Il settimanale tedesco “Der Spiegel” si chiede: “Marx aveva ragione?”
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2 Febbraio 2023Ripubblichiamo una lettera molto interessante scritta nel 1915 dal socialista serbo Dušan Popović a Christian Rakovsky, il grande internazionalista balcanico. La lettera venne pubblicata su Nashe Slovo (La nostra parola), un quotidiano socialista pubblicato in Francia durante la Prima Guerra Mondiale e diretto da Lev Trotskij. Riteniamo che essa contenga delle lezioni cruciali riguardo all’atteggiamento dei marxisti nei confronti della guerra imperialista e al modo nel quale le potenze imperialiste utilizzano i diritti delle nazionalità come pretesto per i loro veri obiettivi.
La lettera venne scritta nella primavera del 1915, meno di un anno dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, e descrive la posizione antimilitarista e antimperialista presa dalla socialdemocrazia serba (così venivano chiamati i marxisti all’epoca) e lo stato d’animo dei differenti settori della popolazione in Serbia in quel momento.
Ricordiamoci che la questione serba fornì il pretesto formale per l’inizio della Prima Guerra Mondiale, con l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 giugno del 1914. Come Popović sottolinea nella sua lettera a Rakovsky:
“Ci era evidente che, per quanto riguardava il conflitto tra la Serbia e l’Austria-Ungheria, il nostro paese si trovava evidentemente in posizione difensiva. L’Austria conduceva una politica di conquista contro la Serbia molto prima che quest’ultima diventasse uno stato indipendente. Quanto all’attentato di Sarajevo, la colpa spetta senza dubbio alla Serbia ufficiale. Così che, formalmente, una parte della responsabilità della provocazione della guerra ricade sulla Serbia. Ma, in fondo, la Serbia difende la sua vita, la sua indipendenza, minacciate senza sosta dall’Austria, anche prima dell’attentato di Sarajevo. E se la socialdemocrazia era in diritto di votare in qualche parte per la guerra, ciò era senz’altro in primo luogo in Serbia.”
Questa è esattamente la stessa osservazione fatta da Lenin su tale questione nel suo famoso opuscolo “Il fallimento della Seconda Internazionale” (maggio-giugno 1915):
“ L’elemento nazionale, nella guerra attuale, è rappresentato solamente dalla guerra della Serbia contro l’Austria (cosa che, fra l’altro, è stata rilevata anche dalla risoluzione della Conferenza di Berna del nostro partito). Solo in Serbia e tra i serbi abbiamo già da parecchi anni un movimento di liberazione nazionale al quale partecipa una “massa popolare” di parecchi milioni e la cui “continuazione” è la guerra della Serbia contro l’Austria. Se questa guerra fosse isolata, vale a dire non collegata con la guerra europea e con gli avidi scopi di rapina dell’Inghilterra, della Russia, ecc., tutti i socialisti avrebbero l’obbligo di desiderare il successo della borghesia serba. Questa è l’unica deduzione giusta e assolutamente indispensabile, derivante dal fattore nazionale della guerra attuale.”
Tuttavia, la guerra non era limitata soltanto alla questione serba, ma era piuttosto una conflagrazione generale tra differenti potenze imperialiste, nella quale ogni gruppo di banditi delle grandi potenze utilizzavano i diritti nazionali delle piccole nazioni (Serbia, Belgio) come una comoda foglia di fico per nascondere i loro reali obiettivi imperialistici.
“La dialettica di Marx, la quale rappresenta l’ultima parola del metodo evoluzionista scientifico, proscrive appunto l’esame isolato, vale a dire unilaterale e mostruosamente deformato d’un oggetto. Il fattore nazionale della guerra serbo-austriaca non ha e non può avere alcuna seria importanza nella guerra europea. Se vincerà la Germania, essa si annetterà il Belgio, ancora una parte della Polonia e, forse anche, parte della Francia, ecc. Se vincerà la Russia, essa si annetterà la Galizia, un’altra parte della Polonia, l’Armenia, ecc. Se la guerra sarà “pari e patta”, sussisterà la vecchia oppressione nazionale. Per la Serbia, ossia per questa centesima parte dei partecipanti alla guerra odierna, la guerra è la “continuazione della politica” del movimento di liberazione borghese. Per il resto (99 per cento) la guerra è la continuazione della politica imperialista, ossia della politica di una borghesia giunta allo stato di senescenza, la quale è capace di violentare le nazionalità ma non di liberarle. La Triplice Intesa, “liberando” la Serbia, vende all’imperialismo italiano gli interessi della libertà serba in compenso del suo aiuto per la spoliazione dell’Austria.” (Il fallimento della Seconda Internazionale)
Per Lenin, la questione nazionale era sempre subordinata alla questione di classe, cioè, agli interessi generali della classe lavoratrice. In questo caso, il fattore decisivo non era l’autodeterminazione della Serbia, ma invece la guerra reazionaria imperialistica di tutta l’Europa.
Trotsky condivideva questo punto di vista, come spiegò in La guerra e l’Internazionale:
“Se la socialdemocrazia internazionale, assieme alla sua sezione serba, opponesse la sua inflessibile resistenza alle pretese nazionali della Serbia, non sarebbe per sostenere i diritti storici dell’Austria-Ungheria di opprimere e disintegrare le nazionalità che vivono all’interno dei suoi confini; e senza alcun dubbio non sarebbe per sostenere la missione liberatrice degli Asburgo. Fino all’agosto 1914 nessuno, tranne i mercenari neri e gialli della stampa, ha osato proferire una parola al riguardo. I socialisti venivano influenzati nella loro linea di condotta da motivi completamente differenti. In primo luogo, il proletariato, sebbene non contestasse in alcun modo i diritti storici della Serbia a lottare per l’unità nazionale, non potevano affidarsi per la soluzione di questo problema alle potenze che allora controllavano i destini del regno serbo. E in secondo luogo – e questo era per noi il fattore decisivo – la socialdemocrazia internazionale non poteva sacrificare la pace dell’Europa per la causa nazionale dei Serbi, riconoscendo, come fece, che, esclusa la rivoluzione europea, l’unico modo nel quale una siffatta unificazione potesse essere raggiunta fosse attraverso una guerra Europea.” (L. Trotsky, La guerra e l’Internazionale, 1914, corsivo nostro).
Infine, la stessa posizione sulla questione serba venne avanzata da Rosa Luxemburg nel suo La crisi della socialdemocrazia:
“Se v’è uno stato che secondo ogni apparenza abbia dalla sua la giustificazione della difesa nazionale, questo è la Serbia. Privata dell’unità nazionale dalle annessioni austriache, dall’Austria minacciata nella sua esistenza nazionale, dall’Austria costretta alla guerra, secondo ogni concezione umana la Serbia sta combattendo la pura guerra difensiva per l’esistenza, la libertà, la civiltà nazionali. Se la Frazione socialdemocratica tedesca ha ragione con la sua presa di posizione, i socialdemocratici serbi, che al Parlamento di Belgrado hanno protestato contro la guerra e hanno rifiutato i crediti relativi, sono veramente dei traditori degli interessi vitali del loro paese. In realtà i serbi Lapčević e Kaclerović non soltanto hanno inciso in lettere d’oro i loro nomi nella storia del socialismo internazionale, ma hanno contemporaneamente dimostrato di possedere un’acuta sensibilità storica per il reale senso della guerra, e hanno così reso il migliore servizio al loro paese, per l’educazione del loro popolo.”
La Luxemburg procede poi evidenziando che la classe dominante serba aveva anch’essa i suoi obiettivi reazionari nella guerra e aveva le sue personali ambizioni di rapina imperialistica:
“Senza dubbio formalmente la Serbia è impegnata in una guerra di difesa nazionale. Ma le tendenze della sua monarchia e delle sue classi dirigenti, come le aspirazioni, delle classi dirigenti di tutti gli stati contemporanei, sono indirizzate all’espansione, senza preoccupazione di confini nazionali, e assumono cosi carattere aggressivo. La Serbia aspira ad esempio alla costa adriatica, dove a spese degli albanesi ha impegnato con l’Italia una contesa di stretto carattere imperialistico, la cui soluzione sta al di fuori della Serbia nelle mani delle grandi potenze.”
Il punto cruciale era vedere la guerra in Serbia non in maniera isolata, ma nel suo contesto più generale, nello specifico all’interno della questione di quali potenze c’erano dietro di essa:
“Ma la questione fondamentale è questa: dietro il nazionalismo serbo sta l’imperialismo russo. Di per sé la Serbia è solo una pedina nel grande gioco della politica mondiale, e un giudizio sulla guerra in Serbia, che prescinda da queste più ampie connessioni, dal contesto politico generale, non può non restare nelle nuvole.” (Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, 1915)
Sebbene Lenin serbasse delle critiche sulla posizione avanzata in La crisi della socialdemocrazia rispetto alla questione delle guerre nazionali in generale, lodò la sezione in cui si parla della Serbia.
Dunque, la corretta posizione internazionalista da adottare era una di opposizione alle mire belliche di tutte le potenze imperialiste. Questa posizione era sicuramente più difficile da sostenere per i socialisti serbi, per l’ovvia ragione che erano costretti a prendere una posizione che sembrava essere contro gli interessi nazionali progressisti del loro proprio paese, che veniva oppresso e attaccato da una potenza imperialista.
Popović, come allude nella lettera, si era astenuto nella votazione sui crediti di guerra nel parlamento serbo durante la prima Guerra Balcanica, mentre altri nel partito sostenevano il voto contrario. Ma, quando si arrivò allo scoppio della guerra tra l’Austria-Ungheria e la Serbia, i socialdemocratici serbi non vacillarono e presero una posizione internazionalista contro la guerra, incluso attraverso il voto contro i crediti di guerra. La memoria del massacro nazionale e dei tradimenti reciproci delle Guerre Balcaniche, che erano l’aperitivo della Grande Guerra, deve aver giocato un ruolo.
Questa sicuramente non era una posizione facile da prendere. Trotskij, che si trovava in Serbia al tempo, descriveva lo stato d’animo:
“Per apprezzare pienamente questo atto dei socialisti serbi, dobbiamo tenere a mente la situazione politica con la quale dovevano scontrarsi. Un gruppo di cospiratori serbi avevano ucciso un membro della famiglia Asburgo, il pilastro del clericalismo, del militarismo e dell’imperialismo austroungarici. Usando ciò come un facile pretesto, la cricca militare a Vienna inviò un ultimatum alla Serbia, che per l’audacia sfrontata, difficilmente poteva trovare un parallelo nella storia diplomatica. In risposta, il governo serbo fece delle concessioni straordinarie e suggerì che la soluzione del contenzioso dovesse essere deputata al tribunale dell’Aia. A quel punto, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Se l’idea di una “guerra difensiva” ha un significato qualunque, esso sicuramente si applicava alla Serbia in quella circostanza. Nondimeno, i nostri amici, Lapčević e Kaclerović, saldi nella loro convinzione della linea di azione che essi come socialisti dovevano perseguire, rifiutarono al governo il voto di fiducia. Chi scrive si trovava in Serbia all’inizio della guerra. Nella Skupcina [parlamento], in un’atmosfera di entusiasmo nazionale indescrivibile, si fece una votazione sui crediti di guerra. La votazione era per appello nominale. Duecento membri avevano risposto “Sì”. Poi, in un momento di silenzio tombale, si udì la voce del socialista Lapčević “No”. Tutti percepirono la forza morale di questa protesta, e la scena è rimasta impressa indelebilmente nella mia memoria.” (Trotsky, La Guerra e l’Internazionale, 1914)
Questo è quello che Popović spiega nella sua lettera:
“Tuttavia, per noi il fatto decisivo fu che la guerra tra la Serbia e l’Austria era solo una piccola parte di un tutto, nient’altro che il prologo della guerra europea, universale; e quest’ultima – ne eravamo profondamente convinti – non poteva avere altro carattere che quello imperialista nettamente spiccato. E di conseguenza noi – come parte della grande Internazionale socialista e proletaria – abbiamo ritenuto che fosse nostro dovere urgente dichiararci decisamente contro la guerra.”
Dopodiché, egli continua con una aspra recriminazione contro i socialdemocratici dei principali paesi imperialisti che tradirono il loro dovere internazionalista e sprofondarono nella palude dello sciovinismo nazionale, sostenendo gli obiettivi bellici delle loro borghesie imperialiste, che non avevano un briciolo di carattere democratico:
“Non volevamo causare alcun contrasto nell’atteggiamento delle sezioni dell’Internazionale, ed è proprio per la nostra decisione che abbiamo, noi malgrado, provocato questo contrasto perché, ahimé!, quasi tutti gli altri partiti socialisti hanno votato per questa guerra!”
Ci sono molte lezioni da apprendere da questo episodio rispetto all’atteggiamento che i socialisti devono adottare quando le potenze imperialiste usano le loro giuste aspirazioni nazionali come moneta di scambio per giustificare le proprie pretese imperialistiche.
In una nota di accompagnamento della redazione di Nashe Slovo, che è stata quasi sicuramente scritta da Trotskij, viene sottolineato lo stesso punto:
“[I socialisti serbi] capiscono che la questione del destino della Serbia e del socialismo serbo non deve essere concepita in isolamento. Considerando come un dovere del socialismo internazionale quello di prendere una posizione di lotta senza compromessi contro l’imperialismo di tutti i grandi stati guerreggianti, i socialisti serbi – precisamente per ché sono internazionalisti – subordinano le caratteristiche locali, limitate della loro posizione alla logica generale dell’imperialismo mondiale e del socialismo mondiale.”
Al pari di questo importante punto di principio, la lettera di Popović termina con una descrizione molto interessante dello stato d’animo in Serbia dopo che le conseguenze della guerra erano divenute chiare (e per questo ci vollero solo pochi mesi, meno di un anno):
“Disgraziatamente abbiamo avuto troppo ragione. Questa guerra ha annientato la Serbia. È poco dire che il paese è decimato: la metà, e la migliore metà della nostra popolazione, è stata distrutta. Alle perdite della guerra se ne sono aggiunte altre, ancora maggiori, causate dalla febbre tifoidea e da altre epidemie che, a causa della nostra disorganizzazione amministrativa, dell’incuria e della corruzione burocratica, hanno falciato innumerevoli vittime. Quanto c’era di migliore, di più prezioso in Serbia, ora non esiste più. «La Grande Serbia non avrà serbi», questa frase è diventata adesso da noi un’espressione popolare. Il popolo è completamente esaurito. E tutti, tutti aspirano alla pace (corsivo nostro).”
L’intera lettera è permeata da un forte sentimento di tristezza e dolore, il che è comprensibile. Il duro colpo della guerra imperialista non solo aveva gettato i socialisti internazionalisti nell’isolamento, ma molti dei migliori attivisti e quadri del movimento erano morti nelle trincee. All’inizio della lettera Popović menziona la morte di Tucovič, ucciso al fronte nel novembre 1914. Su di lui Trotskij scrisse:
“Quanti precursori della Federazione Balcanica sono caduti nelle guerre di questi anni! Il colpo più duro per la socialdemocrazia serba e di tutti i Balcani nella guerra è stato la morte di Dimitri Tucovič, che era una delle figure più nobili e eroiche del movimento operaio serbo”. (Lev Trotsky, “Profili politici, Rakovsky e Kolarov”, ottobre 1915)
E tuttavia, nonostante tutto il dolore, le perdite e la sofferenza, Popović termina la sua missiva a Rakovsky con una nota di determinazione: “Quanto a noi – quelli che restano ancora in vita – continueremo la loro lotta malgrado la ferita inguaribile dei nostri cuori.”
Raccomandiamo ai compagni di leggere con attenzione e di riflettere sulle idee contenute in questa lettera straordinaria. Con Trotskij, diciamo: “Imparate dai nostri eroici compagni serbi!”
Jorge Martin, 27 gennaio 2023
La socialdemocrazia serba nella guerra
Lettera a Christian Rakovskij*
Mi trovo a Niš. Qui viene pubblicato dall’inizio della guerra il nostro giornale Radnićke Novine, che sono costretto a redarre da solo, poiché Lapčević abita a Skoplje dall’inizio della guerra.
Appena pubblicati alcuni numeri del nostro giornale dopo la dichiarazione di guerra, il governo decideva di sopprimerlo. Ma, appena dissipato il panico delle prime settimane, ne riprendemmo la pubblicazione. Dal mese di ottobre il giornale è stato pubblicato ininterrottamente fino ad oggi.
Non puoi immaginare le condizioni in cui siamo obbligati a lavorare! Ma tre grandi incitamenti sostengono le mie forze.
Innanzitutto il nostro alto ideale socialista che ci chiama a una lotta accanita e intransigente contro la barbarie universale dell’imperialismo capitalista.
Poi la morte del mio miglior amico, Tucović, che mi ha causato un dolore ancora più profondo di quello che mi fece provare la morte del mio beneamato fratello, anch’egli caduto sul campo di battaglia. Tucović era il mio miglior compagno di lavoro e la forza organizzatrice più attiva del nostro movimento. La sua morte è una perdita inesprimibile per il nostro movimento e un lutto costante per me personalmente. Ma nello stesso tempo questa morte mi ha dato un nuovo slancio per il lavoro e la lotta; e dopo aver trascorso la giornata in questa cameretta solitaria e scura, quando la sera rientro a casa mia, provo un conforto al pensiero che forse sono riuscito a far avanzare ancora di un passo la causa che sola vendicherà la morte del mio sventurato e grande amico.
Ciò che infine m’incoraggia a perseverare è che il nostro lavoro porta dei frutti. Radnićke Novine è letto in tutti gli ambienti e ha un’influenza autentica. Attualmente, durante il macello, mentre quasi tutti i nostri compagni sono sia sul fronte, sia nella tomba, Radnićke Novine ha raggiunto una tiratura che ha conosciuto solo nei migliori momenti d’anteguerra. Ancora una prova: la censura esiste in questo momento quasi esclusivamente a causa di Radnićke Novine. Attualmente è il solo giornale di opposizione in Serbia, e lo stato maggiore solleva quasi ogni giorno delle proteste presso il governo a proposito del nostro giornale. Il che prova contemporaneamente che non facciamo alcuna, assolutamente alcuna concessione ai discorsi comuni e alle tendenze nazionaliste e guerresche.
Forse ricorderai, in questa occasione, quelle sottigliezze che mi portarono a non trovarmi d’accordo con il resto dei compagni al tempo della Guerra Balcanica. Su questo argomento, direi la seguente cosa: anche adesso rimango del mio vecchio parere al riguardo. In ogni caso, sono molto più coerente di quei compagni europei che pretendevano da noi un rigetto assoluto della guerra, che rappresentava in un certo senso una rivoluzione per i Balcani (o che, in ultima analisi, sarebbe potuta diventarne una), ma che dal canto loro hanno accettato questa guerra, che è capitalista e imperialista par excellence.
Ma questo ora appartiene al passato. Per quanto riguarda la guerra, noi siamo tutti, senza eccezione, d’accordo fin dal primo giorno della guerra. Nel giorno esatto in cui venne pubblicato il decreto di mobilitazione, riunimmo il nostro comitato centrale, con il nostro caro compagno Tucovič, e in quella riunione definimmo chiaramente la nostra posizione su basi di principio.
Ci era evidente che, per quanto riguardava il conflitto tra la Serbia e l’Austria-Ungheria, il nostro paese si trovava evidentemente in posizione difensiva. L’Austria conduceva una politica di conquista contro la Serbia molto prima che quest’ultima diventasse uno stato indipendente. Quanto all’attentato di Sarajevo, la colpa spetta senza dubbio alla Serbia ufficiale. Così che, formalmente, una parte della responsabilità della provocazione della guerra ricade sulla Serbia. Ma, in fondo, la Serbia difende la sua vita, la sua indipendenza, minacciate senza sosta dall’Austria, anche prima dell’attentato di Sarajevo. E se la socialdemocrazia era in diritto di votare in qualche parte per la guerra, ciò era senz’altro in primo luogo in Serbia.
Tuttavia, per noi il fatto decisivo fu che la guerra tra la Serbia e l’Austria era solo una piccola parte di un tutto, nient’altro che il prologo della guerra europea, universale; e quest’ultima – ne eravamo profondamente convinti – non poteva avere altro carattere che quello imperialista nettamente spiccato. E di conseguenza noi – come parte della grande Internazionale socialista e proletaria – abbiamo ritenuto che fosse nostro dovere urgente dichiararci decisamente contro la guerra. Non volevamo causare alcun contrasto nell’atteggiamento delle sezioni dell’Internazionale, ed è proprio per la nostra decisione che abbiamo, noi malgrado, provocato questo contrasto perché, ahimé!, quasi tutti gli altri partiti socialisti hanno votato per questa guerra!
Questo fu per noi un colpo morale terribile, il colpo più duro della nostra vita di militanti. Ma nonostante tutto non ci ha fatto per nulla vacillare, non ha scosso la nostra profonda convinzione di aver agito in senso socialista, unicamente socialista. Gli avvenimenti sopravvenuti in seguito hanno solo fortificato la nostra opinione su questa guerra. E alcuni mesi dopo abbiamo appreso con la più profonda gioia che alcuni dei migliori socialisti condividevano la nostra opinione…
Disgraziatamente abbiamo avuto troppo ragione. Questa guerra ha annientato la Serbia. È poco dire che il paese è decimato: la metà, e la migliore metà della nostra popolazione, è stata distrutta. Alle perdite della guerra se ne sono aggiunte altre, ancora maggiori, causate dalla febbre tifoidea e da altre epidemie che, a causa della nostra disorganizzazione amministrativa, dell’incuria e della corruzione burocratica, hanno falciato innumerevoli vittime. Quanto c’era di migliore, di più prezioso in Serbia, ora non esiste più. «La Grande Serbia non avrà serbi», questa frase è diventata adesso da noi un’espressione popolare. Il popolo è completamente esaurito. E tutti, tutti aspirano alla pace. Quando, tre mesi fa, Lapčević pronunciava alla Skupština un discorso in cui esaltava la pace e riprendeva il progetto socialista di una Federazione balcanica, l’intera assemblea rimase zitta; non un solo partito politico ha protestato contro questo vigoroso discorso. Si può dire che in quella circostanza e in quel momento il nostro partito esprimeva non solo la profonda convinzione e il desiderio appassionato delle grandi masse sofferenti, ma anche le aspirazioni della borghesia governante che, nella sua politica sciovinista, ha provato la disillusione più atroce.
Quasi tutte le forze del nostro paese, forze che erano mature non solo per la guerra ma anche per la rivoluzione, sono attualmente annientate, e ci sembra che di tutti i partiti il nostro ha subìto le perdite più pesanti. Dopo la guerra il nostro partito avrà senza dubbio con sé grandi masse. Ma non avrà militanti: tutti i nostri compagni coraggiosi e con un’educazione profondamente socialista, che avevano lottato con tanta passione e devozione e con un tale successo, non sono più. Tutti, con loro Tucović, dormono nelle loro tombe, e non sentiremo più la loro voce… Quanto a noi – quelli che restano ancora in vita – continueremo la loro lotta malgrado la ferita inguaribile dei nostri cuori.
Nota della Redazione di Nashe Slovo
A questa lettera, che parla da sola, possiamo aggiungere molto poco. Quando si tratta di risolvere le questioni della politica internazionale contemporanea, alcuni dei nostri compagni sono preoccupati dal destino della Serbia e del Belgio. Ma guardate come i socialisti serbi risolvono questa questione da soli, senza ammainare la bandiera rivoluzionaria di fronte al Moloch dell’imperialismo. Ad essi è chiaro, non meno che ai social-patrioti della Triplice Intesa, che la Serbia è l’oggetto e non il soggetto del gioco sanguinoso delle potenze internazionali. Ma per essi, è chiaro anche qualcos’altro. Essi capiscono che la questione del destino della Serbia e del socialismo serbo non deve essere considerato in isolamento. Considerando come un dovere del socialismo internazionale quello di prendere una posizione di lotta senza compromessi contro l’imperialismo di tutti i grandi stati guerreggianti, i socialisti serbi – precisamente per ché sono internazionalisti – subordinano le caratteristiche locali, limitate della loro posizione alla logica generale dell’imperialismo mondiale e del socialismo mondiale. Ma i patrioti della Triplice Intesa fanno precisamente il contrario : [quattro righe e mezzo sono tagliate dal censore francese].
“Imparate dai nostri eroici compagni serbi!” – diremmo ai socialisti di governo della Triplice Intesa, se solo potessimo immaginare per un momento che questa fosse una questione di disaccordo logico e ideologico e non il cosciente, o persino, il malizioso sfruttamento della questione del Belgio e della Serbia per gli interessi nazionali degli stati borghesi. “Imparate dai serbi!”- diremo ai lavoratori russi, tra i quali i social-patrioti stanno tentando di seminare discordia e corruzione ideologica – dai serbi, imparate il coraggio e la capacità di rigettare le vedute strettamente nazionali in nome dei più alti compiti del socialismo internazionale!
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*Ndt – La lettera è riprodotta parzialmente nel volume di Alfred Rosmer, Le mouvement ouvrier pendant la guerre (Paris, 1936), pp. 231-3 (ed. ita, Il movimento operaio alle porte della Prima guerra mondiale, Jaca Book, Milano, 1979, pp. 230-232). Ne pubblichiamo qui la versione italiana di Jacabook, aumentata con il materiale presente nella versione pubblicata su Nashe Slovo in russo, inclusa la nota redazionale di Trotskij, che Rosmer non riporta. La traduzione del materiale aggiuntivo è stata svolta a partire dalla versione inglese riportata in Andreja Zivkovic and Dragan Plavsic (eds), The Balkan Socialist Tradition: Balkan Socialism and the Balkan Federation, 1871-1915 (Revolutionary History, vol 8, no 3, 2003)]