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22 Febbraio 2022di Rob Sewell
Questo articolo è stato pubblicato originariamente nel 2012 su www.marxist.com. L’originale inglese è reperibile a questo indirizzo: https://www.marxist.com/underconsumption-and-marxist-theory-of-crisis.htm
“Cosa intendeva Marx per contraddizioni del capitalismo?” chiede Samuel Brittan, l’economista di destra collaboratore del Financial Times. “Fondamentalmente che il sistema produceva un flusso di beni e servizi in costante espansione, che una popolazione di proletari impoveriti non poteva permettersi di comprare. Una ventina di anni fa, in seguito al crollo del sistema sovietico, questo poteva sembrare sorpassato. Ma richiede uno sguardo ulteriore, dato l’aumento nella concentrazione delle ricchezze e dei redditi.” (1)
Con il ritorno della crisi del capitalismo c’è stato un rinnovato interesse verso la teoria economica marxista. Anche gli economisti borghesi sono stati spinti con frequenza crescente a commentare le idee di Marx, non fosse che per rigettarle. Non passa quasi giorno senza che nella stampa finanziaria compaia un qualche riferimento a Marx. Non è strano che questo accresciuto interesse si sia concentrato sulla teoria della crisi di Marx.
Questa attenzione ha fatto rivivere la controversia attorno alle spiegazioni “sottoconsumiste” delle crisi, che in termini generali collegano le difficoltà del capitalismo, specie in condizioni di crisi, con una mancanza di domanda nell’economia. Secondo questa teoria, il capitalismo ha a tendenza innata a produrre molto più di quanto possa essere assorbito dal consumo. La moderna teoria “sottoconsumista” si identifica strettamente con John Maynard Keynes, il quale credeva che il problema della mancanza di domanda “effettiva” si potesse risolvere con l’intervento dello Stato attraverso la spesa in deficit.
Le teorie “sottoconsumiste” sono spesso confuse con le idee di Marx, ma non si tratta della stessa cosa come lo stesso Marx spiegò tempo fa. Anche se il sottoconsumo esiste certamente per le masse, come può testimoniare qualsiasi lavoratore, non è la causa diretta della crisi capitalista.
L’idea del “sottoconsumo” come causa della crisi precede Keynes e persino Marx. Si può ritrovarla negli scritti dei grandi socialisti utopisti, come Robert Owen. Tuttavia i suoi propugnatori più noti furono Jean Charles Sismondi (1773-1842), Thomas Malthus (1766-1834) e Johann Karl Rodbertus (1805-1875).
La versione più coerente e sviluppata della teoria, e anche la meno volgarizzata, fu avanzata da Jean Charles Sismondi. Come sottolineò Engels: “La spiegazione delle crisi mediante il sottoconsumo proviene da Sismondi e in lui ha ancora un certo senso.” (2) Questo “certo senso” venne anche riconosciuto da Marx, come si può vedere dai suoi scritti sull’argomento.
L’opera principale di Sismondi, Nuovi principi di economia politica, fu pubblicata nel 1819. Nel suo libro egli sostenne che le crisi generali erano dovute all’eccesso di capacità, che a sua volta era dovuto alla separazione del valore di scambio delle merci dai bisogni e dai desideri della società. Secondo Sismondi, la sovrapproduzione di merci non sorgeva da un eccesso generale di appagamento dei bisogni umani, ma dalla cattiva distribuzione del reddito e dalla povertà delle masse, da cui risultava una domanda insufficiente nella società. In breve, la classe operaia non riceveva abbastanza in salario per ricomprare i beni che essa produceva, il che avviene sempre sotto il capitalismo.
La legge di Say
Anche se era unilaterale, Sismondi non sbagliava del tutto nella sua supposizione. In effetti egli fece numerose osservazioni corrette che vennero accolte anche da Marx. Fu Sismondi per esempio, a indicare l’errore di Jean Baptiste Say (sostenuto da James Mill e David Ricardo) secondo cui ad ogni venditore corrisponde un compratore (“legge di Say”) e che pertanto considerava impossibile una sovrapproduzione generale. Secondo loro, l’economia sarebbe sempre giunta all’equilibrio, il che chiaramente non avveniva. Questo è stato anche il Credo dell’economia politica moderna, fino a quando la sua falsità è stata messa a nudo dal maggiore crollo delle forze produttive da generazioni, nel 2008-9.
A differenza degli economisti borghesi volgari come J. B. Say, che escludevano le crisi, Sismondi comprese che la crisi era inerente al processo di produzione di merci. Tuttavia, la sua comprensione della vera natura della crisi capitalista, seppure più avanzata, era limitata e alquanto unilaterale. La vera natura delle contraddizioni centrali del capitalismo, per quanto le avesse chiaramente presenti, gli sfuggiva. Nonostante le sue carenze, Marx gli rese omaggio e lo considerava un pensatore originale, che, fra gli economisti classici, si sforzava di comprendere il capitalismo e la sua tendenza alla crisi. Sotto questo aspetto sovrastava di molto Ricardo, l’eminente rappresentante dell’economia politica borghese classica.
“Sismondi è profondamente consapevole delle contraddizioni nella produzione capitalista – scrisse Marx –, è consapevole che da una parte le sue forme – i suoi rapporti di produzione – stimolano lo sviluppo illimitato delle forze produttive e della ricchezza; e che, dall’altra parte, questi rapporti sono condizionati, che le loro contraddizioni fra valore d’uso e valore di scambio, merce e denaro, acquisto e vendita, produzione e consumo, capitale e lavoro salariato, ecc., assumono dimensioni sempre maggiori con lo sviluppo della forza produttiva.”
Marx continua:
“Egli avverte specialmente la contraddizione principale: da un lato lo sfrenato sviluppo della forza produttiva e l’accrescimento della ricchezza, che consta nello stesso tempo di merci e dev’essere trasformata in denaro; dall’altro, come fondamento, la limitazione della massa dei produttori ai mezzi di sussistenza, Quindi per lui le crisi non sono, come per Ricardo, semplici accidenti, ma esplosioni essenziali, su grande scala e in determinati periodi, delle contraddizioni immanenti.” (3)
Pur riconoscendo il grande contributo di Sismondi, Marx era ben consapevole delle sue carenze e limitazioni, come di tutti gli economisti classici:
“Egli [Sismondi] dà un giudizio acutissimo sulle contraddizioni della produzione borghese, ma non le comprende e quindi non comprende neppure il processo della loro dissoluzione. Egli si fonda sull’intuizione che alle forze produttive sviluppatesi nel seno della società capitalistica, alle condizioni materiali e sociali della creazione della ricchezza, devono corrispondere nuove forme di appropriazione di questa ricchezza; che le forme borghesi sono solo [forme] transitorie e contraddittorie in cui la ricchezza assume un’esistenza sempre e solo antitetica e compare ovunque anche come il contrario di se stessa.” (4)
Malthus
Thomas Malthus non aggiunse nulla a quanto già scritto da Sismondi. Malthus, un apologeta super volgarizzatore e reazionario, cercava di usare rozzamente questi argomenti per giustificare gli interessi “dell’aristocrazia, della Chiesa, dei parassiti della spesa fiscale, dei tirapiedi, ecc.”. Marx accusava Malthus di plagiare i lati deboli di Adam Smith e di fare la caricatura di Sismondi. (5)
Marx sviluppò le sue idee sulla crisi capitalista sulla base di uno studio e una critica molto profonda di tutti gli economisti classici, in particolare dei loro principali esponenti fra i quali Adam Smith e David Ricardo. Anche se Marx non poté scrivere un libro specifico sulla crisi capitalista, la sua teoria della crisi è presente lungo i suoi scritti economici, specialmente Il capitale e le Teorie del plusvalore.
Il saggio di profitto
Alcuni attribuiscono erroneamente al calo tendenziale del saggio di profitto la vera causa della crisi capitalista, ma ciò è scorretto e Marx non lo accettò mai in quanto tale. Seppure sia indiscutibilmente una tendenza importante del capitalismo, esso opera come tendenza di lungo termine che grava sul sistema. Marx si espresse in termini molto precisi sui fattori antagonistici che trasformano questa legge in una tendenza, descrivendola unicamente come una “legge dalle due facce”. Egli continuò spiegando: “…la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo.” (6)
Ci sono stati lunghi periodi nei quali il saggio di profitto cadeva. Fu così verso la fine del lungo periodo di ascesa seguito alla Seconda guerra mondiale. Ma ci sono anche stati lunghi periodi nei quali il saggio di profitto è salito, come negli ultimi 30 anni. Pertanto dobbiamo guardare altrove nella ricerca di una spiegazione della crisi, che Marx espone nei suoi ampi scritti sull’economia politica.
Nelle Teorie del plusvalore, descritte da Engels come il quarto volume del Capitale, Marx delinea chiaramente la contraddizione fondamentale che il capitalismo deve affrontare:
“Ma il fatto che essa [la forma di produzione borghese ] sia costretta, dalle proprie leggi immanenti, da un lato a sviluppare le forze produttive come se essa non fosse una produzione su una base sociale limitata, e dall’altro a non poterle però sviluppare che entro questi limiti, è la ragione più intima e più segreta delle crisi, delle contraddizioni che erompono in essa, entro cui si muove e che, perfino ad uno sguardo disattento, la caratterizzano come mera forma storica di transizione.
Questo viene poi inteso, in maniera rozza eppure d’altra parte in certo qual modo correttamente, da Sismondi, p. es., come contraddizione fra la produzione e una distribuzione che esclude eo ipso [per ciò stesso] uno sviluppo assoluto della produttività.” (7)
Marx affermò più volte che la causa ultima della crisi del capitalismo è la sovrapproduzione. Ma non si tratta di sovrapproduzione in relazione a ciò che le persone vogliono o di cui necessitano. In un’economia di mercato, la sovrapproduzione si riferisce solo a ciò che si può vendere con profitto. “Gli inglesi, per esempio, sono costretti a prestare il loro capitale ad altri paesi per creare un mercato per le loro merci”.
“Nella sovrapproduzione, nel sistema del credito, ecc. la produzione capitalistica cerca di rompere i propri limiti e di produrre oltre la sua misura (…). Da qui le crisi, che nello stesso tempo sempre la incalzano e fanno sì che essa raggiunga con gli stivali delle sette leghe – in relazione allo sviluppo delle forze produttive – ciò che essa, entro la sua limitatezza, realizzerebbe solo molto lentamente.” (8)
Marx ripete più e più volte questo punto lungo i suoi scritti: “La sovrapproduzione in modo speciale ha per condizione la legge generale della produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare, con una data massa di capitale, una massa di lavoro la più grande possibile) senza riguardo per i limiti del mercato esistenti o per i bisogni solvibili.” (9)
Il processo di riproduzione
Ancora, nel secondo volume del Capitale, Marx spiega:
“Il volume della massa delle merci poste in essere dalla produzione capitalista è determinato dalla scala di questa produzione e dal suo costante bisogno di espansione, e non da un ambito predeterminato di offerta e domanda, di bisogni da soddisfare. A parte altri capitalisti industriali, la produzione di massa può avere come acquirenti immediati solo commercianti all’ingrosso. Entro certi limiti, il processo di riproduzione può procedere sulla stessa scala o su una allargata, anche se le merci che esso espelle non entrano effettivamente né nel consumo individuale, né in quello produttivo. Il consumo delle merci non è compreso nel circuito del capitale dal quale esse emergono. Non appena il filo viene venduto, ad esempio, il circuito del valore capitale in esso rappresentato può ricominciare da capo, da principio a prescindere a ciò che accade al filo una volta venduto. Fintanto che il prodotto viene venduto, tutto segue il suo corso regolare, per quanto riguarda il produttore capitalista. Il circuito del valore capitale che esso rappresenta non viene interrotto.”
Marx prosegue poi spiegando che questa espansione permette all’intero processo di riproduzione di completarsi. Tuttavia esse si accumulano e giacciono invendute in mano ai commercianti al dettaglio e rimangono invendute.
“Flusso di merci – scrive Marx – segue ora flusso di merci, e finalmente viene alla luce il fatto che il flusso precedente solo in apparenza è stato inghiottito dal consumo. I capitali-merce si contendono reciprocamente il loro posto sul mercato. Per vendere, gli ultimi arrivati vendono al di sotto del prezzo. I flussi precedenti non sono ancora stati resi liquidi, mentre scadono i termini di pagamento. I loro possessori devono dichiararsi insolventi, ovvero vendere a qualunque prezzo, per pagare. Questa vendita non ha assolutamente nulla a che fare con lo stato reale della domanda. Essa ha a che fare solo con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di trasformare merce in denaro. Allora scoppia la crisi. Essa diventa visibile non nella immediata diminuzione della domanda di consumo, della domanda per il consumo individuale, ma nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale, del processo di riproduzione del capitale.” (10)
Lo stesso punto viene nuovamente ribadito nel terzo libro del Capitale, dove (ancora una volta) Marx enfatizza la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalista: “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluta della società.” (11)
La sovrapproduzione
Qualche persona “intelligente” ha tentato di aggirare questa chiara spiegazione della crisi pretendendo che questa affermazione di Marx fosse una frase isolata, una “descrizione”, o “solo un commento buttato lì”. Ma anche l’analisi più sommaria dei suoi scritti mostra che non è così. Lungi dall’essere un commento isolato e accidentale, questa spiegazione è in effetti assolutamente centrale nella teoria della crisi di Marx. Questa è una teoria basata non su una teoria “sottoconsumista”, che nel migliore dei casi è completamente unilaterale, ma sulla contraddizione centrale della sovrapproduzione sotto il capitalismo. Marx ed Engels avevano già fatto allusione a questa causa nel Manifesto del partito comunista, dove la sovrapproduzione è descritta come un’epidemia “che in epoche precedenti sarebbe sembrata un’assurdità: l’epidemia della sovrapproduzione”.
Altri non fu che il revisionista Eugen Dühring a prendere a prestito e volgarizzare la spiegazione “sottoconsumista” della crisi, che egli avanzò in contrapposizione alla teoria di Marx della sovrapproduzione. Engels sottolineò: “Rodbertus l’ha presa a prestito da Sismondi e a sua volta Dühring l’ha copiata da Rodbertus nella abituale maniera che tutto rende banale.” (12)
Ricadde su Engels, assistito da Marx, il compito di confutare le idee errate del professor Dühring, compresa la teoria del “sottoconsumo”. Questa replica fu tanto esauriente che la serie di articoli pubblicati sulla stampa del partito tedesco presto divenne un libro intitolato Anti-Dühring, che apparve per la prima volta nel 1878 per poi affermarsi come uno dei classici fondamentali della teoria marxista.
È significativo che nel trattare la crisi capitalista, la spiegazione dell’Anti-Dühring non contenga un solo riferimento al calo tendenziale del saggio di profitto. Già, non si trova sull’argomento neppure una sola parola, neanche un “commento buttato lì”. Alcuni “marxisti” accademici sono estremamente irritati da questo silenzio, così irritati che cercano persino di dimostrare che le opinioni di Engels non coincidevano con quelle di Marx, in altre parole che Engels non era davvero un marxista!
Tipici al riguardo sono il professor M. C. Howard e il docente di economia J. E. King, che nella loro Storia dell’economia marxiana ci informano che Engels “interpretò le idee di Marx in un suo modo peculiare” e “non si avvicinò più di Marx a fornire una teoria coerente della crisi economica.” I nostri dotti critici ci dicono poi: “Davvero nel trascurare il calo tendenziale del saggio di profitto egli rinunciò a un filone principale nella teoria della crisi di Marx, anche se in ciò venne seguito pressoché da tutti gli economisti marxiani prima del 1929.” Essi concludono che “infuria ancora la controversia se il suo [di Engels] pensiero maturo costituisca un ‘engelsismo’ a sé stante, che con il suo determinismo e la sua applicazione del ragionamento delle scienze naturali allo studio della storia umana, sia separato e antagonistico rispetto alla filosofia e al metodo di analisi di Marx (…). È plausibile che Engels avesse preso una decisone cosciente di sopprimere quelli fra gli scritti di Marx verso il cui orientamento umanista egli (giunti agli anni ’80) nutriva poca o punta simpatia.” (13)
Queste sono asserzioni infondate e inventate, che non hanno alcun rapporto con la realtà, ma vengono smerciate in giro per le università come altrettante chiacchiere buon mercato. Fanno parte del mondo accademico, che è scisso dal marxismo, ma tenta di lasciare un segno fabbricando delle differenze tra Marx ed Engels. Possono anche avere letto tutti i libri giusti, ma le loro opinioni non sono di alcuna utilità per i marxisti, o per chiunque cerchi delle spiegazioni scientifiche.
Ma davvero si può pensare, come viene suggerito, che Engels comprendesse o rappresentasse in modo errato le opinioni di Marx sull’economia, in questo caso nella sua classica opera Anti-Dühring? No, non è vero e per un’ottima ragione: anche se il libro fu scritto da Engels, le bozze finali vennero lette, e approvate, da Marx, che vi contribuì anche con tutta una sezione. Quale sezione scrisse Marx? Mentre Engels si concentrava sulla filosofia, la storia e la scienza, fu Marx stesso, come ammise Engels, a scrivere per l’Anti-Dühring una lunga sezione sulla teoria economica.
Poiché questo libro fu scritto più di un decennio dopo che le bozze del Capitale erano state completate, e poiché Marx morì circa cinque anni dopo la sua pubblicazione, la sezione sull’economia dell’Anti-Dühring può essere presa come il pensiero conclusivo di Marx sulla crisi del capitalismo. Certamente sono le ultime cose che scrisse sull’argomento.
Tratteremo del calo tendenziale del saggio di profitto in un articolo futuro, per ora basti osservare che le opinioni espresse nell’Anti-Dühring rappresentano il punto di vista tanto di Marx come di Engels, che, nonostante tutti gli sforzi dei revisionisti di distorcerli, era identico.
L’Anti-Dühring
Vediamo cosa scrisse Engels (e Marx) nell’Anti-Dühring:
“Abbiamo visto come la perfettibilità della macchina moderna, spinta al punto più alto, si trasformi, mediante l’anarchia della produzione nella società, in un’imposizione che costringe il singolo capitalista industriale a migliorare incessantemente le proprie macchine, ad elevarne la forza produttiva. La semplice possibilità effettiva di estendere l’ambito della sua produzione si trasforma per lui in un’imposizione di egual natura. L’enorme forza espansiva della grande industria, di fronte alla quale quella dei gas è un vero giuoco da bambini, si presenta ora ai nostri occhi come un bisogno di espansione, sia qualitativa che quantitativa, che si fa beffa di ogni pressione contraria.” (14)
Dopo aver descritto la crescita incessante delle forze produttive sotto il capitalismo, guidata da leggi obbligatorie, l’autore prosegue poi a spiegare la contraddizione fondamentale che affligge il sistema capitalista: vale a dire il continuo fuoriuscire di merci che alla fine si scontra con i limiti del mercato.
“Questa pressione contraria è formata dal consumo, dallo smercio, dai mercati per i prodotti della grande industria – spiega Engels –. Ma la capacità di espansione dei mercati, sia estensiva che intensiva, è dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che operano assai meno energicamente.”
Qui Engels (e Marx) descrive il distacco che si apre tra produzione e consumo, che operano secondo leggi differenti, alcune delle quali più vigorose di altre. “La espansione dei mercati non può andare di pari passo con quella della produzione. La collisione diventa inevitabile. (…). La produzione capitalista genera un nuovo ‘circolo vizioso’”, spiega Engels. (15) Egli solleva lo stesso punto nella prefazione del novembre 1886 al Capitale: “Mentre la forza produttiva aumenta in maniera geometrica, l’estensione del mercato procede nel migliore dei casi in rapporto aritmetico.”
Qual è quindi il carattere delle crisi sotto il capitalismo? Spiega Engels: “Il carattere di queste crisi è così nettamente marcato che Fourier le ha colte tutte quanto allorché definì la prima come crise plethorique, crisi di sovrabbondanza.” (16) In altre parole, erano crisi di sovrapproduzione.
Questo semplicemente ripete quanto Marx aveva spiegato altrove. Per esempio, nel primo libro del Capitale:
“L’enorme capacità che il sistema della fabbrica possiede di espandersi a balzi e la sua dipendenza dal mercato mondiale, generano di necessità una produzione febbrile e un conseguente sovraccarico dei mercati, con la contrazione dei quali sopravviene una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una serie di periodi di vitalità media, prosperità, sovrapproduzione, crisi e stagnazione.” (17)
Spiegando la teoria marxista della crisi, Engels demolisce il tentativo di Dühring di spiegare le crisi con il “sottoconsumo delle masse”. Engel traccia una netta distinzione tra il “sottoconsumo” (che è sempre esistito nella società di classe, come risultato della povertà delle masse) e il fenomeno della sovrapproduzione, che si applica solo al capitalismo.
Valori d’uso
Le società precapitaliste erano economie naturali, basate principalmente sulla produzione di valori d’uso. Il fenomeno della sovrapproduzione era sconosciuto in queste società, che soffrivano del problema opposto, vale a dire il problema del sottoconsumo che sorge dalla scarsità di valori d’uso come risultato del basso livello delle forze produttive e dei disastri naturali (siccità, epidemie, pestilenze, ecc.), così come dalle guerre a cui queste società erano inclini.
La sovrapproduzione, allora, è peculiare del capitalismo e non esiste in nessun’altra società. Essa sorge dalle leggi anarchiche dell’economia di mercato della produzione di merci. Sotto il capitalismo le forze produttive sono state rivoluzionate a tal punto che potrebbero, se la produzione fosse organizzata e pianificata razionalmente, soddisfare completamente i bisogni basilari della società. Esse hanno completamente trasceso il sistema capitalista e la proprietà privata.
Sulla base di un piano razionale di produzione, la produttività del lavoro, e con essa il livello di vita della schiacciante maggioranza, potrebbero essere grandemente elevati in un lasso di tempo relativamente breve. Il problema è che sotto il capitalismo la produzione non è pianificata razionalmente, ma è orientata alla massimizzazione del profitto e dominata dalle cieche forze del mercato. Siamo qui di fronte alla contraddizione tra la produzione sociale e l’appropriazione individuale, nella quale i capitalisti si appropriano della ricchezza prodotta dal lavoro sociale della classe lavoratrice.
La sovrapproduzione sorge sotto il capitalismo perché la spinta illimitata ad espandere la produzione periodicamente entra in collisone con i confini limitati dell’economia di mercato. Moltissime persone desiderano e hanno bisogno di beni, ma non hanno il denaro per acquistarli. Mancano di “domanda effettiva”, secondo gli economisti borghesi. Questo strano fenomeno della sovrapproduzione, dove le merci in eccesso, beni prodotti per la vendita, non possono essere venduti, deriva in ultima analisi dal fatto che la classe lavoratrice non può ricomprare l’intero valore di ciò che essa produce. I profitti sono il lavoro non pagato della classe operaia. Questo stato di cose è irrazionale sotto ogni punto di vista, ma deriva dall’anarchia dell’economia di mercato e dalla struttura di classe della società capitalista.
Il “sottoconsumo” esiste anche sotto il capitalismo, come può testimoniare ogni persona di famiglia operaia. Il plusvalore non può venire dai macchinari o dai capannoni, che semplicemente trasferiscono alla merce il proprio valore. Solo il lavoro umano è capace di produrre nuovo valore. La classe operaia riceve in salari meno di quanto produce. Questo lavoro non pagato è la fonte del plusvalore, e viene appropriata dal capitalista. I lavoratori non possono mai ricomprare ciò che producono in quanto ricevono solo il necessario per mantenere se stessi e le proprie famiglie. Come spiegò Marx, il problema non è spiegare perché ci sia la crisi, ma perché, come risultato, sotto il capitalismo non ci sia una crisi permanente fin dal principio.
Tuttavia il sistema capitalista aggira questo problema della “domanda” insufficiente attraverso la divisione dell’economia in due settori principali: il settore I, che produce beni di consumo, e il settore II che produce beni capitali (mezzi di produzione).
“Una parte dei capitalisti produce merci che entrano direttamente nel consumo dell’operaio – spiegò Marx –; un’altra parte produce merci che entrano solo indirettamente in questo consumo, in quanto entrano cioè come materie prime, macchinario, ecc., nel capitale necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza, oppure merci che non entrano affatto nel consumo dell’operaio, perché entrano unicamente nel reddito di chi non lavora.” (18)
Fintanto che la classe capitalista, che si appropria del plusvalore, prende questo surplus e lo reinveste in macchinari più moderni, edifici, infrastrutture in generale, il sistema può svilupparsi, ma solo al costo di preparare il terreno per una nuova crisi di sovrapproduzione. In altre parole, il sistema capitalista crea il proprio mercato attraverso l’interazione tra i due settori della produzione e supera temporaneamente questa contraddizione intrinseca. L’unico problema è che questa accresciuta capacità produce ancora più beni di consumo che alla fine non possono essere venduti, e abbiamo una nuova crisi. Tuttavia il massacro del valore del capitale che deriva dalla crisi getta le basi per un nuovo periodo di boom che, a sua volta, riproduce le contraddizioni a un livello più alto. Questo prende la forma sotto il capitalismo di un ciclo di boom e recessione.
Espansione illimitata
La mancanza di potere d’acquisto della classe operaia è pertanto solo un lato dell’equazione. Più significativa è la spinta continua dei capitalisti verso un’espansione illimitata attraverso il reinvestimento del surplus estratto dal lavoro non pagato della classe lavoratrice. Questa contraddizione dialettica è al cuore del sistema capitalista. Questa spinta incontrollata ad accumulare e produrre presto o tardi si scontrerà con i limiti del consumo. Abbiamo qui un sistema della produzione fine a se stessa, dell’accumulazione per l’accumulazione, come spiegò Marx. Per vendere questo flusso di merci, il capitalista è costretto a ridurre i suoi prezzi sotto il prezzo di produzione, portando a perdite, calo dei profitti e alla possibilità del fallimento. I capitalisti più deboli vengono estromessi e si prepara il terreno per un nuovo boom, basato su in saggio di profitto maggiore.
“…il sottoconsumo delle masse, la limitazione del consumo delle masse a ciò che è necessario per il mantenimento e la riproduzione – spiega Engels – non è affatto un fenomeno nuovo. Esso esiste da quando sono esistite classi sfruttatrici e classi sfruttate”
La crisi di sovrapproduzione tuttavia è un nuovo fenomeno, sorto solo il modo di produzione capitalista.
“Il sottoconsumo delle masse è dunque anch’esso una condizione preliminare delle crisi ed in esse rappresenta una parte riconosciuta da tempo; ma tanto poco essa ci dice sulle cause dell’esistenza attuale delle crisi, quanto poco ci dice sulle cause della loro assenza nel passato.”
Engels prosegue spiegandone le ragioni nella forma capitalista di produzione, caratterizzata dall’“l’ingorgo generale degli sbocchi che scoppia nelle crisi in seguito a sovrapproduzione [che] si è potuto vedere solo da cinquant’anni.” (19)
La teoria marxista della crisi si fonda su una contraddizione dialettica: la spinta illimitata a produrre, che è unica del modo capitalista di produzione, combinata col consumo limitato delle masse che sorge dalla loro posizione sociale. Il capitalismo di conseguenza somiglia all’uomo che sega il ramo su cui è seduto. Esso crea e distrugge il mercato allo stesso tempo, spremendo sempre più plusvalore dalla classe operaia mentre tenta di contenere i salari al minimo necessario. “La parte che tocca alla classe operaia (calcolata per testa) – spiega Engels – o aumenta lentamente e in modo insignificante, o non aumenta affatto, e in talune circostanze può persino diminuire.” (20) Questo a sua volta diviene una barriera all’espansione del mercato e quindi alla realizzazione del plusvalore, come osserviamo nell’epoca attuale di austerità prolungata.
La spinta ad abbassare i salari
I capitalisti nel loro insieme naturalmente vogliono vedere un mercato in espansione. Ogni capitalista individuale sarebbe estasiato di vedere tutti i propri concorrenti alzare i salari dei loro dipendenti per spingere la domanda. Tuttavia quando si arriva ai propri lavoratori, sono decisi a tenere bassi i salari per ridurre i costi e aumentare i profitti. I capitalisti, quindi, spinti dalla competizione finiscono tutti col tentare di abbassare i salari, e quindi la domanda. Il prodotto domina i produttori, spiega Engels. (21) Sono tutti stretti in questa contraddizione del capitalismo.
Nel dare un colpo a Dühring, Engels osserva: “Ci vuole una buona dose di radicale sfrontatezza per spiegare l’odierna stagnazione totale degli sbocchi dei filati e dei tessuti di cotone con il sottoconsumo delle masse inglesi e non con la sovrapproduzione dei cotonieri inglesi.” (22)
Questa opinione, si deve notare, non ha nulla in comune con le posizioni di varie scuole di economisti borghesi noti come “sottoconsumisti”, in particolare dei keynesiani.
Marx stesso aveva criticato il concetto di “sottoconsumo” come causa della crisi nel secondo libro del Capitale, scritto circa dieci anni prima dell’Anti-Dühring. Il solo consumo (o piuttosto la sua mancanza) non è la causa fondamentale della crisi, spiegò. Se così fosse, il problema potrebbe essere risolto aumentando il potere d’acquisto delle masse. Questo è precisamente l’argomento errato dei keynesiani. Marx risponde come segue:
“È una pura tautologia dire che le crisi sono causate dalla scarsità di consumo effettivo,
o di consumatori effettivi. Il sistema capitalista non conosce modi di consumo che non sia effettivo. Che le merci siano invendibili significa solo che non si sono trovati acquirenti effettivi per esse, vale a dire consumatori (poiché le merci sono acquistate in ultima analisi per il consumo individuale o produttivo).”
E continua:
“Ma se a questa tautologia si vuol dare una parvenza di maggiore approfondimento col dire che la classe operaia riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il salario in generale cresce e la classe operaia realiter riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinato al consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi cavalieri del sano e ‘semplice’ buon senso – dovrebbe allontanare la crisi.” (23)
In altre parole, i salari tendono a salire all’apice di un boom, quando la forza lavoro scarseggia, poco prima di una recessione nell’economia. La mancanza di domanda, pertanto, non può essere considerata la causa reale della crisi di sovrapproduzione.
Sono precisamente i keynesiani che ritengono che le crisi siano causate da una scarsità di “domanda effettiva” (“sottoconsumo”) e che per risolvere il problema si debbano aumentare i salari o la spesa pubblica – I riformisti di sinistra spesso avanzano questo ragionamento keynesiano come soluzione per la crisi attuale. Anche se siamo certamente favorevoli ad aumentare i salari, l’idea che questo risolva la crisi del capitalismo è totalmente sbagliata. Di fatto l’aumento dei salari semplicemente erode i profitti e spinge i capitalisti a tagliare gli investimenti e la produzione, cancellando pertanto gli effetti della misura. È impossibile creare domanda dal nulla. Le leggi del capitalismo sono determinate da un sistema di produzione di merci, inclusa la forza lavoro. Anche fare appello allo Stato affinché “crei” domanda è utopistico. Il tentativo di “creare” denaro stampandolo, senza che sia sostenuto da una produzione aggiuntiva, non farà che alimentare l’inflazione e ridurre il reddito dei lavoratori. L’unico altro modo per lo Stato di incrementare la spesa è ritagliare una ulteriore fetta del plusvalore attraverso le tasse. Di nuovo, ciò significherà alternativamente tagliare i profitti, fermando gli investimenti dei capitalisti, oppure tassare la classe lavoratrice, che ridurrà i consumi riducendo quindi la domanda. Se lo Stato si indebita (spesa in deficit) dovrà ripagare con gli interessi. Alla fine dei conti queste soluzioni non fanno che intensificare i problemi del capitalismo. È una situazione da “Comma 22”.
“Tutto il meccanismo del modo di produzione capitalista si arresta sotto la pressione delle forze produttive che esso stesso produce – afferma Engels –. Esso non riesce più a trasformare in capitale tutta questa massa di mezzi di produzione: essi giacciono inoperosi, e, precisamente per questa stessa ragione, anche l’esercito industriale di riserva è costretto a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili, tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale esistono in sovrabbondanza. Ma ‘la sovrabbondanza diventa fonte di penuria’ (Fourier), perché è precisamente essa che ostacola la trasformazione dei mezzi di produzione e di sussistenza in capitale.” (24)
Verso la fine della sua vita, Engels ritornò ancora una volta di più sulla contraddizione fondamentale del capitalismo nella sua introduzione del 1891 a Lavoro salariato e capitale di Marx. Avrebbe potuta essere scritta per descrivere la situazione nel mondo di oggi. Lasciamogli quindi l’ultima parola sull’argomento della crisi:
“Ma questa successione sempre più rapida di invenzioni e di scoperte, questo rendimento del lavoro umano che aumenta di giorno in giorno in misura sinora inaudita, fa sorgere infine un conflitto, in cui l’odierna economica capitalistica deve perire. Da un lato ricchezze incommensurabili e una sovrabbondanza di prodotti, che i compratori non riescono ad assorbire. Dall’altro lato la grande massa della società proletarizzata, trasformata in salariati, e resa perciò incapace di appropriarsi di quella sovrabbondanza di prodotti. La scissione della società in una piccola classe smisuratamente ricca e in una grande classe di salariati nullatenenti fa sì che questa società soffoca nella sua stessa sovrabbondanza, mentre la grande maggioranza dei suoi membri è appena protetta, e spesso non lo è affatto, dall’estrema indigenza. Questo stato di cose diventa di giorno in giorno più assurdo e più inutile. Esso deve venire eliminato, esso puòvenire eliminato.” (25)
Note
(1) Financial Times, 26 agosto 2011.
(2) Engels, Anti-Dühring, in Opere complete, Editori Riuniti, Vol. XXV, pag. 277.
(3) Karl Marx, Teorie sul plusvalore, vol. III, in Opere complete, Editori Riuniti, vol. XXXVI, pag. 51.
(4) ibidem.
(5) ibidem, pagg. 52-53.
(6) KArl Marx, Il capitale, Libro III, Einaudi 1975, pag. 336.
(7) Teorie sul plusvalore cit., pag. 83.
(8) ibidem, pag. 127.
(9) Karl Marx, Teorie sul plusvalore, vol. II, in Opere complete, Editori Riuniti, vol. XXXV, pag. 584.
(10) KArl Marx, Il capitale cit., Libro II, pag. 86.
(11) KArl Marx, Il capitale cit., Libro III, pag. 667.
(12) Anti-Dühring cit., pag. 277.
(13) Howard e King, A History of Marxian Economics, vol. 1, pag. 17.
(14) Anti-Dühring cit., pag. 265.
(15) Anti-Dühring cit., pag. 264-5. Nell’edizione italiana manca la parola “meno” prima di “energicamente”, un evidente errore che cozza contro il senso della frase (NdT).
(16) ibidem, pag. 265.
(17) Karl Marx, Il capitale cit., Libro I, pag. 553.
(18) Karl Marx, Teorie sul plusvalore cit., vol. III, pag. 34.
(19) Anti-Dühring cit., pag. 275-6.
(20) Introduzione del 1891 a Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, 1977, pag. 26.
(21) Anti-Dühring cit., pag. 272.
(22) ibidem, pag. 277.
(23) Karl Marx, Il capitale cit., Libro II, pag. 502.
(24) Anti-Dühring cit., pag. 266.
(25) Lavoro salariato e capitale cit., pag. 26.