Lotte operaie e Resistenza, fra guerra e rivoluzione
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6 Maggio 2024di Davide Fiorini
Il 1° marzo 1944 gli operai delle principali fabbriche del Nord-Italia incrociano le braccia ed escono quasi simultaneamente dai propri stabilimenti. Inizia così quello che diventerà il più grande sciopero generale mai organizzato in Europa durante la guerra.
L’esperienza di quello sciopero, cruciale per le sorti della lotta antifascista, è per i comunisti oggi un’enorme fonte di ispirazione ma anche e soprattutto di riflessione politica sulle potenzialità e gli errori di quella “rivoluzione mancata” che fu la Resistenza partigiana.
Crisi, guerra e conflittualità operaia
Mentre un settore significativo di borghesia industriale aveva beneficiato delle commesse militari, gli effetti della guerra sul tenore di vita della classe operaia furono devastanti. Alla distruzione dei bombardamenti e alla disarticolazione produttiva seguita alla mobilitazione bellica, si aggiunsero presto l’aumento dello sfruttamento e il calo del tenore di vita dovuto ad una contrazione generalizzata dei salari, unita a un’ondata di inflazione. Nemmeno la demoralizzazione e la disorganizzazione seguite alla sconfitta storica del movimento operaio di vent’anni prima, con la presa del potere dei fascisti, potevano però allontanare per sempre lo spettro della lotta di classe, che cresceva nella coscienza di centinaia di migliaia di lavoratori, alimentato dalle condizioni intollerabili di vita e lavoro a cui erano costretti.
Gli scioperi del 1943 e la crisi del regime
L’inverno tra il 1942 e il 1943 fu dal punto di vista della lotta di classe un vero e proprio spartiacque. Alle espressioni disorganizzate di malcontento operaio che spesso prendevano la forma di atti individuali o localizzati di insubordinazione, succedettero vere e proprie vertenze legate al carovita che dimostravano come il “processo molecolare della rivoluzione” stesse non solo avanzando, ma avvicinandosi al punto di rottura.
Questo arrivò nel marzo del 1943, quando la vertenza dell’officina 19 della Fiat Mirafiori fu la scintilla per un movimento di insubordinazione operaia che nel giro di pochi giorni si allargò spontaneamente a decine di officine piemontesi e lombarde, coinvolgendo circa 100mila lavoratori.
La diga si era definitivamente rotta. Per quanto la fiammata durò il tempo di pochi giorni, il significato politico di questa ondata di scioperi non deve essere sottostimato. Immediatamente dopo gli scioperi si aprì, infatti, per la prima volta una crepa ai vertici del regime. Un settore della borghesia industriale, spalleggiato dai vertici dell’esercito e dalla monarchia, capì che era arrivato il momento di dismettere la camicia nera, pena la possibilità che l’insubordinazione operaia, radicalizzata dalla lotta antifascista e dal contesto internazionale di avanzamento della resistenza sovietica e jugoslava, potesse a breve trasformarsi in una vera e propria ondata rivoluzionaria che avrebbe messo in discussione non solo il dominio politico del fascismo, ma anche quello sociale ed economico del grande capitale.
Radicalizzazione e riorganizzazione
L’occupazione tedesca del Nord Italia, seguita alla caduta del regime fascista, poneva la questione di classe in termini aperti. Se lo sfruttamento, la crisi e la guerra continuavano, con tutto ciò che questo comportava per la vita di milioni di proletari, la colpa non poteva essere solamente del fascismo come regime politico, ma investiva appieno il capitalismo italiano, che aveva scelto di appoggiarsi alle baionette naziste per mantenere la pace sociale nelle fabbriche. Si ponevano, quindi, le basi materiali per una rapida radicalizzazione politica della conflittualità operaia.
Gli scioperi infatti ripresero, ma questa volta la spinta spontanea dal basso, laddove non incontrava strutture organizzate già esistenti, le costruiva o riconvertiva ai propri interessi quelle esistenti, come ad esempio le Commissioni interne di fabbrica. Si svilupparono così strutture proto-sindacali, comitati clandestini e nuovi nuclei di operai organizzati. La tradizione del comunismo italiano, che il fascismo aveva creduto di poter cancellare, ritornò alla superficie come i mille rivoli di un fiume carsico, orientandosi non solamente verso il partito esistente ma in taluni casi favorendo la nascita di organizzazioni alternative ed esterne al PCI di Togliatti: la Frazione di Sinistra dei Comunisti e Socialisti Italiani al Sud, Bandiera Rossa a Roma, Stella Rossa a Torino, per citarne solo alcune.
Contemporaneamente, nascevano le prime formazioni partigiane, alimentate non solamente dalla diserzione e dalla renitenza alla leva, ma da una precisa politica militare del PCI.
Sviluppo e riflusso
I primi di marzo del ’44 furono, per dirla con Lenin, di quei “giorni in cui accadono decenni”. Dopo settimane di agitazione e riunioni clandestine, il Comitato segreto d’agitazione di Piemonte, Lombardia e Liguria, formazione promossa dal PCI e dal PSIUP, pubblicò il manifesto per la convocazione di uno sciopero generale. Fu un fiammifero lanciato in una polveriera.
Alle 10 del 1° marzo, anniversario degli scioperi del ’43, incrociarono le braccia 300mila lavoratori milanesi e 50mila torinesi. La propagazione dello sciopero nelle ore e giorni successivi fu rapida e interessò tutti i centri principali del Nord-Italia. In quella che possiamo definire come la settimana cruciale per le sorti della Resistenza, si stima scesero in lotta tra i 500mila e il milione di operai dalla Toscana al Veneto.
Scioperare in regime di occupazione militare significava però porre immediatamente il problema dell’armamento della classe operaia per l’autodifesa contro la repressione nazi-fascista. Esistevano tutte le premesse per uno sciopero dal carattere insurrezionale, ma solamente a patto di saldare questa imponente forza con le formazioni partigiane che operavano nelle campagne e in montagna. Questo sarebbe stato possibile riconoscendo alla classe operaia il ruolo di direzione della mobilitazione con i propri metodi e sulla base dei propri interessi come classe. Significava trasformare i comitati clandestini di agitazione in embrioni di consigli operai, attraverso i quali la classe lavoratrice avrebbe potuto dirigere lo sciopero, i distaccamenti di operai armati, gestire la produzione e in prospettiva il potere politico. Non era niente di molto diverso da ciò che i lavoratori del Nord-Italia avevano fatto vent’anni prima durante il Biennio Rosso, questa volta sulla base di una mobilitazione più estesa e con la possibilità immediata di armamento su scala più larga.
Per giorni gli scioperanti attesero speranzosi l’intervento delle formazioni partigiane, supportati in questo dalla propaganda che il PCI aveva diffuso prima della convocazione dello sciopero, tanto che “a Milano si è sparsa la voce che ci sono 300.000 partigiani pronti ad entrare in azione” (P. Spriano, Storia del PCI, vol. 2, 1975, p. 262). Un’esagerazione che spiega bene lo stato d’animo delle masse, ma anche la demoralizzazione che seguì al mancato intervento dei partigiani e che portò in pochi giorni il movimento a cedere alla serrata padronale e a rinunciare a presidiare le fabbriche. L’8 marzo la mobilitazione rientrò quasi dappertutto, lasciando ai nazifascisti campo libero per una repressione su larga scala e per la deportazione massiccia di lavoratori italiani nei campi di lavoro in Germania.
I limiti della direzione
A differenza degli scioperi di un anno prima, quello del 1944 fu uno sciopero organizzato e preparato. Anche questa volta il ruolo del PCI fu decisivo, anche se possiamo dire che la sua capacità organizzativa nei mesi precedenti è direttamente proporzionale ai suoi errori nelle settimane decisive. Si trattò, però, di una precisa scelta politica. La politica seguita dal PCI nei mesi precedenti aveva infatti concentrato le forze del partito sul piano esclusivamente militare, spesso sguarnendo le fabbriche dei migliori elementi politici per spostarli nelle formazioni partigiane. “Mancano quadri intermedi e si è depauperato l’elemento dirigente facendo partire da Torino i migliori compagni e dando al lavoro militare il resto”, lamentava Arturo Colombi in un rapporto inviato alla direzione del PCI. Ma, come abbiamo visto, la prospettiva militare del PCI era estranea alla politica di armamento del proletariato, e questo fu evidente nel momento decisivo del marzo ’44.
La stessa scelta di promuovere gruppi di azione patriottica e formazioni intitolate a Garibaldi spiega che il PCI si muoveva dentro ad una strategia neo-risorgimentale, nella quale la lotta antifascista veniva presentata come una lotta di pura liberazione nazionale dalle forze straniere, da raggiungere attraverso l’unità con gli altri partiti antifascisti raccolti nel CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia).
Lo stesso CLNAI davanti alla mobilitazione, estranea al suo controllo, fu costretto a darvi un appoggio passivo ed esterno, nell’attesa che un suo riflusso rimettesse di nuovo la situazione su binari più compatibili con i suoi progetti politici. Non è infatti un segreto che, presagendo la caduta del nazi-fascismo, un settore di borghesia del nord aveva iniziato a finanziare clandestinamente alcuni dei partiti del CLNAI, in particolare la Democrazia Cristiana, a cui affidavano le proprie sorti nella speranza di prevenire un movimento rivoluzionario su larga scala che avrebbe potuto presto saldarsi anche con le forze partigiane che avanzavano dall’Est Europa.
Ma è proprio tenendo conto di questi limiti che la forza dirompente dello sciopero generale antifascista del ’44 emerge in tutta la sua importanza, segnando l’ingresso definitivo della classe operaia organizzata sulla scena della Resistenza italiana ed europea. Nessuno d’ora in poi, dal regime di occupazione al governo Badoglio, da Churchill a Stalin passando ovviamente per la direzione del PCI, avrebbe più potuto ignorare il peso decisivo del proletariato italiano nelle prospettive per i mesi successivi.
Il tradimento dello stalinismo
Mentre lo sciopero imperversava, la notte del 3 marzo Stalin riceveva nel suo ufficio di Mosca il segretario del PCI Palmiro Togliatti, che di lì a poco sarebbe rientrato in Italia. Lo scopo era smussare l’atteggiamento del PCI nei confronti degli altri partiti democratici e favorire la nascita di un governo unitario nel Sud Italia. Si preparava, a migliaia di chilometri di distanza dal centro della battaglia, quella che sarà conosciuta come la “Svolta di Salerno”, che sancì l’ingresso del PCI nel governo Badoglio di unità nazionale nell’aprile del ’44. Il riflusso di quello sciopero era la garanzia della rispettabilità necessaria per chiudere l’accordo.
Si trattava del primo tassello di quel nuovo equilibrio internazionale che Stalin avrebbe definitivamente concertato a Yalta l’anno successivo assieme a Churchill e Roosevelt. La burocrazia al potere in Unione Sovietica, quella “patria del socialismo” a cui centinaia di migliaia di operai italiani guardavano con speranza e ammirazione tali da orientarli saldamente verso il PCI, aveva scelto di sacrificare le sorti della rivoluzione mondiale ai propri interessi diplomatici. Lo scioglimento dell’Internazionale Comunista (15 maggio 1943) sanciva questa svolta, disarmava definitivamente il proletariato mondiale di quello che era stato il suo partito internazionale e alimentava le spinte centrifughe dei partiti nazionali, che diventavano esecutori di una politica da attuarsi, secondo la teoria stalinista delle due fasi, in accordo con la propria borghesia nazionale. La Resistenza antifascista, fenomeno di portata europea, si richiudeva così entro angusti confini nazionali.
La politica del PCI in Italia non sfuggiva a questo schema, anzi. La prospettiva togliattiana della democrazia progressiva significava esattamente questo: imbrigliare la forza del movimento operaio organizzato in un progetto di ricostruzione del paese su basi capitaliste, in accordo con la classe dominante italiana, o per meglio dire subordinandosi ad essa. Quella che Ted Grant, allora principale teorico della sezione britannica della Quarta Internazionale, definì come una controrivoluzione in forma democratica non avrebbe potuto compiersi senza lo sforzo cosciente del PCI (e del PSI) nel sabotare ogni tentativo indipendente della classe operaia di conquistare la propria liberazione. È questa invece la prospettiva che da comunisti rivoluzionari facciamo nostra oggi, ispirati da quel “sol dell’avvenire” che a ottant’anni di distanza brucia e illumina ancora.