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La condizione delle lavoratrici: come lottare contro decenni di peggioramenti

Il 6-7 marzo si è svolto il convengo sulla questione femminile “Libere di lottare”, promosso da Sinistra Classe Rivoluzione. Mettiamo a disposizione dei nostri lettori questo articolo scritto da Margherita Colella, relatrice del dibattito “Le condizioni delle lavoratrici: come lottare contro decenni di peggioramenti”.

La Redazione

 

di Margherita Colella

 

Dalle conquiste degli anni ’70 alla crisi economica mondiale

Gli anni del Dopoguerra furono caratterizzati da un imponente processo di proletarizzazione che coinvolse anche la popolazione femminile.
Scriveva Camilla Ravera all’inizio degli anni ’50:

“Nelle fabbriche, nelle manifatture, nelle aziende varie lavorano milioni di donne. La conquista del posto di lavoro costa pesanti e faticose ricerche, insistenze, lotte: la strada per arrivare all’occupazione è dura e penosa per tutti in Italia; ma durissima e cosparsa di particolari amarezze e umiliazioni per le donne, a cui si vuole concedere il lavoro  soltanto a condizione che esso costi meno dell’eguale lavoro maschile, che esoneri il più possibile dagli obblighi e contributi dell’assistenza e della previdenza sociale, e dal rispetto delle carriere e così via.”1

Nella seconda metà degli anni ’50, le donne espulse dal manifatturiero tradizionale e dalla campagna furono assunte nei settori dove la meccanizzazione dei processi produttivi consentiva la sostituzione della manodopera maschile qualificata. Produzione di massa ed accentuazione della quantità rispetto alla qualità portano alla richiesta di una manodopera flessibile, mobile, dequalificata, sottopagata, caratteristiche queste che hanno storicamente connotato la forza lavoro femminile.

Nonostante il faticoso percorso verso un’equiparazione del lavoro femminile, le considerazioni della Ravera mantenevano concretezza negli anni del boom economico. Benché i sindacati proclamassero la necessità della parità salariale, nel 1962 su 78 contratti nazionali rinnovati solo in 27 si prevedeva l’uguaglianza di retribuzione.

Il biennio ’68-’69 fu un acuto della lotta di classe. Le lavoratrici giocarono un ruolo in lotte significative sul piano sindacale: Pancaldi, Max Mara, Bloch, solo per citarne alcune. L’autunno caldo significava anche  lotta per il diritto alla salute e allo studio, farla finita con l’oppressione. La cura del lavoro domestico doveva essere parte degli oneri della società e non più un fardello da scaricare sul singolo (e quindi in larga misura sulle donne).

Gli anni ’70 raccolsero i frutti della lotta di classe: lo Statuto dei lavoratori nel 1970, la legge sul divorzio, le prime leggi verso le istituzioni dei nidi per l’infanzia. Nel 1975 fu rivoluzionato il diritto di famiglia di stampo fascista. Furono istituiti i consultori e conquistata la legge 194 che legalizzò l’aborto nel Paese. Poi la legge Anselmi del 1971, che estendeva la tutela delle lavoratrici madri; la legge 903 del 1977, che sanciva parità di trattamento di lavoratori e lavoratrici in tutto l’arco della vita lavorativa. Furono aboliti tutti i vincoli e le vecchie norme del lavoro femminile, eccetto il lavoro notturno la cui disciplina però venne demandata alla contrattazione collettiva.

Il 14 ottobre 1980 la famosa “marcia dei 40.000” in Fiat chiuse un lungo ciclo di lotte.

Gli anni ’80 sono  anni di riscossa per la classe dominante: i padroni cominciano, a partire dal taglio alla scala mobile, a riprendersi quanto erano stati obbligati a concedere. La caduta del muro di Berlino nel 1989  rappresenta uno spartiacque a livello ideologico, politico ed economico.

Si apre una fase di estrema liberalizzazione del mercato del lavoro nei servizi, nelle imprese e in tutto il terziario: servizi di cura, call center, ecc.

Una profonda erosione delle tutele attraverserà tutti gli anni ’90: nel 1992 col governo Amato si procede a massicce privatizzazioni, si innalza l’età pensionabile per le donne e si avvia lo smantellamento della sanità pubblica con l’introduzione dei ticket. Cominciano i tagli e le privatizzazioni dei  servizi di cura per anziani e disabili. Nel 1997 viene introdotto il famigerato Pacchetto Treu, che avvia una massiccia precarizzazione del lavoro sdoganando l’idea della   “flessibilità”, con  l’introduzione  dei contratti interinali. Questa riforma fa da apripista a una serie di provvedimenti che hanno radicalmente cambiato la qualità e le condizioni di lavoro. Nel 2003 il secondo governo Berlusconi con la legge Maroni/Biagi (nota come legge 30) apre la strada a oltre quaranta forme nuove di contratto e al dilagare di appalti e subappalti.

La crisi economica del 2008, uno spartiacque

La percentuale di occupazione femminile è sensibilmente cresciuta nei decenni, passando dal 33,5% della fine degli anni ’70 al 49,2% nel 2018 secondo l’Istat. Negli anni della crisi economica il lavoro delle donne si è maggiormente concentrato nei servizi e i dati di occupazione hanno subìto un calo minore rispetto a quella maschile, più concentrato nei settori industriali.  Dal 2009 al 2018 l’occupazione femminile passa dal 46,4% al 49,2%. Ma a quali condizioni? Un aspetto rilevante è la crescita del lavoro a tempo parziale, un processo avviato ben prima della crisi ma che con essa si è approfondito.

Le politiche di austerità avviate dopo la crisi del 2008-2009 danno la misura del tipo di attacco che ha penalizzato profondamente la forza lavoro femminile.

Il governo Monti ha deregolamentato gli orari di lavoro nella grande distribuzione, orari e aperture sono completamente liberalizzati.

La legge Fornero del 2012 innalza l’età pensionabile per le donne, avvia lo smantellamento dell’articolo 18 e liberalizza i voucher. Ci pensa poi il decreto Poletti, presidente di Lega Coop e Ministro del lavoro del governo Renzi a sferrare un ulteriore attacco, anticipando di un anno il Jobs act che aumenta ulteriormente la precarietà.

Dal 2012 in particolare si registra una forte crescita del part-time tra le occupate. L’aspetto peculiare è l’aumento del part-time involontario. Se la modalità volontaria è una scelta per tantissime donne “obbligata” dalle esigenze di conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita e di gestione della famiglia, il part-time involontario è una scelta unilaterale delle aziende. Uno strumento molto utile ai padroni per  ricattare, sottopagare e fare un uso spregiudicato della flessibilità.  Il divario tra lavoratori e lavoratrici anche su questo aspetto si è allargato negli anni. Nel 2005 il 25,6% delle lavoratrici aveva un impiego part-time a fronte del 12,9% dei lavoratori; nel 2019 il part-time interessa il 32,9% delle lavoratrici e l’8,8% dei lavoratori. Circa due milioni di lavoratrici (il 19% delle occupate) lavorano part-time.2

Il lavoro a tempo parziale ha una forte connotazione femminile, il che implica un trattamento retributivo ridotto, quasi nessuna possibilità di avanzamento di carriera e una pensione più bassa. Nel 2017 il reddito annuo di 5 milioni di pensionate è di 17mila euro a fronte dei 24mila dei pensionati. Con l’introduzione del sistema contributivo le donne, a causa del lavoro domestico e di cura, sono anche tra le destinatarie principali dell’assegno di pensione sociale: una miseria che si aggira tra i 450 e i 460 euro. Questo perché non riescono a maturare nel corso della loro vita i contributi necessari per l’accesso alla pensione minima.

Un basso salario, quasi accessorio, è la base materiale che rende le donne più sacrificabili e le  spinge  ad abbandonare il lavoro di fronte alle esigenze di cura della famiglia, come è emerso nella pandemia. Nascono anche da qui i pregiudizi sulla loro presunta “vocazione” alla cura.

Occupazione femminile dalla crisi alla pandemia

Per effetto della riforma Fornero l’occupazione cresce tra le over 45: tra il 2004 e il 2016 in questa fascia di età l’occupazione raddoppia passando dal 23,7% al 50,7%; parallelamente cala tra le giovani generazioni. Per questa fascia il peggioramento delle condizioni è significativo: per esempio in Emilia Romagna, nel settore del turismo, del commercio e del lavoro domestico, il 55% delle occupate fra i 30 e i 35 anni nel 2016 era pagato attraverso voucher (90mila nel solo 2015).3

Con la pandemia la situazione occupazionale è precipitata e non lascia scampo alle donne. Secondo l’Istat tra il secondo trimestre del 2019 e lo stesso periodo del 2020 sono stati persi 470mila posti di lavoro tra le lavoratrici a fronte di una perdita complessiva di 841mila posti di lavoro. Su cento impieghi persi nell’emergenza sanitaria, 56 riguardano lavoratrici occupate principalmente  nel settore dei servizi. A farne le spese la ristorazione, dove le donne rappresentano il 50,6% della forza lavoro, e le aree di assistenza domiciliare dove la percentuale di lavoratrici arriva all’88,1%. Penalizzate soprattutto le occupate con contratti a termine. Assistiamo a una carneficina nel Paese con un punto di caduta devastante nel Sud Italia.

Il tasso di occupazione nel Meridione si è fermato dal 2008 al 2016 al 31,7%, rispetto al 57,6% del Nord e del 52,8% del Centro.

Le carenze strutturali del Sud Italia incidono significativamente sulla ricerca di un lavoro oltre che sulla qualità dell’occupazione. Dal 2007 ad oggi si sono persi oltre un milione di posti di lavoro e i giovani e le donne hanno pagato il prezzo più alto. Il Rapporto Svimez 2020 descrive il quadro, già complesso, precipitato con l’emergenza sanitaria.

Le regioni del Sud hanno subito un impatto molto forte in termini di occupazione nei primi tre trimestri del 2020: -4,5%, in sostanza tre volte peggio del Nord e del Centro. Gli effetti del lockdown si sono scaricati sulla componente femminile: durante la pandemia 171mila lavoratrici hanno perso il lavoro.

In sostanza, la crisi sanitaria ha cancellato l’occupazione femminile, nel secondo trimestre 2020, per l’80%!

L’ultimo dato Istat segnala una perdita di 444mila posti di lavoro nel 2020, 312mila sono lavoratrici.

Dati che sono destinati a peggiorare: nel solo dicembre 2020 si sono persi 101mila posti di lavoro, 99mila di lavoratrici.

Secondo l’inchiesta di Save the Children  moltissime donne rischiano di essere vittime economiche di questa pandemia e di cadere in  povertà.4 Tra le donne a più alto rischio di esclusione sociale ci sono badanti e colf , spesso straniere e senza contratto che, pur sopperendo alle carenze del welfare, non usufruiscono delle già insufficienti misure del governo. L’Inps calcola che siano 858mila ma secondo la Cgil sarebbero circa due milioni.

Lavoratrici in prima linea nella pandemia

A livello globale le donne rappresentano il 70% dei lavoratori in prima linea nel settore dei servizi, nel sociale e nel settore sanitario.

Nei primi giorni della crisi pandemica, di fronte all’arroganza padronale che ha trasformato i lavoratori, spesso in settori non realmente essenziali, in carne da macello, un’operaia della Bitron di Cormano, nel milanese, intervistata da La7, ha sintetizzato così la condizione operaia:

“La Fornero che ci manda in pensione dopo 41 anni di lavoro, io ho 61 anni. Non ce la facciamo più, siamo rotte, malate, non abbiamo le braccia, le gambe, siamo stanche. Prima il profitto poi la salute e a casa abbiamo anziani da accudire, perché non ce li accudisce lo Stato, sono sulle nostre spalle. Abbiamo bambini, perché curiamo i nipoti, ci facciamo carico di tutto. Dobbiamo pensare a tutto e siamo i meno tutelati.”

Queste parole esprimono un sentimento di rabbia diffuso tra le lavoratrici.

Stanche sì, ma anche combattive.

L’esercito dei  600mila lavoratori del settore dei “multiservizi” in Italia, che ha scioperato lo scorso autunno, ne è un esempio. Il 70% della forza lavoro è costituito da lavoratrici, con un contratto nazionale molto debole. In questo settore il part-time involontario è prassi e la paga è attorno ai 7 euro lordi. Con la pandemia questo settore non ha conosciuto crisi; anzi, la necessità delle sanificazioni ha imposto a queste lavoratrici un regime di sfruttamento altissimo. Lavorare tanto, bene e in poco tempo: un risparmio sui costi del lavoro a discapito di salario, diritti e salute. Condizioni di ricatto hanno determinato la lotta all’interporto di Bologna delle lavoratrici negli appalti della Yoox, il colosso dell’e-commerce dell’abbigliamento.  Con lo slogan “vogliamo essere madri e lavoratrici allo stesso tempo” queste lavoratrici lottano contro l’azienda che ha imposto orari massacranti con turni anche all’alba e a tarda sera rendendo impossibile conciliare lavoro e vita e spingendole a lasciare il lavoro, aggirando nei fatti il blocco dei licenziamenti tuttora in vigore.

Situazione analoga anche alla Venchi: l’azienda ha tentato di chiudere il punto vendita all’aeroporto di Fiumicino proponendo un trasferimento delle lavoratrici fino a 600 chilometri da casa. Una piccola lotta, ma simbolica, contro i licenziamenti mascherati da trasferimenti.

Con la pandemia i nervi scoperti di settori ai quali da anni si sottraggono risorse e si taglia personale sono completamente saltati. Le assunzioni nella scuola e nella sanità di personale “aggiuntivo” all’organico esistente per far fronte all’emergenza sono state del tutto insufficienti: i “contigenti Covid” non hanno coperto nemmeno le necessità di organico ordinarie. Nel decreto rilancio è stata prevista per la scuola l’assunzione di 50mila docenti a fronte di 200mila cattedre scoperte e 20mila lavoratori tra personale amministrativo e ausiliario. In sanità, a dispetto di una mancanza di organico di 45mila unità, nei primi 9 mesi di pandemia sono stati assunti con contratti a termine 33.857 unità (una parte di questo contingente ha coperto i pensionamenti). Circa 34mila erano in previsione di assunzione a ottobre 2020. Il quadro nazionale  anche sullo stato di queste assunzioni è complesso da ricostruire anche a causa della “regionalizzazione” della sanità. Sta di fatto che oltre ai proclami del governo quello che ormai è parte della coscienza collettiva è che il rischio di una vera deflagrazione di tutto il sistema sanitario è stato evitato, in parte, solo grazie al sacrificio e alla grande fatica di lavoratrici e lavoratori sottoposti a una enorme pressione fisica e psicologica.

Le donne sono state in prima linea nel  settore sanitario, ma sono state anche le più colpite dalla malattia. L’invecchiamento del personale, composto per il 68,6% da donne, ha ulteriormente sovraccaricato questi lavoratori nel pieno dell’emergenza. Gli infortuni sono aumentati a livelli sproporzionati (nella sola Emilia Romagna, nei primi mesi di emergenza sono raddoppiati). L’Inail nei primi cinque report del 2020 riporta i dati di infortuni da Covid: dai 28.000 di aprile ai 49.000 di maggio, per il  71,7 % lavoratrici. Anche in questo caso la pandemia aggrava un problema già esistente. I dati Inail del 2019, infatti, sottolineano l’incidenza maggiore di disagi tra le lavoratrici: tre denunce su quattro riguardano  le donne. Tra il 2015 e il 2019 si osserva un elevato numero di denunce di infortunio nella fascia over 60!

Abbiamo assistito per mesi ai balletti sulla scuola in presenza o a distanza. Quello che è chiaro al personale di questo settore, dai docenti al personale tecnico amministrativo e ausiliario, è quanto sia stato stravolto il loro lavoro minato dall’autoritarismo dei dirigenti e da un carico di pressioni sproporzionato.

Non è andata meglio nella grande distribuzione. Ci chiediamo tra l’altro dove finisce la nauseante retorica sull’importanza della genitorialità e della famiglia quando queste lavoratrici lavorano le domeniche e nei giorni festivi! Durante il primo lockdown la pressione su questi lavoratori è aumentata notevolmente.

Per esempio in Coop Alleanza 3.0, un’azienda che conta 22mila dipendenti (per lo più donne), è difficile perfino organizzare la propria vita poiché l’organizzazione dei turni di lavoro viene gestita su base settimanale. Il turno spezzato è consuetudine e produce tempi morti che aumentano l’orario reale di lavoro. Si arriva al paradosso che quando per ragioni di necessità le lavoratrici devono cambiare turno, l’azienda “concede loro il favore” costruendo un regime quasi paternalista e mettendo le lavoratrici nella condizione di sentirsi “in debito” col capo.

La consapevolezza che va crescendo in questi settori e l’accumularsi di queste contraddizioni creerà un ambiente esplosivo nel prossimo futuro.

Lo smart working, un’ulteriore arma nelle mani dei padroni

In pochi giorni dallo scoppio della pandemia si è passati da 500mila lavoratori in “smart” a 8 milioni. Il primo dato interessante è che prima dell’emergenza a richiedere questa modalità di lavoro erano prevalentemente figure professionali maschili di fascia medio-alta. Con l’esplosione del Covid-19, e la conseguente necessità della cura dei figli legata al perdurare della didattica a distanza, la dinamica si inverte. Si  registra un dato più alto (39%) tra le lavoratrici rispetto ai lavoratori, che sale ulteriormente (46%) per le lavoratrici con figli. Ma c’è differenza tra il telelavoro (imposto dall’emergenza) e lo smart working, come definito dalla legge 81/2017, che prevede un accordo tra le parti. Quello a cui  abbiamo assistito è una scelta unilaterale delle aziende che hanno deciso, a loro discrezione e interesse, tempi, modi e risorse. Lo smart working è diventato un poderoso strumento di pressione e di ricatto. L’ultimo rapporto della CGIL5 in base a un’indagine condotta tra il 20 aprile e il 9 maggio rileva che “per le donne, questa modalità di lavoro è più pesante, alienata, complicata e stressante”. Infatti le ore giornaliere dedicate alla cura domestica sono raddoppiate, da due a quasi quattro. Anche in questa modalità “smart” non sono mancate le discriminazioni: le lavoratrici, in percentuale più alta rispetto ai lavoratori, non hanno avuto a disposizione computer e telefoni aziendali.

Ma il dato rilevante è la dilatazione dei tempi di lavoro. I padroni, oltre a registrare un significativo risparmio di costi, hanno plaudito all’aumento della produttività e all’incidenza più bassa dell’assenteismo. Non di rado infatti lavorare da casa ha comportato farlo anche in caso di malattia o rinunciando a permessi retribuiti per assistere familiari disabili o malati (legge 104) e congedi. Per le donne questo doppio lavoro ha comportato un sacrificio del (già poco) tempo libero, con interi weekend dedicati al recupero del lavoro arretrato. Altro dato che emerge è il mancato riconoscimento degli straordinari. Indubbiamente questa modalità ha trasformato e squilibrato ulteriormente la conciliazione tra tempi di lavoro e di vita, soprattutto durante la prima ondata e nel pieno della didattica a distanza (Dad). Non è casuale che il 65% delle madri abbia ritenuto la Dad incompatibile con le esigenze di lavoro e una su tre si sia dichiarata pronta a lasciarlo.

La conciliazione impossibile

Eleanor Marx rispondeva così al socialdemocratico Berlfort Bax che polemizzava con Clara Zetkin sulla condizione femminile:
“Sì, compagno Bax, Clara Zetkin aveva tutto il diritto di dire, con Engels, che la donna è la proletaria di casa. Avrebbe dovuto dire piuttosto che la donna sotto il regime capitalista è una doppia proletaria, ha due tipi di lavoro: il lavoro di un produttore in fabbrica e il lavoro di una domestica, moglie e madre. Da un lato i suoi muscoli e il suo sangue sono spesi per il beneficio immediato del capitalista, e dall’altro per il suo beneficio futuro, per sostenere e nutrire una nuova generazione di proletari. Lavora lì, lavora qui!”6

Queste parole del diciannovesimo secolo non sono così lontane, né sembrano distanti dal  sentimento espresso dall’operaia di Cormano.

L’impatto della genitorialità sulla vita lavorativa è significativo: tra le persone senza figli e coabitanti risulta occupato l’83,6% degli uomini e il 72,1% delle donne, con un divario occupazionale dell’11,5%. In presenza di almeno un figlio, invece, è occupato l’89,3% dei padri e il 57% delle madri, con un divario del 32,3%. La nascita di un figlio spinge una donna su cinque ad abbandonare il proprio lavoro.

La carenza strutturale dei servizi per l’infanzia e di una rete sociale solida peggiora significativamente le condizioni di vita delle lavoratrici. Per quanto la conciliazione sia un problema sempre più condiviso anche all’interno del nucleo familiare, le condizioni di subordinazione economica e la sacrificabilità delle lavoratrici sono ancora elementi dominanti.

La pandemia si è innestata in un quadro di  profonde diseguaglianze già esistenti.

Nel 2018 quasi quattro famiglie su dieci si sono potute appoggiare sul sostegno dei nonni, cosa oggi  impossibile per le misure di confinamento. L’assenza di un sistema di servizi strutturato determina le scelte di vita di milioni di lavoratrici. Nel 2018 i posti disponibili per i servizi all’infanzia pubblici e privati coprono il 24,7% dei potenziali utenti, bambini con meno di 3 anni, circa 1 milione e 400mila. Nel 2017-2018 ha frequentato il nido un bambino su cinque nel Nord del Paese e un bambino su venti nel Sud, con due punte  estreme: l’Emilia Romagna, con un picco del 26,7% di copertura, e la Calabria, con un minimo di 2,1%.7

Il 38% delle lavoratrici a fronte dell’11,9% dei lavoratori dichiara di aver dovuto modificare aspetti della propria vita e del proprio lavoro per le necessità di cura. E sono soprattutto le madri che lavorano in regime di part-time.

Per quanto il decreto legislativo 151 del 2001 tuteli la maternità disciplinando i congedi, i permessi e  il sostegno economico alle lavoratrici, essere madri è ancora uno scoglio determinante nella carriera lavorativa. Significa affrontare il rischio di “child penalty” che si traduce spesso nelle dimissioni forzate. Una lavoratrice madre affronta il “divario retributivo di maternità”, ovvero un’erosione della propria retribuzione per interruzioni del lavoro, per lavorare a tempo parziale o utilizzare i congedi parentali. Se l’astensione obbligatoria è retribuita all’80%, quella  facoltativa è retribuita solo al 30%. Più che un diritto, per molte lavoratrici l’astensione facoltativa è, dunque, un privilegio.

Ma anche rientrare al lavoro dopo l’astensione obbligatoria non è sempre una passeggiata: se è vero che esistono formalmente le tutele, è ancor più vero che i padroni giocano tutte le carte nel loro mazzo per aggirarle. Per quanto la legge preveda, infatti, il diritto di rientrare nella stessa unità produttiva con la stessa mansione e qualifica, i casi di demansionamenti e di mobbing, pressioni che non di rado mettono le lavoratrici nelle condizioni di lasciare il lavoro, non sono isolati.

Dinamiche analoghe avvengono rispetto alle dimissioni in bianco, oggi formalmente vietate ma delle quali i padroni fanno largo uso.

Le politiche di sostegno alla genitorialità nella pandemia sbandierate dal governo Conte sono state del tutto inadeguate. Il decreto “Cura Italia” ha riguardato una platea ridotta di genitori. Il 28 aprile sono state erogate un totale di 242.206 prestazioni di congedi straordinari per un massimo di quindici giorni pagati al 50%, riconosciuti solo in alternativa all’uno o all’altro genitore e a patto che non vi fossero genitori beneficiari di altre forme di sostegno. Il “Decreto rilancio” ha esteso i congedi straordinari a un periodo di trenta giorni mentre il bonus baby-sitting, alternativo al congedo, ha interessato 83.729 lavoratori secondo i dati forniti dall’Inps. Moltissime donne precarie, o con lavori nel vasto mondo del sommerso, sono state tagliate fuori da queste misure irrisorie.

I congedi straordinari da agosto a dicembre 2020, legati alla necessità di assentarsi dal lavoro in caso di figli in quarantena, sono stati utilizzati da 400mila lavoratori. Anche perché questa forma di congedo non era usufruibile per le mamme in telelavoro, che hanno utilizzato solo i congedi “ordinari” e, in mancanza di questi, hanno deciso di usare permessi, anche non retribuiti, o ferie.8

Queste dinamiche, condite da innumerevoli pregiudizi sulla propensione delle donne a dedicarsi alla famiglia più che alla carriera, contribuiscono ad alimentare il divario salariale tra lavoratrici e lavoratori. Ulteriore elemento che costruisce le statistiche del divario salariale riguarda i cosiddetti settori “femminilizzati”. Si pensi ad esempio all’istruzione pubblica: l’organico degli insegnanti dell’infanzia e dell’educazione primaria, dove i salari sono miserevoli rispetto anche alle medie europee, è quasi totalmente costituito da donne, alle quali tra l’altro viene riconosciuto un ruolo materno più che di professioniste, docenti ed educatrici. Una piramide che si rovescia, in termini di carriera e salario, nella componente di genere dei docenti negli altri gradi di istruzione e alta formazione.

La “segregazione occupazionale”, che consiste nell’essere inquadrati in ruoli di minor responsabilità, adattando la condizione lavorativa alle esigenze familiari, si traduce nella rinuncia a scatti di carriera che incidono nel divario salariale.

In Europa la “Giornata europea per la parità retributiva” si celebra annualmente nella data in cui, simbolicamente, le donne “smettono di essere pagate” rispetto ai loro colleghi uomini. Nel 2019, questa  giornata si è celebrata il 4 novembre, quasi due mesi prima della fine dell’anno. Secondo i più recenti dati diffusi da Eurostat il divario salariale tra uomini e donne è del 16% a livello europeo, mentre in Italia si attesta al 5%. Un dato solo  apparentemente basso che dipende anche dalla peculiarità dei salari italiani, tra i più bassi d’Europa. Il Gender pay gap, ovvero la differenza della retribuzione lorda oraria, è solo uno degli indicatori. Eurostat ha sviluppato un ulteriore indicatore che tiene conto di altri fattori che contribuiscono ad allargare questo divario, il Gender overall earnings gap. Questo indicatore  considera, assieme al differenziale di retribuzione per ora, la quantità delle ore lavorate e il tasso di occupazione, che in Italia è inferiore rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea. Secondo l’analisi di  più fattori, quindi, il divario italiano non è così basso come appare nel confronto con altri paesi dell’Ue. Per esempio, nel 2014 il divario di retribuzione tra lavoratrici e lavoratori si attestava in Ue al 39,6 % e in Italia al 43,7%. Questo ci fornisce un quadro più realistico, e indubbiamente più preoccupante.

La pandemia segna un arretramento significativo 

Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno rivolto alle donne esclusivamente misure assistenzialiste, irrisorie e intrise di familismo. Dal bonus bebè alle campagne a sostegno della fertilità del governo Renzi, fino alle misure di sostegno di Conte.

In questo quadro la richiesta di alcune organizzazioni femministe sull’utilizzo “rosa” delle risorse del Recovery fund non è altro che una pia illusione. Non è certo con un appello alla buona volontà delle istituzioni che potremo migliorare la nostra condizione.

Le lavoratrici sono parte significativa della forza lavoro, il tentativo di difendere un modello tradizionalista che ricaccia le donne al loro “naturale” ruolo di cura non risponde alla realtà. La loro condizione di subalternità economica è funzionale alla classe dominante, che ha tutto l’interesse nel dividere il fronte comune degli sfruttati e nell’approfondire un modello al ribasso sui diritti dei lavoratori.

Le donne non sono un soggetto debole e non hanno bisogno di filantropi che ne allevino la condizione di sfruttamento. Le mobilitazioni degli ultimi anni dimostrano la nostra disponibilità a lottare, in particolare tra le giovani generazioni.

È in primo luogo a loro che rivolgiamo il nostro programma.

Dobbiamo lottare contro gli attacchi alle attuali condizioni di lavoro, a partire dalla precarietà che condanna principalmente le donne e le giovani generazioni. È tempo di farla finita col sistema di assunzioni precarie che aumentano divari e producono ulteriore sfruttamento e ricatto per la classe lavoratrice. Va abolito il sistema di appalti e sub appalti, e tutte le leggi che in questi decenni hanno distrutto le condizioni e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.

Tutto il personale Covid “usa e getta” assunto in maniera precaria e con pochissime tutele per tamponare le gravissime carenze di organico nella scuola e nella sanità va stabilizzato e va anzi rilanciato un piano di assunzioni a tempo indeterminato in tutti i settori pubblici, che si reggono ormai sulle spalle di lavoratori anziani.

Va abolito il sistema pensionistico contributivo e va rivendicato il diritto alla pensione dopo trent’anni di lavoro.

Contro una nuova ondata di disoccupazione dobbiamo riprendere la parola d’ordine della diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Una vera liberazione della donna dal lavoro domestico e di cura significa investire massicce risorse per organizzare servizi di mense pubbliche, lavanderie e una rete pubblica e gratuita di nidi e servizi per l’infanzia. Il diritto alla maternità non può restare sulla carta; è necessario estendere i congedi alle lavoratrici e ai lavoratori, retribuiti al 100%.

La conciliazione tra la vita lavorativa e la vita privata rimane impossibile fino a quando si mettono le donne di fronte alla scelta tra il lavoro e la genitorialità. Ognuna deve essere libera di scegliere, senza essere obbligata a continue rinunce.

Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo partire anche dalla lotta nei luoghi di lavoro, contro il ricatto del part-time involontario e l’ingiustizia del divario salariale a parità di mansioni e qualifica.

Turni per le aperture serali e nei festivi nella grande distribuzione rendono impraticabile ogni forma di conciliazione, anche su questo aspetto va posto il punto di vista delle lavoratrici e dei lavoratori: queste aperture non sono necessarie se non al profitto dei padroni.

In questa emergenza si è fatto largo uso del lavoro da remoto, un ulteriore affondo alle tutele dei lavoratori.

Lo “smart working” va regolamentato nel confronto con le rappresentanze sindacali a partire da una discussione che tenga in considerazione tutti i diritti previsti per il lavoro in presenza: diritto alla disconnessione, alla retribuzione straordinaria, al buono pasto, rispetto di tutte le norme di sicurezza (pause, postazioni, ecc.). Inoltre i costi privati del lavoro (connessione, energia, dispositivi) da casa non devono essere a carico dei lavoratori.

Per ottenere delle vittorie è necessario che il sindacato ingaggi questa lotta, non bastano seminari che si limitino a dibattere della condizione femminile, né le quote rosa negli organismi sindacali. Serve fare una battaglia a viso aperto, e perché questo accada è necessaria la partecipazione attiva delle lavoratrici nel sindacato e nei luoghi di lavoro. Il protagonismo di giovani e lavoratrici espresso nelle piazze in questi anni è solo l’inizio. Nella lotta comune contro questo sistema di sfruttamento giocheranno un ruolo di primo piano, è questa la musica del futuro!

 

Note

[1] Camilla Ravera, Breve storia del Movimento femminile in Italia, Roma Editori Riuniti,1978, p. 237.

[2] Fonte Istat.

[3]Dato dell’istituto Ricerche economiche e Sociali Cgil Donne in Emilia Romagna, 2017.

[4] Save the children, Le equilibriste – maternità in Italia, 2020.

[5] Cgil, Fondazione di Vittorio, Maggio 2020.

[6] Eleanor Marx, Il defunto Friedrich  Engels e la questione della donna,1896.

[7] Save the Children, I nidi e i servizi educativi per la prima infanzia, 2020.

[8] Fonte Il Sole 24 Ore.

 

Note bibliografiche

Alessandra Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’età contemporanea, Roma ed. Viella, marzo 2019.

Rossella Palombo, Sognando parità, Manifesto libri, 2010

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