Rivoluzione n°47
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La strage di Genova ha bruscamente posto al centro la questione delle nazionalizzazioni. Dopo decenni in cui si è privatizzato fino all’impossibile e in cui qualsiasi proposta di nazionalizzazione veniva considerata come un’eresia, è un fatto politico dirompente.
In realtà il sentimento popolare da diversi anni ormai è mutato. Dopo lo scoppio della crisi del 2008 abbiamo visto in tutti i paesi come migliaia di miliardi siano stati spesi per salvare il capitale privato dalla rovina. Le banche, le grandi imprese, sono state salvate mentre milioni di lavoratori hanno vissuto la disoccupazione, il calo dei salari, l’impoverimento di massa e un generale degrado delle loro condizioni.
Tuttavia ancora nella scorsa campagna elettorale nessuna delle principali forze politiche parlava di nazionalizzazioni. Anche i 5 Stelle tutt’al più richiamavano l’impegno all’acqua pubblica.
Dopo il crollo del ponte Morandi l’ondata di rabbia e di sdegno si è condensata un messaggio che ormai è incancellabile dalla coscienza di milioni di persone: il capitale privato è in affari solo per il proprio profitto. Non tutela né l’interesse, né la sicurezza o la cosiddetta efficienza in favore della collettività, ma solo i propri profitti.
Per questo la questione di nazionalizzare Autostrade è diventata un terreno centrale nello scontro politico e di classe nel nostro paese.
Lo hanno capito molto bene i padroni nostrani, che hanno subito aperto il fuoco di fila sui loro giornali e tv con la solita raffica di “balle spaziali” che usano impiegare quando sentono minacciati i propri interessi. Veniamo così a scoprire che la nazionalizzazione costerebbe “20 miliardi di euro”, che i “piccoli azionisti” verranno rovinati, che le nazionalizzazioni rovinerebbero il paese.
Per una coincidenza di date niente affatto casuale, negli stessi giorni è riesploso il caso Ilva, col ministro Di Maio che ha accennato alla possibilità di rivedere o annullare la gara che ha assegnato il gruppo al colosso Arcelor-Mittal.
Dato che il Pd è troppo screditato e diviso, a farsi strumento principale della campagna padronale sono la Lega da un lato e dall’altro quei governi regionali di destra nei quali la Lega collabora con Forza Italia. Ecco così che Salvini, dopo un iniziale assenso all’ipotesi, ha innestato la retromarcia – “Io non sono per le nazionalizzazioni, ma per un sano rapporto tra pubblico e privato” – seguito a ruota dal sottosegretario leghista Giorgetti.
Al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, i governatori di Lombardia, Liguria e Veneto si sono espressi contro. Particolarmente duro Giovanni Toti: “Credo che si stia creando un fronte di chi, ricordandosi del passato, sa quali danni hanno prodotto in questo Paese le nazionalizzazioni e vuole trovare soluzioni a problemi che sono giusti, come quello di rivedere le concessioni, quello di rinegoziarle, quello di dare strumenti di controllo superiori al governo e agli enti locali, ma la risposta della nazionalizzazione è sbagliata”.
Sintetizza il presidente di Confindustria: “Il governo vuole nazionalizzare? Va bene, quando scadrà la concessione (cioè nel 2042! – Ndr), ridiscuterà l’accordo. Ma se si fa ora un decreto per nazionalizzare, si crea un elemento di distonia dello Stato di diritto. Ma davvero vogliamo revocare una concessione ancora prima che le responsabilità siano accertate? Così daremmo una sentenza politica prima di quella penale, mettendo in gioco la credibilità dello Stato. Vedo il rischio di una pedagogia formativa negativa”.
Questo fuoco di fila dimostra che lo scontro è di fondo. Proprio per questo i 5 Stelle non sono in grado condurlo fino in fondo con coerenza.
Il punto è semplice: i pentastellati, da Di Maio in giù, sono schiavi della religione della “legalità”, non conoscono altro concetto, non vedono, non capiscono e non intendono che la legge è la legge del capitale e che questo scontro non è un minuetto per avvocati, ma uno scontro di classe che coinvolge gli interessi di milioni di persone. Può essere vinto solo se queste non rimangono spettatrici, ma entrano in prima persona nel conflitto.
Sull’Ilva Di Maio ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato riguardo alla regolarità della gara per la vendita. Risultato: “Non possiamo ancora renderlo pubblico perché altrimenti commetteremmo un illecito”. E Toninelli, intervistato su Autostrade: “Dobbiamo stare attenti perché quelli hanno fior di avvocati”. Imbarazzante.
Su questa strada finirà tutto in una bolla di sapone o, peggio, in una “nazionalizzazione borghese”, ossia in cui lo Stato versa lauti indennizzi ai proprietari, si accolla costi e e problemi per poi rimettere sul mercato un’azienda appetibile. La storia della stessa Ilva, privatizzatata quando rendeva e rinazionalizzata quando è scoppiata la crisi economica e ambientale, deve fare da monito. Per l’11 settembre è convocato lo sciopero di tutto il gruppo Ilva: è un passo importante. Solo l’intervento diretto della classe lavoratrice può dare uno sbocco vittorioso a questo scontro.
L’interesse dei lavoratori e della maggioranza della popolazione secondo noi è chiarissimo: Autostrade e Ilva devono andare in mano pubblica, non si deve dare un euro al grande capitale, siano i Benetton o le banche che ci hanno lucrato sostenendo l’operazione di acquisizione; vanno indennizzati solo quei piccoli azionisti che ne dimostrino la effettiva necessità; queste aziende devono essere gestite da comitati eletti di lavoratori, tecnici, utenti (nel caso di Autostrade) nell’interesse dei bisogni sociali collettivi.
Infine, questo deve essere il primo passo di un programma generale di nazionalizzazioni ed espropri su vasta scala, che inverta il saccheggio fatto nei trent’anni passati e crei le condizioni basilari per un’economia finalmente svincolata dal profitto, dallo sfruttamento, dalla speculazione e posta al servizio dei lavoratori e di tutti gli strati popolari.
31 agosto 2018