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Il sol dell’avvenire – Se il PCI avesse rotto con lo stalinismo…

L’ultimo film di Nanni Moretti è riuscito ad aprire un dibattito sui “se” della storia. Un merito non trascurabile, visto il piagnisteo sul futuro, da un lato, e l’acritica accettazione del passato, dall’altro, di certi intellettuali nostrani. Moretti prova a restituire all’arte uno dei suoi compiti principali: usare l’immaginazione per inventare nuovi mondi possibili e… riscrivere il finale.

Il film mette al centro la rivolta dei giovani e degli operai ungheresi del 1956 contro il regime staliniano, che mina le certezze dei militanti di una sezione del PCI di Roma dell’epoca. I fatti di Ungheria (vedi la nostra analisi Ungheria 1956 – Una rivoluzione politica contro lo stalinismo su Rivoluzione n. 97) mettono in serio dubbio l’infallibilità di Stalin e l’autorità del gruppo dirigente di allora, Togliatti in testa. Al termine del film i militanti della sezione organizzano una protesta sotto la sede nazionale del PCI e la burocrazia del partito si convince della necessità di rompere con l’URSS staliniana: la fine della subordinazione del PCI allo stalinismo significherebbe l’inizio di una nuova era che avrebbe portato al socialismo in Italia.

Nel gioioso corteo finale troneggia un’immagine di Trotskij, rivoluzionario russo che condusse con coerenza una battaglia politica e ideologica contro lo stalinismo per ristabilire le vere tradizioni della Rivoluzione d’Ottobre. Corretta è l’idea che una rivoluzione politica vittoriosa delle masse in Ungheria avrebbe potuto aprire un dibattito sulla natura reazionaria dello stalinismo e sulla possibilità di una nuova stagione rivoluzionaria nei paesi occidentali.

Non siamo però del parere che improvvisamente i dirigenti del PCI avrebbero potuto cambiare linea politica e rompere con lo stalinismo solo sulla base di pressioni dal basso. Per riportare il partito sulla via del marxismo autentico, sia pure sulla base di eventi rivoluzionari come quelli ungheresi, sarebbe servita una lunga lotta politica e ideologica da parte di un’avanguardia per la sostituzione della direzione del PCI di allora con una marxista e rivoluzionaria. Ovviamente non neghiamo la possibilità che un settore della burocrazia avrebbe potuto spostarsi a sinistra, ma una rottura cosciente con lo stalinismo e l’approdo a soluzioni rivoluzionarie potevano avvenire solo su basi teoriche chiare e con una lunga lotta per la conquista della direzione del movimento operaio.

Qualche nostalgico del regime staliniano pensa che se la rivoluzione ungherese avesse trionfato e il PCI avesse rotto con Stalin, si sarebbe accelerato il suo processo di socialdemocratizzazione, come poi avvenne con la caduta del muro di Berlino. È vero il contrario: una rivoluzione proletaria vittoriosa su basi sane, con il suo esempio di democrazia operaia e di socialismo democratico, avrebbe potuto rappresentare un punto di riferimento tanto per le masse occidentali che per quelle russe. Avrebbe aperto la strada non alla “via italiana al socialismo” di Togliatti e dei suoi successori, ma all’internazionalismo proletario, e allora sì che avremmo potuto vivere in quella “utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels che ancora oggi ci rende tanto felici”, come recita Moretti nei titoli di chiusura.

Tuttavia per noi il socialismo non è un’utopia, ma una necessità, e le idee di Trotskij il mezzo per raggiungerlo, restituendo al comunismo una bandiera pulita.

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