Palestina oggi – Cosa significa l’accordo Hamas-Fatah?
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1 Dicembre 2017In occasione dell’accordo siglato il 12 Ottobre tra Hamas e Al-Fatah e nel centenario della dichiarazione di Balfour, ripubblichiamo questo articolo apparso sulla rivista “In difesa del Marxismo” n°7 dedicata alle rivoluzioni arabe e pubblicata nell’Aprile del 2006.
di Francesco Merli
Ben prima della proclamazione dello Stato d’Israele (14 maggio 1948) il sogno sionista di formare uno Stato che desse nuova vita alla biblica terra d’Israele si era rivelato alla prova dei fatti, come aveva predetto Trotskij, una “trappola mortale” per centinaia di migliaia di ebrei, un’utopia reazionaria densa di tragiche conseguenze.
Il mito di una “terra senza popolo, per un popolo senza terra”, coniato da Lord Shaftesbury nel 1854 e ripreso dalla letteratura sionista, era una mistificazione priva di alcun fondamento salvo giustificare l’immigrazione ebraica e l’espropriazione progressiva delle terre dei palestinesi.
I dirigenti sionisti capivano fin troppo bene che prima o poi si sarebbe giunti ad uno scontro con la maggioranza araba per il predominio sulla Palestina. “C’è un contrasto fondamentale. Noi e loro vogliamo la stessa cosa. Vogliamo entrambi la Palestina” si trovò a dichiarare il leader sionista David Ben-Gurion. “Se fossi arabo… insorgerei contro un’immigrazione che prima o poi finirà col mettere il paese… nelle mani degli ebrei” (cit. in B. Morris, Vittime). Nella mente dei dirigenti sionisti ogni colono approdato in Palestina rappresentava un soldato in più nella guerra per la conquista della terra. Ogni loro azione era finalizzata all’allontanamento della maggioranza della popolazione araba dalla Palestina per determinare di fatto la nascita dello Stato israeliano.
La realizzazione di questo progetto provocò ferite che sono ancora aperte a 55 anni di distanza e la deportazione di 800mila palestinesi dalle proprie terre.
In 50 anni la storia d’Israele è stata costellata di guerre (guerra “d’indipendenza” del 1948-49, guerra di “Suez” del 1956, guerra dei “sei giorni” del 1967, guerra del “Kippur” del 1973, oltre alle due invasioni del Libano nel 1978 e 1982 e la successiva ventennale guerra di logoramento con gli Hezbollah), e di insurrezioni (prima Intifada 1987-1992 e seconda Intifada 2000-2003) di una popolazione dei Territori occupati nel 1967 mai doma. Più che un “porto sicuro” la terra promessa fin dall’inizio assunse per gli ebrei i connotati di un fortilizio sotto assedio, accerchiato da popoli e nazioni ostili.
Nel 1944 le terre acquistate dagli ebrei in Palestina non superavano il 6,6% del territorio del Mandato, ma le strutture armate del sionismo si erano notevolmente rafforzate nel corso della guerra e l’Agenzia ebraica era diventata di fatto, almeno in forma embrionale, un’entità statale quasi autonoma, dotata di una propria economia separata, di proprie istituzioni e di un vero e proprio esercito.
Esplosione del terrorismo sionista
Durante la Seconda guerra mondiale sionisti e nazionalisti arabi avevano collaborato con l’esercito britannico. Le industrie dello Yishuv ebraico furono messe al servizio dello sforzo bellico e una brigata ebraica di 23mila uomini combattè sotto il comando Alleato. La partecipazione araba fu pari a 9.000 uomini. La linea di collaborazione bellica non fu accettata da un settore della destra sionista, rappresentato dalla banda Stern che nel 1944 assassinò al Cairo il residente britannico Lord Moyne.
Finita la guerra la tattica sionista mutò e, tra il 1945 e il 1948, Haganah e Irgun si unirono agli attentati terroristici contro i britannici e la popolazione araba. Il 22 luglio del 1946 un attentato dinamitardo dell’Irgun Zwai Leumi (formazione armata vicina alla destra sionista), organizzato dal futuro premier israeliano Menahem Beghin, distrusse un’ala dell’Hotel King David a Gerusalemme, sede del quartier generale britannico e dell’amministrazione civile del Mandato, uccidendo 91 persone fra inglesi, arabi e alcuni ebrei.
La radicalizzazione dello scontro tra arabi e sionisti e tra sionisti e amministrazione britannica convinse definitivamente la Gran Bretagna a rinunciare al Mandato, annunciando nell’aprile del 1947 il suo disimpegno dalla Palestina entro un anno per rimettere la questione nelle mani delle Nazioni Unite, erede della vecchia Società delle Nazioni.
La decisione britannica mutò il quadro generale, scatenando il dibattito su quale status riservare alla Palestina dopo il Mandato. In particolare gli Stati Uniti interpretavano correttamente la posizione britannica come un segnale di debolezza di un impero scricchiolante e presero l’iniziativa imbracciando la questione ebraico-palestinese come una clava per assestare colpi all’influenza dell’ex alleato sulla zona mediorientale, in ciò seguiti dall’Urss per specifiche ragioni. Gli Usa dal 1947 diventarono i maggiori avvocati della partizione della Palestina ed esercitarono indicibili pressioni sulle delegazioni di una serie di paesi latinoamericani per far passare all’Onu la risoluzione da loro caldeggiata, raggiungendo il proprio obiettivo.
La proposta dell’Onu è contenuta nella Risoluzione 181 del 29 novembre 1947, sintetizzabile nella partizione della Palestina in tre zone: uno Stato arabo (superficie: 11.500 Kmq per 804.mila arabi e 10milaebrei), uno ebraico (14mila Kmq per 558mila ebrei e 405mila arabi) e una zona (Gerusalemme) sotto il controllo internazionale. La proposta era ammantata di utopismo se si considera che i due Stati avrebbero dovuto aderire ad una Unione economica palestinese che avrebbe dovuto mettere in comune la moneta, le risorse e le infrastrutture (porti, poste, ferrovie, strade) e gestirle in un clima di parità ed amicizia, come se non fosse in corso da oltre due decenni una guerra tra arabi ed ebrei senza esclusione di colpi. La risoluzione venne accettata dai sionisti e rifiutata dagli arabi.
Di fatto il piano dell’Onu era ben lontano dal poter portare ad una soluzione conciliatoria, al contrario rinvigorì le aspettative dei sionisti che vedevano riconosciuto il loro diritto ad uno Stato in Palestina e si sentivano forti di una migliore organizzazione militare e più compatti dei nazionalisti palestinesi, paralizzati dalla faida tra i clan degli Husayni e degli Nashashibi.
Come se il piano dell’Onu fosse il segnale a lungo atteso, alla fine del 1947, Haganah, Irgun e banda Stern, che ormai rispondevano ad un unico comando, scatenarono una campagna di terrore con attacchi contro i villaggi palestinesi: 12 dicembre, un villaggio presso Haifa, 12 morti; 14 dicembre, un villaggio presso Tel Aviv, 18 morti e 100 feriti; attacchi analoghi a Safad, Qazaza, Giaffa, Balad el Cheikh.
Gli attacchi aumentarono d’intensità nei primi mesi del 1948. Tannoura, Tireh, Saasa, Haifa, Hfar Husseinia, Sarafand, con centinaia di vittime palestinesi. Il 9 aprile il villaggio di Deir Yassin presso Gerusalemme viene massacrato dall’Irgun. Gli abitanti del villaggio avevano mantenuto buone relazioni con gli ebrei, originari della Palestina, ma non vengono risparmiati. La Croce Rossa rinviene 254 cadaveri di uomini, donne, bambini, mutilati e gettati nei pozzi mentre Menahem Begin si vanta pubblicamente del massacro.
Centinaia di migliaia di palestinesi disarmati fuggirono dalle proprie case, successivamente rase al suolo per renderne impossibile il rientro. I profughi palestinesi passarono da 60mila a 350mila in un solo mese.
Il terrorismo sionista investì anche le città: il 22 aprile venne attaccata Haifa nel cuore della notte, provocando 50 morti e 200 feriti. Altri 100 morti e centinaia dì feriti per un attacco sionista a una colonna di donne e bambini palestinesi che tentava di fuggire dalla città.
Perché tanta ferocia? Il calcolo cinico dei dirigenti sionisti era quello di conquistare sul campo quanta più terra fosse possibile e rendere irreversibile la fuga della popolazione palestinese con ogni mezzo: spaventare, anzi terrorizzare e costringere alla fuga i palestinesi e radere al suolo le loro case, questo era in sostanza il piano, il tutto per imporre una partizione della Palestina più favorevole al futuro Stato israeliano.
Israele nasce il 14 maggio del 1948 grondante di sangue palestinese. Tutti i principali leader sionisti furono coinvolti nei massacri e nel terrorismo su larga scala praticato dalle forze armate ebraiche. Sotto questo aspetto non vi sono differenze rilevanti tra laburisti e destra sionista. Moshe Levin, Golda Meir, David Ben-Gurion, Menahem Beghin e i giovani Ariel Sharon e Yitzhak Rabin, i principali leader del futuro stato impararono dall’esperienza concreta in che misura siano i rapporti di forza sul campo a determinare il quadro degli scenari possibili sul terreno della diplomazia internazionale, una lezione che avrebbero assimilato bene applicandola ad ogni svolta della vita israeliana fino ad oggi.
La “Nakba”
La reazione dei paesi arabi alla dichiarazione dello Stato israeliano fu immediata e già il 15 maggio entrarono in Palestina forze armate egiziane, irachene, siriane, libanesi e transgiordane che ottennero nella prima fase qualche successo.
Una tregua proposta dall’Onu a giugno e accettata dalle due parti, ma violata sistematicamente da Irgun e banda Stern, servì alle milizie ebraiche per organizzarsi e riarmarsi.
Il contrattacco delle forze sioniste dopo l’8 luglio infranse la resistenza delle forze arabe, mal coordinate e spesso poste sotto la guida di ufficiali britannici (che dopo aver addestrato i migliori combattenti dell’Haganah ora si trovavano a contenere l’espansionismo ebraico che rischiava di destabilizzare altri domini della Corona) o di dirigenti corrotti che non esitavano durante la lotta a trattare segretamente con i sionisti. Abdallah, re di Transgiordania, si incontrò più volte con Golda Meir e Moshe Dayan, per trattare l’annessione della Cisgiordania al suo regno (che avvenne nel dicembre del 1948); gli egiziani si attestarono nella striscia di Gaza.
I dirigenti sionisti erano determinati a travolgere ogni ostacolo. L’inviato dell’Onu, conte Folke Bernadotte, ingiunse il 13 settembre a Israele di riammettere i rifugiati e ricostruire le loro abitazioni ma quattro giorni dopo fu assassinato dalla banda Stern insieme al suo assistente, il colonnello francese Serot.
Gli armistizi di Rodi del 1949 tra lo Stato d’Israele e la maggior parte degli Stati arabi sancirono la disfatta araba chiudendo quella che gli israeliani considereranno la loro “guerra d’indipendenza”. Ancora una volta la “Storia” scritta dai vincitori negò e rimosse dalla liturgia ufficiale ogni riferimento alle stragi e alle atrocità commesse. Per i palestinesi il 1948 sarà la “Nakba”, la catastrofe, una sconfitta che avrebbe gettato le masse palestinesi per oltre vent’anni in uno stato di profonda prostrazione.
Per molti anni l’unica forma di resistenza agli israeliani fu ingaggiata da gruppi guerriglieri sostenuti dall’Egitto che avevano come base Gaza, ma la loro azione era di scarso rilievo, anche se scatenò durissime rappresaglie dell’aviazione israeliana sui villaggi della Giordania, della Siria e su Gaza stessa. Gli episodi più sanguinosi furono il raid contro il villaggio giordano di Qibiya (14 ottobre 1953), dove vennero uccisi 69 palestinesi e quello del 21 febbraio 1955 a Gaza con l’uccisione di 38 soldati egiziani e il ferimento di 44. In entrambi i casi a capo del reparto speciale addetto alla rappresaglia denominato Unità 101 c’era un giovane ufficiale israeliano: Ariel Sharon.
Proprio il ruolo egiziano nel concedere basi operative e rifugio ai commando guerriglieri nella striscia di Gaza fu uno dei fattori che spinse il governo israeliano a partecipare all’avventura colonialista promossa da Francia e Gran Bretagna con la guerra di Suez del 1956 contro l’Egitto.
La questione dei profughi e gli “arabi israeliani”
Su un totale di 800mila profughi palestinesi, il 39% di questi si rifugiarono in Cisgiordania (annessa al regno di Giordania) e un ulteriore 10% proseguì fino alla Giordania, scappando da Haifa, Giaffa e dai villaggi della costa occupata da Israele. Il 26% si rifugiò nella striscia di Gaza occupata dall’Egitto, che vide raddoppiare la sua popolazione in poche settimane. Dalla Galilea (nel settentrione della Palestina) il 14% fuggì nel Libano e il 10% attraversando il Golan sconfinò in Siria. Solo pochi (l’1%) andarono in Egitto. La quasi totalità dei profughi fu ammassata in enormi campi “provvisori” ai confini delle città, in condizioni di totale indigenza e in tali campi è rimasta fino ad oggi con una popolazione di profughi quintuplicata.
Circa 150mila palestinesi restarono sulla loro terra occupata dagli israeliani, andando a costituire il nucleo degli arabi israeliani che oggi sono il 18% della popolazione israeliana. Si trattava soprattutto di contadini che vivevano in tre zone in cui lo scontro era stato meno violento (nei villaggi rurali della Galilea, in un fazzoletto di terra a ridosso della Cisgiordania e nella zona del Negev, a sud) e ritenevano, restando, di poter mantenere meglio la proprietà della loro terra.
Lo Stato israeliano si appropriò delle terre dei profughi con leggi emanate ad hoc come la legge di presenza/assenza del 1950 e poi procedette sistematicamente ad espropriare le terre dei palestinesi rimasti con leggi tuttora in vigore come la legge sulla cittadinanza del 1952, quella sulla Land Authority del 1953, ed altre. In pochi anni i 550 villaggi palestinesi sopravvissuti alla nakba si erano ridotti a 100. Oltre il 25% dei contadini videro espropriate le proprie terre e dovettero rifugiarsi in villaggi “fantasma”, considerati abusivi da Israele e quindi periodicamente sgombrati con le ruspe per essere ricostruiti successivamente, espulsi persino dalle mappe. Fino al 1966 gli arabi israeliani vissero sotto la legge marziale in uno stato di segregazione con enormi limitazioni alla loro mobilità. Dopo il 1967 il governo israeliano allentò la pressione su questo settore, permettendone una maggiore integrazione, per affrontare il compito di consolidare le nuove conquiste territoriali della guerra dei “sei giorni”.
Le basi sociali del capitalismo israeliano
Per i palestinesi Israele rappresentava un regime ostile, usurpatore delle loro terre, responsabile di genocidio e di deportazioni di massa, per i profughi ebrei che continuavano ad affluire dall’Europa e dal mondo arabo (dove equilibri di convivenza secolari erano stati rotti dalle conseguenze della nakba rendendo impossibile la permanenza per centinaia di migliaia di ebrei), Israele era l’unica patria possibile, l’unica possibilità di ricostruire vite distrutte dalla guerra e dalle persecuzioni.
Tra il 1948 e il 1951 la popolazione israeliana più che raddoppiò (da 650mila a oltre 1.400mila), per proseguire a crescere velocemente nei decenni successivi grazie all’immigrazione ebraica (Israele raggiunse quasi 2 milioni di abitanti nel 1961, oltre 3 milioni nel 1978, e oggi ha varcato la soglia dei 6 milioni).
Per i profughi della Shoà, l’olocausto, l’accoglienza nella nuova patria non fu molto felice. Al di là della retorica ufficiale, un settore del movimento sionista e della destra religiosa li riteneva responsabili del loro stesso sterminio e i sopravvissuti spesso venivano guardati con sospetto.
La borghesia israeliana e l’imperialismo seppero sfruttare con notevole cinismo negli anni ’50 e ‘60 la determinazione delle masse ebraiche, costruendo una società in stato di guerra permanente ed impiegando la massa dei profughi ebrei come comoda e sempre rinnovabile forza lavoro per le proprie industrie e, all’occorrenza, carne da macello per assicurarsi la supremazia sulla zona. Il notevole sviluppo del capitalismo israeliano, anche grazie alle importanti sovvenzioni nordamericane (che alla metà degli anni novanta furono stimati in 140 miliardi di dollari dal 1949) permise una certa stabilizzazione del nuovo Stato.
Le masse ebraiche erano impermeabili alla propaganda nazionalista dei regimi arabi, che le rappresentava indistintamente come nemici da schiacciare. Nonostante il notevole flusso migratorio, con il passare degli anni, una parte sempre più importante di israeliani era nata all’interno di Israele (27,7% nel 1949, 35,1% nel 1958, 44% nel 1968 e 57% nel 1981) e la lingua ebraica, progettata a tavolino da Ben Yehouda negli anni ’20, attecchì sempre più fra le giovani generazioni, accanto allo yiddish degli askenaziti e all’ebraico-castigliano dei sefarditi. Molti israeliani di seconda generazione dimenticarono le lingue dei loro paesi d’origine.
La continua minaccia militare rappresentata dalle nazioni arabe confinanti e la tattica terroristica portata avanti dalle organizzazioni nazionaliste palestinesi a partire dalla metà degli anni ’60 spingeva la maggioranza degli israeliani nelle braccia dello stato sionista che aveva facile gioco ad invocare la retorica della “difesa nazionale”.
La stabilizzazione, e il boom economico degli anni ’50-’70, amplificato dal continuo afflusso di nuovi immigrati e dall’aiuto degli Stati Uniti, portarono ai lavoratori israeliani (inclusa la minoranza arabo-israeliana, pur discriminata) un tenore di vita notevolmente più alto rispetto alle masse arabe dei territori confinanti.
Non dimenticando questi fattori fondamentali che garantirono una certa stabilità al capitalismo israeliano, va detto che la società israeliana era ed è tutt’altro che omogenea. Nel 1974 un’inchiesta governativa (scaturita dalle violente proteste nei primi anni ’70 delle “Pantere nere” israeliane, duramente represse dallo stato sionista) sulla condizione degli ebrei sefarditi (provenienti dai paesi latini, dallo Yemen e dal Maghreb), che nel 1981 rappresentavano il 54% della popolazione israeliana, rivelò la realtà scioccante dell’esistenza di una “seconda Israele” povera e sfruttata. Di origine sefardita erano il 92% dei bambini con problemi di denutrizione e il 90% della popolazione carceraria israeliana; il loro tasso di scolarizzazione superiore era solo del 17% mentre per gli ebrei di origine europea (askenaziti) era il 41%; nelle università i giovani sefarditi erano il 20% contro il 78% di askenaziti. La composizione sociale sefardita era per il 62% operaia (contro il 39%) e solo per il 5% borghese (contro il 14%). La discriminazione sociale della maggioranza della popolazione ebraica era simboleggiata dal basso numero di unioni “miste”: solo il 17%. A pieno titolo dunque il movimento delle Pantere Nere rivendicava con orgoglio agli ebrei sefarditi il ruolo di “negri d’israele” e in questo senso si ispirava all’omonimo movimento di protesta degli afroamericani.
Dopo l’esplosione delle mobilitazioni delle Pantere Nere sefardite lo stato sionista tentò con un certo successo di mitigare queste contraddizioni esplosive, ma il blocco storico della classe dominante israeliana continua tuttora ad essere askenazita, mentre la mancanza di un’alternativa reale alla propria condizione ha alimentato la crescita della destra israeliana fra gli strati più poveri dei sefarditi.
Agli occhi degli ebrei le conquiste materiali, strappate con il lavoro e la lotta, e il carattere democratico e laico dello Stato d’Israele rappresentavano un capitale da difendere con le unghie, mentre la violenza contro gli arabi era giustificata ai loro occhi come una necessità per la difesa delle loro stesse esistenze. Perfino le centinaia di migliaia d’arabi d’Israele, pur pesantemente discriminati, erano consapevoli del desolante panorama di miseria offerto dai regimi arabi autocratici e reazionari, molti dei quali non hanno mai riconosciuto diritti politici o sindacali alla loro popolazione.
Anche sulla base di dati globali la società israeliana continua ad essere notevolmente polarizzata. Nel 1992 il 10% della popolazione più ricco si appropriava del 27% del reddito nazionale, mentre il 10% più povero ne deteneva solo il 2,8%. Negli ultimi tre anni le condizioni della maggioranza della popolazione sono notevolmente peggiorate a causa della recessione più profonda della storia israeliana, come vedremo più avanti.
Messa a paragone con la realtà israeliana, la condizione delle masse negli stati arabi, governate per lo più da regimi reazionari ed oppressivi, era però infinitamente peggiore. In Giordania, ad esempio, le proporzioni erano, nel 1991, rispettivamente del 34,7% del reddito al 10% più ricco e del 2,4% del reddito al 10% più povero. Oltre il 30% della popolazione giordana viveva sotto il livello ufficiale di povertà (Fonte dei dati: CIA – The World Factbook 1999).
Altrettanto chiaro agli ebrei era il carattere strumentale ed ipocrita della solidarietà tributata ai palestinesi dai regimi arabi. Il “paladino” della causa palestinese, re Hussein di Giordania, non si era fatto alcuno scrupolo nel “Settembre nero” del 1970 di massacrare migliaia di palestinesi suoi sudditi bombardando i campi profughi e la stessa capitale Amman, in cui stavano crescendo correnti rivoluzionarie, per reprimere sul nascere un movimento rivoluzionario che minacciava di detronizzarlo dal comodo scranno su cui gli inglesi avevano piazzato il padre. Così la Siria, intervenendo nella guerra civile libanese, aveva trovato conveniente allearsi alle milizie falangiste, responsabili di atroci stragi nei campi profughi, contro i palestinesi.
I monarchi sauditi e gli emiri dei ricchi paesi del petrolio, “amici” dei palestinesi e finanziatori dell’Olp, ne accolsero centinaia di migliaia per farli lavorare nei pozzi e come servi, in condizioni di semi-schiavitù, ma si guardarono bene dal concedergli diritti politici o sindacali, non parliamo della cittadinanza. Nel 1999 i lavoratori stranieri privi d’alcun diritto, soprattutto palestinesi, ma anche yemeniti, indiani, srilankesi e pakistani, erano il 25% della popolazione in Arabia Saudita, il 35% nel Bahrain, il 60% in Kuwait e oltre il 70% negli Emirati Arabi Uniti.
L’Organizzazione per la liberazione della Palestina
La “soluzione” su basi capitaliste della questione ebraica aveva generato la moderna questione palestinese. Ai profughi palestinesi del 1948 i regimi arabi non seppero offrire nulla di meglio che parole, campi profughi e povertà.
Ciononostante i regimi arabi, in particolar modo l’Egitto di Nasser (specialmente dopo la sconfitta nella guerra di Suez del 1956), credettero di poter sfruttare la tragedia palestinese per accreditarsi come regimi antimperialisti e proiettare la rabbia dei propri popoli su obiettivi esterni. Fu così che per decisione del vertice dei capi di stato arabi, il 28 maggio del 1964 nacque l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Nella sua Carta Costitutiva l’Olp si impegnava a lottare per la “liberazione di tutta la Palestina”, ritenuta un dovere per ogni Stato arabo, ma allo stesso tempo anche alla “non ingerenza negli affari interni di alcuno Stato arabo”.
La direzione dell’Olp fu affidata ad Ahmed Shuqeiri, un avventuriero palestinese che screditò la causa palestinese con una serie di proclami sanguinari e controproducenti quanto inconsistenti come la dichiarazione di voler “buttare a mare gli israeliani”. L’Olp venne dotato addirittura di un esercito, l’Armata per la liberazione della Palestina, un esercito regolare articolato in brigate da inquadrare negli eserciti dei paesi arabi confinanti con Israele.
Questa “direzione” palestinese borghese, succube dei regimi arabi, incontrò subito una forte opposizione da parte di Fatah, l’organizzazione guerrigliera di Yasser Arafat, e dei molti intellettuali nazionalisti palestinesi che come lui avevano saggiato le prigioni dei regimi “amici” nei primi anni ‘60. L’Olp vide sorgere nel 1967 una nuova opposizione con la nascita del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) di George Habash, una formazione armata piccolo-borghese influenzata dallo stalinismo, contraria alla sudditanza dell’Olp dai regimi arabi.
La linea dell’Olp e del nazionalismo borghese arabo uscì totalmente screditata dalla sconfitta nella guerra dei “sei giorni” del giugno 1967, aprendo nell’organizzazione una crisi profondissima.
La svolta della guerra dei “sei giorni”
Il 1967 fu un vero spartiacque nella storia mediorientale. Fino a quel momento la maggioranza dei palestinesi rifugiati nei vari paesi arabi aveva nutrito la speranza che l’intervento degli eserciti di Egitto, Siria e Giordania avrebbe garantito la riscossa palestinese. La Resistenza contro Israele riguardava piccoli gruppi con limitata influenza fra le masse palestinesi, principalmente dediti ad operazioni di “disturbo” del nuovo Stato sionista sulla base dell’infiltrazione in Israele di commandos, nulla più che piccole punture di spillo per la macchina da guerra efficiente che era diventato l’Idf (esercito israeliano), dotato dei migliori armamenti, compatto e ben addestrato. La nascita dell’Olp, organizzazione verticistica del tutto distante dalle masse dei rifugiati, non cambiò per nulla il quadro. Gli attacchi si alternavano alle rappresaglie israeliane sempre più violente.
Un attacco israeliano alla Siria (in cui era giunta al potere la sinistra baathista) il 7 aprile 1967, nel quale vennero abbattuti sei Mig siriani mentre l’aviazione israeliana bombardava i dintorni di Damasco, spinse il regime egiziano di Nasser a minacciare un intervento, seguito da dichiarazioni bellicose di Hussein di Giordania e dalle farneticazioni di Shuqeiri. Nelle intenzioni arabe la levata di scudi doveva essere un bluff che aveva lo scopo di provocare un intervento delle potenze occidentali, bluff appunto non sostenuto da seri preparativi di guerra. Gli israeliani invece si erano ben preparati e le minacce arabe furono il pretesto per sferrare un colpo decisivo alla potenza militare dei vicini in base ad un piano evidentemente preparato accuratamente.
All’alba del 5 giugno l’aviazione israeliana scatenò un attacco fulmineo contro gli aeroporti egiziani e giordani distruggendo oltre il 90% delle aviazioni militari di entrambi i paesi prima ancora che gli aerei potessero decollare. Lo stesso giorno l’Idf penetrò in Cisgiordania e a Gaza e in un paio di giorni di aspri combattimenti ebbe ragione della Legione araba giordana e dell’esercito egiziano dislocato a Gaza. Il 6 conquistarono Gaza e il 7 presero Gerusalemme completando l’occupazione della Cisgiordania. Il 10 giugno, mentre il mondo arabo era attonito, Israele non solo aveva unificato sotto il suo dominio l’intera Palestina del Mandato britannico ma aveva occupato il Golan siriano e il Sinai egiziano, infliggendo alle nazioni arabe una disfatta epocale e provocando la fuga di 300.000 nuovi profughi palestinesi.
Rinascita della Resistenza palestinese
La guerra dei “sei giorni” però non ebbe sui palestinesi l’effetto demoralizzante della Nakba; questa volta era la rabbia a prevalere sulla demoralizzazione. La sconfitta araba sortì l’effetto (del tutto imprevisto da parte israeliana) di spazzare via ogni residua illusione che un intervento esterno avrebbe “messo le cose a posto”, creando, tra i palestinesi ritrovatisi di colpo sotto la dominazione diretta israeliana e tra tutti quelli che affollavano i campi profughi in Giordania, Siria e Libano, un terreno fertile per la critica alle direzioni nazionaliste tradizionali del mondo arabo. Da questo ambiente trasse enorme impulso la Resistenza palestinese (in particolare Fatah e il neonato Fplp) che conquistò ben presto una base di massa nei campi profughi.
Il 21 marzo 1968 l’esercito israeliano, per spazzare via definitivamente la guerriglia palestinese, decise di attaccare il quartier generale palestinese posto nel villaggio di Karameh in Giordania. Arafat, informato dell’attacco, decise di tenere le posizioni accettando lo scontro frontale (nonostante i guerriglieri del Fplp si fossero ritirati sulle colline). La resistenza, inattesa dagli israeliani, portò ad un’intera giornata di scontri alla fine dei quali l’Idf dovette ritirarsi sconfitto, subendo 28 morti e 69 feriti e il danneggiamento di una trentina di carri armati. Oltre un centinaio di guerriglieri furono uccisi, ma questo episodio suscitò in tutto il mondo arabo un’enorme ondata emotiva perché la resistenza palestinese era riuscita dove avevano sempre fallito gli eserciti degli stati arabi: infliggere all’esercito israeliano per la prima volta una sconfitta.
Lo sviluppo impetuoso della Resistenza proiettò tra il 1969 e il 1970 Fatah ed Arafat ai vertici di un’Olp paralizzata dalla crisi.
I regimi arabi contro la Resistenza palestinese
I profughi palestinesi della nakba erano stati accolti dai paesi ospitanti con malcelato fastidio. Relegati alla miseria dei campi profughi, la cui popolazione era in continua crescita (nel 1968 erano già un milione e mezzo), i palestinesi furono usati dalla borghesia dei vari paesi come forza lavoro a basso prezzo, sottoponendoli a condizioni umilianti. L’ascesa della Resistenza alla fine degli anni ’60 restituì ai palestinesi il proprio orgoglio, trasformando i campi in veri e propri santuari delle organizzazioni guerrigliere.
Le incursioni guerrigliere e i rapporti con la rete clandestina di collegamento con i palestinesi “dell’interno” si dipanavano a partire dai campi profughi, esponendo i campi stessi ed i paesi ospitanti alle violente rappresaglie israeliane. Le classi dominanti arabe da un lato volevano usare la “carta palestinese” per i propri fini, dall’altro non erano disposte ad accettare di pagarne le conseguenze. Questa contraddizione generò un costante attrito tra le formazioni guerrigliere ed i governi dei paesi ospitanti, aggravato dalla diffusione di posizioni rivoluzionarie tra i palestinesi che non si limitavano all’obiettivo della lotta di liberazione della Palestina, ma concepiva la rivoluzione palestinese come parte di una più generale rivoluzione araba a carattere decisamente socialista. Queste posizioni, forti del prestigio crescente della Resistenza palestinese, cominciarono ad attecchire soprattutto fra le masse libanesi e giordane.
La reazione delle classi dominanti arabe fu dapprima quella di tentare di condizionare le scelte dell’Olp facendo leva sui cospicui finanziamenti erogati all’Olp. Oltre a ciò ciascun regime arabo cercò di corrompere settori della resistenza, creando organizzazioni che fungessero da “portavoce”, come la Saika, di matrice baathista siriana, o il Fronte popolare – comando generale di Ahmed Jibril, anch’esso controllato dalla Siria e il Fronte arabo di liberazione, foraggiato dall’Iraq. Queste formazioni minoritarie composte di avventurieri furono responsabili delle azioni terroristiche più controproducenti per la causa palestinese, trasformandosi in certi momenti anche in vere e proprie schegge impazzite della resistenza palestinese (come il gruppo di Abu Nidal che alle stragi in Europa affiancò anche l’assassinio sistematico di esponenti dell’Olp).
La prima crisi esplose nel 1969 proprio in un Libano, già profondamente attraversato da tensioni fra la minoranza cristiano-maronita e la maggioranza araba, dove la guerriglia di Fatah aveva le sue radici più profonde ed una serie di azioni di commando nell’alta Galilea aveva scatenato dure rappresaglie israeliane. L’attrito con il governo libanese degenerò nell’autunno del 1969 in alcuni giorni di aspri combattimenti nei quali l’esercito libanese ebbe la peggio.
L’accordo del Cairo per regolamentare le attività palestinesi in Libano pose fine momentaneamente allo scontro.
Un processo simile era in atto già da tempo anche in Giordania dove gli stretti legami fra la monarchia hashemita di Hussein e gli Stati Uniti e la condizione oppressa della grande maggioranza della popolazione palestinese indigena trovava espressione nella prospettiva aperta dalla rivoluzione palestinese. L’Olp cercò in ogni modo di evitare uno scontro frontale con Hussein, ma l’ascesa rivoluzionaria delle masse giordane travolse ogni ostacolo confrontandosi con il regime giordano privo di una vera direzione per i tentennamenti dell’Olp. A partire dall’estate del 1970 una serie di scontri tra guerriglia ed esercito avevano fatto crescere la tensione. Una serie di dirottamenti di aerei di linea (PanAm, Swissair e British Airways, peraltro senza vittime civili) ad opera del Fplp fu la scusa che Hussein cercava per giustificare sul piano internazionale la repressione.
Dopo due settimane di combattimenti, che portarono la guerriglia palestinese a conquistare buona parte della capitale Amman, Hussein nominò il 16 settembre un governo militare che scatenò all’alba del 17 un’offensiva dei reparti beduini dell’esercito (meno contagiabili dalla rivoluzione) sotto il comando del generale al-Majali contro i campi profughi, bombardati con proiettili al fosforo e napalm e impiegando i carri armati contro i quartieri popolari di Amman. Nonostante la sproporzione di forze dal punto di vista militare, la resistenza fu accanita e i combattimenti durarono quasi due settimane, costringendo Hussein a cercare una via d’uscita negoziata con i dirigenti di Fatah e dell’Olp, che firmarono un accordo il 27 settembre 1970 per la fuoriuscita della guerriglia dalla Giordania, che si trasferì armi e bagagli in Libano.
La cifra esatta delle vittime del “Settembre nero” giordano non si è mai saputa. Fonti palestinesi parlano di 20mila morti, altre fonti di 5-10mila morti, soprattutto tra la popolazione civile.
L’atteggiamento dei dirigenti dell’Olp e di Arafat fu aspramente criticato da un settore molto ampio del movimento rivoluzionario palestinese, uscito con le ossa rotte dalle vicende giordane, mentre la frustrazione e la rabbia per il massacro perpetrato da Hussein e per il silenzio delle altre nazioni arabe dilagavano fra i palestinesi, lasciando spazio a suggestioni terroristiche estreme (è di questi mesi la formazione del gruppo terroristico Settembre Nero).
Svolta diplomatica dell’Olp
La sconfitta giordana non servì a superare i limiti fondamentali della Resistenza palestinese. La crisi di autorità della direzione piccolo-borghese intorno ad Arafat non portò ad un cambiamento di rotta dell’Olp nella direzione di una politica autenticamente rivoluzionaria. Non venne sottoposta a revisione la concezione di una lotta di liberazione “portata dall’esterno”, dalla diaspora palestinese, che assegnava alle masse palestinesi dei Territori occupati un ruolo da comprimarie. Soprattutto non venne meno, anzi paradossalmente si rafforzò, la sostanziale subalternità dell’Olp alla politica di “non ingerenza” negli affari interni degli Stati arabi, concepiti solo come retrovie di uno sforzo bellico. La limitazione della lotta ad un quadro puramente “nazionale”, rimandando ad un secondo tempo il problema di quale tipo di società costruire nella Palestina liberata aveva permesso di mantenere una falsa unità con i regimi arabi, ma non aveva protetto l’Olp dal tradimento di quegli stessi regimi ogni volta che le masse arabe avevano tentato di liberarsi dalle proprie catene e la loro lotta era entrata in collisione con gli interessi fondamentali dei loro oppressori.
Oltre alla sconfitta in Giordania il disorientamento venne alimentato da una catena di attentati ad obiettivi internazionali (dirottamenti aerei, bombe, assassinii all’estero di alti esponenti israeliani e persino di dirigenti “moderati” dell’Olp) che caratterizzarono la prima metà degli anni ’70, soprattutto per mano del gruppo terroristico Settembre Nero e del gruppo di Abu Nidal, che imposero all’attenzione del mondo la questione palestinese fino a quel momento ignorata, ma solo con l’effetto di screditare la Resistenza palestinese e minarla alla base.
Sotto la direzione di Arafat l’Olp aveva finalmente trovato un appoggio di massa tra i palestinesi, ma di fronte alla pressione diplomatica internazionale, particolarmente da parte dei regimi arabi, lo stesso Arafat reagì imponendo al movimento una svolta di 180 gradi: il passaggio da una concezione della lotta di liberazione fondata sul popolo palestinese (anche se sostanzialmente limitata ai profughi) ad una concezione della lotta armata quale strumento ausiliario di pressione sulla diplomazia internazionale.
Il 6 ottobre 1973, alla vigilia della festività ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono Israele. L’apparato di difesa israeliano scricchiolò paurosamente, del tutto impreparato. La resistenza palestinese partecipò alla lotta all’interno dei Territori occupati. Parteciparono alla guerra anche reparti giordani, iracheni e marocchini e un simbolico distaccamento tunisino. Successi iniziali delle forze arabe riscattarono agli occhi delle masse arabe la sconfitta ignominiosa del 1967. La reazione israeliana fu confusa, anche per il disorientamento indotto dal clamoroso insuccesso dei suoi servizi di sicurezza, ritenuti fino a quel momento infallibili. La “guerra del Kippur” produsse un profondo impatto sulla società israeliana spezzando la sicurezza israeliana sull’imbattibilità del suo esercito, anche se questo avrebbe recuperato successivamente il terreno perso e il 22 ottobre si sarebbe giunti all’armistizio con Israele che aveva già ripreso il sopravvento.
Il riconoscimento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina da parte del Vertice arabo di Algeri quale “unica e legittima rappresentante del popolo palestinese” il 27 novembre del 1973, le modifiche alla Carta nazionale palestinese del maggio 1974 che introdussero per la prima volta la prospettiva di una liberazione parziale della Palestina (e l’implicito riconoscimento di Israele) e l’invito a tenere un discorso all’Onu il 13 novembre del 1974 portarono in primo piano di nuovo i regimi arabi nell’ambito della svolta “diplomatica” dell’Olp, una linea perseguita anche a costo di minare l’unica vera forza del movimento rivoluzionario, le radici stesse del movimento tra le masse palestinesi.
Rivoluzione e controrivoluzione in Libano
Nonostante l’esperienza giordana e gli scontri del 1969, in Libano la Resistenza si sentiva sicura della propria forza in continua espansione, a fronte di un potere statale debole in una società attraversata da profonde spaccature tra la classe dominante cristiano-maronita insediata dai francesi e le varie fazioni borghesi musulmane. La crescita dell’autorità della Resistenza andava di pari passo con l’ascesa dei sentimenti rivoluzionari tra le masse libanesi. La classe operaia era prevalentemente araba e ne facevano parte integrante i palestinesi dei campi profughi. La borghesia libanese aveva sfruttato per anni la manodopera dei profughi, dislocando i campi vicino alle città, e aveva usato la loro disperazione per tentare di minare le forti organizzazioni della classe lavoratrice libanese. Questo cinico calcolo invece determinò ben presto una saldatura fra il movimento di liberazione palestinese e le aspirazioni di liberazione sociale dei lavoratori libanesi.
Il trasferimento forzato di migliaia di guerriglieri dell’Olp e di tutte le formazioni della resistenza palestinese dalla Giordania rese il Libano la loro base principale. Interi quartieri di Beirut erano controllati dall’Olp che andava configurandosi come un potere alternativo a quello dello Stato, incontrando l’appoggio delle masse libanesi. Grazie ai finanziamenti in appoggio alla Resistenza, intorno all’Olp fiorivano numerose istituzioni sociali, scuole e ospedali, spesso di qualità superiore a quelle libanesi, aperte al resto della popolazione.
Alla metà degli anni ’70 il fragile equilibrio si ruppe. Mentre l’Egitto di Sadat e la Giordania di Hussein erano impegnati in serrate trattative con Israele per arrivare agli accordi separati di Camp David sotto gli auspici dell’imperialismo americano, in Libano esplose la “guerra civile”; in realtà la guerra scatenata dalla classe dominante cristiano-maronita, dall’esercito e dalle milizie dei falangisti cristiani contro la classe operaia e le masse libanesi e le loro organizzazioni e il fronte della Resistenza palestinese aveva i connotati di una vera e propria guerra per riaffermare il proprio dominio di classe. Allo scontro partecipò anche Israele con frequenti incursioni nel Libano meridionale per colpire le basi della guerriglia.
Il 26 gennaio 1975 i guerriglieri palestinesi intervennero a difesa dello sciopero dei pescatori di Sidone, contro un tentativo di repressione dell’esercito. I guerriglieri costrinsero gli uomini dei reparti di sicurezza libanesi a ritirarsi lasciando sul campo dieci morti. Le Falangi cristiane invocarono il pugno di ferro contro l’Olp. Il 13 aprile un attentato contro il capo della Falange Pierre Gemayel scatenò l’immediata rappresaglia dei falangisti che bloccarono un autobus diretto al campo profughi di Tall el-Zaatar e massacrarono a sangue freddo tutti i 27 passeggeri, scatenando combattimenti in tutta Beirut.
Per tutto il 1975, fra evanescenti tregue e combattimenti durissimi, l’atteggiamento dell’Olp fu quello di non intervenire direttamente, ma di limitarsi ad assistere le milizie islamo-progressiste della sinistra libanese con sostegno logistico ed armi. La tattica “attendista” dell’Olp ebbe come unica conseguenza il prolungamento del conflitto, ma la decisione delle Falangi di assediare i campi profughi di Dbayeh e Tall el-Zaatar costrinse la guerriglia palestinese ad entrare nel conflitto con tutto il suo peso.
Nei mesi successivi le Falangi furono costrette ad arretrare sulle montagne fino ad essere quasi sconfitte ma a questo punto avvenne uno spettacolare rovesciamento di posizioni.
All’annuncio della possibile instaurazione di un governo rivoluzionario della sinistra libanese il fronte arabo degli “amici” della lotta palestinese si spaccò. Egitto e Giordania erano spaventati dalla prospettiva che la rivoluzione dilagasse in tutto il medio oriente, mentre il paladino della lotta all’imperialismo, il “progressista” Assad, presidente siriano del Baath, per prevenire l’ascesa al potere di un governo che avrebbe potuto aprire un fronte alla sua sinistra, operò uno spettacolare rovesciamento, inviando nel giugno del 1976 truppe siriane a combattere a fianco dei falangisti.
L’intervento siriano capovolse la situazione. La guerriglia si dovette ritirare a costo di gravi perdite verso le città, mentre i falangisti protetti dall’esercito siriano posero di nuovo sotto assedio il campo di Tall el-Zaatar. Dopo 52 giorni, il 12 agosto, Tall el-Zaatar si arrese ma falangisti e siriani consumarono la loro vendetta massacrando tremila palestinesi mentre evacuavano il campo.
Il più “progressista” dei regimi arabi, la Siria, minacciata seppure indirettamente dallo sviluppo di una rivoluzione non esitò a schierarsi con brutale risoluzione a fianco dell’ala più reazionaria della controrivoluzione borghese contro la stessa Resistenza palestinese di cui ospitava a Damasco i quartieri generali e che da anni finanziava. Mentre Assad decretava un nuovo massacro dei palestinesi le cricche dominanti dei paesi della Lega araba stavano alla finestra a guardare senza muovere un dito. La tregua dichiarata ad ottobre del 1976 ed il compromesso raggiunto non fu che un’ulteriore prova del ruolo reazionario giocato dagli “amici” della causa palestinese. Dopo 19 mesi di guerra e 60.000 morti i trentamila soldati siriani che avevano fatto pendere la bilancia dalla parte dei falangisti vennero trasformati in “Forza araba di dissuasione” con il compito di vigilare sulla tregua, mentre il Libano veniva diviso in zone spartite fra i diversi contendenti in una fragile “pace” armata.
Nonostante il tradimento di Assad la direzione dell’Olp si spese in umilianti trattative per “ricucire” lo strappo e ricomporre un fronte arabo che fino a quel momento si era rivelato essere composto dai peggiori nemici del popolo palestinese.
La crisi libanese però era solo iniziata e si sarebbe sviluppata in un crescendo da incubo negli anni successivi.
Invasione israeliana del Libano
Mentre per i regimi arabi l’obiettivo era solo quello di “impartire una lezione ai palestinesi” per ridimensionarne l’influenza, per Israele la presenza stessa della guerriglia palestinese sul suolo libanese era intollerabile. Il 14 marzo 1978 Israele invase per la prima volta il Libano del sud e in pochi giorni travolse la resistenza palestinese (lasciata sola a combattere dall’esercito libanese). L’assedio di Tiro e la fuga di 250mila libanesi impose però un intervento dell’Onu che decise di inviare 4mila “caschi blu” sotto pressione americana, cui premeva la normalizzazione dei rapporti fra Israele ed Egitto che verrà sancita il 18 settembre dagli accordi di Camp David, così gli israeliani decisero di ritirarsi il 13 giugno lasciandosi alle spalle un esercito fantoccio, il cosiddetto “Esercito del Libano del sud”, da quel momento agente mandatario degli interessi israeliani nel Libano.
Per rispettare le necessità del potente alleato nordamericano la classe dominante israeliana aveva rinunciato a consolidare la propria vittoria spezzando la Resistenza palestinese che, pur pagando un carissimo prezzo falcidiata dai massacri subiti per mano dei falangisti, dei siriani e poi dell’Idf, aveva mantenuto le sue basi principali e un notevole appoggio nei Campi profughi e fra la popolazione libanese.
La sconfitta libanese accelerò e rafforzò la svolta diplomaticista della politica dell’Olp sotto la direzione di Arafat. Tale linea veniva contestata però da un largo fronte di formazioni della sinistra palestinese (Fplp e Fdlp e addirittura dai gruppi foraggiati dalla Siria), contrarie alle concessioni che sui diversi tavoli di trattativa pilotati dagli Usa venivano elargite da Giordania ed Egitto sulla pelle dei palestinesi. Arafat in questi frangenti tenne un atteggiamento conciliatorio, più preoccupato di stabilire relazioni diplomatiche con i governi europei (che nel 1980 riconobbero l’Olp come “rappresentante del popolo palestinese”) e di non entrare in urto con i suoi principali finanziatori, gli stessi regimi arabi che si erano rivelati degli infidi alleati, quando non apertamente dei nemici (sempre nel 1980 Arafat costituì con re Hussein di Giordania un “Comitato giordano-palestinese”). I risultati di questa politica non furono per nulla felici per i palestinesi ed orientarono l’Olp verso la mediazione caldeggiata dalla monarchia saudita della creazione di uno Stato palestinese in cambio del riconoscimento da parte degli stati arabi della legittimità d’Israele, da quel momento la stella polare dell’azione politica e diplomatica dell’Olp.
Seconda invasione israeliana del Libano
Per Israele i problemi non erano risolti, così il 6 giugno del 1982 (ad insaputa degli alleati americani) lanciò una seconda invasione del Libano su vasta scala (denominata “Pace in Galilea”), con l’obiettivo di sradicare l’Olp e la Resistenza palestinese. L’invasione, sotto il comando di Ariel Sharon (ministro della difesa del governo Beghin), si trasformò in un massacro indiscriminato. In poche ore si abbattè sulle città e sui campi profughi un diluvio di fuoco da parte dell’aviazione israeliana, mentre colonne di carri armati avanzavano su Beirut lasciandosi dietro morte e macerie. Nelle prime due settimane le vittime furono 14mila. Nonostante la strenua resistenza palestinese l’Idf cinse d’assedio Beirut ovest in un abbraccio mortale durato 78 giorni, durante i quali ogni rifornimento venne bloccato e la città fu sottoposta a continui bombardamenti. 7mila morti fra i civili libanesi e un numero imprecisato di vittime palestinesi (di cui non sarà mai fatto un vero bilancio) non furono sufficienti a piegare la resistenza.
A questo punto entrò in gioco la diplomazia internazionale che negoziò una via d’uscita per l’Olp in cambio dell’evacuazione completa dal Libano della guerriglia palestinese (in base a fortissime pressioni esercitate dall’amministrazione Reagan su Beghin). Nell’ultima decade d’agosto del 1982 oltre 10mila guerriglieri palestinesi evacuarono Beirut sotto la sorveglianza di una forza franco-italo-americana, ma il prezzo pagato per preservare le strutture dell’Olp e ricominciare da un’altra parte fu salatissimo: lasciare del tutto inerme la popolazione libanese e le decine di migliaia di palestinesi che continuavano ad affollare i campi profughi, alla mercè dei falangisti cristiano-maroniti, delle milizie sciite filosiriane di Amal (che tra il 1985 e il 1987 si sarebbero rese protagoniste di nuovi massacri della popolazione dei campi profughi), dell’esercito siriano e dell’esercito israeliano, con la sola garanzia di un patto scritto sulla sabbia che nessuno aveva interesse a far rispettare.
La vendetta israeliana sulla popolazione palestinese inerme fu immediata e tremenda. Tra il 16 e il 18 di settembre, appena il contingente di “pace” internazionale aveva lasciato il Libano (dopo aver disarmato i guerriglieri rimasti), le milizie libanesi cristiane di Gemayel, alleate di Israele, massacrarono 3mila palestinesi mettendo a ferro e fuoco per 40 interminabili ore i campi profughi di Sabra e Chatila a Beirut, mentre Ariel Sharon si godeva lo spettacolo dal suo quartier generale posto sulla cima di un edificio a 200 metri dal confine del campo di Chatila. Così come i siriani sei anni prima a Tall al Zaatar, l’esercito israeliano si limitò a fornire un appoggio logistico ai falangisti, illuminando a giorno l’area con i bengala, bloccando ogni via di fuga agli abitanti del campo e rifocillando ai posti di guardia i falangisti che stavano conducendo il massacro.
Per la resistenza palestinese dispersa in nove differenti paesi arabi e per quelli rimasti sul campo dopo la fuga dei dirigenti si aprì un periodo di lotte intestine e di demoralizzazione.
La svolta “diplomatica” dell’Olp si approfondisce
La direzione dell’Olp si trasferì in Tunisia, dove Arafat e il suo entourage avrebbero vissuto in un esilio dorato fino al rientro a Gaza nel 1994, tutto votato ad architettare “brillanti” strategie negoziali e a destreggiarsi tra le rivalità interne alla Lega araba (facendo leva sull’Egitto contro la Giordania o la Siria, o viceversa, a seconda delle necessità del momento), oltre a ristabilire normali relazioni con le monarchie del Golfo, dai cui finanziamenti la “corte” di Arafat era diventata sempre più dipendente.
La politica dell’Olp da quel momento in poi si orientò sempre più chiaramente all’idea di divenire l’ago della bilancia della stabilizzazione in Medio Oriente agli occhi dell’imperialismo nordamericano e dell’Europa, giocando sulle rivalità tra le nazioni arabe ed appoggiandosi sulla guerriglia e persino sul terrorismo (formalmente condannato dall’Olp) solo come forza di pressione da giocare al tavolo delle trattative.
Lo scontro con la Siria portò Assad ed espellere Arafat da Damasco nel giugno del 1983 e promuovere una scissione dell’Olp in Libano, ma la “campagna acquisti” di Assad naufragò per la reazione di Arafat che, a sorpresa, sbarcò a settembre nella città libanese di Tripoli per rivolgere un appello alle formazioni palestinesi. L’esercito siriano replicò con attacchi ai campi di Nahr el-Bared e Beddawi che degenerarono in violenti scontri fino alla tregua del 20 dicembre. Arafat a questo punto aveva raggiunto i propri obiettivi: mantenere il controllo della resistenza libanese e riconquistare un ruolo di primo piano dopo la sconfitta del 1982 facendo rientrare le critiche al suo operato durante la crisi libanese. Rientrando a Tunisi si fermò al Cairo per incontrare il leader egiziano Mubarak (nonostante l’Egitto fosse ancora sospeso dalla Lega araba per gli accordi separati di Camp David del 1978 con Israele) e incassare il suo appoggio alla linea “negoziale”. Grazie a questa vicenda Arafat riuscì a rinsaldare il suo controllo sull’Olp, ridimensionare l’influenza delle organizzazioni alla sua sinistra (Fplp e Fdlp) e superare la crisi esplosa dopo la fuga dal Libano.
La situazione nei Territori occupati alla vigilia dell’Intifada
Per anni la politica schizofrenica d’appelli alla trattativa internazionale e di lotta armata contro Israele condotta dall’Olp e dalle altre formazioni palestinesi non aveva fatto avanzare di un millimetro le posizioni delle masse palestinesi, ottenendo invece il risultato di rafforzare la coesione dello Stato israeliano.
Il 7 dicembre 1987 accade qualcosa di assolutamente imprevisto sia dagli israeliani sia dai dirigenti dell’Olp a Tunisi: un incidente apparentemente simile a tanti altri innesca la rivolta spontanea di decine di migliaia di giovani e di lavoratori contro l’occupazione israeliana.
La lotta più avanzata delle masse palestinesi esplode proprio là – nei Territori occupati dal 1967 – smentendo gli scettici dirigenti palestinesi che sostenevano che, a causa della presenza dell’esercito d’occupazione, non sarebbe stato possibile condurre una lotta di massa contro l’occupazione.
Il distacco fra la direzione dell’Olp a Tunisi e la realtà dei Territori era diventato così grande che numerosi segnali dell’imminente rivolta avvenuti nei diciotto mesi precedenti1 non erano bastati a catturare l’attenzione di Arafat, troppo preoccupato di assestare colpi ai propri avversari e di parare quelli destinati a lui per accorgersi che qualcosa stava cambiando dove più contava. La parola Intifada (concetto traducibile con “scrollarsi di dosso” o “scuotersi”) ben rappresenta a cosa stavano accingendosi le masse palestinesi.
Durante i vent’anni d’occupazione militare i Territori erano stati per Israele “un mercato supplementare per i prodotti israeliani e fonte di fattori di produzione, soprattutto lavoro non qualificato, per l’economia israeliana”, secondo le parole pronunciate nel 1970 dall’allora ministro della difesa. Fattore non secondario nella decisione di mettere le mani sulla Cisgiordania e sul Golan era stata l’appropriazione delle risorse idriche della regione, soprattutto le falde di acqua fossile, che venivano accaparrate da Israele per l’80%, pari a circa un terzo del suo fabbisogno d’acqua.
Coerentemente con questa impostazione il governo israeliano provocò lo strangolamento dell’economia dei Territori, prevalentemente legata all’agricoltura, con il settore industriale quasi esclusivamente relegato all’artigianato. Questa scelta causò una larga proletarizzazione della popolazione agricola che fu costretta ad ingrossare le fila dei 120mila palestinesi che andavano quotidianamente a lavorare sulla costa israeliana dalla Cisgiordania e da Gaza (il 33% dei lavoratori della Cisgiordania e il 50% di quelli di Gaza). La necessità di migrare quotidianamente oltre la “linea verde” (i confini del 1948) era usata dallo Stato israeliano come arma di rappresaglia verso i lavoratori palestinesi con la costante minaccia di una chiusura delle frontiere a totale arbitrio degli occupanti.
L’economia dei Territori era ed è tuttora totalmente dipendente dalle importazioni da Israele anche per i beni di consumo di prima necessità2. Le centinaia di migliaia di palestinesi emigrati all’estero alimentavano inoltre un flusso di rimesse verso le loro famiglie (pari al 37% del Pil dei Territori), contribuendo a sostenere un mercato nel quale esportare le eccedenze della produzione israeliana.
A tutti questi fattori si aggiungeva una politica di colonizzazione diretta. Nei primi dieci anni le colonie erano limitate a piccoli insediamenti in appoggio agli avamposti militari. Il numero totale non superava i 7mila coloni. Con l’ascesa al potere della destra sionista del Likud nel 1977, la politica di colonizzazione cambiò radicalmente con l’obiettivo di “rovesciare l’equilibrio demografico dei Territori” (Sharon) per rendere irreversibile l’occupazione. Nell’arco dei dieci anni successivi erano state costruite su terra palestinese 18mila abitazioni in 139 insediamenti per un totale di 80mila coloni, con un reticolo di strade speciali per separare i coloni dagli arabi al prezzo di rendere quasi impossibile la libera circolazione della maggioranza. Scuole e servizi all’avanguardia erano preclusi agli arabi, che pagavano il quadruplo delle tariffe per l’acqua e ne ricevevano un quantitativo procapite dieci volte inferiore. La presenza dei coloni è stata sempre, al pari con lo sviluppo di un settore di palestinesi collaborazionisti, l’aspetto più odioso dell’occupazione per i palestinesi, continuamente sottoposti ad umiliazioni e quotidiane violenze sotto gli occhi complici delle autorità.
La popolazione palestinese dei Territori aveva sperimentato nei vent’anni di occupazione una notevole esplosione demografica. Il 75% della popolazione aveva nel 1987 meno di 25 anni e il 50% addirittura meno di 15; la maggioranza quindi, alla vigilia dell’Intifada, non aveva conosciuto altro che il regime oppressivo dell’occupazione israeliana, reso sempre più intollerabile.
La “Rivolta delle pietre”
Tale era il quadro alla vigilia dell’Intifada. Rotta la diga, l’insurrezione sconvolse in pochi mesi tutti gli equilibri, mettendo a dura prova la resistenza delle forze d’occupazione e provocando divisioni ai vertici dello Stato e dell’esercito israeliano su come affrontare un’intera popolazione in rivolta a mani nude. Ogni ricorso alla repressione, anche la più brutale, si rivelò inefficace: ricorso sistematico alla detenzione amministrativa3 per cui non era necessario un processo (9mila arresti in pochi mesi), centinaia di uccisioni e ferimenti, demolizioni di case e blocco delle fonti di sostentamento delle famiglie degli attivisti, rappresaglie “collettive” sui villaggi o i quartieri, persino l’ordine dato da Rabin di “spezzare braccia e gambe” a chi veniva colto a lanciare sassi, a nulla servivano se non ad alimentare la rivolta.
Le forme di lotta furono lo sciopero generale, i blocchi stradali, gli agguati alle pattuglie israeliane bersagliate dai lanci di pietre per mano degli shebab (i ragazzi della rivolta), ma anche forme di disobbedienza civile particolarmente efficaci come lo “sciopero delle tasse” e il rifiuto di aderire agli orari di apertura degli esercizi decisi dalle autorità israeliane. Famosa a questo proposito la “battaglia dei negozi” che vide a Gerusalemme est i militari israeliani tentare di forzare l’apertura dei negozi durante una serrata. I commercianti sotto minaccia li aprivano, ma li richiudevano appena i soldati si erano allontanati. La lotta ottenne l’appoggio delle associazioni dei commercianti ebrei della parte occidentale della città.
Fin dai primi giorni dell’Intifada sorsero spontaneamente su base territoriale dei Comitati popolarishebab armati di fionde e bottiglie Molotov, con il compito di attaccare a sassate le pattuglie dell’esercito e della polizia israeliana, operare la distribuzione dei generi di prima necessità durante i coprifuoco e vigilare sulle comunità. (Cp) che riunivano gli attivisti della mobilitazione (la grande maggioranza dei quali non erano inquadrati nelle organizzazioni preesistenti) e presero a dirigere la lotta e a gestire ogni aspetto della vita della popolazione (articolandosi per questo scopo in comitati specifici), dalla creazione di presidi sanitari nei quartieri e nei villaggi, all’istruzione (dato che le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse nel febbraio del 1988 dalle autorità), al controllo delle tariffe professionali, degli affitti e dei prezzi in generale, alla lotta all’accaparramento, al boicottaggio dei prodotti israeliani, alla distribuzione degli approvvigionamenti, al tentativo di rispondere all’emergenza economica con lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento di sussistenza, fino alla creazione di veri e propri tribunali popolari. Le donne giocarono un ruolo di primo piano nel funzionamento di questa galassia di comitati. Ogni Comitato popolare si dotò di “comitati d’assalto”, composti da giovani.
Per il peso dell’occupazione militare i comitati non poterono dispiegare appieno le loro potenzialità di potere alternativo alle autorità coloniali coordinandosi a livello generale. Pur non essendo formati da delegati eletti dalla massa della popolazione, per tutta la prima fase dell’Intifada furono le strutture attraverso cui si espressero i settori d’avanguardia dirigenti della lotta, dotati di una enorme influenza.
Nel maggio del 1988, a sei mesi dall’inizio della rivolta, fonti israeliane stimarono in 45mila i vari comitati operanti che cominciavano a coordinarsi a livello delle città, mentre era nato immediatamente per iniziativa dei partiti della sinistra palestinese (Fplp, Fdlp e Pcp) un Comando Unificato dell’Intifada.
Contrariamente a quanto è stato sostenuto successivamente, la direzione dell’Olp all’estero, pur avendo una certa influenza sulla massa della popolazione, fu completamente spiazzata dallo sviluppo esplosivo della mobilitazione rivoluzionaria nei Territori. Le direttive di Arafat non ricevettero fino al dicembre del 1988 riscontri significativi da parte del Comando Unificato; la saldatura con Tunisi avvenne solo dopo che la repressione israeliana era riuscita a decapitare il movimento della sua direzione originaria, nel settembre del 1988.
Non giocò alcun ruolo nella prima fase della lotta neppure la Fratellanza musulmana4, peraltro forte solo a Gaza dove aveva potuto svilupparsi per anni intorno alle moschee riconosciuta legalmente dagli israeliani che speravano così di minare l’influenza delle organizzazioni rivoluzionarie palestinesi. In un primo tempo fu restia ad essere coinvolta, per la sua vicinanza agli strati più agiati della popolazione palestinese che ne costituivano il fulcro dei militanti e per non mettere a rischio le considerevoli proprietà accumulate a Gaza (10% del patrimonio immobiliare). Ben presto però formò un’organizzazione specifica per intervenire nella mobilitazione, Hamas, che cominciò a sfornare i primi comunicati un mese dopo l’inizio della rivolta.
Divisioni israeliane
La lotta eroica dei palestinesi riuscì a conquistare la simpatia degli arabi d’Israele e a scuotere la fiducia dei giovani soldati ebrei, impreparati a combattere una guerra contro bambini, adolescenti, donne e uomini inermi, ma fermamente determinati a resistere.
Le eroiche missioni dell’esercito più potente dell’area contro ragazzini dotati solo di coraggio richiamò alla mente di molti israeliani il mito biblico di Davide contro Golia, solo che Davide era diventato palestinese. I rastrellamenti per requisire e bruciare… libri scolastici, medicinali e garze e distruggere gli orti nati ovunque per sostenere la popolazione che viveva in condizioni di privazione durissima suscitavano una sempre maggiore ripulsa da parte della gioventù israeliana.
Le divisioni si espressero ai massimi livelli nel marzo del 1988, con la formazione del “Consiglio per la pace e la sicurezza” da parte di un gruppo di generali israeliani in pensione, la cui posizione era riepilogata dal generale Orr, ex comandante supremo dell’Idf della regione del nord (Libano): “Siamo tutti d’accordo nel ritenere che l’occupazione dovrà finire, perché mantenerla costituisce un pericolo ben più grave per la nostra sicurezza che farla cessare” (Le Monde, 2 giugno 1988). La loro petizione venne sottoscritta dall’ex capo del Mossad (Yariv) e dall’ex amministratore della Cisgiordania (Sneh), oltre a 30 generali di divisione e 100 generali di brigata, ovvero la metà dei generali riservisti. Per tutti la prospettiva da percorrere sembrava essere quella della smilitarizzazione dei Territori e del ritiro parziale delle truppe.
Nonostante, secondo Sneh, “La maggior parte degli ufficiali superiori da Shamron [Capo di stato maggiore] giù giù verso il basso, preferirebbe un ritiro parziale da una Giordania smilitarizzata alla ‘Grande Israele”’di Shamir” (Newsweek, 6 giugno 1988), il premier israeliano risolse il momento di crisi con una fuga in avanti, ordinando un giro di vite repressivo nei Territori.
Nell’agosto del 1988 vennero messi al bando i Comitati popolari e vennero introdotte pene detentive fino a 10 anni di reclusione per chi ne facesse parte.
La prima Intifada, ad un anno dal suo inizio, cominciò a subire i colpi della repressione. L’aggravamento delle condizioni economiche aveva costretto temporaneamente una parte della popolazione a focalizzarsi verso compiti più legati alla pressante ricerca dei mezzi per sopravvivere, mentre nelle comunità palestinesi si riaffacciavano dopo un lungo letargo i collaborazionisti storici delle forze d’occupazione, elementi privilegiati e screditati che si muovevano per le città e i villaggi a raccogliere informazioni, scortati da guardie del corpo.
Il Comando Unificato aveva riconosciuto l’autorità dell’Olp quale “unica rappresentante del popolo palestinese” verso la fine del 1988. Il 15 novembre Arafat aveva proclamato l’indipendenza di uno Stato palestinese nei Territori occupati da Israele, poco dopo l’Olp si accinse a riprendere il controllo della mobilitazione nei Territori, assimilando i Comitati nelle strutture assistenziali palestinesi da esso controllate. I Comitati furono spogliati definitivamente del loro ruolo di organismi embrionali di potere della massa della popolazione e ne fu accentuato il carattere di coordinamento fra le diverse anime organizzate della Resistenza palestinese.
Questa decisione assestò un colpo decisivo al carattere di massa dell’Intifada e aprì una seconda fase più aspra della rivolta, nella quale si determinò una fuga in avanti verso tattiche guerrigliere o addirittura terroristiche da parte di quel settore che maggiormente aveva sostenuto lo scontro con l’esercito israeliano. Contemporaneamente ne risultò accresciuto il ruolo delle formazioni islamiche come Hamas e la Jihad islamica.
Risale alla fine del 1988 la formazione di Comitati d’urto a carattere semiguerrigliero come le “Pantere nere” di Fatah a Nablus e Jenin o le “Aquile rosse” del Fplp, che si schierarono in prima fila nella lotta ai collaborazionisti palestinesi che tra il 1989 e il 1990 avrebbe portato all’uccisione di 650 presunti collaborazionisti, cifre che nascondono un sempre maggiore attrito tra le formazioni armate e una guerra sotterranea fra Fplp, Fatah e Hamas.
L’Intifada “dei coltelli” e la crescita dell’influenza di Hamas
I preparativi della prima guerra del Golfo dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nell’agosto del 1990 e la strage della moschea di Gerusalemme dell’ottobre dello stesso anno, innescarono una miscela di rabbia e frustrazione accumulata dopo due anni di lotta, proprio nel settore più esposto alla repressione, quello dei giovani shebab. Cominciarono così una serie di attacchi a coloni, militari ed infine anche civili israeliani da parte di giovani palestinesi armati di coltelli.
La disperazione creò un terreno favorevole alla crescita dell’influenza di Hamas il cui braccio armato, le Brigate Izz al-Din al-Qassam (dal nome dello sceicco a capo di una formazione armata islamica ucciso dagli inglesi nel 1935) aveva iniziato nel febbraio del 1989 i rapimenti e le uccisioni di militari israeliani; Hamas venne dichiarata illegale da Israele nell’autunno successivo. Fino a questo momento si era trattato comunque di azioni di guerriglia all’interno delle zone occupate rivolte a colpire obiettivi militari israeliani e coloni o collaborazionisti palestinesi.
L’appoggio di Arafat a Saddam Hussein che aveva brandito propagandisticamente contro l’imperialismo la questione palestinese, denunciando i due pesi e le due misure applicate contro l’Iraq ed Israele ed offrendosi di lasciare il Kuwait se Israele avesse fatto altrettanto rispetto ai Territori, determinò la rottura con entrambi della Lega araba, salita sul carro di Bush. Le sovvenzioni delle monarchie del Golfo presero la strada di Hamas, favorendone la crescita soprattutto a Gaza.
Con la vittoria sull’Iraq, l’imperialismo americano ritenette di poter volgere a proprio vantaggio la debolezza di Arafat e incassare l’appoggio ottenuto da tutti i paesi arabi nella guerra per aprire un tavolo per la “soluzione della questione palestinese” a Madrid nell’estate del 1991, definita da Hamas “una conferenza per vendere la Palestina”.
Coerentemente con la strategia seguita nella sua storia precedente, Arafat cercò di capitalizzare l’Intifada per puntare a ritagliarsi un ruolo di protagonista nelle trattative, a costo di minare definitivamente quello che restava dell’Intifada nei territori. La dichiarazione della cessazione dell’Intifada nell’autunno dello stesso anno da parte di Arafat non fu che la logica conseguenza della svolta, ma segnò la deriva definitiva di un settore verso la tattica del terrorismo individuale che fino a quel momento era stata quasi del tutto bandita dai metodi di lotta della più grande sollevazione della storia del popolo palestinese.
Così maturarono i primi frutti velenosi del cosiddetto “processo di pace” pilotato dall’imperialismo statunitense che partorì un surrogato di Stato per i palestinesi, più simile ad una riserva indiana che ad una vera nazione quale avevano aspirato i milioni di palestinesi che avevano lottato così duramente fino a quel momento.
16 Novembre 2003
Note
1 Pochi mesi prima dell’Intifada una relazione dell’istituto West Bank Data Base del sociologo israeliano Meron Benvenisti rilevava, nei Territori occupati, un nuovo dato inquietante per Israele: “La violenza sarebbe in misura crescente opera di gruppi disorganizzati, spontanei… Tra l’aprile 1986 e il maggio 1987 si sono registrati 3.150 incidenti violenti, che vanno dal semplice lancio di sassi ai blocchi stradali, passando per un centinaio di assalti con esplosivo o armi da fuoco”. La combattività crescente della popolazione palestinese sottoposta all’occupazione si era vista nelle giornate del 5-6 giugno, con lo sciopero generale che salutò la ricorrenza dei 20 anni di dominio israeliano.
2 La politica israeliana era di esasperare la naturale dipendenza economica dei Territori occupati. Nel 1970 l’82% delle importazioni era già di provenienza israeliana, per salire al 91% nel 1987.
3 La detenzione amministrativa era prevista dai Regolamenti d’emergenza del Mandato britannico, applicati da Israele nei Territori ed elevata da Shamir da sei mesi ad un anno. Era del tutto arbitraria e non richiedeva alcuna imputazione o processo.
4 Nella storia ufficiale di Hamas si reclama il ruolo di direzione del “Movimento di resistenza islamico” già all’inizio prima Intifada. In realtà il ruolo di Hamas fu trascurabile per mesi e solo successivamente con l’inizio delle sue campagne terroristiche acquisì notorietà.