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Il periodo della stagnazione

di Ted Grant

 

La caduta di Kruscev

Il buon raccolto del 1963, arrivò troppo tardi per salvare Kruscev. La burocrazia aveva deciso che le cose erano andate troppo oltre e che la politica del capo metteva tutto il sistema in pericolo. Temendo che si potesse avverare la previsione di Tocqueville e le riforme dall’alto rompessero la diga, la burocrazia reagì proprio come può reagire un’autocrazia spaventata e ordì le trame di una cospirazione per porre fine a quella che riteneva una “irresponsabile avventura riformista”.

Nell’ottobre del 1964 Kruscev fu destituito. Come al solito non fu un congresso ad accogliere le sue dimissioni, né furono date spiegazioni, né si votò; “L’amato capo Nikita Sergejevic” fu rimosso con un golpe organizzato dai suoi più stretti collaboratori. Non c’è gratitudine in politica, tantomeno tra burocrati! Da un giorno all’altro chi era stato esaltato da tutta la stampa comunista mondiale veniva trasformato in una nullità. Senza emettere un bisbiglio, senza fare domande, i dirigenti dei partiti comunisti di tutto il mondo si misero subito in linea. Un comportamento di tale natura era stato a suo tempo stigmatizzato da Maxim Gorkij con una battuta sarcastica:

“Domanda: cosa si fa quando un uomo sta cadendo?

Risposta: gli si dà una spinta.”

La burocrazia sperava che un cambiamento al vertici garantisse tempi migliori. Non appena Leonid Breznev si trovò al potere, immediatamente riversò su Kruscev la responsabilità di tutti gli errori del passato, invertì la rotta rispetto a numerose riforme avviate nel periodo precedente e giunse perfino a nascondere le statistiche del 1964 perché si dimostravano troppo benevole verso Kruscev. Nonostante le aspettative della burocrazia, sotto Breznev la crisi dello stalinismo si intensificò; la crescita economica era sempre più lenta, con medie intorno al 3% o meno. Occorreva prendere nuove iniziative per invertire il progressivo rallentamento.

Per prima cosa Breznev fu costretto ad abbandonare nei fatti l’utopia reazionaria dell’autarchia economica, il “socialismo in un paese solo”. Con un disperato tentativo di stimolare l’economia la burocrazia decise di partecipare al mercato mondiale, una decisione che, sorprendentemente, venne inserita anche nel testo della nuova Costituzione approvata sotto Breznev, elevando così – per la prima volta nella storia – la partecipazione al mercato mondiale al rango di principio costituzionale!

Lenin e Trotskij, che erano stati favorevoli alla partecipazione dell’Unione Sovietica al commercio mondiale, non consideravano questa misura come una panacea, ma solo come un mezzo per dare un po’ di respiro all’economia fino al momento in cui la vittoria dei lavoratori nei paesi capitalisti avanzati fosse giunta a soccorso dell’Urss. Trotskij, commentando la scelta autarchica impressa da Stalin all’Urss, aveva previsto che, in seguito allo sviluppo dell’economia, il paese sarebbe stato costretto ad abbandonare l’autarchia e a partecipare sempre in maggior misura all’economia mondiale, ma proprio per questo motivo le crisi del capitalismo occidentale avrebbero prodotto un impatto maggiore rispetto al passato sull’economia sovietica, anche se gli effetti in termini di caduta della produzione avrebbero dovuto essere marginali. Ben più importanti invece sarebbero state le conseguenze politiche.

Lenin insisteva giustamente sulla necessità di integrare l’economia sovietica il più possibile nell’economia mondiale per trarre il massimo beneficio dalla divisione mondiale del lavoro. La partecipazione ai mercati internazionali avrebbe potuto costituire un rudimentale mezzo di controllo nei confronti della burocrazia irresponsabile. Nell’ambito del sistema capitalista la legge del valore, che opera attraverso il mercato, esercita un certo controllo sulle scelte economiche e sulle forze produttive.

È vero che i grandi monopoli sono in grado di distorcere l’operare del mercato in funzione dei propri interessi: le 500 più grandi società, che attualmente hanno in mano il 90% del commercio mondiale, fanno ampio ricorso alle loro immense scorte strategiche per alimentare movimenti speculativi di fondi, esercitare pressioni politiche e perfino l’aperta corruzione, riuscendo così a sfruttare la classe operaia meglio di quanto sarebbe loro consentito dal “normale” operare della legge del valore. In ultima istanza però, in un regime capitalista, anche questi colossi economici sono costretti a tener conto di tale legge.

Da un punto di vista marxista la partecipazione dell’Unione Sovietica all’economia mondiale era non solo inevitabile, ma anche connotata di aspetti progressisti. Già nelle pagine del Manifesto Comunista Marx ed Engels avevano spiegato che il capitalismo sviluppa l’economia mondiale come un tutto interdipendente e unitario. È impossibile isolare una delle sue parti senza determinare con ciò forti distorsioni. L’esperienza dell’Urss nell’arco di mezzo secolo dimostra questa legge in modo esauriente. Partecipando al mercato mondiale l’economia sovietica avrebbe potuto trarre beneficio dalla divisione mondiale del lavoro e per i suoi scienziati e i suoi tecnici sarebbe stato possibile accedere alle tecnologie e alle idee più moderne. Allo stesso tempo però sarebbe stata costretta a confrontarsi con le economie più avanzate del mondo e, in questo specchio, avrebbe visto riflesse in modo impietoso le sue debolezze.

Il volume totale del commercio estero sovietico alla fine degli anni ’70 raggiunse la cifra di 123 miliardi di dollari. L’aumento, notevole di per sé, era ancora insufficiente se si tiene conto della dimensione dell’economia sovietica. Se teniamo presente che la cifra per l’Olanda (certamente un’economia eccezionalmente aperta) era di 132 miliardi, la sproporzione balza agli occhi. Negli anni ’60 e ’70 il commercio estero dell’Urss aumentò anche in termini relativi rispetto al Pil, passando dal 4 al 9% del Pil, ma l’interscambio commerciale fra i paesi
capitalisti aumentava a un ritmo più accelerato, sottraendo all’Urss parte della sua quota del commercio mondiale, che passò dal 4.3 al 3.8%. La tabella seguente mette a confronto la quota dell’Urss del commercio mondiale con quella dei principali paesi:

 

Percentuale del commercio mondiale – anno 1979

Urss                           3.8                        Giappone                                         6.5

Paesi Bassi                4.1                        Germania Occidentale                 10.1

Italia                          4.6                        Usa                                                 12.3

Gran Bretagna          6.0                        Altri                                                46.2

Francia                      6.4

 

All’interno del blocco economico sovietico era presente un potenziale economico immenso, se fosse stato organizzato in un insieme armoniosamente integrato. Il Comecon raccoglieva oltre 450 milioni di persone e paesi dotati di un’industria sviluppata e di schiere di scienziati e tecnici, con alle spalle immense regioni agricole e libero accesso a risorse minerarie pressoché illimitate.

La popolazione del Comecon superava di 180 milioni la comunità economica europea di allora. Se aggiungiamo a questa area economica le risorse rappresentate dalla Cina, con oltre un miliardo di abitanti, lo sbalorditivo potenziale per lo sviluppo economico è più che evidente. La condizione necessaria perché tale potenziale divenisse realtà era la formazione di una federazione socialista tra l’Urss, l’Europa orientale e la Cina.

Non esistevano impedimenti oggettivi tranne i ristretti interessi nazionali delle varie cricche burocratiche arroccate a difesa delle proprie frontiere contro i vicini “socialisti”. Il dato veramente paradossale della situazione era che il grado di integrazione economica tra i paesi del Comecon era persino minore di quello degli Stati membri della Cee.

Proseguendo sulla rotta della costruzione del “socialismo in un paese solo” si otteneva il risultato paradossale di ostacolare nei fatti il progresso di tutti questi paesi. Invece di mettere in comune le risorse ogni burocrazia nazionale voleva costruire ad ogni costo una propria industria pesante (perfino la piccola Albania) con risultati facilmente prevedibili. La dimostrazione estrema di bancarotta politica di questa prospettiva di “edificazione del socialismo” fu il triste spettacolo dei soldati sovietici e cinesi che si sparavano addosso per il controllo di una frontiera irrazionale definita nel diciannovesimo secolo dallo zar e dall’imperatore cinese.

 

L’Unione Sovietica rimane indietro

Sebbene in termini assoluti l’economia avesse registrato un progresso importante, in termini relativi rimaneva un divario nei confronti dei paesi capitalisti più avanzati, come dimostrano queste cifre:

 

Pil pro capite 1979 (in dollari Usa)

Germania Ovest      11.730                                Germania Est            6.430

USA                          10.630                                Cecoslovacchia         5.290

Francia                       9.950                                Urss                           4.110

Giappone                   8.810                                Ungheria                   3.850

Gran Bretagna           6.320                                Polonia                      3.830

Italia                           5.250                                Bulgaria                     3.690

(Fonte: Banca Mondiale: Rapporto sullo sviluppo mondiale 1981, pag. 135 edizione inglese)

 

Se l’Urss fosse stata in grado di mantenere un tasso medio di crescita del 10% il divario si sarebbe potuto colmare facilmente, ma anche nell’ipotesi che la crescita media fosse stata simile a quella degli ultimi anni settanta (intorno al 3% annuo), sarebbe stato possibile per l’Urss raggiungere entro il 1990 i livelli del 1980 di Cee e Giappone, la qual cosa avrebbe rappresentato comunque un notevole successo e avrebbe permesso di evitare l’incubo che tutti i popoli dell’ex Unione Sovietica hanno dovuto vivere in seguito al crollo dell’Urss. Sarebbe bastato raggiungere il tasso medio di crescita dell’Occidente in quel periodo, un obiettivo raggiungibile, in base al potenziale dell’economia pianificata, essendo in realtà un obiettivo molto al di sotto delle reali possibilità, come dimostrano chiaramente le cifre di crescita degli anni ’50 e ’60. La burocrazia fu incapace di conseguire perfino questo misero obiettivo.

Negli anni ’60 i tassi di crescita erano già in fase calante e con essi il miglioramento delle condizioni di vita. Nel periodo 1951-60, la crescita della produzione industriale superava il 10% e la media del decennio era di circa il 12% per anno. Ma nel 1963 e nel 1964 la crescita non superò l’8%, le cifre d’incremento più basse in tempo di pace dal 1933. Non è un caso che nel maggio del 1961 venne introdotta la pena di morte per una serie di reati economici, misura volta a “stimolare” la produzione. Solo nel 1967 la crescita della produzione industriale raggiunse il 10%, mentre il tasso di crescita annuale medio per il decennio non superò l’8,5%. Il calo della crescita economica non dipendeva dalla mancanza di nuovi investimenti. In un articolo scritto nell’ottobre del 1966, l’economista V. Kudrov rivela quanto essi fossero stati ingenti:

“Complessivamente l’Urss investe il 90% di quanto investono gli Stati Uniti. Riguardo agli investimenti industriali e all’accumulazione complessiva essa ha già raggiunto una superiorità notevole ma, dato che questa superiorità si realizza a partire da un reddito nazionale equivalente al 62% di quello americano, si avverte una certa tensione sull’economia sovietica.

Malgrado questi sforzi, un tale investimento non riuscì a generare risultati soddisfacenti sul fronte della produttività del lavoro:

Durante il Piano settennale sono state messe in funzione oltre un milione di macchine utensili per tagliare il metallo, oltre 200 presse per stampaggio e fucinatura e molte catene di montaggio automatiche e a flusso continuo, ma la loro produttività è, di regola, piuttosto bassa. In generale l’età dei macchinari nell’Urss è più bassa che negli Usa (…) ma si tratta di modelli superati. Di conseguenza, l’Urss sta raggiungendo gli Usa più rapidamente nel volume di capitale investito per lavoratore che nella sua vera produttività.”

Nel campo dell’agricoltura le cose andavano molto peggio:

“La produzione agricola dipende considerevolmente dall’attrezzatura tecnica e dalla produttività del lavoro – proseguiva Kudrov nella sua analisi e concludeva: – A questo riguardo, l’Unione Sovietica è ancora notevolmente indietro rispetto agli Usa. In Urss abbiamo 13,7 trattori per mille ettari di terreno coltivato rispetto a 40,8 negli Usa; per le mietitrebbie la cifra è di 3,9 contro 15,7.”1

A tutti gli altri problemi deve aggiungersi il mostruoso onere della spesa militare, che impegnava circa l’11-13% del Pil sovietico, rispetto all’8% circa degli Usa. Così, una ampia porzione della ricchezza prodotta dalla classe operaia in entrambi i paesi si sperperava producendo armi, il che dal punto di vista strettamente economico è come produrre rottami.

Il declino della crescita dimostrava che l’Urss non poteva isolarsi dal resto del mondo costituendo un’entità autosufficiente. Era il fallimento della teoria del “socialismo in un paese solo”.

Progresso tecnologico

Negli anni ’30, quando l’economia era ancora molto primitiva e i compiti legati alla costruzione dell’industria pesante erano relativamente semplici, il metodo del comando autocratico dall’alto poteva ancora produrre risultati, sebbene a costi tremendi. In seguito proprio i successi economici comportarono l’emergere di un’economia moderna capace di produrre milioni di differenti merci e soggetta a interrelazioni delicate e complesse, rendendo così impossibile il ricorso alla frusta del controllo burocratico in sostituzione di una vera partecipazione delle masse. La mancata soluzione di questa contraddizione portò al caos assoluto.

Le leggi del capitalismo sono diverse da quelle di un’economia nazionalizzata e pianificata. Nel capitalismo, almeno nel passato, il meccanismo del mercato serviva in certa misura a controllare, talvolta brutalmente, le inefficienze. Questo meccanismo però non può più agire in una società in cui tutta l’economia è nelle mani dello Stato. In questo contesto l’unico controllo possibile è quello che devono esercitare le masse lavoratrici in ogni fase della progettazione e dell’applicazione del piano.

Trotskij sosteneva che un’economia pianificata ha bisogno della democrazia come il corpo umano richiede ossigeno. Senza il controllo e la gestione dei lavoratori, senza liberi sindacati e il diritto di discutere e criticare sarebbero emersi inevitabilmente i mali del dominio burocratico: corruzione sfrenata, sprechi e nepotismo. Furti e ruberie si moltiplicarono fino a raggiungere livelli inimmaginabili. L’Unione Sovietica era sterminata come un continente ed era dotata di un ingente numero di imprese. Sotto Stalin tutte le decisioni economiche dalle più importanti alle più insignificanti erano prese da quindici ministeri a Mosca. Anche nel caso ipotetico in cui, per assurdo, queste strutture fossero state gremite di geni, senza il necessario controllo democratico della classe operaia sarebbero stati comunque inevitabili sprechi e malgestioni.

La crisi dell’Urss e dell’Europa orientale non è analoga alla crisi del capitalismo, che è fondamentalmente una crisi di sovrapproduzione (che si può manifestare anche come crisi di sovraccapacità produttiva) inerente al sistema capitalista di produzione. La crisi dello stalinismo è stata una crisi del sistema burocratico di controllo e pianificazione che minava i vantaggi insiti nella stessa economia pianificata.

I limiti della pianificazione burocratica erano stati raggiunti. La continua caduta del tasso di crescita, non solo in Urss ma anche nel resto dell’Europa orientale, non era altro che la manifestazione di questa contraddizione.

 

Tassi di crescita (%)        1950-55          1955-60          1960-65             1965-70

Urss                                      11,3                   9,2                  6,3                      4,0

Cecoslovacchia                      8,0                   7,1                  1,83                    4,0

Polonia                                   8,6                   6,6                  5,9                      6,7

Bulgaria                               12,2                   9,7                  6,5                      4,5

 

La produttività del lavoro era ancora in crescita negli anni ’60 e nei primi anni ’70, ma dal 1975 al 1980 aumentatò in media del 3,4% e nel 1982 solo del 2,5%. I progressi realizzati grazie all’economia statalizzata e pianificata venivano ormai cancellati completamente dalla presa soffocante della burocrazia.

Nel periodo dei primi piani quinquennali l’Urss era diventata una fonte di speranza per milioni di persone nel mondo capitalista; non solo i lavoratori, ma anche i migliori intellettuali venivano attratti dall’Unione Sovietica. Negli anni ’70 non era più così, almeno per quanto riguarda le economie capitaliste avanzate. Il sistema totalitario burocratico, con la sua economia ormai sclerotizzata, non aveva più attrattive agli occhi delle masse dell’Europa Occidentale, dell’America e del Giappone. Come avrebbe potuto essere diversamente, quando l’Urss sviluppava le sue forze produttive a tassi più bassi di quelli del capitalismo?

Negli ultimi anni è divenuto quasi un luogo comune negare che l’Unione Sovietica abbia raggiunto alcunché di valido nel campo della tecnologia. Si tratta di una palese falsificazione; gli scienziati e gli ingegneri formati nell’Unione Sovietica erano altrettanto capaci, se non migliori, di quelli occidentali e i risultati conseguiti erano evidenti non solo nel programma spaziale e militare, ma anche nell’ingegneria, specialmente nell’attuazione di progetti di grande complessità su larga scala. Oltre dieci anni fa il Financial Times (18/2/86) scrisse:

“Lo sviluppo impresso negli ultimi quindici anni alle lande siberiane, desolate e afflitte da un clima terribile, è un risultato ingegneristico che per la sua ampiezza e la sua difficoltà è paragonabile alla costruzione del canale di Panama (nostra sottolineatura).”

Molti altri progetti di analoga importanza furono realizzati nell’Urss, i cui scienziati partorivano uno straordinario numero di scoperte e di invenzioni, un campo in cui l’Urss aveva raggiunto gli Usa ed addirittura superato Giappone, Gran Bretagna e Francia, come testimonia anche il seguente articolo pubblicato da The Guardian:

“L’Unione Sovietica e gli Stati Uniti si disputano testa a testa il primato nel campo dei brevetti innovativi; entrambe ne registrano circa 80.000 l’anno, ben oltre i 50.000 del Giappone e i 10.000 dei francesi o degli inglesi. Ci sono attualmente oltre 20.000 brevetti sovietici impiegati all’estero e il paese ne ricava 100 milioni di dollari l’anno per le licenze. Questa cifra è destinata a crescere rapidamente non appena la nuova generazione di invenzioni sovietiche diverrà disponibile. Solo prendendo in considerazione l’ultimo mese, a quanto pare, è stata ultimata la sperimentazione della prima linea di trasmissione elettrica da 1500 kilowatt, la più potente al mondo.”2

Ma all’enorme potenziale della scienza e della tecnologia sovietica non fu mai permesso di materializzarsi. Come nell’agricoltura dove, sebbene gli investimenti fossero maggiori, non si riusciva a ottenere gli stessi risultati che in Occidente, la burocrazia non riusciva a utilizzare nella produzione le invenzioni e la tecnologia che pure erano a sua disposizione.

A commento di uno studio di 526 pagine redatto nel 1982 da eminenti professori sovietici per analizzare i problemi dell’economia, studiando otto casi di industrie sovietiche in settori quali la chimica, le macchine utensili, il controllo dei processi industriali e l’industria militare, il Morning Star scriveva:

“Essi focalizzano l’attenzione sugli effetti di una pianificazione e di una gestione estremamente rigida di strutture e procedure, sui problemi causati dalla separazione tra scienza e industria, e sulla sua burocratizzazione e frammentazione organizzativa. Parlano di un diffuso conservatorismo e dell’inerzia che porta a considerare l’innovazione più come un problema che come una risorsa, dell’assenza di elementi di competizione, dell’esistenza di un «mercato dei venditori» e della mancanza di rapporti duraturi tra produttori e clienti.”3

Scrivendo sulla Pravda, l’Accademico Vadim Trapeznikov, vicepresidente della Commissione statale per la scienza e la tecnologia, osservò che

“Le fabbriche sovietiche spesso se la cavano meglio continuando a produrre prodotti superati con macchine obsolete piuttosto che installando nuove macchine e lanciando nuovi prodotti. L’innovazione, l’applicazione tempestiva a livello industriale dei nuovi ritrovati della ricerca, è oggi una sfida cruciale di fronte ai pianificatori e ai dirigenti sovietici ed è un tema discusso frequentemente nella stampa sovietica. L’Unione Sovietica ha più scienziati e ingegneri di qualsiasi altro paese al mondo, è all’avanguardia in molti campi della ricerca teorica ed ha al suo attivo progressi in applicazioni pratiche in molti campi. Il livello generale della tecnologia sovietica e il tasso di assorbimento delle nuove scoperte rimane però indietro rispetto ai paesi capitalisti più avanzati, così la maggior parte dei prodotti sovietici non può ancora competere nei mercati dell’esportazione con il meglio che il capitalismo può offrire.”4

Lo stesso poteva essere affermato per altri campi della tecnologia d’avanguardia come la robotica industriale. Nel 1980, il Comecon utilizzava solo il 3,6% del parco mondiale di 14.000 robot industriali, rispetto al 9,3% della Germania occidentale e il 43% del Giappone.

Per colmare il divario il Comecon aveva pianificato l’installazione di non meno di 200.000 robot industriali nel periodo tra il 1985 e il 1990, la metà dei quali in Unione Sovietica.

Inoltre vennero stabiliti programmi per la produzione di massa di microprocessori, micro e macro computer e per lo sviluppo di nuovi campi nell’elettronica, nella robotica, nell’energia atomica e in altre aree di tecnologia innovativa. Non c’era una sola ragione oggettiva per cui queste mete non potessero essere raggiunte, ma questa eventualità si verificò. Nonostante l’enorme numero di scienziati e di tecnici non si riuscì a ottenere gli stessi risultati dell’Occidente. Durante questo periodo, in tutta una serie di campi come l’informatica, il divario tra Est e Ovest continuava a crescere.

Occorre aggiungere che le riforme pro-capitaliste degli ultimi anni, ben lungi dall’aiutare lo sviluppo della scienza e della tecnologia in Russia, hanno avuto effetti rovinosi. Possiamo fare l’esempio del programma spaziale, vero fiore all’occhiello della tecnologia sovietica, campo in cui la superiorità dell’Urss era fuori discussione. Oggi non è più così.

Sebbene il programma Mir, con la stazione spaziale permanente, ancora fornisca un’eloquente testimonianza dei successi del passato, la transizione al capitalismo ha significato forti tagli che hanno vergognosamente minato le basi che avevano permesso la grande storia dei successi sovietici. Per mancanza di fondi, nel 1996 su 27 lanci spaziali programmati, solo 11 hanno avuto luogo. Nella graduatoria mondiale della spesa per il programma spaziale, la Russia è ora al diciannovesimo posto.

Nonostante gli straordinari progressi l’Urss rimaneva relativamente arretrata rispetto all’economia degli Stati Uniti in molti altri settori. Per esempio la rete ferroviaria americana, nonostante dovesse servire un’area molto più piccola, era due volte e mezzo più grande di quella russa. Roy Medvedev in un libro pubblicato nel 1972 denunciava:

“La produzione di elettricità negli Stati Uniti è ancora più del doppio di quella dell’Urss. Gli Stati Uniti producono all’interno dei propri confini quasi una volta e mezzo il petrolio e tre volte il gas naturale dell’Unione Sovietica. Alla fine degli anni ’60, l’Unione Sovietica produceva un quarto dei camion prodotti negli Usa e in Giappone. Produciamo molte meno vetture di paesi come l’Italia, la Francia, il Giappone o la Germania occidentale e gli Stati Uniti ne producono quasi venti volte più di noi.

Produciamo la metà delle radio rispetto agli Stati Uniti e un quarto rispetto al Giappone. Per quanto riguarda i frigoriferi siamo a livello degli Usa degli anni ’50. Nella produzione di resine sintetiche e plastiche rimaniamo dietro a quasi tutti i paesi europei inclusa l’Italia; gli Usa ne producono almeno sei volte tanto. Nel 1970 il Giappone produceva cinque volte e gli Usa dieci volte le fibre sintetiche che facevamo noi.”5

La principale debolezza era costituita dall’incapacità di aumentare a un ritmo sufficiente la produttività del lavoro. Marx segnalò che in ultima analisi il successo di un sistema economico poteva ricondursi alla produttività del lavoro, cioè all’economia del tempo di lavoro.

La produttività aumentava, ma il divario con le economie capitaliste più avanzate rimaneva molto grande.  Il divario era stato ridotto considerevolmente in una prima fase grazie ai successi dei piani quinquennali. Se nel 1913 la produttività dell’industria sovietica si stimava attorno al 25% di quella statunitense, nel 1937-39 si era avvicinata al 40%.

Sebbene la produttività del lavoro aumentasse nel periodo postbellico, il suo tasso di crescita era calante: tra il 1956 e il 1960 il tasso annuale di crescita era del 6,5%; tra il 1961 e il 1965 era sceso al 4,6%. Nel 1980 un lavoratore statunitense nell’industria produceva come 2,8 lavoratori sovietici, vale a dire che la produttività complessiva del lavoro in Urss era circa un terzo di quella statunitense. Ben più del volume di produzione, queste cifre mostrano la reale differenza tra il livello dello sviluppo economico raggiunto nei due paesi, e sono perciò estremamente significative. Per la burocrazia questo ristagno, specialmente nel campo vitale della produttività del lavoro, rimaneva una questione di cruciale importanza.

Con una classe operaia numericamente superiore e il doppio del numero di tecnici e di ingegneri, alla metà degli anni ’60, l’Urss produceva solo il 65% degli Stati Uniti. Due terzi dei lavoratori non riuscivano a lavorare efficientemente e almeno un terzo della produzione si perdeva per furti, sabotaggi, malversazioni e cattiva amministrazione.

L’agricoltura: il tallone d’Achille

La situazione dell’agricoltura era ancora peggiore. Sotto Breznev ci volevano quattro lavoratori agricoli sovietici per ottenere gli stessi risultati di un solo coltivatore americano. L’agricoltura sovietica non si era ancora ripresa dalle conseguenze della collettivizzazione forzata dei primi anni ’30, durante la quale i contadini avevano distrutto i raccolti e macellato il bestiame, pur di sottrarlo allo Stato. Il numero dei cavalli e dei maiali era allora crollato del 55 per cento, quello delle pecore del 66 per cento e flessioni di analoga entità si registrarono in tutti gli altri settori dell’allevamento. Tra il 1930 e il 1955 sia la produzione agricola pro capite che il numero dei capi d’allevamento non superarono il livello del 1916 e i bovini non avevano raggiunto il numero di capi dell’anno precedente allo scoppio della prima guerra mondiale, il 1913, né il livello del 1928, prima della collettivizzazione forzata. I suini raggiunsero solo nel 1953 il numero di capi del primo anteguerra. La produttività della terra rimase molto bassa. Nel 1982 fu calcolato che un lavoratore agricolo in Urss era in grado con il suo lavoro di sostentare sei persone contro le 40 di un lavoratore statunitense.

L’agricoltura rimase sempre il tallone d’Achille della burocrazia sovietica. Questo perché le carenze di questo settore avevano un drammatico impatto sul tenore di vita della popolazione. Le cifre seguenti illustrano le differenze nei livelli di vita tra Usa e Urss dal punto di vista del regime alimentare. In Urss il 48 per cento delle calorie derivava dal grano (principalmente pane) contro il 22 per cento negli Usa. Solo l’8 per cento derivava da carne e pesce contro il 20 per cento degli Usa. L’Urss dovette ricorrere a importazioni di grano, anche se potenzialmente l’agricoltura sovietica avrebbe potuto nutrire il mondo, spendendo a questo scopo ben 6,5 miliardi di dollari solo nel 1984.

L’agricoltura pone problemi più complicati dell’industria, perché in questo campo si ha a che fare con fattori climatici, oltre che umani. In agricoltura esistono solo due modi per assicurare un miglioramento duraturo della produttività: attraverso l’applicazione generalizzata di tecniche, sementi e macchinari più avanzati, oppure grazie a una maggiore motivazione dei lavoratori. Le due cose vanno di pari passo. Pur mettendo a disposizione i fattori tecnici di produzione più moderni, se il lavoratore rurale non fosse motivato a lavorare nel modo corretto e a trarre il meglio dagli strumenti a sua disposizione, non sarebbe in alcun caso possibile ottenere i risultati sperati. Questo coinvolgimento potrebbe essere garantito ispirando e convincendo moralmente il contadino o il proletario agricolo della necessità e dei vantaggi del socialismo, il che comunque non può non essere accompagnato dal convincimento che con le sue azioni il contadino possa migliorare le proprie condizioni materiali di vita, ovvero con una politica mirata di incentivi. La burocrazia sovietica non seppe seguire né l’una né l’altra opzione. Su basi socialiste il problema si sarebbe potuto risolvere facilmente, ma creare nel contadino una coscienza diversa deve comportare anche il cambiamento dei suoi rapporti con la società, attraverso il contatto con gli altri produttori, la partecipazione alla vita sociale e al processo democratico di presa delle decisioni, incentivando la formazione di cooperative, ecc. Tutto ciò è del tutto irrealizzabile per un regime burocratico.

Nelle condizioni estreme del comunismo di guerra i bolscevichi furono costretti a ricorrere alle requisizioni forzate di grano per poter nutrire l’esercito e gli operai affamati nelle città in un’epoca in cui il crollo dell’industria significava che era impossibile fornire ai contadini altri beni in cambio dei loro prodotti. Ma queste misure non furono mai concepite altro che come misure temporanee a cui lo Stato operaio era costretto da condizioni eccezionali nelle quali la rivoluzione era in pericolo. Questa politica venne presto sostituita dal libero mercato del frumento in occasione della Nuova Politica Economica. Lenin e Trotskij erano a favore di incentivare una collettivizzazione graduale convincendo i contadini dei vantaggi attraverso l’esempio mentre, nel frattempo, sarebbe stato necessario incoraggiare la formazione di cooperative. Sicuramente non avevano mai considerato la possibilità di spingere i contadini alla collettivizzazione con le baionette puntate alla schiena, come fece Stalin negli anni ’30! Questa mostruosa deformazione della politica comunista condusse al crollo dell’agricoltura sovietica e provocò una terribile carestia che falciò le vite di milioni di persone. L’agricoltura sovietica non si riprese mai dagli effetti di questa politica folle e criminale voluta da Stalin.

In nessun altro settore dell’economia era così evidente la stretta soffocante della burocrazia, la quale tentò di incolpare degli insuccessi il clima. Certamente l’inverno russo pone problemi sconosciuti a climi più benevoli, ma questi erano sicuramente superabili ricorrendo alle tecnologie moderne. Il problema non era tanto il clima ostile, ma la disaffezione della popolazione rurale. Anche dove erano stati edificati i silos spesso il raccolto del grano veniva lasciato a marcire sotto la pioggia. Un guidatore di trattore veniva pagato in proporzione all’area che veniva arata, così guadagnava tanto di più quanto più si ricorreva all’aratura superficiale. Tutti i mali di un sistema burocratico qui si centuplicavano – malgestione, corruzione, condizioni caotiche dei trasporti – e si aggiungevano alle condizioni ancora arretrate delle campagne russe. Tutti questi fattori si combinavano per produrre un vero e proprio sabotaggio su vasta scala.

I problemi dell’agricoltura erano stati sicuramente trascurati in un primo periodo dalla burocrazia, ma nel dopoguerra questo non era più vero. Il problema non era la mancanza di investimenti tanto che la burocrazia investiva ingenti somme nell’agricoltura, che assommavano ora a un terzo del totale degli investimenti in opere civili. Tuttavia non si ottennero i risultati sperati. Gli Usa, che spendevano solo il 5 per cento del Pil nell’agricoltura, ottenevano risultati molto migliori.

Come abbiamo già detto la produttività del lavoro agricolo era ufficialmente circa un quarto di quella Usa. Con circa un terzo della popolazione attiva (27 milioni) che ancora lavorava sulla terra – sei volte la cifra americana – l’Unione Sovietica aveva un rapporto fra lavoratori agricoli e trattori 20 volte superiore a quello degli Usa. A tutti questi fattori si aggiungeva anche il fatto che il reddito medio di un contadino delle fattorie collettive sovietiche era metà di quello di un operaio industriale, così i giovani abbandonavano i villaggi al ritmo di due milioni all’anno.

L’Urss era il primo produttore mondiale di trattori. La superficie coltivata era di due terzi superiore a quella degli Usa. Tuttavia, a causa della sua bassa qualità e delle riparazioni inefficienti, la vita media di un trattore sovietico era solo di cinque o sei anni. Questo significava che circa 300mila trattori dovevano essere sostituiti ogni anno. Nonostante l’aumento nel numero di trattori, il prodotto annuale per trattore nelle fattorie collettive in realtà calò del 17 per cento fra il 1960 e il 1967. L’Unione Sovietica era vasta come un continente, eppure nell’agricoltura vi si impiegavano solo un terzo dei camion rispetto agli Usa.

“Attualmente” – scriveva Medvedev nel 1972 – “un lavoratore agricolo negli Stati Uniti è attrezzato altrettanto bene di un lavoratore industriale, e per certi aspetti è perfino più avanti. Nel 1960 ogni lavoratore agricolo americano aveva a propria disposizione 39 cavalli a vapore, contro soli 5,4 del suo corrispettivo sovietico. Nel 1967 l’energia a disposizione di un lavoratore agricolo negli Stati Uniti era aumentata a 78 CV, cioè era esattamente raddoppiata nel periodo. La cifra corrispondente per l’Urss era di soli 8,8 CV, un incremento di circa il 65 per cento.”6

Tra il 1966 e il 1970 vennero consegnati alle fattorie collettive un milione e mezzo di trattori, ma allo stesso tempo 1.150.000 trattori dello stock esistente furono rottamati, vennero consegnate 500.000 mietitrebbia, ma oltre 350.000 uscirono dal parco macchine. Questo spiega il tono preoccupato del discorso di Breznev al XXIII congresso nel 1966:

“Il Comitato centrale considera necessario evidenziare anche un altro problema, quello dell’utilizzo dei macchinari nelle fattorie collettive e statali. Le campagne ricevono un numero crescente di trattori, camion, mietitrici e altri macchinari; il lavoro sta qui acquistando il carattere di lavoro industriale. Eppure negli anni recenti c’è stato un calo di molti degli indicatori chiave dell’utilizzo del parco macchine e dei trattori. Gli addetti tendono a lasciare il posto di lavoro, causando un alto turn-over della manodopera. Tutto ciò è fonte di difficoltà. Le strutture per le riparazioni delle macchine devono essere ampliate al massimo, le imprese Selchoztehnika e le fattorie collettive devono essere rifornite di equipaggiamenti moderni e gli addetti alle macchine devono ricevere un addestramento migliore e maggiori incentivi materiali (…).”7

Leggendo fra le righe di questo rapporto abbiamo un quadro di fattorie collettive dotate di macchinari vecchi e obsoleti, o di bassa qualità, che si guastano continuamente, e di una forza lavoro impreparata, senza motivazioni, che non cura né provvede alla riparazione dei propri macchinari, e che deve essere spinta con incentivi materiali affinché assolva ai propri compiti, anche quelli più elementari. Il quadro era cambiato ben poco da quando Trotskij aveva scritto:

“Il trattore costituisce l’orgoglio dell’industria sovietica, ma il coefficiente di utilizzazione dei trattori è ancora molto basso. Nel corso dell’ultimo esercizio economico, l’81% dei trattori ha dovuto subire delle riparazioni importanti e un buon numero di queste macchine si è trovato fuori uso nel bel mezzo del lavoro dei campi.”8

Negli anni ’50, come risultato delle riforme di Kruscev aumentò la produzione agricola, ma sotto Breznev la situazione tornò a peggiorare (con un tasso annuale di crescita del 4,9 per cento). Negli anni ’60 cadde al 3 per cento e, in seguito, a un misero 2 per cento.

Negli anni ’70 si verificò un declino vero e proprio della produttività agricola, eppure gli investimenti nell’agricoltura erano cresciuti fino a rappresentare il 20 per cento del totale nazionale, il doppio del livello prebellico; inoltre era aumentata enormemente anche la produzione di fertilizzanti.

Ciononostante la produttività del lavoro agricolo rimaneva ostinatamente bassa, un fenomeno almeno in parte legato all’abbandono dei villaggi da parte dei giovani, con conseguente carenza di manodopera per l’agricoltura. Nel 1980 solo il 20 per cento della popolazione lavorava la terra, in gran parte persone anziane, ma ciò non può spiegare tutto; in Europa occidentale si era verificato uno spostamento dalle campagne alle città di proporzioni anche maggiori, eppure la produttività del lavoro nell’agricoltura aveva continuato a crescere enormemente.

La vera radice del problema era la resistenza passiva e il sabotaggio di una manodopera agricola alienata, che si andava ad aggiungere allo spreco colossale, alla malgestione, all’inefficienza e alla corruzione del sistema burocratico. Breznev tentò di aumentare la motivazione dei lavoratori rurali concedendo loro il diritto a coltivare piccoli lotti privati all’interno dei kolchoz riconoscendo tale concessione persino in un articolo (l’art. 13) della nuova Costituzione.

Data la situazione non si trattava di una misura sbagliata; fino a quando lo sviluppo dei mezzi di produzione non fosse stato sufficiente a garantire alla popolazione rurale un livello di vita decente, fino a quando le fattorie collettive, adeguatamente equipaggiate con macchinari moderni, non avessero dimostrato nella pratica la loro superiorità sulla produzione individuale su piccola scala, fino a quel momento sarebbe stato necessario fare concessioni alla piccola impresa, soprattutto nelle campagne.

Sotto Breznev i piccoli lotti privati costituivano solo il 3 per cento della superficie coltivata, ma producevano un terzo del latte, della carne e degli ortaggi, oltre un terzo delle uova e quasi un quinto della lana.

Le autorità erano seriamente preoccupate per i gravi problemi delle campagne perché esiste un legame diretto fra l’agricoltura e la produzione di beni di consumo, e quindi la qualità della vita. Nel suo rapporto sullo stato dell’economia al congresso del Partito del 1966, Alexei Kosighin pose l’accento sul rallentamento del tasso di crescita dei redditi reali, che collegò in parte alla bassa produttività del lavoro, ma anche all’agricoltura:

“Come risultato del ritardo nell’agricoltura, le industrie leggere e di trasformazione alimentare sono rimaste al di sotto degli obiettivi e ciò non poteva che rallentare la crescita del reddito nazionale e della prosperità del paese.”9

Una serie di cattivi raccolti culminò in quello disastroso del 1972. Nel 1974 il regime aveva cantato vittoria troppo presto perché erano state prodotte 225 milioni di tonnellate di grano, tuttavia a causa della carenza di strutture per lo stoccaggio si salvarono solo 180 milioni di tonnellate. Una tale catastrofe era chiaramente da ascrivere alla malgestione burocratica, il vero flagello dell’agricoltura sovietica. Il grano fu lasciato a marcire per terra per mancanza di silos, di mezzi di trasporto o per semplici errori amministrativi. Tutti i tentativi di venire a capo del problema agricolo furono inutili: le cause del problema erano inerenti al regime burocratico stesso.

 Il livello di vita negli anni ’80

Prima della guerra, quando Stalin aveva annunciato al mondo l’avvento di un’epoca di “vita felice”, Trotskij gli ricordò che in Urss ogni lavoratore aveva a disposizione solo mezzo paio di scarpe. All’epoca di Breznev la situazione non era più la stessa. Nel 1979 l’Urss produceva più scarpe di qualsiasi paese al mondo e c’erano cinque paia di scarpe a testa. Nei trent’anni successivi alla morte di Stalin il livello dei consumi si era accresciuto ad una media annua del 3,6 per cento. Certo, il tenore di vita nell’Urss alla fine degli anni ’70 rimaneva ancora molto indietro rispetto all’Occidente, ma i consumi continuarono a crescere sotto Breznev, come mostra la seguente tabella:

Indicatori del tenore di vita della popolazione sovietica 1965-78

 

                                                                                                  1965                         1978

Salario mensile                                                                 96,5 rubli                159,9 rubli

Numero di medici                                                              554.000                    929.000

Famiglie con apparecchio TV                                                  24 %                          82 %

Famiglie con frigorifero                                                           11 %                          78 %

Spazio abitativo per persona (aree urbane)                       10 mq                    12,7 mq

Consumo di carne/prodotti della carne per persona          41 kg                         57 kg

Consumo di ortaggi per persona                                           72 kg                         90 kg

Consumo di patate per persona                                          142 kg                       120 kg

Consumo di pane/grano per persona                                 156 kg                       140 kg

(fonte: The Guardian, 17/8/81. Citato in F. Halliday, The Making of the second Cold War, pag. 139)

 

La crescita del tenore di vita rallentò gradualmente lungo gli anni ’70, come dimostrano le seguenti cifre:

 

Aumento dei consumi 1966-78

1966-70                                                             5,0 %

1971-75                                                             2,9 %

1976-78                                                             2,1 %

 

Aumento dei consumi alimentari, 1966-78

1966-70                                                             4,2 %

1971-75                                                             1,7 %

1976-78                                                             0,6 %

 

Tuttavia non c’è dubbio che il tenore di vita della popolazione sovietica subì un miglioramento di enormi proporzioni rispetto al passato. Secondo un resoconto del Guardian della metà degli anni ’80:

“Quasi ogni abitazione ora dispone di una TV e di un frigorifero. Il 70 per cento ha una lavatrice, il 40 un aspirapolvere e circa il 15 per cento ha l’automobile. Circa metà dispone di una motocicletta o di un motorino.”10

Inoltre queste cifre non descrivono l’intera realtà. La crescita del tenore di vita venne ottenuta praticamente senza inflazione. Soprattutto i prezzi dei beni di prima necessità vennero tenuti bassi. Il pane era così economico che i contadini lo usavano come mangime al posto del grano. Una conquista particolarmente importante furono i bassi costi degli affitti. Laddove un lavoratore occidentale spende tra un terzo e metà del suo salario per l’affitto della sua casa, la situazione in Urss era totalmente differente. Su un salario di 200 rubli mensili, solo 10 andavano a coprire l’affitto, compresi l’acqua calda, il riscaldamento centralizzato e, almeno a Mosca, chiamate telefoniche locali gratuite. L’istruzione e il servizio sanitario erano completamente gratuiti, non c’era disoccupazione e si godeva di un mese di vacanze gratuite in località turistiche gestite dai sindacati. L’Unione Sovietica aveva probabilmente il miglior sistema di trasporti pubblici del mondo, con tariffe estremamente basse, come ad esempio 5 copechi per un viaggio nell’ambito della rete di Mosca.

Nonostante questi miglioramenti il tenore di vita restava indietro, perlomeno rispetto ai paesi capitalisti più avanzati. La carenza di alloggi rimaneva un problema serio e per la gran parte delle famiglie le condizioni di vita erano ancora molto dure e in alcuni casi intollerabili. Un quarto delle famiglie doveva condividere il bagno e/o la cucina.

I lavoratori non subivano più le privazioni del periodo precedente. Non c’era più penuria, per lo meno dei beni fondamentali. C’erano naturalmente le code, ma alla fine si poteva ottenere quello per cui si stava aspettando, ma la qualità dei beni prodotti sotto il sistema burocratico era un’altra questione. Trotskij aveva già sottolineato quanto la qualità potesse sfuggire alla burocrazia come un fantasma inafferrabile. Più un bene era destinato direttamente al consumatore, più, in generale, la qualità si abbassava. Le conseguenze della mancanza di controllo democratico si evidenziava nel modo più lampante nel campo dei beni di consumo. In una società che pretende di aver costruito il “socialismo” il benessere materiale della popolazione non può essere misurato esclusivamente nei termini della quantità di pane e di patate – e neppure di carne e di burro – consumati.

Marx aveva previsto che il punto di partenza della transizione al socialismo sarebbe stato un alto livello di vita. Solo soddisfacendo completamente le aspirazioni materiali degli uomini e delle donne sarebbe possibile arrivare ad una situazione nella quale queste necessità non dominino i pensieri e la vita delle persone, preparando la strada per un livello superiore di civiltà umana. Fino a quando esisterà la penuria, e con essa la lotta umiliante per la sussistenza, la barbarie classista con tutti i mali ad essa connessi non potrà mai essere superata. La prospettiva di una società senza classi è destinata a rimanere sfuggente come un fantasma, un orizzonte che si allontana man mano che si cerca di raggiungerlo. Questo spiega il sentimento crescente di scetticismo e perfino di cinismo diffuso in molti settori della società sovietica nei confronti dei discorsi ipocriti dei burocrati, che vivevano immersi nel lusso mentre il normale cittadino consumava la propria vita in code interminabili per garantirsi l’accesso a beni fin troppo scarsi.

Esiste un’intima correlazione fra la crescita economica e la crescita del tenore di vita. Soprattutto è fondamentale mantenere un corretto equilibrio fra industria pesante e industria leggera e tra agricoltura e industria. Nel 1971 il Ministero dell’industria leggera ricevette reclami per 7,6 milioni di paia di scarpe, 1,5 milioni di paia di calze, 1,7 milioni di capi di maglieria e 175.000 abiti. Nella prima metà del 1971 la rete di vendita al dettaglio della sola Mosca respinse prodotti industriali per un valore di 33 milioni di rubli. Nello stesso anno le perdite totali derivanti da prodotti industriali respinti vennero valutate in una cifra superiore a 600 milioni di rubli, ma la rivista Finansy Ussr commentava che “tali perdite sono in realtà molto superiori”. Nel 1970 e 1971 il 50 per cento dei beni controllati dall’Ispettorato del ministero del commercio della Repubblica sovietica russa non raggiungeva gli standard ufficiali minimi. Di conseguenza montagne di beni invenduti si accumulavano nei magazzini aumentando ogni anno. Fra il 1968 e il 1971 il tasso di prodotti invenduti raggiunse, nei vari reparti, cifre comprese fra il 32 e il 52 per cento delle vendite. All’inizio del 1972 il valore delle merci invendute ammontava a 3 miliardi e 400 milioni di rubli.

Qui vediamo il difetto fondamentale della pianificazione burocratica. Priva del controllo e della partecipazione democratica della classe lavoratrice, inevitabilmente essa conduce a una proliferazione incontrollata di sprechi, corruzione e malgestione. Questo fatto fu sempre vero, anche nel periodo migliore dell’Urss, ma nelle condizioni di un’economia moderna complessa assunse le proporzioni di un vero e proprio incubo. La stampa sovietica del periodo in esame era colma di esempi orripilanti di incuria burocratica. Quello che riportiamo di seguito è un tipico esempio:

“Quanto più la stoffa è costosa, tanto minore è il numero di abiti richiesto per raggiungere gli obiettivi del piano! (…) Tanto più il modello è economico, tante più automobili devono essere fabbricate per soddisfare il piano, e questo richiederebbe una capacità produttiva e una manodopera aggiuntiva (…) Un ingegnere impiegato nel settore dell’energia una volta mi ha lodato per aver lasciato accesa la luce elettrica: «Bravo! Più energia consumi, più sale il nostro premio di produzione!» Il direttore dello stabilimento elettromeccanico di Riga ha commentato: «Qualsiasi indice quantitativo si usi per la pianificazione e la valutazione dei risultati sarà inevitabilmente unilaterale e in definitiva dannoso. Se si misura in tonnellate, il prodotto sarà più pesante, se l’unità di misura è il rublo, sarà più costoso. Se si utilizzasse la soddisfazione del consumatore come base, allora l’unità di misura non sarebbe certamente mai il volume della produzione».”11

In mancanza del controllo e della partecipazione democratica della classe operaia l’approccio puramente quantitativo alla pianificazione produceva inevitabilmente le distorsioni più grottesche:

“Se il direttore può cavarsela producendo solo pochi modelli di scarpe, potrà avere grandi volumi di produzione e così tagliare i costi. Se può indirizzare la sua produzione su scarpe di misure ridotte ed evitare le più grandi, risparmierà sull’impiego delle materie prime. Infine, anche se lo Stato fissa il prezzo per le sue scarpe, modelli differenti gli potrebbero rendere margini differenti. Il direttore può tentare di specializzarsi in quei modelli che offrono i guadagni più alti.

Quanto il direttore si possa spingere in là dipende dalla sua forza contrattuale. In passato la sua posizione era davvero molto buona. Si produceva sempre meno di quanto i clienti avrebbero comprato, così era facile trattare con i grossisti; dato che si sarebbe comunque venduto tutto, perché crearsi dei problemi col produttore in un mercato dominato da chi vende? Solo il consumatore finale si lamentava aspramente dei risultati di questo sistema.”12

Trotskij osservò che descrivere la crescita economica solo in termini di volumi produttivi sarebbe come tentare di dimostrare la forza di un individuo sulla base della misurazione della sua statura. L’approccio puramente quantitativo agli obiettivi portava la produzione a orientarsi verso veicoli più pesanti e ingombranti, poiché con un dato numero di tonnellate si raggiungeva l’obiettivo. Naturalmente tali “errori” venivano notati dai lavoratori, ma questi ultimi non potevano esprimersi liberamente e, non essendoci un sindacalismo indipendente, i lavoratori non avevano alcun modo di denunciare queste distorsioni. Una critica troppo aperta avrebbe portato solo a problemi, licenziamenti, arresti o internamenti in manicomio. Era meglio dunque chinare il capo e tapparsi la bocca, prendere la paga a fine mese e sperare che le cose migliorassero, il che in molti casi sembrava che fosse vero.

In un discorso al congresso del partito nel 1986 Gorbaciov descrisse la situazione dell’industria leggera sovietica:

“L’anno scorso milioni di metri di tessuto e milioni di paia di calzature in pelle e molti altri beni di consumo sono stati respinti alle fabbriche o registrati come merce di seconda qualità. Le perdite sono significative: spreco di materie prime e spreco del lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori.” E aggiunse: “La burocrazia è oggi un serio ostacolo (…) Le distorsioni burocratiche si manifestano con la massima forza laddove le persone sono meno responsabili del loro operato.”13

Libera da ogni controllo popolare, la burocrazia si comportava in modo assolutamente irresponsabile. Essa dimostrava la stessa ristrettezza di vedute, lo stesso disprezzo criminale verso gli interessi più generali della società che riscontriamo nei grandi monopoli capitalistici. Rispetto ai problemi dell’ambiente si comportavano male almeno quanto la borghesia, come dimostrò a tutto il mondo l’incidente nucleare di Cernobyl, la distruzione del lago d’Aral, l’avvelenamento del mar Caspio e del lago Baikal, l’affondamento di sottomarini nucleari nell’oceano Artico.

Un indizio del caos e della confusione più completi era la folle proliferazione di ministeri di ogni genere. Solo nel settore della costruzione di macchine utensili c’erano non meno di 11 ministeri separati: il ministero generale della costruzione di macchine, il ministero della costruzione di macchinari pesanti, ecc. A presidio dei trasporti c’erano cinque ministeri, e così via. Si possono fornire molti esempi dei problemi generati da questa situazione come quando, per cominciarne lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale scoperti nell’Asia centrale, fu necessario ottenere l’approvazione di 27 differenti ministeri, la quale ci mise sette anni ad arrivare, passati i quali il gas era andato perso.

Il problema della qualità

Anche se la qualità dei beni di consumo sovietici non era così cattiva come la stampa filocapitalista ora tenta di descriverla, non c’era alcuna ragione di principio per la quale questi beni dovessero essere peggiori di quelli prodotti in Occidente. In quei settori dove la qualità riceveva dalla burocrazia l’attenzione dovuta venivano fabbricati ottimi prodotti. Questo era il caso dell’industria militare, dove i generali insistevano sull’alta qualità e la ottenevano. Lo stesso era vero per il programma spaziale, ma vi sono altri esempi. Un articolo apparso sul Guardian (19/11/86) rivelava dati sorprendenti sui successi di alcune esportazioni sovietiche verso l’Occidente:

“Quando pensiamo alle tecnologie sovietiche d’eccellenza, siamo abituati a riferirci alle loro conquiste nel campo spaziale e all’alta qualità di molti dei loro prodotti bellici. L’armatura in titanio dell’elicottero da combattimento Hind o lo scafo in titanio dei nuovi sommergibili, per esempio, sarebbero significativamente più avanzati rispetto alle capacità della metallurgia occidentale.

Ma in qualche modo gli esempi di attrezzature spaziali e militari possono distorcere la nostra valutazione della capacità tecnologica sovietica. Potremmo considerarle come sottoprodotti di una politica da superpotenza militare e continuare nella nostra comoda e autocompiacente convinzione di una generale superiorità occidentale nelle cose che contano realmente, come computer, automobili e beni di consumo.

Forse dovremmo ripensarci. Nei primi sei mesi dell’anno scorso la Gran Bretagna ha importato 30.000 frigoriferi Snowcap e 32.000 tubi catodici per Tv dall’Unione Sovietica. Il Belgio ha comprato apparecchi Tv e rasoi elettrici e la Francia ha acquistato ferri da stiro, macinacaffè e condizionatori. Gli olandesi hanno comprato 60.000 macchine fotografiche e macchinette elettriche per tagliare i capelli, e persino i giapponesi hanno comprato televisori sovietici. Nel terzo mondo le macchine per la semina Ciaika e i ventilatori elettrici di marca Orbita stanno infiltrandosi con regolarità in mercati dominati tradizionalmente da occidentali e giapponesi.”

In realtà il quadro era contraddittorio, un esempio per tutti: le registrazioni musicali degli LP sovietici erano ottime, altrettanto buone se non migliori di quelle occidentali, ma questa elevata qualità veniva vanificata dalla pessima riproduzione in serie. In un articolo della Pravda (28/11/85) un commentatore russo sottolineava il fatto che certi prodotti sovietici duravano di più dei loro equivalenti occidentali. L’autore correttamente attribuiva la differenza al contrasto fra un’economia pianificata, essenzialmente basata sulla produzione per il bisogno, e un’economia di mercato, basata sul profitto, che include fenomeni come l’“esibizionismo consumistico”, la pubblicità e ogni genere di sprechi:

“I prodotti finali della nostra economia si adattavano perfettamente alla società sovietica ed erano assolutamente inadatti per principio ai mercati occidentali, alla «società dei consumi». Tutti gli sforzi venivano orientati a ottenere prodotti durevoli piuttosto che al design. Il mercato, al contrario, punta ad abbreviare la vita dei prodotti, costringendo così la gente a «consumare» sia beni che servizi.”

E continuava:

“Guardate alla differenza fra due auto della stessa categoria: una prodotta per un’economia frugale, l’altra per un’economia crematistica, dedita al consumismo. In una Ziguli tutti i principali componenti del motore dove generalmente sorgono problemi sono posizionati in modo da essere accessibili senza l’aiuto di un’autofficina. Si può usare l’automobile per un decennio senza rivolgersi a un meccanico: tu stesso risolvi i problemi. In una Citroën – un’auto della stessa classe – le stesse componenti sono completamente inaccessibili. Devi pagare un intervento per ogni minima cosa. Se devi cambiare le puntine dello spinterogeno spendi 80 dollari; se si bruciano le spazzole della dinamo paghi 300 dollari per sostituirla. Per sostituire la cinghia a una pompa devi estrarre il motore.

Come è noto, esattamente metà degli sforzi e dei costi nella produzione di beni di consumo in Occidente va nella confezione, la quale fa anche parte del design. Cosa significa creare in Russia industrie capaci di competere sul «mercato»? Significa creare una produzione orientata sui criteri di popoli stranieri, con un differente stile di vita, il che è in sé un’assurdità (oppure significa volere coscientemente trasformare la Russia in una colonia). Senza dubbio il 90 per cento della popolazione russa preferisce portarsi il proprio contenitore per comprare lo zucchero e le proprie bottiglie per comprare l’olio sfuso piuttosto che comprare un prodotto «competitivo» al doppio del prezzo a causa dell’imballo.”

Il livello generale della qualità, tuttavia, restava molto al di sotto degli standard occidentali. Le Tv a colori dovevano in media essere riparate due volte nel primo anno di vita e avevano anche la tendenza a esplodere. Per qualche strana ragione le scarpe erano di qualità particolarmente scarsa, e così via. Per i funzionari privilegiati, che avevano accesso ai negozi speciali, questo non era un problema. Per loro la qualità dei beni destinati al consumo dei normali lavoratori era indifferente, mentre i dirigenti di fabbrica erano interessati solo a raggiungere gli obiettivi del piano in termini di volume. Se questo significava sorvolare sulla qualità, cosa importava?

La qualità della vita lasciava molto a desiderare anche sotto molti altri aspetti. Persino a Mosca c’era carenza di luoghi di svago, bar, caffè e ristoranti decenti. Per accedervi c’erano interminabili code, e questo peggiorò il problema dell’alcolismo. Era normale vedere gente che beveva per la strada. Nelle province la situazione era ancora peggiore. A Niznevartovsk, una città della Siberia di 200.000 abitanti nei primi anni ’80 non c’era un solo cinema. Gli urbanisti non dedicavano molta attenzione ai bisogni ricreativi della gente normale. Non c’è bisogno di dire che i funzionari non avevano di questi problemi.

La situazione in Urss non poteva essere separata da quella esistente su scala mondiale. L’idea reazionaria del socialismo in un solo paese era destinata a fallire. Nonostante tutti gli sforzi di segregare il popolo sovietico dal resto del mondo, inevitabilmente si creavano occasioni di contatto, permettendo alla popolazione russa paragonare la propria condizione e quella dei lavoratori occidentali. Proprio di questo parlava Lenin quando avvertiva che il futuro dell’Urss sarebbe stato in ultima istanza deciso su scala mondiale (Chi prevarrà?). Nella misura in cui la gente veniva a conoscenza del fatto che i consumatori occidentali avevano accesso a beni di qualità superiore a prezzi più economici, lo scontento inevitabilmente cresceva. La differenza veniva rimarcata dal fatto che coloro che avevano accesso alle valute occidentali ottenevano beni occidentali di qualità superiore nei cosiddetti negozi diplomatici (diplomaticeskije magazinij) senza fare code.

Le cifre ufficiali sul tenore di vita in realtà nascondono quasi altrettanto di quanto spiegano. Nulla dicono sulle sensibili differenze tra i livelli salariali goduti dai diversi strati della popolazione. In generale le statistiche sovietiche erano sempre molto evasive sulla questione. Le cifre medie in generale possono essere molto fuorvianti, come la storia dei due contadini, uno proprietario di nove mucche e l’altro di una sola, che “in media” ne possedevano cinque per ciascuno! In pratica la crescita dell’economia sovietica, che in un regime sano di democrazia operaia avrebbe dovuto significare una costante diminuzione dei differenziali salariali e dei privilegi, nelle condizioni di dominio burocratico portava esattamente nella direzione opposta.

Invece che restringersi il divario continuò ad ampliarsi sia sotto Kruscev che con Breznev. Mentre il livello di vita delle masse indubbiamente cresceva, i redditi e le rendite della burocrazia (sia di natura legale che illegale) aumentavano ancora più rapidamente. Questo era vero soprattutto negli strati superiori dell’élite. Breznev era noto per il suo stile di vita lussuoso e per l’amore che tributava alle auto costose. Quando Nixon, che ci permettiamo di presumere abbia goduto di una esistenza ragionevolmente prospera, visitò Mosca, dichiarò di essere stato stupito dal lusso ostentato nella vita quotidiana da Breznev, con la piscina al pianterreno della sua casa, e così via.

Uno studio sulla caduta di Nixon, The final days, di Woodwood e Bernstein, rivolge la propria attenzione allo stile di vita di Breznev e dell’alta nomenklatura. “Il presidente [Nixon] aveva con sé il regalo ormai abituale per Breznev: un’automobile americana per l’ampia collezione del Segretario. I loro primi due incontri, nel 1972 e nel 1973, gli avevano fruttato due modelli da 10.000 dollari, una limousine Cadillac e una Lincoln Continental. Questa volta si trattava di una Chevrolet Monte Carlo da 5.578 dollari, non particolarmente impressionante in un garage che già ospitava una Citroën-Maserati sportiva, berline Rolls Royce e Mercedes, e la preferita di Breznev, una nuova spider Mercedes 300SL. Ma Breznev aveva saputo che la Monte Carlo era stata nominata “auto dell’anno” dalla rivista Motor Trend e aveva fatto in modo che si sapesse che ne avrebbe gradita una.”

Secondo Jan Sejna, un alto burocrate cecoslovacco che fuggì in Occidente e pubblicò le sue memorie intitolate We will Bury You (Vi seppelliremo),

“Breznev era amante della vodka e della birra pilsner, che eravamo abituati a spedirgli direttamente a Mosca. Amava anche gli abiti occidentali… Ogni volta che veniva a Praga, il direttore del nostro negozio del Politburo – dove l’élite poteva comprare beni di lusso inaccessibili a gente meno importante – doveva volare in Italia e in Germania Ovest prima del suo arrivo, per preparargli uno stock speciale.”

Lo stesso era vero riferito ai governanti dell’Europa orientale. Scrivendo del suo predecessore Alexei Cepicka, Sejna spiega:

“Aveva una grossa fortuna personale, del valore di milioni di dollari, della quale non rese mai conto, e che spendeva in un lusso magnifico – ville, auto, gioielli – per sé e per i suoi amici. Sua moglie, per esempio, possedeva 17 pellicce di visone.”

La stampa sovietica era piena di esempi di corruzione e di crimini economici, ma ciò era solo la punta dell’iceberg. Oltre ai salari pesantemente gonfiati, i funzionari statali e di partito a tutti i livelli erano impegnati nel saccheggio delle risorse pubbliche. Nel 1974 la Fursteva, ministro della cultura, fu destituita per appropriazione di fondi statali. Nel luglio 1976, secondo Finansy USSR vennero fatte indagini in 300 imprese statali. Esse rivelarono che a Belan “un gruppo di ladri insediati nei magazzini generali della città e guidati da ex dirigenti” aveva rubato 116.500 rubli. A Tomsk 463.000 rubli erano stati malversati. In Georgia vennero scoperti “dei ladri in posizioni dirigenti”. Quando la polizia perquisì l’appartamento di un funzionario,

“…scoprì che le sue proprietà includevano 12 automobili, 47 fra registratori e Tv a colori e 3.000 bottiglie tra cognac e vini pregiati. Possedeva 3 auto Volga, 23 servizi da cena con 380 coperti, 74 vestiti e 149 paia di scarpe. «Aveva nascosto qualcosa per le emergenze» raccontava Radio Mosca, «tra cui 735.000 rubli in contanti [circa un miliardo di lire di allora, NdT], titoli per 18.300 rubli al tre per cento d’interesse, 450 monete d’oro e 39 orologi d’oro da polso».”

Lo stesso articolo continua:

“Il vice ministro della pesca è stato condannato a morte nel 1982 perché era coinvolto in un traffico illegale di caviale che veniva esportato dall’Unione Sovietica in lattine che portavano l’etichetta «aringhe salate» (…) Era coinvolto in oltre trenta casi riguardanti il furto di beni per un valore di tre milioni di rubli ad opera di un centinaio di dirigenti dei negozi più noti della capitale. Egli dichiarò che i funzionari avevano ricevuto un milione di rubli in bustarelle «e che spendevano a loro volta tre quarti di questa somma in tangenti» (…) Si è scoperto che in 156 acquisti su 193 c’erano degli imbrogli. I proventi di questa attività venivano poi spartiti in proporzione.”14

Lo stesso stile di vita veniva condiviso dai figli di Breznev e dalla élite dominante in genere. Nel 1980, dopo l’arresto di trecento funzionari nello scandalo del “caviale di Soci”, la famiglia di Breznev fu indagata per coinvolgimento nella corruzione. Una larga parte della ricchezza creata dai lavoratori sovietici veniva utilizzata in questo modo. Un burocrate dell’industria tessile era riuscito nel tempo ad accumulare la somma di 15 miliardi di lire, una somma stupefacente che però oggi impallidisce e diventa insignificante di fronte ai miliardi saccheggiati allo Stato per mano della borghesia nascente. Il parassitismo della burocrazia stava minando le stesse fondamenta dell’economia pianificata. Contemporaneamente l’abisso fra la burocrazia e le masse diventava sempre più profondo. La stessa psicologia della casta dominante veniva trasformata. Le conseguenze di questo processo si sarebbero viste nella fase successiva.

 

Lo Stato sotto Breznev

Quando Breznev introdusse nel 1978 la nuova Costituzione dell’Urss, egli (come a suo tempo fece Stalin) si guardò bene da qualsiasi accenno al fatto che lo Stato sovietico non mostrasse segni di estinguersi. Al contrario egli insistette che “la nostra entità statale si sta gradualmente trasformando in autogoverno comunista. Questo, naturalmente, è un processo lungo, ma procede con regolarità. Siamo convinti che la nuova costituzione sovietica contribuirà in modo efficace al raggiungimento di questo importante obiettivo della costruzione comunista”. Dietro a questa retorica stava qualcosa di molto diverso da uno Stato in transizione al comunismo, ovvero uno sterminato apparato burocratico che dominava ogni aspetto della vita. Lungi dall’“estinguersi” esso diventava ancora più potente e grottesco: non la “dittatura del proletariato”, ma la dittatura sul proletariato da parte di un vasto apparato burocratico-repressivo. Lenin prevedeva che, con il crescere della capacità produttiva della società, e insieme ad essa con la crescita del livello culturale della popolazione, le funzioni di gestione dell’apparato statale e della società sarebbero gradualmente state svolte dalla classe operaia sulla base della rotazione degli incarichi. Al contrario, la mostruosità totalitaria che era lo Stato sotto Breznev diventava ancora più oppressiva, corrotta e distaccata dalla massa della popolazione.

Questo fatto non può essere spiegato invocando la teoria dell’“accerchiamento imperialista” o della sopravvivenza di “resti del vecchio regime” (le scuse impiegate abitualmente dagli apologeti dello stalinismo). Lo Stato operaio debole e assediato sotto Lenin e Trotskij, invaso da 21 eserciti, mantenne un regime scrupolosamente democratico che proteggeva tutti i diritti della popolazione lavoratrice. Alla fine degli anni ’60 l’Urss era la seconda potenza mondiale, eppure il regime non concedeva neppure il minimo spiraglio ai diritti democratici e ciò non a causa di una minaccia esterna, bensì perché il regime burocratico era in guerra permanente contro il suo stesso popolo.

Circa la seconda scusa, di quali “resti” si parlava? Mezzo secolo dopo la Rivoluzione d’Ottobre, parlare di una minaccia da parte di “residui capitalisti” era una semplice assurdità. Questi erano da tempo scomparsi, prevalentemente assorbiti dalla stessa macchina burocratica. Erano i burocrati, veri eredi del vecchio Stato zarista, ad avere in effetti il controllo della Russia! L’esperienza successiva ha dimostrato che il vero pericolo per le conquiste dell’Ottobre non veniva certo dai “residui capitalisti”, ma precisamente da quella casta vorace che aveva minato la salute dell’economia pianificata con la sua incuria, le sue truffe e i suoi furti, un settore della quale tenta ora di riciclarsi come una nuova classe di oppressori capitalisti mafiosi.

Sotto Lenin e Trotskij, un certo livello di repressione contro i nemici di classe era reso necessario dall’estrema arretratezza economica e dal carattere primitivo dello Stato, dall’intervento imperialista e dalla minaccia di una controrivoluzione capitalista. La stessa debolezza dello Stato operaio fece sì che a volte la lotta assumesse forme estremamente aspre. Oggi, scrittori poco scrupolosi, come parte della campagna per screditare il bolscevismo, esagerano questa repressione e cercano di confonderla con gli orrori delle purghe staliniane. Ma anche in quelle condizioni estreme ci fu un fiorire senza paragoni della democrazia operaia, che fu distrutta solo con la sconfitta ad opera di Stalin dell’Opposizione di sinistra, che combatteva per la difesa delle idee democratiche ed internazionaliste di Lenin.

Al posto della democrazia e della libertà di cui la classe operaia godeva nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, era stato edificato un sistema fondato su elezioni truccate in cui tutto veniva deciso in anticipo dall’alto, cioè dall’élite privilegiata. Si ebbe un’enorme crescita della macchina statale. I nuovi “zar” proteggevano gelosamente i loro enormi privilegi e le loro ruberie, così mentre parlavano della “costruzione del comunismo” e del “nuovo uomo sovietico” reprimevano ogni forma di dissenso e di libertà d’espressione.

La repressione statale assumeva ora forme più raffinate, anche se non meno crudeli. Sotto Breznev il codice criminale, già sufficientemente draconiano, venne ulteriormente inasprito per combattere la dissidenza politica. L’aggiunta delle sezioni 193-1 e 193-3 moltiplicò le possibilità di repressione. L’arresto non doveva più essere correlato a un tentativo di sovvertire lo Stato sovietico. Le manifestazioni (anche se gli articoli del codice non usavano questa parola) e la distribuzione di qualsiasi forma di materiale volta a disgregare lo Stato erano punibili rispettivamente con tre anni di carcere e tre anni di lavori forzati.

Questa misura incontrò le proteste, fra gli altri, del celebre compositore sovietico Dimitri Shostakovich e di un gruppo di vecchi bolscevichi. Tutto fu invano. Le proteste rimasero senza risposta e il decreto venne confermato dal Soviet supremo nel dicembre 1966. Nel gennaio 1967 venne effettuata un’ondata di arresti contro scrittori dissidenti che vennero processati in processi farsa e mandati nei campi di lavoro. Coloro che protestarono contro questi processi vennero licenziati e perseguiti. Agli accademici furono tolti titoli e cattedre.

Ogni manifestazione di pensiero libero e indipendente veniva guardata con sospetto. Gli autori non potevano pubblicare nulla senza il permesso delle autorità. Ogni tentativo in questo senso era punibile con lunghe condanne ai lavori forzati (cinque o sette anni in campi dal regime severo). Il quadro orripilante che di questi campi traccia Anatolij Marcenko nella sua Testimonianza dimostra che, se in generale le condizioni nei campi erano migliori che ai tempi di Stalin, per certi versi potevano essere perfino peggiori. Per di più, all’arrivo nel campo i prigionieri spesso scoprivano che le loro condanne erano state aumentate ulteriormente di alcuni anni, e alla fine della condanna venivano informati che una nuova accusa era stata preparata e che se avessero rifiutato di confessare avrebbero preso altri sette o dieci anni. In questo modo i prigionieri potevano in realtà venire seppelliti nei campi, senza prospettiva di uscirne vivi.

Ben peggiore, inoltre, era la pratica orrenda di internare i prigionieri politici negli ospedali psichiatrici, pratica che, tra gli altri vantaggi, permetteva di disfarsi dell’accusato senza bisogno di un processo. Persone mentalmente sane vennero così rinchiuse, semplicemente sulla base della firma di due medici. Naturalmente chiunque si lamentasse del “paradiso socialista” doveva essere pazzo! Fra gli altri vennero sottoposti a questo trattamento inumano, che oscurò il nome del socialismo in tutto il mondo, l’ex generale Piotr Grigorenko e Zores Medvedev. Questo fenomeno esisteva già sotto Stalin, ma venne sviluppato e perfezionato nell’epoca di Breznev, quando si diffuse largamente. Grigorenko, che passò anni in questi posti orribili, ricorda come:

“(…) venne aperto un ospedale psichiatrico speciale a Sycjova, nella provincia di Smolensk. Poi un altro a Cernjachovsk. Le cose si muovevano rapidamente. Negli ultimi anni ’60 e negli anni ’70 questi ospedali psichiatrici speciali sorgevano come funghi dopo la pioggia. Io stesso ne conosco più di una decina: Kazan, Leningrado, Sycjova, Cernjachovsk, Dnepropetrovsk, Orjol, Sverdlovsk, Blagovescensk, Alma-Ata, e un «sanatorio psichiatrico speciale» nella zona di Poltava-Kiev. Inoltre vennero aperti reparti per il trattamento forzato in tutti gli ospedali psichiatrici provinciali. Così vennero create ampie opportunità per disperdere i prigionieri politici mentalmente sani fra una massa di pazienti seriamente ammalati.”15

E Grigorenko getta uno sguardo sulle condizioni da incubo di questi buchi infernali:

“Questo è l’orrore del nostro inumano sistema di trattamento forzato. Una persona sana confinata fra i malati sa che col tempo può diventare uno di quelli che vede soffrire attorno a sé. Questo è particolarmente spaventoso per le persone con una psiche sensibile, che soffrono di insonnia, che sono incapaci di isolarsi dai suoni di un ospedale.

L’ospedale psichiatrico speciale è situato nell’edificio di un ex carcere femminile, accanto al malfamato «Krestij», il principale carcere di Leningrado per i prigionieri politici. Qui, come nelle carceri normali, la divisione fra i piani esiste solo dove ci sono le celle stesse. La parte centrale dell’edificio è cava; dal corridoio del primo piano si possono vedere i lucernari di vetro del tetto al quinto piano. I suoni si amplificano riverberandosi su e giù per questo pozzo. Ai tempi di Stalin questo fatto veniva usato come tortura psicologica.

Fortunatamente riuscivo a ignorare la maggior parte di quanto avveniva nell’ospedale. Mi abituai all’incessante ticchettio di un ballerino di tip tap sopra la mia testa, che a volte durava per dei giorni interi, interrompendosi solo quando il ballerino cadeva nell’insensibilità totale. La cosa che non posso scordare, e che talvolta mi svegliava durante la notte, era un selvaggio urlo mescolato al suono di vetri rotti. Durante il sonno, evidentemente, i nervi non sono protetti da questo tipo di stimoli. Posso solo immaginare cosa potesse soffrire una persona il cui sistema nervoso assorbisse tutto quello che le avveniva attorno.

Un paziente di un ospedale psichiatrico speciale non ha neppure i miseri diritti di un carcerato. Non ha alcun diritto. Il medico può farne quello che vuole, e nessuno interferisce, nessuno lo difenderà. Nessuna delle sue proteste uscirà mai dall’ospedale. Gli resta solo una speranza: l’onestà dei medici.”16

Alcuni erano realmente onesti, e cercarono di proteggere i pazienti dai peggiori abusi. Ma poiché tutto il sistema era sotto il controllo del Kgb, e i medici primari, come il famigerato dottor Lunts, erano di fatto ufficiali del Kgb, questi tentativi erano destinati all’impotenza. L’intera concezione del sistema privava i prigionieri di ogni diritto. “Sono totalmente alla mercé del personale di questi «ospedali»”.17

I dirigenti dei partiti comunisti di tutto il mondo ora si sono stracciati le vesti per la disperazione ed esprimono le loro critiche tardive verso questi orrori, che pare fossero gli unici a ignorare. Ma mai, in nessuna occasione, hanno proposto una spiegazione di come queste mostruosità potessero avvenire in quello che veniva definito il “socialismo reale”. I silenzi colpevoli non sono finiti, la lettura dell’intero fenomeno dei crimini dello stalinismo continua ad essere mistificata, presentandolo come il frutto di azioni arbitrarie da parte di individui, ma questo significa relegare questi fatti nella categoria degli incidenti (cioè qualcosa che non si può spiegare), il che implica che eventi di questa natura potrebbero verificarsi in qualsiasi società, anche in una vera società socialista. Davvero una bella pubblicità per il socialismo! In realtà un marxista può facilmente spiegare questi fenomeni come i mezzi attraverso i quali una casta dominante privilegiata tentava di difendere il suo potere e i suoi privilegi contro la maggioranza della società. Una volta compreso questo, non c’è più nulla di misterioso e accidentale. La burocrazia quale casta dominante semplicemente riproduce lo schema di comportamento ben noto, già rilevato da Engels, secondo cui in qualsiasi società nella quale l’arte, la scienza e il governo siano monopolio di una minoranza, questa userà e abuserà della sua posizione nel proprio interesse.

I capitalisti sono necessari per il funzionamento della società capitalista. Essi sono i “depositari dei mezzi di produzione”. Il sistema capitalista non può funzionare senza il profitto privato, che è l’unica fonte degli investimenti. La spinta ad appropriarsi del plusvalore è quindi la forza motrice del sistema. I lavoratori vedono questo come una cosa del tutto normale. Un lavoratore può rivendicare una parte maggiore del plusvalore tratto dal suo lavoro, ma non gli verrebbe mai in mente di rivendicare che il capitalista non riceva alcun profitto. Da dove proveniva invece la ricchezza materiale della burocrazia? Essa avrebbe avuto diritto esclusivamente a quello che Marx chiamava il salario di sovrintendenza. Tutto ciò di cui i burocrati si appropriavano in più, era frutto non tanto del riconoscimento di un loro ruolo necessario nella produzione, ma di furto, parassitismo e corruzione.

Per questo era troppo pericoloso per la burocrazia fare concessioni ai lavoratori anche sui più elementari diritti democratici. Appena i lavoratori avessero potuto levare la propria voce, il primo punto sollevato sarebbe stato l’abbattimento dei privilegi, il che da un punto di vista economico sarebbe stato del tutto corretto, ma dal punto di vista della casta burocratica rappresentava un vero suicidio. Questa era la vera base materiale del regime totalitario.

Invece di semplificare l’amministrazione incrementando la partecipazione delle masse si consolidava una mostruosa macchina burocratica, con un rapporto numerico fra funzionari e lavoratori molto più alto che in qualsiasi paese capitalista. In paragone persino lo Stato americano, con il suo vasto complesso militare-industriale, poteva apparire atrofico. Anziché aiutare lo sviluppo sociale la massa dei ministeri, dei dipartimenti e sottodipartimenti, con le rispettive montagne di carte, direttive e lungaggini burocratiche, costituiva uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo delle forze produttive. La politica dello stato sovietico veniva determinata non dagli interessi della società, né della classe operaia, ma dagli interessi costituiti dell’esercito ipertrofico dei funzionari.

L’aspetto più tragico di tutto questo è che sotto Breznev esistevano in Unione Sovietica almeno le condizioni materiali per cominciare un movimento in direzione del socialismo. La divisione della società in classi è storicamente determinata dalla divisione del lavoro, e soprattutto dalla divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Nell’Urss all’apice del suo sviluppo esistevano le basi materiali per abolire questa divisione. Nel 1917 c’erano solo quattro milioni di operai industriali in Russia. Nel 1981 la classe operaia contava 120 milioni di lavoratori, la più numerosa, e probabilmente la più istruita, del mondo.

Sulla base dello sviluppo massiccio dell’industria, della scienza e della tecnologia, non c’era alcuna ragione perché non vi fosse la piena fioritura della democrazia operaia. La condizione primaria era che la gestione dell’industria e dello Stato fosse in mano alla classe lavoratrice. Tutti i partiti e le tendenze politiche avrebbero dovuto godere di pieni diritti democratici di organizzarsi e difendere pubblicamente le proprie opinioni, perfino quei pochi eccentrici che avessero voluto tornare indietro allo zarismo o al capitalismo. Un simile regime di autentica democrazia operaia, avrebbe costituito la base necessaria per avviare una vera transizione al socialismo. Ma la condizione previa era il rovesciamento della burocrazia, la quale era determinata ad aggrapparsi al potere con tutti i mezzi a sua disposizione.

Questa contraddizione divenne sempre più chiara, più vistosa e più intollerabile nella misura in cui l’Unione sovietica superava la propria arretratezza e sviluppava un’economia moderna. In realtà l’Unione Sovietica si allontanava dal socialismo, le differenze sociali diventavano sempre maggiori, gli antagonismi sociali sempre più acuti, il governo della burocrazia sempre più intollerabile. Lo Stato totalitario era solo la più palpabile manifestazione di questo fatto, non la sua causa.

Arte e scienza

“Mi stupisco che voi vi sorprendiate

che un poeta parli contro la burocrazia,

perché le parole poeta e burocrate si escludono reciprocamente.”

Evghenij Evtuscenko

 

La Rivoluzione d’Ottobre ebbe un’enorme influenza liberatrice sull’arte e sulla cultura. Un’intera generazione di artisti, poeti e musicisti venne ispirata a scalare nuove vette artistiche dalla rivoluzione. Quanto questa fioritura artistica fosse legata alla Rivoluzione fu evidente per il fatto che non sopravvisse al riflusso, alla soffocante atmosfera spirituale e di repressione artistica che accompagnarono il regime stalinista. L’arte e la scienza, più di ogni altra sfera della vita sociale, richiedono libertà per poter spiegare le loro ali. Esse possono prosperare in un’atmosfera di libero pensiero, dibattito, discussione e controversia, ma appassiranno sotto il peso del conformismo, della consuetudine e della rigidità burocratica.

L’atteggiamento stalinista nei confronti delle arti non può essere disgiunto dal modo di operare dello Stato totalitario in generale. Questo vale tanto per il fascismo che per lo stalinismo, anche se le loro basi socioeconomiche sono del tutto differenti. Non c’è dubbio che una caricatura burocratica del marxismo sia preferibile alla mistura velenosa di razzismo della razza padrona e dell’essenza distillata dell’imperialismo che è alla base dell’ideologia fascista, esattamente come un regime di nazionalizzazione e pianificazione economica è preferibile al dominio delle banche e dei monopoli. Tuttavia nel trattamento che questi regimi hanno riservano alle arti e alla scienza vi sono chiare analogie assolutamente non accidentali. Uno stato totalitario non può lasciare nessun area della vita sociale fuori dal suo controllo assoluto. Hitler ad esempio non si accontentò di bandire i partiti socialista e comunista e i sindacati, ma ritenne necessario persino a chiudere i circoli scacchistici operai.

La burocrazia stalinista teneva sotto il controllo più severo gli artisti e gli scrittori perché, in assenza di partiti e sindacati indipendenti dal regime, l’opposizione dei lavoratori e degli intellettuali avrebbe potuto esprimersi per altre vie. La letteratura era particolarmente pericolosa, ma anche le arti figurative e persino la musica potevano essere usate per scopi sovversivi. Da qui lo zelo con cui i mediocri funzionari prezzolati dallo Stato messi a capo dei “sindacati” degli scrittori e dei musicisti perseguitavano qualsiasi deviazione dal canone ufficiale del “realismo socialista”. Se paragoniamo questa atmosfera soffocante al calderone ribollente della vita artistica degli anni ’20, con una miriade di scuole di pensiero e di stile – futurismo, acmeismo, simbolismo, immaginismo, costruttivismo, e molti altri “-ismi” – il conformismo senz’anima del decennio successivo ci dà la misura di quale grande opportunità venne persa.

Il grande poeta russo Vladimir Majakovskij era uno dei pochi letterati di spicco che avevano attivamente simpatizzato per i bolscevichi prima della rivoluzione (un altro fu Maxim Gorkij). Mentre altri poeti famosi come Sergei Esenin e Alexander Blok solidarizzarono con la rivoluzione diventandone “compagni di strada” (l’espressione fu coniata da Trotskij negli anni Venti), Majakovskij si identificò in essa anima e corpo e questo si riflesse nella sua poesia, tanto da fargli guadagnare il soprannome di “tamburino della rivoluzione”. Ben presto, con l’accrescersi del peso dei burocrati nella vita pubblica, le sue poesie e le sue opere teatrali cominciarono a contenere feroci attacchi satirici e invettive contro la burocrazia sovietica. Nel 1930 si suicidò, quasi certamente per una estrema protesta contro lo slittamento verso la reazione burocratica.

Molti altri non si tolsero la vita ma vennero ugualmente spazzati via dalle purghe e perirono nei gulag di Stalin; tale fu il destino di un altro grande poeta russo, Osip Mandelshtam. Dopo il 1932 il regime pretendeva la completa sottomissione da parte degli scrittori e degli artisti. Boris Pasternak smise di scrivere per un decennio e pubblicò alcune poesie solo durante la guerra, per poi cadere nuovamente in un ostinato silenzio di protesta contro le purghe di Zdanov, e non scrisse più nulla fino alla pubblicazione del Dottor Zivago, opera vincitrice del premio Nobel in Svezia e prontamente bandita in Urss.

Nel campo della musica grandi compositori come Shostakovich e Prokofiev vennero umiliati pubblicamente e i loro lavori furono denunciati da burocrati ignoranti come Zdanov, l’omologo di Viscinskij nel mondo della cultura. Come nei processi-farsa delle purghe, centinaia di artisti furono costretti a recitare confessioni rituali e questo non fu sufficiente a salvare loro stessi e alcune delle loro migliori opere dalla censura di regime. Questo fu il destino dell’opera di Shostakovic La Lady Macbeth di Mtsensk e della Sesta sinfonia di Prokofiev, entrambe bandite da Stalin ed eseguite in Russia solo molti anni più tardi.

Sotto Stalin, la scienza era completamente ostaggio della burocrazia, che decideva quali teorie fossero accettabili per l’élite dominante e quali dovessero essere proibite. Così nel campo della genetica la ricerca sovietica fu rallentata per decenni dall’accettazione delle teorie errate di Lysenko, il quale godeva della protezione di Stalin. Una situazione simile si verificò nel campo della linguistica, dove le teorie fasulle di Marr vennero per anni imposte agli studiosi, fino a quando, poco prima della sua morte, il Grande Capo inaspettatamente intervenne con una sua opera sulla linguistica, suscitando grave scompiglio tra le fila di burocrati ed accademici che fecero dietro front su tutta la linea in 24 ore!

Peggio ancora, una scienza di cruciale importanza come la cibernetica venne denunciata come insensatezza borghese reazionaria e praticamente proibita. Questa decisione irresponsabile da sola bastò a far restare indietro di molti anni l’Unione Sovietica nel campo vitale della ricerca sui computer. Per qualche ragione lo stesso accadde con la teoria della risonanza e lo stesso Einstein era guardato con sospetto, anche se in generale i fisici se la cavarono meglio dato che Stalin era ansioso di ottenere la bomba atomica al più presto. Solo la matematica pura sembrò uscirne indenne, presumibilmente perché i burocrati non ci capivano un’acca! Coloro che osavano protestare venivano ignorati, scavalcati nelle promozioni o persino arrestati. In un simile clima nessuno osava fare una mossa prima di essersi guardato le spalle: un’atmosfera non proprio adatta a incoraggiare i grandi balzi in avanti e il pensiero innovativo.

A questo si aggiunga l’aggravante che gli scienziati sovietici erano in gran parte rimasti tagliati fuori dai contatti con le correnti più avanzate del pensiero scientifico su scala mondiale, se escludiamo la lettura dei riassunti che erano messi a loro disposizione. Il quadro che ne emerge è scoraggiante ma spiega perché, nonostante vi fosse un gran numero di validi scienziati, questi non seppero ottenere gli stessi risultati dell’Occidente. La libertà di criticare, di sperimentare e di commettere errori è essenziale per il progresso scientifico.

Una situazione analoga esisteva nel campo della filosofia. Solo il fatto che in settant’anni non sia emersa da tutta la produzione accademica dell’Urss una sola opera originale di filosofia o di economia basterebbe a ottenere una condanna inappellabile dello stalinismo da un punto di vista storico. Con tutte le risorse di un’economia sterminata a disposizione non furono in grado di aggiungere nulla che abbia un valore scientifico alle opere e alle analisi che un uomo, da solo, seppe formulare seduto nella sala di lettura del British Museum, il che commenta a sufficienza il cosiddetto marxismo-leninismo del regime stalinista. C’è poco da meravigliarsi se i rigidi dogmi privi di vita che vennero dati in pasto a generazioni di studenti sotto questo nome provocarono solo avversione e ottennero unicamente lo scopo di screditare la stessa idea del marxismo agli occhi di un gran numero di validi intellettuali e di giovani.

Non è un caso che i primi fermenti di rivolta contro la burocrazia in Europa orientale si fecero sentire fra gli intellettuali. L’intellighenzia non è in grado di giocare un ruolo indipendente nella società, ma è un barometro estremamente sensibile che riflette le tensioni che si accumulano nei recessi della società già in uno stadio molto precoce. Questo spesso crea l’illusione che gli studenti possano causare un movimento rivoluzionario, laddove in realtà agiscono solo come una scintilla che infiamma il materiale combustibile accumulato nelle fondamenta della società nel periodo precedente. Fu così in Francia nel 1968, e tale fu il ruolo dei circoli intellettuali nell’est europeo, come il circolo Petöfi nell’Ungheria del 1956.

Questo fermento fra gli intellettuali esisteva anche in Unione Sovietica. Dopo la morte di Stalin un settore degli scrittori sovietici cominciò ad affermare i propri diritti contro la presa soffocante della censura ufficiale. La letteratura ufficiale sovietica era moribonda. La poetessa Vera Inber dichiarò audacemente che nessuno leggeva la poesia sovietica, che nessuno l’avrebbe letta fino a quando non fosse stata altro che “la solita diga, la solita escavatrice a vapore”.

In un pezzo teatrale pubblicato durante il cosiddetto disgelo il drammaturgo Zorin ritrae il conflitto fra un vecchio veterano rivoluzionario, Kirpicev, e suo figlio, il carrierista burocrate di partito Piotr:

«Il paese è diventato più forte» – dice il vecchio Kirpicev – «e la gente più prospera. Ma a fianco dei produttori e dei lavoratori che non si risparmiano sono apparse, impercettibilmente, eppure ormai numerose, persone come te: aristocratici dal colletto bianco, avidi e presuntuosi, lontani dal popolo».

(…) «Io semplicemente lavoravo, fianco a fianco con i coltivatori delle nostre terre» – esclama il vecchio Kirpicev. – «Lavoravo. E non conoscevo il gusto del potere. Ma tu lo hai conosciuto fin dall’infanzia; e ti ha avvelenato.»18

Il pezzo di Zorin era troppo per le autorità. La Sovietskaja Kultura protestò:

“Solo una persona totalmente ignorante dei fatti della vita, che chiuda intenzionalmente gli occhi di fronte a quando avviene davanti a noi ogni giorno, può pronunciare simili sciocchezze perniciose. Chi tra noi non sa che l’obiettivo e il contenuto dell’intera attività degli organi sovietici – ministeri, dipartimenti, e tutto il resto – è costituita dalla preoccupazione quotidiana per gli interessi vitali del popolo lavoratore, e che la stessa parola «potere», a causa di ciò, è divenuta qui qualcosa di luminoso, rallegrante, l’incarnazione delle più belle speranze e aspirazioni di ogni uomo e donna sovietici, e che il nostro popolo guarda al proprio potere popolare con fiducia incrollabile e con un caloroso amore filiale?”

Non bastava che l’artista o lo scrittore accettassero lo Stato totalitario. Era necessario che vi guardasse con “fiducia incrollabile” e “caloroso amore filiale”. In altre parole ci si aspettava che l’artista si prostituisse, cantasse le lodi dello Stato e della burocrazia, e che per di più lo facesse sinceramente, con tutto il cuore, altrimenti sarebbe stato condannato come un traditore che si occupava di “sciocchezze perniciose”. C’è da meravigliarsi che un simile regime ispirasse repulsione nei migliori artisti e intellettuali? I cosiddetti sindacati degli scrittori, compositori e artisti non erano altro che corpi ausiliari della polizia, gestiti da agenti fidati della burocrazia come il vecchio stalinista Fadeev, presidente del sindacato degli scrittori.

Zorin cadde in disgrazia e, nell’estate del 1954, tutte le maggiori riviste letterarie vennero pesantemente censurate e i direttori di tre di esse furono licenziati. La reazione del regime non era dettata da considerazioni letterarie; temeva che l’opposizione degli intellettuali potesse rappresentare un punto di riferimento per focalizzare lo scontento accumulato delle masse. I burocrati avevano pienamente ragione; l’apparizione del romanzo di Dudintsev Non di solo pane innescò una nuova ondata di critiche e di opposizione fra i giovani, che si propagò nelle fabbriche:

“Le autorità erano allarmate. In tutta la Russia gli studenti delle università e dei politecnici stavano lanciando giornali murali e manifesti ciclostilati che esprimevano e chiedevano la rivolta, non contro il sistema sovietico in sé, ma contro la corruzione, il filisteismo e le cupe e oppressive convenzioni dei governanti. Quando questo ambiente cominciò a diffondersi alle fabbriche, quando nelle caserme della Marina di Kronstadt e Vladivostok cominciarono ad apparire giornali murali e nelle assemblee di fabbrica gli agitatori ufficiali venivano continuamente interrotti con domande imbarazzanti, la situazione cominciò a farsi chiaramente seria.”19

Il giovane poeta Evghenij Evtuscenko era ostile alla burocrazia, ma difese sempre la rivoluzione. Nell’ottobre del 1956 osò pubblicare dei versi che mettevano in discussione la cosiddetta campagna di destalinizzazione:

 

Certamente vi sono stati cambiamenti; ma dietro ai discorsi

si fanno giochi oscuri.

Parliamo e parliamo di cose che non nominavamo ieri;

Non diciamo nulla di quello che noi stessi abbiamo fatto.

Evtuscenko venne espulso dal Komsomol (la gioventù comunista) nel 1957, quando il governo cominciò a reprimere gli studenti che avevano simpatizzato con la rivoluzione ungherese. Con grande coraggio, egli ribatté con una poesia che – fatto straordinario – fu pubblicata sul Novy Mir:

Quanto è terribile non apprendere mai,

Pretendere il diritto di giudicare

Di accusare giovani ribelli, dal cuore puro

Di disegni impuri.

Non c’è virtù negli zelanti del sospetto.

I giudici ciechi non servono il popolo.

Il processo agli scrittori

Anni dopo, nel 1988, Evtuscenko pronunciò al sindacato degli scrittori un discorso coraggioso contro la burocrazia, citato all’inizio del paragrafo precedente, nel quale denunciava i privilegi dell’élite del partito. Sotto Breznev la situazione degli artisti e degli scrittori era progressivamente peggiorata. Per lo meno con Kruscev la campagna di “destalinizzazione” aveva lasciato aperto un piccolo spiraglio all’espressione artistica. Ma, per ragioni già spiegate, un regime totalitario non può tollerare la minima concessione alla libertà di parola. Gli esperimenti di Kruscev dimostrarono alla casta dominante che stava inoltrandosi su un terreno pericoloso e lo spiraglio venne bruscamente richiuso. Una serie di processi tristemente noti contro scrittori come Sinjavskij e Daniel lanciarono un cupo avvertimento a tutta la comunità artistica di non uscire dal seminato. Per l’ennesima volta gli artisti e gli intellettuali furono costretti a chinare il capo digrignando i denti, o a pagare le conseguenze della loro ribellione. Il risultato di questa persecuzione fu di spingere una fascia degli artisti e degli intellettuali verso atteggiamenti antisovietici, minando così ulteriormente il sistema alle sue basi.

In modo vergognoso il partito tentò di attribuire a Lenin la dottrina secondo la quale gli scrittori devono solo portare avanti idee che riflettano la “linea generale”, non preoccupandosi minimamente di avere così falsificato da cima a fondo ciò per cui Lenin si era sempre battuto. Basta dare una semplice occhiata agli articoli di Lenin per mostrare come il loro significato sia stato violentato e tratto fuori dal contesto. Lenin si riferiva alla stampa di partito, il che è completamente diverso dalla letteratura in generale. Un partito è un’unione volontaria; nessuno è obbligato ad aderirvi. È ragionevole aspettarsi che gli articoli nei giornali del partito riflettano in generale le idee del partito. Ma Lenin non si sognò mai di applicare questo principio allo Stato.

In realtà Lenin scrisse poco sull’arte e la letteratura, essendo assorbito da altre questioni. I suoi gusti letterari erano in genere piuttosto tradizionali ed egli amava principalmente i classici. Non gli piaceva la poesia di Majakovskij, troppo moderna per i suoi gusti. In una occasione, dopo la rivoluzione, quando c’era una forte penuria di carta, inorridì nello scoprire che i versi di Majakovskij sarebbero stati pubblicati in grande tiratura; ma non gli venne mai in mente di usare la sua influenza per impedirlo. Quando a capo dello stato sovietico c’erano Lenin e Trotskij gli artisti e gli scrittori godevano della più ampia libertà di lavorare e di sperimentare. Questo spiega la straordinaria fioritura dell’arte e della letteratura nel primo periodo del potere sovietico.

Il totalitarismo stalinista ha prodotto un’influenza rovinosa sull’arte e la letteratura. La rivendicazione di “libertà” toccava una corda sensibile, ma il movimento verso l’economia di mercato ha significato, per il mondo della cultura russa, saltare direttamente dalla padella nella brace. I mafiosi, gli speculatori e i nuovi arricchiti non sono meno ignoranti ed arroganti dei vecchi burocrati. Il massacro della spesa statale per l’istruzione e la cultura ha assunto la natura di palese vandalismo. I prevedibili effetti sono stati immediati e devastanti.

La disoccupazione e la povertà colpiscono gli intellettuali quanto i lavoratori. Istituzioni nazionali come il teatro Bolshoi hanno visto precipitare i loro standard artistici. Giovani musicisti promettenti emigrano all’estero per trovare da vivere in orchestre provinciali di secondo livello.. Il mondo della cultura si trova strettamente avvinto da nuove catene che hanno sostituito le vecchie, poiché è altrettanto facile opprimere, asservire e costringere al silenzio l’individuo usando il monopolio della ricchezza che attraverso il controllo dello Stato. Significa scambiare una schiavitù con un’altra. Questo è tutto!

Al tempo stesso una nuova generazione di opportunisti e di speculatori culturali si occupa di soddisfare i gusti dei nuovi capitalisti mafiosi. Seguendo questa strada non c’è un vero futuro per l’arte, la scienza e la letteratura. Solo un vero regime di democrazia socialista potrebbe offrire il terreno adatto al libero fiorire della cultura. Il socialismo venne una volta definito da Trotskij come “relazioni umane senza avidità, amicizia senza invidia ed intrighi, amore senza vile calcolo”. La lotta per una simile società è un degno obiettivo per uomini e donne che hanno dedicato le loro vite alla ricerca dell’armonia, della verità e della bellezza.

Trotskij, a differenza di Lenin, scrisse molto sull’arte e la letteratura. In qualche modo trovava il tempo per partecipare agli infuocati dibattiti che si svolgevano negli anni ’20 fra le differenti scuole letterarie. I suoi scritti, che difendevano un punto di vista marxista, classista, verso l’arte, apparvero sotto il titolo Letteratura e rivoluzione. Nel dare la sua opinione su tutte le scuole da un punto di vista marxista, tuttavia, Trotskij non tentò mai di imporre le sue opinioni, o quelle del partito bolscevico agli artisti, e meno ancora di richiedere “amore filiale” e “fiducia incrollabile” verso lo stesso partito. Amore e fiducia devono essere conquistati, non richiesti o imposti con le leggi e la censura.

Anni più tardi, quando Trotskij si trovava in esilio in Messico e tentava di raccogliere le forze del bolscevismo-leninismo non dimenticò le forze dell’intellighenzia creativa. In una lettera datata 1º giugno 1938 scrisse quanto segue:

“La dittatura della burocrazia reazionaria ha soffocato o prostituito l’attività intellettuale di un’intera generazione. È impossibile guardare senza provare una ripugnanza fisica le riproduzioni delle pitture e delle sculture sovietiche, nelle quali funzionari armati di pennello, sotto la sorveglianza di funzionari armati di pistola, glorificano come «grandi uomini» e «geni» i loro capi, in realtà privi della più piccola scintilla di genio o di grandezza. L’arte dell’epoca stalinista passerà alla storia come l’espressione più spettacolare del più abissale declino che la rivoluzione proletaria abbia mai subìto. Solo una nuova ascesa del movimento rivoluzionario può arricchire l’arte di nuove prospettive e possibilità. La Quarta internazionale ovviamente non può assumersi il compito di dirigere l’arte, vale a dire di dare ordini o prescrivere metodi. Un simile atteggiamento poteva essere concepito solo nei crani dei burocrati moscoviti, ubriachi di onnipotenza. L’arte e la scienza non trovano la loro natura fondamentale attraverso i mecenati e i protettori; l’arte, per la sua stessa natura, li rifiuta. L’attività creativa rivoluzionaria ha le proprie leggi interne, anche quando coscientemente serve lo sviluppo sociale. L’arte rivoluzionaria è incompatibile con la falsità, l’ipocrisia e il quieto vivere. Poeti, artisti, scultori e musicisti troveranno da sé la loro strada, se il movimento rivoluzionario delle masse dissiperà le nuvole di scetticismo e di pessimismo che oggi oscurano l’orizzonte dell’umanità. La nuova generazione di creatori deve essere convinta che il volto delle vecchie Internazionali rappresenta il passato dell’umanità, e non il suo futuro.”20

Note

  1. World Marxist Review, ott. 1966, cit. da Robert Black, Stalinism in Britain, pagg. 383-5
  2. The Guardian, 19/11/86
  3. Morning Star, 5/8/82, enfasi mia.
  4. Citato dal Morning Star, 5/8/82.
  5. Roy Medvedev, On socialist democracy, pagg. 5-6
  6. Ibid. On socialist democracy, pag. 12
  7. Resoconto del XXIII congresso del Pcus, pagg. 89-90
  8. L. Trotskij, La rivoluzione tradita, pag. 14
  9. Resoconto del XXIII congresso del Pcus, pag. 175
  10. The Guardian, 7/5/96
  11. 11.Literaturnaya Gazeta, novembre 1976
  12. David Granick, The Red Executive, pag. 34
  13. The Times, 27/2/86
  14. Financial Times, 2/7/86
  15. Grigorenko, op. cit., pagg. 408-9
  16. Ibid., pag. 407
  17. Cit. in Edward Crankshaw, op. cit., pag. 108
  18. Edward Crankshaw, Op. cit., pagg. 115-6
  19. L. Trotsky, Writings 1937-38, pagg. 351-2
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