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9 Febbraio 2016di Alessandro Villari
Dall’indipendenza alla Seconda guerra mondiale
La Cecoslovacchia nasce come Stato unitario indipendente nel 1918, in seguito alla disgregazione dell’impero austroungarico. Nel nuovo Stato, che dal 1920 prende il nome di Repubblica Cecoslovacca, vi sono tre grosse nazionalità: i cechi, gli slovacchi e i tedeschi (questi ultimi residenti soprattutto nella regione dei Sudeti). Cechi e slovacchi avevano pattuito originariamente una soluzione istituzionale in cui i due popoli avrebbero assunto pari diritti, in un contesto di relativa autonomia. Tuttavia prevarrà un orientamento centralistico, in cui di fatto sarà la nazionalità ceca a prendere il sopravvento, specialmente in campo economico. Con l’eccezione del periodo intorno al 1930, in cui risente della crisi mondiale, l’economia cecoslovacca si sviluppa notevolmente, nel contesto di uno Stato borghese in cui ha un certo peso anche l’intervento del capitale pubblico, ma non in modo armonico: la Slovacchia, regione prevalentemente agricola, resterà costantemente arretrata rispetto alle regioni ceche, che sviluppano già in questo periodo un’avanzata struttura industriale, orientata principalmente alla produzione di beni di consumo, anche per l’esportazione.
La ricchezza della regione la rende oggetto delle mire espansionistiche della Germania nazista: nel marzo 1938, all’epoca dell’Anschluss (l’unione dell’Austria alla Germania), Hitler rivendica la regione dei Sudeti come parte integrante della nazione tedesca. Nel settembre dello stesso anno le “democrazie” inglese e francese, nel tentativo di evitare la guerra, cedono alle sue pretese. Nel marzo del 1939 i tedeschi occupano anche Boemia e Moravia, mentre la Slovacchia si proclama Stato indipendente e si allea con la Germania.
Nel 1944 i partigiani slovacchi avviano la resistenza armata contro i nazisti, che si conclude con l’insurrezione generale. Al termine della guerra, sulla base di un accordo tra i precedenti dirigenti borghesi e il partito comunista, viene formato un governo espressione di un Fronte nazionale dei partiti cechi e slovacchi antinazisti.
L’influenza dell’Urss
Il partito comunista, forte del sostegno dell’Urss e di un ampio consenso tra le masse, ha un peso notevole. Il governo del Fronte nazionale, tra aprile 1945 e febbraio 1948, provvede alla riforma agraria e alla nazionalizzazione di miniere, banche, compagnie di assicurazione, di diverse industrie strategiche, di tutte le fonti di energia: alla fine del 1946 il sessanta per cento degli addetti all’industria è occupato nel settore nazionalizzato. Si dà vita al sistema di pianificazione economica col primo piano biennale per il 1947-1948.
È l’Unione Sovietica a dirigere di fatto il processo, per il tramite dei partiti comunisti ceco e slovacco: in pratica, grazie alla partecipazione entusiasta della potente e avanzata classe operaia cecoslovacca, viene spazzato via il capitalismo, senza che la borghesia abbia alcuna base per opporre una seria resistenza. Le uniche critiche, in questa fase, provengono dai Paesi capitalisti, che si lamentano delle misure “illiberali” prese contro i capitalisti in Cecoslovacchia.
La nazionalizzazione dei mezzi di produzione, la prima condizione necessaria per la creazione di un sistema socialista, è stata dunque realizzata, ma non è sufficiente: occorre che sia garantito il controllo democratico, dal basso, dell’intero apparato statale e della produzione. Sulla base dell’alto livello culturale di cui gode la classe operaia cecoslovacca, sarebbe possibile l’effettiva instaurazione del socialismo, e i vantaggi della pianificazione dell’economia apparirebbero evidenti in tutto il resto del mondo, con effetti sul movimento operaio internazionale.
Ma questo non rientra nei piani dell’Urss: lo stalinismo ha affermato la necessità di rafforzare il “socialismo in un Paese solo”, e l’intera politica sovietica si muove in questa direzione. Gli stalinisti non possono dunque ammettere la formazione di un’autentica democrazia operaia in Cecoslovacchia, proprio per via delle ripercussioni che questa avrebbe sullo stesso movimento operaio russo, minando le basi della burocrazia sovietica.
Nel 1939 Trotskij, affrontando la questione di una possibile invasione sovietica in Polonia, aveva scritto:
“È più probabile che, nei territori destinati a diventare parte dell’Urss, il governo di Mosca porterà avanti l’espropriazione dei latifondisti e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione: non perché la burocrazia resta fedele al programma socialista, ma perché non desidera e non è in grado di dividere potere e privilegi con le vecchie classi dominanti nei territori occupati. Dal momento che la dittatura di Stalin si basa non sulla proprietà privata, bensì sulla proprietà statale, l’invasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa dovrà portare all’abolizione della proprietà privata capitalista.
Questa misura, di per sé rivoluzionaria – ‘l’espropriazione degli espropriatori’ – viene portata avanti con metodi militari-burocratici. L’appello all’attività indipendente delle masse nei nuovi territori – e in assenza di un simile appello sarebbe impossibile stabilire un nuovo regime – sarà in seguito certamente soppresso con spietate misure poliziesche, in modo da assicurare la vittoria della burocrazia sulle masse rivoluzionarie appena risvegliate” (da L’Urss in guerra, settembre 1939).
Quest’analisi consente di comprendere al meglio il processo avvenuto in Cecoslovacchia dopo la guerra mondiale, sotto la direzione dell’Urss: dopo aver utilizzato la pressione dei lavoratori contro la classe capitalista, gli stalinisti si liberano di ogni elemento di controllo operaio.
I Comitati di azione, veri e propri soviet creati spontaneamente all’interno delle fabbriche all’indomani dell’insurrezione contro i nazisti, vengono dapprima affiancati e quindi esautorati da organismi burocratici, i cui rappresentanti vengono nominati non dal basso, bensì dai diversi partiti che compongono il Fronte nazionale
Nel febbraio 1948 i ministri non comunisti sono costretti alle dimissioni dal governo: è il “Febbraio vittorioso” dei comunisti. Alle elezioni di maggio si presenta il solo partito comunista, al quale si è precedentemente fuso il partito socialdemocratico. Gli oppositori del nuovo regime, sia gli esponenti filo-capitalisti sia, soprattutto, quell’ala dei comunisti (specialmente slovacchi) che si battono contro la stalinizzazione del regime, vengono accusati di essere “nazionalisti borghesi slovacchi” e perseguitati.
Crisi e primi tentativi di riforma
Nella proclamazione della carta costituzionale del 1960 viene scritto che “nel nostro Paese sono stati già risolti tutti i compiti fondamentali per il passaggio dalla società capitalista alla società socialista”. La realtà è ben diversa.
Nel 1962 le autorità riconoscono pubblicamente il fallimento del terzo piano quinquennale; nel 1963 il reddito nazionale diminuisce rispetto a quello dell’anno precedente: si tratta di un fatto senza precedenti in tutta l’Europa post-bellica, ed è particolarmente sorprendente per un Paese dall’economia pianificata.
Le cause della crisi vanno ricercate nella conduzione burocratica, non partecipata della produzione, a un doppio livello: la gestione dell’economia è affidata non soltanto alla burocrazia cecoslovacca, ma direttamente a quella dell’Urss. La pianificazione dell’economia a livello internazionale è sicuramente da difendere come una conquista progressista, ma deve essere accompagnata dal controllo dei lavoratori sui mezzi di produzione e sull’amministrazione dello stato. Nei Paesi del blocco stalinista, al contrario, la pianificazione avviene per vie burocratiche, per assecondare lo sviluppo della sola Unione Sovietica anche a scapito dello sviluppo dei Paesi satelliti. In particolare, nell’ambito della divisione dei compiti produttivi assegnati ai “paesi fratelli” dalla politica economica sovietica, la Cecoslovacchia, a partire dal primo piano quinquennale (1949-1953) è costretta a modificare profondamente le proprie strutture industriali: viene data priorità all’industria pesante, in particolare ai settori minerario, siderurgico e di costruzioni meccaniche. In un Paese caratterizzato, già negli anni ’30 e ’40, da un settore industriale avanzato, e orientato principalmente alla produzione di beni di consumo, questa riconversione rappresenta un arretramento, produce forti disavanzi nella bilancia commerciale, e non porta a un significativo miglioramento del tenore di vita della popolazione, dei cui interessi non tiene minimamente conto.
A fronte della crisi, si apre nello stesso partito comunista uno scontro tra una fazione filo-sovietica e una riformatrice, con radici principalmente nella componente nazionale slovacca. È quest’ultima, in una prima fase, a prendere il sopravvento: nel programma economico approvato dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco nel settembre 1964 trovano posto i principi dell’autofinanziamento e della libertà di investimento delle imprese, e del prezzo di mercato per quasi tutti i prodotti. Questi principi peraltro non troveranno mai integrale approvazione.
Le critiche al sistema burocratico provengono anche dal mondo intellettuale, che, dopo aver appoggiato entusiasticamente l’affermazione comunista del “Febbraio vittorioso”, avviano all’inizio degli anni ’60 una profonda riflessione sulla mancanza di libertà e il tentativo di manipolazione della cultura da parte della burocrazia. La reazione del governo si concreta nella sospensione d’autorità della pubblicazione della rivista dei giovani scrittori, ma non ottiene il risultato sperato, ampliando al contrario il fronte delle proteste.
La questione slovacca
Se prima della guerra lo sviluppo armonico delle due componenti nazionali era soltanto sulla carta, mentre nei fatti il “cecoslovacchismo” favoriva maggiormente la componente ceca, con la sconfitta del nazismo e il successivo affermarsi dei comunisti la situazione rimane sostanzialmente inalterata. La Costituzione del 1948, che sancisce giuridicamente l’affermarsi del “Febbraio vittorioso”, ha un carattere fortemente accentratore. La preminenza accordata all’industria pesante penalizza ulteriormente la Slovacchia, regione prevalentemente agricola. D’altra parte, il centralismo economico dall’alto non permetteva una politica economica autonoma slovacca.
Per di più, la repressione filo-stalinista nei confronti degli oppositori al regime colpisce principalmente, tra le stesse fila del partito comunista, esponenti slovacchi, accusati di sostenere posizioni borghesi nazionaliste.
All’inizio degli anni ’60, tuttavia, sull’onda del processo di destalinizzazione avviato nella stessa Unione Sovietica, prendono il via anche in Cecoslovacchia le riabilitazioni legali. I povstalci (ribelli) slovacchi, che dopo aver contribuito attivamente all’insurrezione contro i nazisti avevano subito le persecuzioni maggiori dal regime stalinista, escono dall’emarginazione politica e avviano una dura critica contro il centralismo del governo di Praga, ed in particolare contro Novotný, capofila della fazione filo-sovietica, che di questo accentramento di poteri è il simbolo essendo allo stesso tempo Presidente della Repubblica e Primo segretario del Partito comunista cecoslovacco.
È proprio uno dei povstalci del 1944, Alexander Dubček, a essere nominato nell’aprile 1963 segretario del Partito comunista slovacco.
La Primavera di Praga
Il cosiddetto nuovo corso prende avvio nel gennaio 1968, con la nomina di Dubček a Primo segretario del Partito comunista in sostituzione di Novotný.
In aprile viene pubblicato il Programma d’azione, che contiene le linee fondamentali del nuovo corso politico. Preminente è la soluzione della questione slovacca: si sostiene “la struttura federale socialista in quanto forma giuridica statale riconosciuta e provata per la coesistenza di nazioni dagli uguali diritti in uno stato comune socialista”. In secondo luogo, si accenna, seppure in modo vago e non privo di ambiguità, alla necessità della partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte delle imprese. In ambito culturale, si afferma il netto “rifiuto dei metodi amministrativi e burocratici per la realizzazione della politica culturale: la creazione artistica non deve essere sottoposta a nessuna censura”. Infine, è affrontata la questione del ruolo e della vita del partito: si afferma la necessità di applicare in modo conseguente i principi democratici nella vita interna e nel lavoro stesso del partito.
Il movimento operaio guarda inizialmente con prudenza le nuove linee politiche: anche sull’onda della propaganda conservatrice, si teme che, dietro la facciata delle riforme, si nasconda un tentativo di restaurazione del capitalismo. Contemporaneamente, in questa prima fase, il sindacato esprime principalmente l’esigenza di sottrarsi al ruolo di semplice portavoce del partito, pur senza negare il ruolo guida del partito e del governo nell’economia. La rivendicazione che si fa strada è quella della partecipazione concreta dei lavoratori nella gestione delle imprese e della pianificazione economica.
In giugno alcune delle linee programmatiche del nuovo corso cominciano a trovare attuazione: viene abolita la censura, e vengono fissate le linee direttrici provvisorie per la costituzione e il controllo degli organi di direzione delle aziende.
Nel frattempo si prepara il XIV Congresso straordinario del Partito comunista: per la prima volta dopo anni i delegati vengono eletti nelle fabbriche all’esito di un dibattito aperto, anziché sulla base di liste designate dall’alto e blindate.
Il processo di democratizzazione in atto, e soprattutto l’accenno di risveglio della classe operaia cecoslovacca, destano preoccupazioni nella burocrazia dell’Urss. Già in giugno si svolgono manovre militari sovietiche all’interno della Cecoslovacchia, e si comincia pubblicamente ad ipotizzare un intervento armato. I partiti comunisti di Ddr, Urss, Polonia, Bulgaria e Ungheria condannano quello che definiscono “processo controrivoluzionario” in atto, e di fronte al quale, affermano, i “Paesi fratelli” non staranno a guardare. Il presidium del Comitato centrale del partito cecoslovacco respinge le accuse, e in particolare nega che vi sia alcun pericolo controrivoluzionario.
In questa fase, di fronte al timore di un’invasione sovietica, la classe lavoratrice si stringe intorno ai dirigenti del nuovo corso, e in particolare a Dubček, che raccoglie un consenso senza precedenti, anche tra gli intellettuali.
L’intervento sovietico e la normalizzazione
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto, mentre si tiene una riunione del presidium in preparazione della fase conclusiva del congresso, ha inizio l’invasione sovietica. A Dubček e agli altri dirigenti viene proposto di rifugiarsi nelle fabbriche praghesi, da dove, con la protezione degli operai, avrebbero potuto convocare il XIV Congresso del partito e trattare con gli occupanti, ma la proposta viene rifiutata. Il 21 agosto la Polizia segreta di Stato, agli ordini di un ufficiale sovietico, fa ingresso nella sede del Comitato centrale, circondata da carri armati, e arresta Dubček e altri dirigenti in nome del “governo rivoluzionario operaio e contadino”.
Mentre i dirigenti vengono presi in consegna dal Kgb e trasferiti a Mosca, si svolgono in tutto il Paese grandi manifestazioni popolari di sostegno al “nuovo corso” e di solidarietà verso i dirigenti arrestati: sui muri di Praga si leggono scritte sarcastiche come la celebre “Lenin svegliati, Brežnev è impazzito!”
In questo clima il Comitato cittadino di Praga del partito comunista convoca il 22 agosto un’assemblea dei delegati eletti al XIV Congresso, in una delle maggiori fabbriche della città, nel quartiere di Vysočany. Vi partecipano, sotto la protezione degli operai, circa due terzi dei delegati, con l’assenza significativa della maggior parte dei delegati slovacchi. Per volontà dei partecipanti, il convegno si trasforma in congresso. La risoluzione finale votata comprende l’adesione alla politica del “nuovo corso”, la condanna dell’intervento armato, l’elezione di un nuovo Comitato centrale dal quale sono esclusi gli elementi filo-sovietici. In particolare, si afferma la necessità di un rinnovamento del modello di socialismo, con il recupero delle tradizioni del periodo 1945-1948, e di una democratizzazione del partito.
In questo contesto, agli occupanti sovietici risulta di fatto impossibile trovare soluzioni di ricambio al vertice del partito e dello Stato. Per questo motivo, iniziano le trattative con i dirigenti del “nuovo corso” a Mosca. Nonostante la notizia della resistenza di massa che si sta sviluppando in Cecoslovacchia, Dubček e gli altri dirigenti cedono su tutta la linea alle pressioni russe, e sottoscrivono un accordo che impegna i cecoslovacchi ad invalidare il Congresso straordinario del 22 agosto, a ripulire il partito dagli elementi non fidati, a combattere le forze “controrivoluzionarie”, a ripristinare il controllo sui mezzi di informazione e propaganda.
Il Presidente della Repubblica generale Svoboda, da sempre vicino alle posizioni conservatrici, e il leader comunista slovacco Husák, che già aveva significativamente disertato il Congresso del 22 agosto, avviano il processo di “normalizzazione”, specialmente in Slovacchia, dove la proclamazione della federazione, in ottobre, mitiga notevolmente l’ostilità della popolazione verso il processo di restaurazione burocratica.
Nelle regioni ceche la situazione è più complessa: in novembre gli studenti, in accordo con il sindacato, si dichiarano pronti a lottare per la difesa della politica del nuovo corso, ma Dubček invita alla pazienza. Così, in assenza di una guida, il movimento sostituisce lo slancio iniziale con una profonda frustrazione. Maggiore è la resistenza del sindacato, specialmente quello dei metalmeccanici: ancora agli inizi del 1969 cresce il numero dei “Consigli dei lavoratori”, e con questi la richiesta di una partecipazione degli operai nella gestione delle fabbriche. Ma anche queste istanze restano senza risposta e senza seguito: tutti i dirigenti del nuovo corso sono ormai emarginati dalla scena politica.
Nell’aprile 1969 Dubček viene sostituito da Husák come Primo segretario del partito, e l’intero Comitato centrale viene rinnovato a tutto vantaggio degli esponenti stalinisti, mentre i dirigenti del nuovo corso vengono progressivamente emarginati. Il nuovo Comitato centrale respinge il Congresso di Vysočany come illegalmente convocato e “strumento nelle mani delle forze controrivoluzionarie”. Successivamente, la cosiddetta “operazione tessere”, cioè il rinnovo dell’iscrizione al partito solo a quanti non si erano compromessi con il nuovo corso, comporta l’esclusione dal partito di oltre trecentomila militanti. La normalizzazione può così dirsi completata per la fine del 1970: nel periodo successivo, le voci di dissenso interno, provenienti soprattutto dal mondo intellettuale, saranno poche e sostanzialmente prive di ascolto.
Un bilancio
La Primavera di Praga costituisce un processo assai ricco di contraddizioni, ancora di più della Rivoluzione ungherese del 1956. Ne è un significativo segnale l’atteggiamento del movimento operaio, che di fatto soltanto in brevi intervalli conquista un ruolo realmente attivo nella vicenda, restando per lo più spettatore interessato ma passivo degli avvenimenti. Si può dire anzi che i lavoratori entrino con decisione sulla scena politica soltanto al tramonto della Primavera di Praga, con l’approssimarsi e anche successivamente all’invasione sovietica.
Probabilmente la causa di questo “scetticismo” della classe lavoratrice sta nelle modalità con cui il processo di democratizzazione viene portato avanti: non dal basso, a partire proprio dal movimento operaio e dagli studenti, bensì verticisticamente, attraverso una serie di provvedimenti dall’alto che non vedono mai la partecipazione dei lavoratori.
Lo stesso programma proposto dal “nuovo corso” non è privo di ambiguità e contraddizioni. Da un lato, indubbiamente, c’è il tentativo di superare il regime burocratico stalinista, responsabile della mancanza di libertà, dell’assenza di partecipazione dei lavoratori, e, in ultima analisi, dell’inefficienza economica. Dall’altro, non è mai del tutto chiara la direzione di questo superamento. Anzi gli aumenti delle differenze salariali, gli incentivi ai dirigenti delle imprese statali, la competizione fra le varie imprese statali e l’introduzione di elementi di economia di mercato andavano proprio nella direzione sbagliata. I dirigenti cecoslovacchi erano stati abbagliati dall’esempio jugoslavo. Tito, dopo la rottura con Stalin, cercò strade alternative per lo sviluppo della Jugoslavia. Il modello dell’“autogestione” portò buoni risultati all’inizio, salvo poi produrre all’inizio degli anni settanta centinaia di migliaia di disoccupati.
Il modello jugoslavo (e anche il programma di Dubček e gli altri) cercava di “gestire”, non superandole, alcune contraddizioni insolubili: l’impossibilità dello sviluppo del socialismo in un paese solo e i limiti del controllo burocratico dell’economia pianificata.
I lavoratori sarebbero stati pronti a lottare per ottenere il controllo della produzione e la gestione delle fabbriche, per instaurare un regime realmente socialista, partecipato, secondo i principi della democrazia operaia. Ma i dirigenti del nuovo corso non affrontarono mai il tema della pianificazione economica dal basso e del controllo operaio nelle fabbriche, si limitarono a lanciare le parole d’ordine della democratizzazione del partito e della società.
Non si può negare che alcune riforme, in senso democratico e partecipativo, vengano effettivamente portate avanti, specialmente per quel che riguarda la democrazia interna al Partito comunista. Ma la questione principale non viene mai chiarita: che cosa debba sostituire la pianificazione dall’alto dell’economia e la gestione burocratica dello Stato: se una pianificazione democratica, dal basso, in senso socialista, con l’introduzione di una vera democrazia operaia, o l’introduzione di principi di mercato, in direzione della restaurazione capitalista e della democrazia borghese. Lo scetticismo del movimento operaio deriva in gran parte da questa incertezza.
Manca inoltre un appello internazionalista ai lavoratori degli altri pesi del blocco sovietico e di tutta l’Europa affinché sostengano la “Primavera di Praga”. Nessun appello di classe viene rivolto alle truppe sovietiche che intervengono sul suolo cecoslovacco, perché non sparino su lavoratori e studenti. Tutte queste questioni, chiave per ogni comunista, vengono tragicamente ignorate a causa dell’approccio burocratico e nazionalista della leadership del “nuovo corso”.
Tra le cause della sconfitta vi è anche l’incapacità di affrontare in modo risolutivo la questione nazionale slovacca: ancora una volta, il “nuovo corso” è soltanto in grado di proclamare principi, ma, in assenza di una partecipazione popolare al processo di riforma, le parole d’ordine dell’uguaglianza tra cechi e slovacchi restano sulla carta. Sarà invece l’intervento sovietico a realizzare quella che appare agli occhi della popolazione slovacca la soluzione del problema: ma ancora una volta, la federazione senza una reale partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’economia e dello Stato non porterà a miglioramenti duraturi.
Le responsabilità ricadono dunque principalmente sui dirigenti del “nuovo corso”, che non si dimostrano mai all’altezza della situazione e delle aspettative dei lavoratori: non è qui in discussione l’onestà di Dubček e di altri leader, ma questi dirigenti sono troppo intrisi dalla mentalità burocratica, da uomini di apparato, per rendersi conto della necessità di coinvolgere fin da subito, nel processo di rinnovamento, il movimento operaio. E perfino quando questo, finalmente, scende in campo in difesa del “nuovo corso”, l’abitudine alla “paura” delle mobilitazioni prende il sopravvento in Dubček e i suoi: gli inviti alla pazienza non fanno che demoralizzare gli unici attori in grado di contrastare la restaurazione burocratica, e, di fatto, le spianano la strada.
Dall’altra parte, quella degli invasori, è evidente come il regime burocratico sovietico, anche dopo la “destalinizzazione”, non può tollerare alcuna apertura democratica nei suoi Paesi satelliti, né in senso liberale borghese, né allo stesso modo, se non peggio, in senso realmente socialista. L’azione dell’Urss nei confronti della Cecoslovacchia è del tutto coerente con quella compiuta dodici anni prima nei confronti dell’Ungheria, a conferma che lo stalinismo non esita a usare i metodi più brutali per soffocare qualsiasi tentativo di risveglio del movimento operaio internazionale, perché un simile risveglio rischierebbe di contagiare anche il movimento operaio russo, e di minare così le basi della burocrazia sovietica.
Praga e i Partiti comunisti d’Occidente
I fatti cecoslovacchi del 1968-1969 segnano il definitivo distacco dei principali partiti comunisti occidentali, e in particolare del Pci, dall’influenza di Mosca: proprio la direzione italiana è la più severa nel condannare l’intervento armato sovietico, così come è la più entusiasta nel far propria la linea del “nuovo corso” cecoslovacco.
Si tratta tuttavia, come nel caso della rivisitazione successiva della Rivoluzione ungherese, di una “appropriazione indebita”. Di fatto, l’interpretazione che la burocrazia italiana dà dei fatti praghesi è del tutto funzionale al processo riformista e revisionista ampiamente in atto nel Pci già a quell’epoca: vengono del tutto ignorate le istanze di democrazia operaia e socialista, che pure, nonostante le contraddizioni, sono un tratto caratterizzante della Primavera di Praga, per esaltare, al contrario, proprio gli aspetti che più hanno contribuito alla sconfitta del processo di rinnovamento, e cioè le aperture alla democrazia borghese e al mercato.
Questi sono di fatto i cardini del cosiddetto “eurocomunismo”, che viene teorizzato proprio in seguito ai fatti cecoslovacchi: la rottura con il marxismo e con la teoria della dittatura del proletariato, la difesa delle libertà borghesi, da considerarsi valore fondamentale e duraturo, anche dopo l’affermazione del socialismo (!), la compatibilità col mercato.
Laddove il movimento operaio cecoslovacco, come in precedenza, e assai più nettamente, quello ungherese, rifiutano lo stalinismo in favore della democrazia operaia e dell’autentico socialismo, il Pci, nel distaccarsi da Mosca, imbocca al contrario con decisione la via del riformismo, dell’apertura al mercato, della “democrazia” borghese.