Ai lavoratori serve un partito? Note su un intervento di Maurizio Landini
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28 Novembre 2018di Serena Capodicasa
Quando si parla di populismo e di “regimi populisti” il primo continente che viene alla mente come fonte di esempi storici è quello latinoamericano. Il peronismo argentino è senz’altro uno dei più conosciuti e rappresentativi tra i regimi che, nel tentativo di sviluppare il capitalismo nazionale, hanno dovuto scontrarsi con l’imperialismo e appoggiarsi sul movimento operaio e contadino. Non riprenderemo qui la storia del peronismo che abbiamo approfondito altrove,1 analizzeremo invece regimi con caratteristiche simili ma meno conosciuti che si sono sviluppati in altri paesi dell’America Latina (Messico, Brasile, Perù, Bolivia).
L’Apra, alcune questioni teoriche del programma populista
Per evitare di limitarci al piano delle categorie generali e cadere nell’errore di considerare questi fenomeni come specificità prettamente continentali, unica possibile espressione della lotta di liberazione delle masse latinoamericane dall’imperialismo, riteniamo utile entrare nel merito del ruolo giocato dalle idee e dai partiti che si sono proposti come riferimenti di questa lotta.
Nel farlo non possiamo fare a meno di risalire alle origini ideologiche del populismo come tendenza politica che ha teorizzato la necessità di un’impostazione interclassista per la lotta antimperialista, in contrapposizione al ruolo guida che il marxismo riconosce alla classe operaia. Sotto questo aspetto, l’elaborazione di Victor Raul Haya de la Torre ci offre diversi spunti di riflessione. Peruviano, fu fondatore nel 1924 e principale dirigente dell’Apra, Alleanza popolare rivoluzionaria americana, il cui programma si riassumeva nei seguenti cinque punti:
1. contrasto dell’imperialismo yanquee;
2. unità politica dell’America Latina;
3. nazionalizzazione delle terre e delle industrie;
4. internazionalizzazione del canale di Panama;
5. solidarietà con tutti i popoli e le classi oppresse del mondo.2
Cinque punti che racchiudono i tipici obiettivi essenziali di un paese che per perseguire il proprio sviluppo capitalistico indipendente deve scontrarsi necessariamente con l’imperialismo e con gli ingombranti residui di un’economia rurale e latifondista.
La questione che si pone di fronte a questi obiettivi è: quali sono i soggetti che devono realizzare questo programma?
Per Haya de la Torre di tratta dei “lavoratori manuali e intellettuali dell’America Latina, unioni di operai, contadini, indigeni, ecc., con gli studenti, intellettuali di avanguardia, maestri di scuola, ecc.”.3 Quindi un fronte ampio di diverse classi sociali in cui però, si spiega nello scritto El antiimperialismo y el Apra, una sorta di manifesto del partito, c’è una stratificazione e una gerarchia.
Ci sono classi che, pur avendo tutti i motivi per opporsi all’imperialismo, vengono considerate inadeguate a questo scopo. Si denuncia infatti l’assenza di una “borghesia nazionale autonoma e poderosa sufficientemente forte per rimpiazzare le classi latifondiste”.4
D’altra parte “il proletariato è una minoranza, una completa minoranza che costituisce una classe nascente”, mentre “predominano le classi contadine dando una fisionomia feudale o quasi feudale alle nostre collettività nazionali”.5 Non solo, oltre a essere una minoranza numerica, il proletariato in formazione viene considerato “una classe nuova, giovane, debole, affascinata dai vantaggi immediati [offerti dalla penetrazione imperialista nell’economia, Ndt] la cui coscienza collettiva solo in un secondo momento si presenta allo scontro con il rigore implacabile dello sfruttamento sotto il nuovo sistema”.6
L’unica classe a cui “il monopolio che l’imperialismo impone non può evitare la distruzione, il logoramento o la regressione” è la cosiddetta classe media: “Il piccolo capitalista, il piccolo industriale, il piccolo proprietario rurale o urbano, il proprietario di una piccola miniera, il piccolo commerciante, l’intellettuale, l’impiegato, ecc., formano la classe media di cui l’imperialismo attacca gli interessi”.7
Nonostante formalmente l’Apra si dichiari come “interna al marxismo”, nel suo programma non c’è l’ombra di una prospettiva di abbattimento del sistema capitalista; l’obiettivo dichiarato è semmai, come detto, quello di promuovere uno sviluppo capitalistico nazionale indipendente dall’imperialismo e in questo orizzonte la borghesia – nonostante se ne riconoscano i legami a doppio filo con latifondismo e imperialismo – più che come un ostacolo viene considerata un’alleata: “È falso, assolutamente falso che l’Apra pensi di poter prescindere dalla borghesia nella lotta contro l’imperialismo. Si propone, al contrario, di utilizzare a favore della propria causa ogni contrasto che sorga tra il capitalismo nazionale e il capitalismo nordamericano”.8
Una alleanza imposta dalla “questione fondamentale” delle “diverse tappe storiche della lotta di classe e di una valutazione realistica della fase che essa attraversa nei nostri popoli”.9
Alla luce di queste citazioni, più che di un’elaborazione teorica sarebbe meglio parlare di una riedizione in salsa latina, e neanche molto originale, della teoria delle due fasi di menscevica memoria che subordina la lotta anticapitalista al precedente e necessario completamento di una fase di sviluppo capitalistico nazionale.
Appena un decennio prima che il manifesto dell’Apra venisse pubblicato, in realtà l’esperienza della rivoluzione bolscevica aveva dimostrato come solo la classe operaia, benché numericamente minoritaria, potesse assolvere i compiti della rivoluzione borghese e come nel farlo dovesse combattere la resistenza della stessa borghesia espropriandola e uscendo dai limiti dei compiti democratici per sconfinare nel programma della rivoluzione socialista. Nel 1917 l’esperienza aveva così confermato la teoria della rivoluzione permanente di Lev Trotskij che, pur con tutte le specificità, si attagliava a tutti quei paesi in cui l’oppressione imperialista e il ritardo dello sviluppo capitalistico rendevano la borghesia nazionale completamente inutile, anzi ostile, di fronte ai compiti democratico-borghesi.10
Chiamato a prendere posizione sul paragone che naturalmente si imponeva con l’esperienza sovietica, Haya de la Torre rispondeva nel migliore dei casi con argomenti pretestuosi: “La nostra industria è prevalentemente estrattiva. (…) I nostri popoli importano le macchine, il nostro proletariato impara a maneggiarle ma non sa produrle. (…) Quindi come classe non può ancora governare”.11 Arrivando fino a cadere in una visione meschina e dettata da interessi di bottega anziché di quelli delle classi oppresse a livello internazionale: “Il comunismo propugna l’‘agitazione permanente’ tra gli operai delle industrie estrattive per sabotare la produzione e favorire lo sviluppo delle industrie simili in Russia. Lo zucchero, il cotone, il petrolio, ecc. latinoamericani competono con quelli russi nei mercati mondiali. Ostacolare la loro produzione in paesi come il nostro equivale a favorire la produzione russa”.12
Anziché considerare la rivoluzione russa come una fonte di insegnamenti per la rivoluzione in America Latina, tragicamente l’esperienza internazionale che veniva assunta a modello era quella della rivoluzione cinese del 1925-27, dove proprio l’applicazione della teoria delle due fasi da parte del Partito comunista cinese fu alla base del massacro dei lavoratori di Canton da parte del Kuomintang, quel partito “popolare nazionale” a cui l’Apra si ispirava e che, più che un fronte ampio antimperialista, fu portavoce degli interessi della sola borghesia.
L’alleanza con la borghesia cinese nel Kuomintang in nome di una rivoluzione democratica e non socialista fu sponsorizzata dall’Internazionale comunista ormai entrata nel piano inclinato di un processo di degenerazione burocratica sotto Stalin. L’atteggiamento di rivalità nazionalistica da parte dell’Apra nei confronti dei partiti comunisti veniva, paradossalmente e logicamente allo stesso tempo, esacerbato dal fatto che le due correnti politiche partivano da una condivisione di fondo dei compiti prettamente democratici della lotta antimperialista, una rivalità tra chi si contendeva agli occhi della borghesia il ruolo di “fornitore” del sostegno delle masse sfruttate.
L’Internazionale comunista e l’America Latina
La questione del carattere della rivoluzione nei paesi coloniali venne affrontata nel Plenum del Comitato esecutivo (febbraio 1928) e nel VI Congresso (luglio-agosto 1928) dell’Internazionale comunista. Sebbene furono queste le occasioni in cui venne dichiarata la svolta estremista della teoria del Terzo periodo,13 rispetto ai paesi coloniali (Cina, America Latina) veniva rispolverata la formula della “dittatura democratica”14 per dichiarare il carattere borghese della tappa dell’evoluzione storica in corso.
Non tutti i comunisti latinoamericani tuttavia erano concordi su questo punto. Alla Conferenza comunista dell’America Latina, tenutasi a Buenos Aires nel giugno 1929, il peruviano José Carlos Mariátegui presentò delle tesi che affermavano il necessario legame della lotta antimperialista con la rivoluzione socialista: “Per noi l’antimperialismo non costituisce né può costituire di per se stesso un programma politico, un movimento di massa atto a conquistare il potere. L’antimperialismo, anche ammesso che possa mobilitare dalla parte delle masse operaie e contadine la borghesia e la piccola borghesia nazionaliste (possibilità che abbiamo negato definitivamente) non annulla l’antagonismo tra le classi, non sopprime la differenza tra i loro interessi. Né la borghesia, né la piccola borghesia possono attuare una politica antimperialista una volta al potere. (…) La nostra missione è spiegare e dimostrare alle masse che solo la rivoluzione socialista opporrà all’avanzata dell’imperialismo un ostacolo definitivo e reale.”15
Mariátegui giunse autonomamente a queste conclusioni ma non colse che la loro difesa, la difesa di posizioni autenticamente rivoluzionarie, rendeva necessario ingaggiare una battaglia ideologica all’interno dell’Internazionale comunista e lottare contro la sua degenerazione burocratica.
Le stesse concezioni vennero sviluppate dal cubano Julio Antonio Mella il quale, a differenza di Mariátegui, aderì all’Opposizione di sinistra che si stava organizzando attorno alle idee di Trotskij (cosa che molto probabilmente gli costò la vita per mano stalinista, all’inizio del 1929). Nel suo testo di polemica con il succitato manifesto dell’Apra, nel 1928, Mella scrisse: “Nella sua lotta contro l’imperialismo (il ladro straniero), la borghesia (il ladro nazionale) si unisce al proletariato, buona carne da cannone. Però finisce per capire che è meglio allearsi con l’imperialismo, che in fin dei conti persegue interessi simili. Da progressisti diventano reazionari. Le concessioni che fanno al proletariato per mantenerlo dalla propria parte vengono tradite quando questo nel suo avanzare diventa un pericolo tanto per il ladro straniero quanto per quello nazionale.”16
Queste posizioni furono costrette dallo stalinismo a organizzarsi al di fuori dei partiti comunisti ufficiali, nei quali si affermava l’impostazione dei due stadi e quindi una politica di subordinazione alla borghesia.
Le necessità dello sviluppo nazionale di questi paesi si ponevano però in maniera stringente e inevitabilmente, nell’assenza di un riferimento proletario, altri settori sociali finirono per porsi alla testa di questo processo. In molti casi questi emersero dall’esercito, giocando un ruolo di bilanciamento degli antagonismi sociali; in altri, come nel Messico degli anni ’30, fu la parte della borghesia che aveva partecipato alla lotta d’indipendenza che venne spinta su posizioni radicali dalle pressioni dello stesso imperialismo.
Trotskij nel Messico di Cardenas
Avendo trascorso gli ultimi anni della sua vita in Messico, Trotskij ebbe modo di confrontarsi direttamente con il governo di Lazaro Cardenas e di analizzarne il carattere peculiare.
Esponente del Pnr (Partido nacional revolucionario), fondato nel 1929 da dirigenti borghesi della rivoluzione messicana del 1910-17, Cardenas fu presidente tra il 1934 e il 1940 e si distinse per politiche quali la riforma agraria, la nazionalizzazione delle ferrovie e, soprattutto, la nazionalizzazione dell’industria petrolifera all’inizio del 1938 che fu così sottratta al controllo dell’imperialismo britannico.
All’atteggiamento settario di alcuni esponenti messicani della Quarta Internazionale che applicavano rigidamente la teoria della rivoluzione permanente e organizzavano campagne anche contro le misure progressiste del governo Cardenas, Trotskij opponeva un’analisi concreta che riconosceva come in determinati momenti la borghesia nazionale di paesi arretrati e sottoposti alle pressioni dell’imperialismo potesse entrare in conflitto con quest’ultimo. “Siamo nel periodo in cui la borghesia nazionale cerca di ottenere un po’ più di indipendenza rispetto agli imperialisti stranieri. La borghesia nazionale è obbligata a flirtare con gli operai, con i contadini e allora abbiamo l’uomo forte, orientato a sinistra, come oggi in Messico.”17
Si configuravano così “(…) per il potere statale delle condizioni particolari. Il governo oscilla tra il capitale straniero e il capitale indigeno, tra la debole borghesia nazionale e il proletariato relativamente forte. Questo dà al governo un carattere bonapartista di tipo particolare. Si innalza, per così dire, al di sopra delle classi. In realtà, può governare o divenendo strumento del capitale straniero e tenendo incatenato il proletariato con una dittatura poliziesca o manovrando con il proletariato e giungendo persino a fargli delle concessioni, assicurandosi in tal modo la possibilità di una certa libertà nei confronti dei capitalisti stranieri. La politica attuale [del governo messicano] rientra nella seconda categoria.”18
L’esistenza di un governo con queste caratteristiche non contraddiceva la posizione di fondo della teoria della rivoluzione permanente circa l’incapacità della borghesia nazionale di svolgere le funzioni di una rivoluzione democratica ma indicava come le pressioni esercitate da parte dell’imperialismo potessero spingere alcuni settori borghesi in quella direzione, e comunque in determinati momenti. Significativo a questo proposito il paragone che Trotskij fece con Lincoln e la borghesia nordista nella guerra civile negli Stati Uniti: “In realtà il compito storico dei nordisti consisteva nello spianare la strada allo sviluppo democratico indipendente della società borghese. Proprio questo compito viene svolto in questa fase dal governo messicano” (enfasi nostra).19
Si poneva dunque la questione di quale dovesse essere la posizione dei marxisti: Trotskij parlava di un “pieno sostegno rivoluzionario, conservando interamente la piena indipendenza della nostra organizzazione”20 nei confronti del Partito di Cardenas così come di altri partiti con le stesse caratteristiche a livello internazionale, l’Apra e il Kuomintang, che venivano definiti dei “fronti popolari sotto forma di partito”; nulla a che vedere quindi con la politica di subordinazione, fino alla fusione (come avvenne in Cina), o comunque di appoggio acritico portata avanti dai partiti comunisti latinoamericani in ottemperanza alla linea della Terza Internazionale.
Una caratteristica del regime di Cardenas che merita di essere citata perché comune ad altri governi di stampo populista fu la tendenza ad assimilare i sindacati nell’apparato statale, una tendenza che in realtà Trotskij individuava in tutti i regimi borghesi nell’epoca di declino dell’imperialismo,21 ma che assumeva un carattere particolarmente acuto in questo tipo di regimi. Non a caso sia Peron che, come vedremo, il brasiliano Getulio Vargas, vedevano come fonte di ispirazione il modello corporativistico dei sindacati fascisti italiani. Non è un punto secondario, perché mentre esponenti stalinisti come Lombardo Toledano in Messico erano pienamente addentro a questa burocrazia integrata nel regime che cercava di impedire ogni forma di iniziativa indipendente da parte dei lavoratori, Trotskij combinava l’appoggio alle misure antimperialiste del governo alla rivendicazione del controllo operaio e della democrazia nel movimento sindacale.
Il getulismo in Brasile
Il regime che Getulio Vargas instaurò in Brasile tra il 1930 e il 1945 (anche se i governi successivi mantennero una continuità con le sue politiche fino al colpo di Stato del 1964) incarnò le caratteristiche più “classiche” di un populismo che si impose d’autorità, innalzandosi come arbitro supremo non solo degli antagonismi di classe ma anche di quelli interni all’oligarchia divisa tra i “signori del caffè” e quelli degli allevamenti. Questi vennero spodestati dal potere politico con la cosiddetta “rivoluzione” del 1930, a cui seguì sette anni dopo una svolta in senso autoritario con la nascita dell’“Estado novo” di aperte simpatie nazifasciste, almeno in una prima fase.
Il programma di Vargas mirava a promuovere l’industrializzazione del paese per superarne la dipendenza dall’esportazione di materie prime agroalimentari, tutto ciò attraverso nazionalizzazioni, costruzione di nuove industrie statali, restrizioni alle compagnie esportatrici di materie prime, misure di protezione dei prodotti nazionali e dazi alle importazioni. Alla fine degli anni ’30 la produzione industriale nazionale era aumentata del 60% rispetto al 1929.22
Tuttavia tutto ciò non fu sufficiente a garantire una totale indipendenza dall’imperialismo: se secondo alcune fonti tra il 1930 e il 1940 non ci furono investimenti stranieri nello sviluppo industriale del paese, la costruzione degli stabilimenti della Compagnia siderurgica nazionale a Volta Redonda nel 1943 dovette avvalersi di finanziamenti da parte della Export-Import Bank e dell’assunzione di personale statunitense; non a caso il Brasile ruppe i rapporti con l’Asse nazifascista ed entrò in guerra a fianco degli Usa.
Parallelamente a queste misure – e grazie ai margini garantiti dai loro risultati – venivano implementate politiche di concessioni ai lavoratori attraverso una legislazione sociale (assistenza medica, sistema pensionistico) e salariale, ma allo stesso tempo veniva neutralizzata qualsiasi possibilità di iniziativa indipendente istituendo dei sindacati corporativi, organizzati dallo stesso Ministero del lavoro e concepiti come “validi elementi di collaborazione nel meccanismo dirigente dello Stato”.23 Con la fondazione nel 1945 del Partido trabahlista anche all’organizzazione politica del proletariato veniva data un’espressione di regime: “Il Partido trabahlista brasileiro è l’arma politica del proletariato. Siamo sicuri che la lotta che oggi conduciamo non sarà inutile perché l’influenza decisiva del processo rivoluzionario in corso è già penetrata nello spirito della nostra gente configurando un sistema di uguaglianza sociale. In futuro la società brasiliana non sarà più divisa tra ricchi e poveri, potenti e umili. Sarà un popolo unito dalla comprensione, dal senso della realtà per la felicità comune. Il primo maggio dovrà essere, quindi, la data della fraternizzazione di tutte le classi ed esaltare lo sforzo collettivo.”24
Il contraltare di questa demagogia da “fine della lotta di classe” era ovviamente la repressione poliziesca, diretta in particolare contro i comunisti.
Mancando della comprensione e della fiducia nel ruolo delle masse proletarie, lo stalinismo finì con oscillare tra il tentativo putschista di opporsi al regime (appoggiando un fallito golpe militare nel 1935) e l’appoggio al nazionalismo: “Nella sua fase attuale la rivoluzione brasiliana è antimperialista e antifeudale, nazionale e democratica.”25
Non solo, la partecipazione dell’Urss alla Seconda guerra mondiale in appoggio alle “democrazie” contro il fascismo in America Latina si traduceva in vera e propria subordinazione all’imperialismo “democratico”.
Vale la pena riportare questa citazione di un’intervista di Trotskij del 1938 per avere un punto di vista marxista sul regime di Vargas e sul ruolo dello stalinismo in America latina:
“In Brasile vige oggi un regime semifascista che ogni rivoluzionario non può che considerare con odio. Assumiamo, tuttavia, che domani l’Inghilterra entri in un conflitto militare con il Brasile. Vi chiedo: da quale parte si troverà la classe lavoratrice? Vi rispondo personalmente: in questo caso sarei dalla parte del Brasile ‘fascista’ contro la Gran Bretagna ‘democratica’. Perché? Perché il conflitto tra i due non sarebbe una questione di democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse, metterebbe un altro fascista a Rio de Janeiro e metterebbe il Brasile in doppie catene. Se al contrario vincesse il Brasile, ciò darebbe un potente impulso per la coscienza nazionale e democratica del paese e porterebbe al rovesciamento della dittatura di Vargas. La sconfitta dell’Inghilterra darebbe allo stesso tempo un impulso al movimento rivoluzionario del proletariato britannico. A dire la verità, bisognerebbe essere delle teste vuote a ridurre gli antagonismi mondiali e i conflitti militari alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna saper distinguere sfruttatori, schiavisti e rapinatori dietro qualsiasi maschera! In tutti i paesi latinoamericani i problemi della rivoluzione agraria sono legati indissolubilmente alla lotta antimperialista. Stalin dice a Washington, Londra e Parigi: ‘Riconoscetemi come interlocutore alla pari e vi aiuterò a schiacciare i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nelle semicolonie; a questo scopo ho al mio servizio decine di agenti come Lombardo Toledano’. Lo stalinismo è diventato la lebbra dei movimenti di liberazione.”26
Il Perù di Velasco Alvarado
L’aprismo di Haya de la Torre, che in Perù era incarnato dal Partito aprista peruano (Pap), fu costretto alla clandestinità fin dai suoi albori. La borghesia peruviana preferiva governare attraverso governi reazionari (Cerro, Odrìa) e non poteva tollerare un movimento che anche solo lontanamente riflettesse le aspirazioni di liberazione delle masse proletarie e contadine, come mostrò la violenta repressione della città di Trujillo insorta nel 1932 contro l’arresto di Haya de la Torre. Tuttavia, anziché promuovere l’azione delle masse, la traiettoria dell’aprismo fu sempre rivolta a destra, abbandonando persino le parole d’ordine contro l’imperialismo yanquee. Nel 1938 Haya de la Torre arrivava a definire gli Stati Uniti “garanti della libertà” contro la minaccia fascista.27 L’inconsistenza dell’Apra si manifestò negli anni nel sostegno ai governi borghesi di Bustamante (1945-’48) e Prado (1956-’63) legati a doppio filo agli interessi imperialisti e oligarchici e quindi totalmente incapaci di rispondere alle esigenze sempre più stringenti delle masse, in particolare di quelle contadine che cominciavano a mobilitarsi per ottenere una riforma agraria. Alla fine fu il colpo di Stato militare guidato il 3 ottobre 1968 dal generale Velasco Alvarado a farsi carico di un programma di sviluppo nazionale, dopo che il governo Belaunde chiuse un contratto per lo sfruttamento del petrolio nazionale di cui dovette tenere nascosta l’ultima pagina per la spudoratezza dei vantaggi concessi all’imperialismo. L’esproprio dell’industria petrolifera coincise con la presa del potere da parte dei militari. Nel giugno del 1969 fu la volta di una riforma agraria che espropriava – seppur a fronte di indennizzi –, e suddivideva i grandi latifondi istituendo cooperative a guida statale che gestivano gli appezzamenti così creati.
Velasco Alvarado definiva il suo un “governo rivoluzionario” richiamandosi alla Rivoluzione francese e giustificava la concentrazione del potere nelle mani dei militari in un sistema antidemocratico con il fatto che il “gioco politico decadente” del sistema parlamentare aveva “beneficiato solo i settori privilegiati del paese”.28 Si trattava dunque di una “rivoluzione” in cui le masse non avrebbero dovuto giocare alcun ruolo indipendente, tanto meno il movimento operaio organizzato che infatti si cercò di neutralizzare con la creazione della Ctrp (Confederazione dei lavoratori della rivoluzione peruviana), una centrale sindacale completamente integrata nel regime.
Il governo Alvarado mantenne un margine di concessioni agli interessi imperialisti, ad esempio con la possibilità di sfruttare i giacimenti petroliferi nelle regioni amazzoniche o avvalendosi della consulenza di una compagnia francese per la riorganizzazione delle ferrovie nazionalizzate. Il caso delle ferrovie è particolarmente significativo perché il piano di sviluppo delle rete si basava su prestiti internazionali che contribuirono a far aumentare negli anni del governo Alvarado il debito pubblico detenuto da altri paesi da 300 milioni a 15 miliardi di dollari.
Nel giro di poco tempo si venne a ricreare una situazione di fermento sia nelle campagne, dove in diverse regioni i contadini occuparono le terre per impedire che i latifondisti vendessero le proprietà anticipando l’applicazione della riforma agraria, ma anche tra i lavoratori che nel 1973 scatenarono un’ondata di scioperi. Coerente con la teoria dei due stadi, il Partito comunista non solo sostenne acriticamente il governo militare come legittimo fautore dello stadio dello sviluppo borghese, ma arrivò ad attaccare i lavoratori in sciopero e ad espellere i dirigenti del sindacato dei minatori che si rifiutavano di intervenire per fermare gli scioperi.
Tale era la vocazione del partito a ostacolare l’azione indipendente dei lavoratori contro il governo, che il suo progetto era far confluire la Cgtp (Confederazione generale dei lavoratori del Perù), fondata da Mariátegui e che si era ricostituita nel 1968, nella Ctrp sotto il controllo statale. Un progetto che tuttavia venne impedito dalla resistenza stessa dei lavoratori, molti furono infatti i settori sindacali (insegnanti, minatori, birrai, vetrai, ecc.) che ruppero con l’apparato stalinista cercando di mantenere un’azione indipendente contro il governo.
In questa situazione di ingovernabilità del movimento operaio il tentativo di Velasco Alvarado di appoggiarsi sulle masse controllandole al tempo stesso si era rivelato vano e questo fallimento fu alla base del colpo di Stato del 1975 da parte del Ministro delle finanze Morales Bermudez che, pur dichiarandosi in continuità col programma del governo destituito, passò a una politica di scontro aperto e di repressione del movimento operaio.
Quanto all’aprismo, la sua parabola politica si compì con l’ottantreenne Haya de la Torre presidente nel 1978 di un’Assemblea costituente di regime, voluta da Morales Bermudez ed eletta con un sistema che escludeva tre milioni di contadini analfabeti.
La rivoluzione boliviana del 1952
La Bolivia all’inizio dello scorso secolo condivideva con tutti gli altri paesi del continente il problema storico dell’incapacità cronica della propria borghesia di modernizzare il paese, e la succube dipendenza dall’economia latifondista e dalle esportazioni di materie prime estratte nelle miniere. E anche qui lo stalinismo fu coerente con se stesso: fondato sotto l’egida di Mosca nel 1940, il Pir (Partido de la Izquierda revolucionaria), con la politica dell’appoggio alla democrazia contro il fascismo, arrivò a collaborare direttamente con l’oligarchia e l’ambasciata statunitense lasciando al Movimiento nacionalista revolucionario (Mnr) tutto lo spazio per portare avanti parole d’ordine di liberazione nazionale a livello di massa.
Oltre a questa formazione, riuscì a conquistare un’enorme autorità nel movimento operaio il Partido obrero revolucionario (Por) che, nato nel 1935 in seno all’Opposizione di sinistra guidata da Trotskij, riuscì a diffondere le posizioni rivoluzionarie basate sulla teoria della rivoluzione permanente al punto da farle assumere dal congresso della federazione sindacale dei minatori del 1946:
“La Bolivia è un paese capitalista arretrato: all’interno della sua economia coesistono diverse fasi di sviluppo e diversi modi di produzione, ma il modo capitalista è qualitativamente dominante. (…) La Bolivia, sebbene sia un paese arretrato, non è che un anello nella catena capitalista. Le sue stesse peculiarità nazionali sono una combinazione delle caratteristiche essenziali dell’economia mondiale. (…) Ciò che caratterizza il proletariato è che è l’unica classe che possiede sufficiente forza per raggiungere non solo i suoi scopi ma anche quelli delle altre classi. Il suo enorme peso specifico nella vita politica è determinato dalla posizione che occupa nel processo di produzione e non dalla sua debolezza numerica. (…) Il proletariato dei paesi arretrati è obbligato a combinare la lotta per i compiti democratico borghesi con la lotta per le rivendicazioni socialiste. Questi due stadi – democratico e socialista – non sono separati nella lotta da stadi storici, l’uno sfocia immediatamente nell’altro.”29
Questi erano i principali partiti nel campo delle masse al momento dell’esplosione rivoluzionaria dell’aprile 1952. La scintilla fu innestata dalla repressione scatenata contro il Mnr dopo che questo fallì in un colpo di Stato atto a ristabilire il risultato delle elezioni del 1951, vinte dal Mnr e annullate dai militari. I dirigenti del Mnr furono costretti a fuggire ma a quel punto entrarono in scena le masse, con i lavoratori che, armi alla mano, si solleva-rono e marciarono su La Paz piegando le forze reazionarie. Il ritorno nel paese del dirigente del Mnr Paz Estenssoro fu accolto dalle masse con grande entusiasmo e grandi aspettative che il suo governo potesse realizzare i due punti essenziali della rivoluzione nazionale: riforma agraria e nazionalizzazione delle miniere. Tuttavia le masse non rimasero in passiva attesa ma cominciarono ad organizzare un potere alternativo: nel fermento della rivoluzione nacque la Central obrera boliviana (Cob) che più che una centrale sindacale assomigliava a un soviet e coordinava le attività di comitati e milizie di operai e contadini. Scrive Guillermo Lora, dirigente storico del Por: “(…) I principali sindacati semplicemente assunsero nelle proprie mani la soluzione di questioni vitali e le autorità, qualora non fossero state rimosse, non avevano altra scelta che sottomettersi alle loro decisioni. (…) Diventando dirigenti della vita quotidiana delle masse, si circondavano di organi di potere legislativo ed esecutivo (avevano il potere di forzare le decisioni) e cominciarono persino ad amministrare la giustizia. L’assemblea del sindacato divenne la legge suprema, l’autorità suprema.”
Questa situazione di dualismo di potere poteva risolversi in due modi: con il passaggio di tutto il potere o alle masse coordinate dalla Cob o alla borghesia tutelata dal Mnr.
Fu la seconda tra queste ipotesi a realizzarsi grazie ad una politica di tergiversazioni e annacquamento del programma da parte di Paz Estenssoro volta a garantirsi il tempo necessario a ristabilire un esercito borghese che potesse sottrarre il potere alle milizie operaie e contadine.
Ad esempio, la nazionalizzazione delle miniere venne realizzata solo nell’ottobre, comunque tutelando l’oligarchia e gli interessi delle compagnie statunitensi rassicurate da laute concessioni e indennizzi.
Questo processo di svuotamento e procrastinamento del programma non fu combattuto in alcun modo dai dirigenti della Cob, ma neanche del Por che, anziché rivendicare la presa del potere da parte delle masse come fecero nel 1917 i bolscevichi in Russia contro il governo Kerenskij, si subordinarono al Mnr e si limitarono a comportarsi come consiglieri della sua ala sinistra.
L’arretramento del processo rivoluzionario significò il recupero da parte della reazione che nel 1964 rovesciò il governo con il golpe di Barrientos.
Ancora una volta la mancanza di una direzione capace di legare le necessità di sviluppo e modernizzazione del paese a un programma rivoluzionario che ne sottraesse le leve politiche ed economiche alla borghesia fu il fattore decisivo nel fallimento delle aspirazioni delle masse.
Da tutti gli esempi analizzati in questo articolo lo stalinismo spicca per il suo ruolo di stampella della borghesia e dell’imperialismo. La rivoluzione boliviana del 1952 mostrò come, pur partendo da idee corrette, il Por non fu in grado di applicarle fino in fondo ponendosi alla guida della coraggiosa iniziativa delle masse.
L’affermazione delle idee e delle organizzazioni populiste in questi paesi fu dunque il risultato di questi errori, e da queste esperienze dobbiamo trarre le lezioni che ancora oggi sono preziose per costruire un’alternativa di classe autenticamente rivoluzionaria a livello internazionale.
Note
1. Si veda: Alessandro Giardiello, Populismo e guerriglia: particolarità storiche della rivoluzione latinoamericana (https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/storia-delle-rivoluzioni/101-populismo-e-guerriglia-particolarita-storiche-della-rivoluzione-latinoamericana).
2. Victor Raul Haya de la Torre, El antiimperialismo y el Apra, Fondo Editorial del Congreso del Perù, p. 97-98, disponibile su: https://www.marxists.org/espanol/haya/1930s/antimperialismo/el-antimperialismo-y-el-apra.pdf.
3. ibidem, p. 105
4. ibidem, p. 114
5. ibidem, p. 118
6. ibidem, p. 126
7. ibidem, p. 127-28
8. ibidem, p. 161
9. ibidem, p. 183
10. Per un approfondimento sulla teoria della rivoluzione permanente si veda: Serena Capodicasa, Rivoluzione permanente, teoria generale e peculiarità, pubblicato sul n. 4 di questa rivista e disponibile su https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/le-internazionali-operaie/310-rivoluzione-permanente-teoria-generale-e-peculiarita.
11. Victor Raul Haya de la Torre, Aprismo y comunismo, https://www.marxists.org/espanol/haya/1930s/1932comu.htm.
12. ibidem
13. Dichiarando cominciato il “terzo periodo” l’Internazionale comunista intendeva che era finita la fase della stabilità del capitalismo aprendo la strada alla fase del crollo definitivo del sistema a livello mondiale. Allo stesso tempo la socialdemocrazia si era trasformata in “socialfascismo”.
14. Nel 1917 la formula della “dittatura democratica dei proletari e dei contadini” era usata dai bolscevichi – prima che Lenin ne correggesse la linea con le Tesi di aprile – per indicare un governo rivoluzionario guidato da proletari e contadini ma che si sarebbe dovuto limitare ai compiti della rivoluzione borghese.
15. José C. Mariátegui, Punto de vista antiimperialista, Tesis presentada a la I Conferencia Comunista Latinoamericana, in Leon Trotskij, Escritos Latinoamericanos, Tercera edicion, Buenos Airese, 2007, p. 356-357.
16. Julio A. Mella, ¿Qué es el Arpa [Apra]?, in Leon Trotskij, Escritos Latinoamericanos, Tercera edicion, Buenos Aires, 2007, p. 333.
17. Lev Trotskij, Discussione sull’America Latina, in Lev Trotskij, Opere scelte vol. 9 “La Quarta Internazionale: il programma di transizione, Prospettiva Edizioni, Roma, 1997, p. 207.
18. Leon Trotskij, Nationalized Industry and Workers’ Management (May 12, 1939), in Writings of Leon Trotskij 1938-39, Pathfinder Press Inc., New York, 1974, p. 326.
19. Leon Trotskij, Mexico and British Imperialism (June 5, 1938), in Writings of Leon Trotskij 1937-39, Pathfinder Press Inc., New York, 1976, p. 359.
20. Lev Trotskij, Discussione sull’America Latina, in Lev Trotskij, Opere scelte vol. 9 “La Quarta Internazionale: il programma di transizione, Prospettiva Edizioni, Roma, 1997, p. 207.
21. Si veda: Lev Trotskij, I sindacati nell’epoca di declino dell’imperialismo, https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/classici-del-marxismo/289-i-sindacati-nell-epoca-di-declino-dell-imperialismo.
22. Mireya Sosa de Léon, Populismo y “getulismo” en el Brasil de Getulio Vargas 1930-’45/1950-54, Tierra Firme, vol. 22/88, octubre 2004.
23. cit. in Octavio Ianni, La fine del populismo in Brasile, Il saggiatore, Milano, 1974, p. 120.
24. ibidem, p. 121
25. Risoluzione politica della Convenzione nazionale dei comunisti, Rio, 1961, pp. 15-16, cit. in Octavio Ianni, La fine del populismo in Brasile, Il saggiatore, Milano, 1974, p. 132.
26. Leon Trotskij, Anti-imperialist struggle is key to liberation (September 23, 1938), in Writings of Leon Trotskij 1938-39, Pathfinder Press Inc., New York, 1974, p. 34.
27. cit. in Ricardo Melgar Bao, Redes e imaginario del exilio en México y América Latina: 1934-1940, LibrosEnRed, 2003, p. 152.
28. Juan Velasco Alvarado, Mensaje a la nación en el primer aniversario de la revolución, https://www.marxists.org/espanol/velasco/1969/octubre/03.htm.
29. Tesi del congresso della federazione sindacale dei minatori boliviani del 1946, cit. in Jorge Martin, A 60 años de la revolución boliviana – ¿qué lecciones extraer?, http://www.luchadeclases.org.bo/teoria/historia/454-a-60-anos-de-la-revolucion-boliviana-ique-lecciones-extraer.html.
Le traduzioni delle citazioni dei testi in lingua originale sono a cura dell’autrice.