandalosi. Nel 1986 Manuel Sanchez Perez, viceministro incaricato dell’acquisto dall’estero di attrezzature tecniche, disertò portandosi dietro mezzo milione di dollari.
Il circolo dirigente capeggiato da Fidel Castro temeva seriamente che i settori che avevano accresciuto enormemente il loro potere economico potessero diventare una minaccia reale per la stabilità del governo. Venne fortemente ridotto il margine di autonomia degli amministratori e fu ristabilito il controllo da parte dell’apparato del Pcc. Si esortava lo sviluppo dell’industria facendo appello allo spirito di sacrificio dei lavoratori, alla coscienza rivoluzionaria e al lavoro volontario. La parola d’ordine di moda era “il migliore al timone”, ma uno dei problemi era che il “migliore” non era scelto dai lavoratori ma dalla direzione delle imprese. Si scatenò una campagna contro i “tecnocrati e i nuovi capitalisti” (cosa che contrastava evidentemente con la propaganda del partito che affermava il trionfo del socialismo da 30 anni). Si lanciarono appelli all’egualitarismo, spolverando alcuni discorsi del Che, ma era un egualitarismo che tendeva alla costante diminuzione dei salari e cercava di nascondere le misure di austerità. La caduta dell’Urss e dei regimi dell’Est europeo, nel corso degli anni ’90, ebbe un effetto devastante a Cuba, aprendo il periodo più critico per la rivoluzione dal 1959.
V. La rivoluzione al bivio
I cambiamenti nel contesto mondiale
La caduta dei regimi dell’Urss e dell’Europa orientale ebbe un enorme impatto su Cuba. L’economia cubana entrò nella fase più critica della sua storia. La scomparsa dei regimi dell’Est significò anche un brusco cambiamento nelle relazioni mondiali. Gli imperialisti, di fronte alla caduta dei paesi ad economia pianificata, reagirono euforicamente e si affrettarono a pronosticare l’avvento di una nuova era nella storia della umanità, un’epoca di pace e prosperità. Alcuni si spinsero a teorizzare persino la soppressione delle disuguaglianze.
Il capitalismo però ha offerto ai popoli del mondo uno scenario ben diverso. Il predominio assoluto di una sola superpotenza militare ed economica, gli Usa, combinato alla maturazione di una acuta crisi di sovrapproduzione su scala mondiale, ha portato ad una situazione il cui aspetto più generale e caratteristico è l’enorme instabilità del capitalismo su tutti i terreni. Ciò ha comportato la crescita delle tensioni interimperialistiche, il ritorno alla guerra come strumento di dominio militare diretto (come nel caso dell’Afghanistan e dell’Iraq), la crisi delle strutture politiche internazionali che per decenni avevano assicurato una certa stabilità, come l’Onu, l’esacerbarsi di tensioni protezioniste e dei conflitti commerciali e infine il cambiamento dei rapporti di forza tra le classi.
Il XXI secolo si è aperto con la rivoluzione in Ecuador, che ha dato il via ad una fase di generale ascesa rivoluzionaria in America latina. Nei paesi capitalisti avanzati la borghesia ha lanciato un’offensiva all’ultimo sangue contro tutte le conquiste sociali che avevano reso possibile il miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione dopo il secondo dopoguerra. In quest’ultimo decennio si è manifestata in tutta la sua gravità la crisi del modello basato sul compromesso sociale in cambio di riforme praticato dai partiti socialdemocratici ed ex-stalinisti.
La situazione sta aggravandosi anno dopo anno ed ormai sono chiaramente visibili i sintomi del crescente malcontento sociale. Tutto ciò si è espresso in una nuova esplosione della lotta di classe culminata in numerosi scioperi generali in tutta Europa o nelle manifestazioni di massa contro la guerra. La stessa opposizione crescente alla guerra in Iraq tra la popolazione americana è un sintomo di questo malessere.
Il contesto nel quale si colloca oggi la rivoluzione cubana è quindi molto cambiato. Aver saputo resistere alla tremenda ondata reazionaria che seguì alla caduta dei regimi dell’Est è già di per sé una grande conquista. Cuba continua ad essere un potente simbolo della lotta anticapitalista nel mondo, particolarmente per le masse latinoamericane ma non solo.
La persecuzione imperialista non ha allentato la sua morsa e l’embargo imposto dagli Usa continua. Le difficoltà che deve fronteggiare una piccola economia come quella cubana nell’oceano in tempesta che è l’economia mondiale non si sono per nulla attenuate. La crisi economica, sociale e politica che sta soffrendo il capitalismo su scala mondiale non ha precedenti dagli anni ’30 e sta producendo un risultato che gli strateghi del capitalismo mondiale non si auguravano. Il pendolo torna a oscillare verso sinistra, specialmente in America latina. La stessa sopravvivenza del capitalismo è minacciata in paesi come il Venezuela e la Bolivia, ecc..
Gli sviluppi storici tornano più che mai a legare in modo indissolubile il futuro della rivoluzione cubana al futuro della rivoluzione mondiale. È proprio in questo contesto – nel quale Cuba ha perso i punti d’appoggio che aveva nell’Urss e nell’Europa orientale, ma allo stesso tempo si sono aperti processi rivoluzionari in America latina e in altri paesi del mondo – che diviene ancora più evidente la necessità di un vero orientamento rivoluzionario. L’unica difesa per la rivoluzione cubana è mettere in discussione il dominio del capitalismo su tutto il mondo.
I cambiamenti a Cuba negli anni ‘90
La caduta degli Stati cosiddetti socialisti fa da sfondo a tutta una serie di trasformazioni nella società cubana che sono la chiave per capire la situazione attuale e le prospettive che si aprono per l’isola. Più del 40% del commercio estero si realizzava con l’Urss, mentre l’80% degli scambi si realizzavano con i paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia.
Il petrolio venduto dall’Urss a prezzi molto economici, in seguito veniva in parte rivenduto a prezzo di mercato, garantendo così a Cuba la possibilità di accumulare valuta forte. L’Urss era di gran lunga il maggior acquirente dello zucchero cubano, la principale risorsa produttiva dell’isola.
La scomparsa del blocco stalinista ebbe conseguenze catastrofiche per l’economia cubana. Tra il 1989 e il 1993 il Pil, ovvero la ricchezza creata nell’isola, cadde del 35%, una cifra drammatica. Prima che tutto venisse travolto dalla catastrofe economica, i dirigenti cubani lanciarono nel 1991 il cosiddetto “Periodo speciale”. Di fatto si trattava dell’introduzione di misure tipiche di una “economia di guerra” per far fronte alla crisi. A costo di un drastico abbassamento del livello di vita della popolazione vennero tagliate tutte le spese. Le risorse così reperite furono impiegate per stimolare la produzione di merci per l’esportazione, a danno del mercato interno, al fine di ottenere il massimo di valuta convertibile sui mercati internazionali con la quale comprare i prodotti e le parti di ricambio (essenziali per assicurare il funzionamento complessivo della società) che erano venuti improvvisamente a mancare con il crollo dell’Urss. È interessante segnalare che nonostante la contrazione accusata dall’economia, l’andamento della spesa sociale lungo tutto il decennio degli anni ‘90 ebbe un segno positivo, con l’unica eccezione del 1991.
Va segnalato però che, oltre alle restrizioni economiche già citate, durante il “Periodo speciale” si applicarono tutta una serie di provvedimenti il cui effetto destabilizzante sull’economia e sulla società metteva a rischio la stessa sopravvivenza dell’economia pianificata e tutti i vantaggi che ne derivavano dal punto di vista dello sviluppo del benessere sociale. Tra i provvedimenti più rilevanti c’erano: l’autorizzazione a creare imprese miste con capitale straniero e l’autorizzazione, per le imprese con il 100% di capitale nazionale, a operare in dollari (1992); la doppia circolazione monetaria, ovvero la coesistenza del Peso e del Dollaro (1993); l’incentivo all’autonomia imprenditoriale e la decentralizzazione del commercio estero.
Tutti questi fattori, in una situazione in cui mancava un controllo effettivo da parte dei lavoratori sull’economia e si era cristallizzata una burocrazia non soggetta al controllo politico da parte della popolazione, produssero effetti corrosivi sul morale e sulla pianificazione economica. I processi di differenziazione sociale ne risultarono inaspriti, favorendo in questo modo le forze della controrivoluzione capitalista.
La dollarizzazione
Uno studio sull’economia cubana evidenziava che “la dollarizzazione ha penetrato tutta l’economia cubana, non solo nel commercio e nei servizi al dettaglio riservati a quel settore della popolazione che in una forma o nell’altra ha accesso al dollaro, per il quale sempre più vengono aperte nuove Tiendas de Recuperacion en Divisas (una specie di uffici di cambio – Ndt) e servizi come caffetterie e ristoranti. Questo effetto (la dollarizzazione), si è esteso con forza anche al settore produttivo del combustibile, dell’energia, dei pezzi di ricambio e delle materie prime più importanti, tra gli altri. Il pagamento di questi beni con moneta convertibile deve essere accettato in misura sempre maggiore dagli Organismi. Negli ultimi anni l’indice di dollarizzazione è cresciuto.
Gonzalez A., nel suo lavoro Il nuovo modello delle finanze interne, pubblicato sulla rivista Cuba: Investigazione Economica dell’INIE n° 2 dell’aprile-giugno del 1999, alla pagina 22 spiega: ‘negli ultimi anni l’indice di dollarizzazione è incrementato dal 45% del 1996 al 49% del 1997 e al 53% del 1998, la qual cosa è indicativa di un deterioramento nelle funzioni della moneta nazionale con la sostituzione relativa della stessa con il dollaro sia nel calcolo del reddito, sia nel consumo di moneta’. Alcuni specialisti stimano che questo indice ha continuato ad incrementarsi e che alla chiusura del 2000 possa aver raggiunto il 58-60% circa.”
È evidente che la doppia circolazione monetaria ha introdotto gravi squilibri sociali ed economici, potenziati inoltre dalla grande differenza che c’è tra il cambio ufficiale e il mercato nero. Un abisso sempre più profondo separa quelli che posseggono dollari e quelli che non ne hanno.
Un rapporto della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal-Onu) dice: “Tra il 1989 e il 1992 i trasferimenti denominati in valuta convertibile verso Cuba aumentarono in modo significativo, a cominciare dalla legalizzazione del possesso di dollari nel 1993 i trasferimenti privati ebbero il maggior effetto macroeconomico, rappresentando un’importante fonte di entrate nette di moneta convertibile.” Altre fonti stimano che alla fine del 2000 i dollari ricevuti dall’isola per questa via superavano i 1.100 milioni.
La diminuzione del livello di vita, soprattutto durante la prima metà degli anni ’90, è stata pari quasi al 50%, cosa che ha segnato un vero esodo di lavoratori da tutti i settori dell’economia verso il settore turistico, comportando un peggioramento costante degli altri servizi e della produttività del lavoro nei settori retribuiti in pesos. Perché lavorare per dei pesos che non valgono niente?
Le differenze sociali si riflettono chiaramente nell’andamento dei conti correnti bancari: “Nel periodo compreso tra il 1994 e il 1997 è possibile vedere che il numero di conti di maggiore entità passa dal 14,1% al 13,2%; tuttavia l’importo che questi concentrano si fa ogni volta maggiore, passando dal 77, 8% della liquidità totale all’85%, cosa che implica l’esistenza di disuguaglianze nella possibilità di godere delle opportunità.”
Commercio estero
Come abbiamo visto, la dollarizzazione ha avuto un impatto devastante sul funzionamento del settore produttivo, a cui vanno aggiunte le crepe aperte nel monopolio statale del commercio estero. Alcune imprese statali possono accedere per conto proprio al mercato mondiale. Le esportazioni permettono di ottenere dollari e vendere ad un prezzo più alto di quello del mercato interno. Se a questo aggiungiamo che a molte imprese statali è stato posto l’obiettivo concreto di raggiungere una determinata percentuale di dollari per il proprio funzionamento, non è difficile immaginare quanto sia importante per i dirigenti delle imprese statali vendere i loro prodotti nei negozi riservati a chi paga in dollari, che esistono a Cuba e che già sono il canale di commercializzazione del 47% dei prodotti.
Eufemisticamente, i direttori delle imprese statali si trovano nella “difficoltà di garantire un’offerta in pesos”. In pratica questo sfocia in un aumento generale dei prezzi, cioè nell’inflazione, una malattia gravissima per un’economia pianificata. Secondo Bohemia (rivista cubana di analisi generale) tra gennaio e ottobre del 2003 la polizia ha scoperto 181 laboratori illegali, 525 fabbriche clandestine e 315 locali che servivano da magazzino, e di tutte le ispezioni realizzate in questo periodo (316mila) il 35% ha evidenziato violazioni nei prezzi.
L’inflazione si mangia il salario reale, anche se è vero che l’aumento dei prezzi non colpisce il salario sociale – ovvero i generi alimentari, i servizi, ed altro che lo stato fornisce gratuitamente alla popolazione – ma nella misura in cui il paniere base non può essere completamente soddisfatto con la produzione statale a prezzo fisso, si deve ricorrere ai negozi che accettano solo pagamenti in dollari. Inoltre, secondo uno studio del Centro di investigazione psicologica e sociologica, con sede a L’Avana (Cips), più del 90% delle famiglie cubane ricorrono a qualche tipo di attività illecita per arrivare a fine mese. Fenomeni estinti come l’inflazione risorgono in modo allarmante.
Partecipazione del capitale straniero
La presenza del capitale straniero riguarda tutti i settori chiave dell’economia come il turismo, il nichel, i combustibili, la telefonia, l’industria alimentare, la siderurgia, la meccanica e i servizi. Il numero di joint ventures con il capitale straniero ha continuato ad aumentare passando da 20 nel 1990, a 226 nel 1995, a 403 nel 2002. Secondo uno studio, tra il 1993 e il 2001 il peso degli investimenti esteri diretti (Ied) sul totale della formazione lorda del capitale fisso è stato dell’8,2%, paragonabile alle cifre di molti paesi capitalisti. Le esportazioni delle imprese in joint venture con il capitale straniero rappresentano una quota elevata e soprattutto crescente delle esportazioni totali: oltre il 40% negli ultimi anni.
Nel 2001 è stato raggiunto un record storico nella produzione di nichel con 74.000 tonnellate, di cui quasi il 50% prodotto dall’impresa mista Moa Nickel, a partecipazione canadese. Questa impresa è riuscita a mantenere sempre al di sopra del 40% (tra il 1995 e il 2001) la sua quota delle esportazioni totali di nichel. Nella ricerca e nello sfruttamento del petrolio sono stati firmati decine di contratti di esplorazione a rischio, nei quali partecipano imprese importanti di Canada, Francia, Regno Unito, Svezia, Brasile e Spagna. Nel 2001 il 40% del petrolio estratto a Cuba è stato estratto da Energas, impresa mista partecipata dalla canadese Sherritt. Esistono imprese miste di telefonia, alimentari, carne, ecc.. Los Portales SA è una joint venture tra l’impresa cubana Coralas e il gruppo multinazionale Nestlè. Questa impresa si dedica alla produzione e commercializzazione delle più importanti bibite e acque minerali nel paese. Gli investimenti esteri sono stati potenziati con la creazione delle “zone franche”, create per incentivare gli investimenti nelle attività finalizzate all’esportazione.
Esportazioni, turismo, zucchero, materie prime
Secondo il rapporto ufficiale relativo al 2003 pubblicato su El Pais il 12 febbraio 2004, nel corso del 2003 il turismo ha registrato un incremento del numero delle visite superiore al 12%, con la cifra record di 1,9 milioni di turisti, e l’aumento delle entrate turistiche è stato del 16%, superando i 2 miliardi di dollari. Il peso relativo del turismo nelle esportazioni totali di Cuba è cresciuto enormemente, se consideriamo che il valore totale delle sue esportazioni era di circa 5 miliardi di dollari.
Fino alla caduta dei regimi dell’est lo zucchero rappresentava l’80% delle esportazioni cubane (El Pais, 23 agosto 2002), ma le difficoltà relative alla produttività e ai prezzi internazionali hanno provocato un drastico ridimensionamento del settore, con la chiusura di 70 delle 156 fabbriche che producevano zucchero, la riduzione del 60% delle coltivazioni di canna da zucchero e la ricollocazione di 100mila dei 400mila cubani che lavoravano nel settore. Questi lavoratori non finiranno per la strada, come succede nei paesi capitalisti. Continueranno a ricevere il salario, potranno partecipare a corsi di formazione, ecc., ma anche per un’economia pianificata come Cuba, una riconversione di queste proporzioni rappresenta un problema di non facile soluzione.
Il raccolto dello zucchero del 2004 è stato il più basso da 70 anni a questa parte. Tanto è vero che per la prima volta nella sua storia Cuba ha dovuto importare zucchero dagli Usa per mantenere gli impegni internazionali che aveva assunto. Inoltre circa un milione di persone, il 10% della popolazione dell’isola, vivono nei bateyes (alloggi per operai agricoli – NdT) e nelle comunità rurali nate intorno ai luoghi di produzione dello zucchero destinati a chiudere.
Il peso del capitale privato nell’occupazione
Secondo dati dell’Annuario Statistico di Cuba, nell’anno 2000 il settore statale impiegherebbe il 77,5% della forza lavoro (2.978.200 lavoratori), a fronte del 22,5% del settore non statale (864.800). Tuttavia sarebbe necessario fare alcune considerazioni per valutare con maggiore esattezza la dipendenza reale dell’occupazione in funzione della titolarità pubblica o privata dell’impresa. Per esempio si contano nel settore statale “i lavoratori delle Agenzie di Lavoro incaricate di controllare la forza lavoro impiegata nelle società miste”, senza che il loro numero sia quantificato. In altre parole con queste cifre non si può stimare quanti lavoratori, anche stando sotto il controllo di un organismo statale, lavorano in relazione ad imprese con partecipazione privata.
È evidente che queste cifre non riflettono il peso reale che le imprese di questo tipo stanno raggiungendo nel mercato del lavoro. Così il grosso di quello che rientra nel settore non statale è costituito solo da cooperative di credito e servizi (8,7%) e settore privato nazionale (13,4%) che ingloba contadini indipendenti, piccoli proprietari terrieri e lavoratori autonomi.
Si contano nel settore statale anche i lavoratori delle Società Mercantili Cubane, che pur essendo di capitale pubblico, sono organizzate in forma giuridica come Società Anonime. In questo caso, però, i dati sono specificati: queste ultime impiegano il 4,2% della forza lavoro (160.300 lavoratori). Secondo El Pais (14 ottobre 2001) sono 100mila i cubani che lavorano nel settore turistico.
La quantità di lavoratori dipendenti dal settore privato comunque, non indica di per se stessa il grado di disgregazione dell’economia pianificata e di snaturamento della proprietà statale. Queste cifre vanno pesate da un punto di vista qualitativo combinandole con gli effetti della dollarizzazione, dell’autonomia imprenditoriale conferita alle imprese, ecc., che prima abbiamo segnalato.
Cambio di tendenza
Nei primi momenti, nel pieno del collasso economico derivato dalla caduta dell’Urss e dei paesi dell’est, le misure liberalizzatrici ebbero un effetto positivo per assicurare un parziale recupero dell’economia. Nell’arco di pochi anni però questa politica ha già rivelato i suoi limiti.
Si tratta di un processo che somiglia a quello che è avvenuto negli ultimi anni con le cosiddette “economie emergenti”. Dopo un periodo di boom dell’investimento estero, legato soprattutto al processo di privatizzazione, il flusso di capitali ristagna bruscamente. In parte perché i piani di privatizzazione vanno esaurendosi, in parte per la delicata situazione dell’economia mondiale. I capitali se ne vanno, ma le conseguenze negative restano.
Dopo un periodo di recupero, dalla crescita del 6,2% del 1999 si è passati al 5,3% del 2000, al 2,5% del 2001, all’1,4% del 2002 e all’1,6% del 2003. Il turismo è cresciuto più lentamente e anche il crollo dei prezzi delle materie prime ha avuto un impatto negativo sull’economia cubana. Secondo alcuni calcoli lo zucchero, il nichel e il tabacco costituiscono in totale i due terzi di tutte le esportazioni cubane. Stiamo assistendo ad un crollo generale dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale.
Sembra chiaro a questo punto che le misure liberalizzatrici hanno esaurito i vantaggi che potevano portare ma non per questo scompariranno gli effetti negativi che esse hanno portato nella società e nell’economia pianificata.
Ciò ha avuto un riflesso chiarissimo nelle differenti svolte attuate dal governo cubano durante gli ultimi anni. È evidente che all’inizio degli anni ’90 c’erano illusioni, per lo meno in un settore significativo dei dirigenti cubani, rispetto al fatto che il mercato potesse risolvere tutti i problemi, anche se l’obiettivo avrebbe dovuto essere introdurre in modo graduale una specie di “capitalismo controllato”.
Molti fattori hanno inciso però nel senso contrario nell’ultimo periodo. Molto sintomatica la dichiarazione di un alto dirigente di un’impresa turistica straniera, che interpretava così l’intensa campagna contro la corruzione portata avanti in tutti i settori dell’economia, non solo in quello turistico: “Si sono resi conto che si tratta di un cancro che sta corrodendo da dentro la rivoluzione e che è più pericoloso di qualsiasi bomba Usa” (El Pais 7 marzo 2004).
Nel corso della campagna contro la corruzione sono stati rimossi vari dirigenti dell’impresa statale Cimex, che controlla ottanta imprese e un migliaio di negozi, distributori di benzina, caffetterie, ed altri stabilimenti che offrono servizi in valuta. È ovvio che la dollarizzazione e l’altra serie di provvedimenti che già abbiamo commentato, combinati con l’assenza di un vero controllo da parte dei lavoratori, hanno sciolto le briglie all’avidità di un settore della burocrazia, soprattutto quello che ha più occasioni di essere a contatto con il dollaro, con gli imprenditori stranieri e con il “modo di vita occidentale.
Nel febbraio del 2004 è stato rimosso il ministro cubano del turismo Ibrahim Fernandez, senza che ne fosse spiegato ufficialmente il motivo. Nel mese di dicembre sono stati rimossi vari funzionari del Cubanacan, il gruppo turistico cubano più importante, per “omissione nella riscossione delle imposte e nel controllo”, per “gravi errori”, e così via. È ovvio ipotizzare che questa rimozione sia legata alla corruzione, a sua volta legata al contatto con il dollaro, all’apertura di conti all’estero, ecc..
Secondo un recente articolo de El Pais, “a gennaio di quest’anno operavano sull’isola 342 joint ventures con imprese straniere, un 15% in meno del 2002” e un economista annotava che “i margini di autonomia garantiti negli anni ’90 ad alcune imprese statali perché operassero in dollari e realizzassero i loro investimenti, così come l’autorizzazione a importare ed esportare direttamente, sono quasi scomparsi (…). Persino i funzionari più leali ammettono che l’apertura di piccoli spazi all’iniziativa privata e la decentralizzazione imprenditoriale avevano favorito un nuovo modo di pensare e una nuova classe più interessata al denaro che all’ideologia. Le autorità hanno capito che ciò, insieme alla corruzione, è un cancro più pericoloso per la rivoluzione che i missili degli Usa.” 9 giugno 2004).
Lo stesso articolo riportava che in un video ufficiale destinato ai quadri politici e ai responsabili economici del paese Raúl Castro critica apertamente il modo in cui è stato amministrato il settore turistico negli ultimi anni, e annuncia che sarà lui stesso ad occuparsi direttamente dello sviluppo di questo settore, che porta più dollari all’economia nazionale delle esportazioni di tabacco, di nichel e di zucchero messe insieme, di concerto con il nuovo ministro del ramo. “Raúl Castro, secondo le fonti, ha indicato tra i principali mali del MinTur (Ministero del Turismo) la mancanza di controllo e questo suo agire in completa autonomia, senza rendere conto alle istanze superiori. Ha annunciato che da subito si tornerà ad una fase di centralizzazione e di stretto controllo. Ha criticato, ad esempio, i ricevimenti, le costose feste e i numerosi viaggi all’estero di alcuni funzionari del settore, avvertendo che da quel momento ogni caso avrebbe avuto bisogno dell’approvazione del ministro.”
Tuttavia le misure punitive prese dall’alto in casi analoghi nell’Urss o anche, in passato, nella stessa Cuba non hanno mai colpito il nocciolo del problema. Come si è potuti arrivare a questa situazione? Si parla di rendere conto alle istanze superiori, ma che ne è del controllo dal basso? Questo problema semplicemente non viene neppure posto.
Prima di questi sviluppi vi erano state varie avvisaglie che la direzione cubana avesse intenzione di dare un taglio a queste tendenze fuori controllo. Nell’estate del 2001 venne creato il ministero contro la contaminazione capitalista, nell’ambito di una forte campagna per il recupero “della purezza rivoluzionaria”.
Lo stesso anno venne apportato un cambiamento costituzionale per affermare l’irreversibilità del carattere socialista di Cuba. Persistono però gli effetti corrosivi provocati dalle misure liberalizzatrici che si sommano all’inefficienza e alla corruzione distintive della presenza stessa di una burocrazia.
Haroldo Dilla è un investigatore sociale dell’Università della Repubblica Dominicana che da poco tempo collabora alle commissioni programmatiche del partito comunista cubano. Egli ha evidenziato che le forze armate cubane costituiscono il gruppo di potere più organizzato e con tentacoli che si estendono nell’economia; i militari saranno “un fattore chiave nella transizione, perno di qualsiasi negoziato”. Per Dilla i militari “sono rigidi nella sfera politica ma liberali in quella economica, e sarebbero disposti a cercare una via d’uscita conforme al modello cinese per Cuba, ma il futuro resta imprevedibile” (El Pais, 6 dicembre 2003).
Se la Cina deve essere lo specchio nel quale deve guardarsi Cuba, il futuro non potrebbe essere più scoraggiante per il popolo cubano. In Cina il dispotismo burocratico più selvaggio si combina con lo sfruttamento capitalista più spietato. Tutto indica che la transizione al capitalismo è sul punto di completarsi e la cosa più umiliante e che tutto è stato orchestrato dalla stessa cupola del Partito comunista cinese. In tutto ciò la grande maggioranza dei lavoratori e dei contadini cinesi ha solo visto peggiorate le sue già precarie condizioni di vita.
Difendere una prospettiva rivoluzionaria
Cuba è entrata in momento decisivo della sua storia nel quale le idee autenticamente marxiste possono giocare un ruolo fondamentale. In questi anni è chiaro che molti rivoluzionari cubani, compresi molti che ricoprono ruoli di direzione nel Pcc e nello Stato cubano, stanno cercando un’alternativa all’impasse attuale.
Non esiste una via d’uscita se la rivoluzione cubana resta confinata dentro le sue frontiere. Nessuna formula magica può eludere il fatto che Cuba sia una piccola isola, la cui economia non può essere autosufficiente e deve fare i conti con l’economia mondiale dominata dalle potenze imperialiste. La stessa dinamica del commercio mondiale e lo scambio diseguale giocano contro l’economia cubana, come succede per gli altri paesi dell’America latina.
Secondo dati forniti da Elena Alvarez, dell’Istituto Nazionale di Investigazioni Economiche del Ministero dell’Economia e della Pianificazione, se nel 1990 si compravano 1,9 tonnellate di petrolio con una di zucchero, nel 2002 la quantità di petrolio si riduce a 0,7 tonnellate per la stessa quantità di zucchero. Secondo la specialista cubana, “la sfavorevole evoluzione dei prezzi ha determinato che negli ultimi cinque anni la perdita nelle ragioni di scambio sia pari a quasi il 40% (in relazione ai prezzi del 1997)”.
Per quanti provvedimenti si possano prendere per migliorare l’efficienza e diminuire la dipendenza dell’economia cubana – ci sono stati progressi evidenti nella produzione del petrolio, per esempio – è evidente che sussistono limiti insuperabili nel quadro delle relazioni commerciali mondiali segnate da una sfavorevole divisione internazionale del lavoro. Questo stato di cose può portare l’economia cubana ad una situazione critica e mettere in pericolo le stesse conquiste sociali della rivoluzione.
I problemi di un’economia pianificata circondata dal mare del capitalismo mondiale possono essere risolti solo con l’estensione della rivoluzione a livello mondiale, e in primo luogo all’America latina. Ciò non significa che per resistere non si debba ricorrere a provvedimenti eccezionali. Da un punto di vista marxista il fatto che uno Stato operaio possa fare concessioni limitate agli investimenti del capitale privato in situazioni economiche estreme, non rappresenta la violazione di nessun principio. I bolscevichi, per fronteggiare una situazione economica insostenibile, ricorsero alla Nep (Nuova Politica Economica), che permetteva lo sviluppo di attività economiche private, per favorire la produzione agraria, e rifornire così le città affamate. Il pericolo di questa politica non è rappresentato dagli investimenti stranieri in se stessi, che chiaramente portano a un rafforzamento degli elementi filocapitalisti all’interno dello Stato operaio. Il vero punto è come si vuole controllare questa dinamica e in base a quale prospettiva.
Lenin spiegò sinceramente alle esauste masse sovietiche che la Nep era una concessione, un prodotto della enorme debolezza del giovane Stato sovietico, un passo indietro che avrebbe permesso all’economia di respirare nella obbligata attesa del trionfo della rivoluzione in un paese capitalista avanzato. I bolscevichi non riposero mai alcuna speranza nell’idea che la Nep potesse risolvere i problemi della transizione al socialismo. Altro elemento fondamentale era che le concessioni della Nep venivano accordate in un contesto di democrazia operaia e di potere dei soviet.
Dopo lunghi anni di isolamento, per Cuba si apre una prospettiva nuova: quella di inserirsi nell’ambito delle lotte che stanno sviluppandosi in tutto il continente, e da queste trarre nuova linfa vitale per la propria rivoluzione.
Non lottare per completare i processi rivoluzionari che si sono aperti e si apriranno in America latina con la nazionalizzazione e la pianificazione delle leve fondamentali dell’economia, vuol dire lasciare aperte le porte della controrivoluzione in questi stessi paesi. Una sconfitta in un paese come il Venezuela, dove i passi decisivi che devono essere compiuti per vincere il pericolo della controrivoluzione sono precisamente di carattere socialista, sarebbe un disastro per il destino della rivoluzione cubana. Se la rivoluzione venezuelana si spinge fino all’abbattimento del capitalismo, si potrebbe costruire una Federazione socialista di Cuba e Venezuela, che rappresenterebbe un potente polo di attrazione per le lotte di tutto il continente e aprirebbe le porte ad una Federazione socialista dell’America latina.
Il vecchio sogno di un’unione fraterna e prospera dell’America latina e dei Caraibi, la stessa idea per la quale lottarono Simon Bolívar, Jose Martí e il Che, potrebbe trasformarsi in realtà. Basandosi sulla enorme ricchezza naturale di molti di questi paesi e sulla pianificazione democratica dell’economia, si potrebbe mettere fine immediatamente alla miseria, alle disuguaglianze e allo sfruttamento selvaggio al quale sono sottomessi i popoli latino americani.
Una volta ancora la rivoluzione cubana deve avanzare per non retrocedere e in questa occasione più che mai, solo le idee del marxismo e dell’internazionalismo indicano il cammino. Lì troveremo gli strumenti per guidare questa forza inarrestabile che è il proletariato alla vittoria, a Cuba, in America latina e nel mondo.
Estate 2004