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Il PCR e il comunismo in Italia

di Claudio Bellotti

Il comunismo in Italia vanta una lunga e profonda tradizione. Il PCI è stato nel dopoguerra il maggiore partito comunista dell’Occidente e il suo scioglimento nel 1991 ha segnato un passaggio cruciale nella storia del movimento operaio italiano.

Nel fondare, come stiamo facendo, il Partito Comunista Rivoluzionario abbiamo quindi l’obbligo di confrontarci con la tradizione comunista nel nostro paese. Affinché il PCR possa porsi all’altezza dei compiti che ci poniamo è indispensabile che i nostri militanti e i nostri quadri, presenti e futuri, abbiano una conoscenza approfondita di questa storia.

Rimandiamo a occasioni future di trattare altre vicende significative come quella dell’estrema sinistra degli anni ’60 e ’70 o di Rifondazione Comunista.

Parlando del PCI, diciamo subito che il cosiddetto “comunismo italiano”, che si incarnerebbe in particolare in figure come Gramsci o Berlinguer, è una mistificazione ideologica. Le diverse correnti teoriche e politiche che hanno segnato la storia del PCI non possono essere comprese se non in rapporto alla lotta di classe internazionale e con lo sviluppo di analoghe correnti su scala internazionale. Esistono indubbiamente delle specificità, dettate da precise condizioni materiali e storiche nelle quali si è sviluppata la lotta di classe nel nostro paese. Ma queste specificità non hanno mai costituito una “realtà nazionale” del comunismo, bensì una manifestazione concreta e specifica di processi generali.

Tre sono state le fasi decisive della lotta di classe in Italia, nelle quali il conflitto di classe pose apertamente la questione del potere, ossia la possibilità di una rivoluzione. 1) Il Biennio Rosso del 1919-20, culminato con l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920; 2) Gli anni della caduta del fascismo e della Resistenza, inaugurati dagli scioperi del marzo 1943 e chiusi dalla sconfitta delle sinistre nelle elezioni dell’aprile 1948; 3) Il ciclo di lotte aperto dall’Autunno Caldo del 1969 e concluso con la sconfitta degli operai della Fiat nella lotta dei “35 giorni” del 1980.

Tutti e tre questi periodi storici sono stati qualificanti anche per la traiettoria del comunismo in Italia.

Il Bienno Rosso

Il Biennio Rosso fu una diretta conseguenza della Prima guerra mondiale, dell’esaurimento e della rivolta delle masse dopo quattro anni di massacri e di privazioni, ma anche della rivoluzione russa dell’ottobre 1917. Nel marzo del 1919 era stata fondata l’Internazionale Comunista e il Partito Socialista Italiano (PSI), allora il partito di massa della classe operaia italiana, aveva dato la sua adesione ufficiale alla nuova Internazionale.

Tuttavia il PSI era ben lungi dall’essere un partito rivoluzionario. Se la sua base, e in generale la massa degli sfruttati, simpatizzava profondamente per la Rivoluzione d’Ottobre, se si voleva “fare come in Russia”, ossia rovesciare il dominio della borghesia e degli agrari, i dirigenti del PSI, anche i più onesti e di sinistra, non erano minimamente attrezzati per guidare una rivoluzione. Non esisteva neanche lontanamente un gruppo dirigente e dei quadri che avessero le conoscenze teoriche e pratiche e la tempra che avevano permesso al partito bolscevico di guidare la Rivoluzione d’Ottobre.

L’ondata di scioperi e lotte del Biennio Rosso mostrò il suo carattere rivoluzionario in particolare nella nascita dei Consigli di fabbrica, elementi embrionali di un possibile potere operaio, così come nell’emergere di una nuova generazione di militanti rivoluzionari.

Nel gennaio del 1921, alla fondazione del Partito Comunista d’Italia (PCdI), confluiranno quindi militanti come Bordiga, che già durante la guerra si erano definiti politicamente, distaccandosi sempre nettamente dalle posizioni confuse, semi-pacifiste e semi-rivoluzionarie che prevalevano nel PSI, e altri come il gruppo torinese dell’Ordine nuovo (Gramsci, Togliatti, Terracini, Tasca) che durante gli avvenimenti del 1919-20 maturarono la rottura col PSI e la sua corrente “massimalista”.

Tuttavia il nuovo partito arrivò a costituirsi (con oltre 50mila militanti) quando l’apice del movimento era già alle spalle e iniziava la reazione squadrista del fascismo, al quale la borghesia affidò il compito di ristabilire l’ordine dopo la “grande paura” dell’occupazione delle fabbriche.

Senza entrare nei dettagli, ci preme qui evidenziare come il comunismo in Italia sia nato come parte di un processo internazionale e come espressione di una lotta di classe rivoluzionaria e aperta da parte della classe operaia e delle altre classi oppresse.

Gli avvenimenti degli anni ’40

Molto differente fu il quadro 25 anni dopo. Il PCdI attraversò la lunga notte del regime fascista in condizioni di clandestinità e fu indubbiamente il partito più colpito dalla repressione. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale si contavano forse 8mila militanti, dei quali una grande parte in carcere, al confino o in esilio all’estero.

Al tempo stesso il gruppo dirigente aveva subìto tutte le conseguenze dell’ascesa dello stalinismo e della degenerazione burocratica dell’Internazionale Comunista. Togliatti emerse come la figura centrale nel garantire la sottomissione e l’obbedienza del PCdI alle direttive di Mosca, soprattutto a partire dal 1930 quando il gruppo dirigente fu “epurato” con l’espulsione di 3 componenti su 7 dell’Ufficio politico.

La Seconda guerra mondiale aprì la strada a giganteschi avvenimenti rivoluzionari su scala ancor più ampia della Prima. Il fascismo italiano fu uno dei primi “anelli deboli” a rompersi. La serie delle fallimentari guerre del fascismo culminò con la ritirata di Russia, seguita alla battaglia di Stalingrado, e nel marzo 1943 gli scioperi di massa di Torino e Milano annunciarono il risveglio della classe operaia e l’inizio della fine per il regime.

Gli scioperi di massa fino al grande sciopero generale del marzo 1944, il più grande sciopero nell’Europa occupata, e il crescente movimento partigiano, nel quale la componente più numerosa è quella legata al Partito comunista, dimostrano che le masse sono decise a lottare non solo contro il fascismo ormai putrefatto, ma anche contro la borghesia che lo aveva posto al potere.

Con l’avanzata dell’Armata Rossa in Europa orientale, l’insurrezione partigiana vittoriosa in Jugoslavia e Albania, la guerra civile e l’intervento inglese in Grecia contro i partigiani comunisti, la Resistenza e la crescita del Partito comunista in Francia, appare possibile che il comunismo dilaghi in tutta Europa. Con il crollo del nazifascismo la borghesia non dispone più di una solida base per reprimere con la forza il movimento operaio. La reazione ha perso la sua base di massa.

Tuttavia la politica del Partito comunista è determinata da priorità che nulla hanno a che vedere con la rivoluzione. Se nel 1919 il Partito bolscevico aveva promosso la costruzione dell’Internazionale comunista come strumento della rivoluzione mondiale, con la degenerazione burocratica dell’Unione sovietica e il consolidarsi dello stalinismo, la priorità di Mosca è ora quella di stabilizzare e normalizzare i rapporti con il mondo capitalista. La burocrazia sovietica deve difendere il proprio potere e vede come un pericolo mortale lo sviluppo di qualsiasi rivoluzione che potrebbe creare un punto di riferimento alternativo nel movimento operaio internazionale, e offrire un esempio di democrazia operaia in contrapposizione al regime burocratico e repressivo che usurpa il nome del socialismo e della Rivoluzione d’Ottobre.

I partiti comunisti non devono più essere avanguardie di nuove rivoluzioni, ma forza ausiliaria che assecondi le combinazioni diplomatiche di Mosca. La stessa Internazionale Comunista è stata sciolta nel 1943 da Stalin con un tratto di penna, come segno tangibile offerto all’Occidente che l’URSS non promuove più la rivoluzione mondiale.

La politica del PCI guidato da Togliatti è l’applicazione obbediente di questa linea. Con la “svolta di Salerno” (aprile 1944) il PCI accetta di entrare nei governi di coalizione con la Democrazia Cristiana, i socialisti e gli altri partiti borghesi e si prodiga, con le parole e con i fatti, a fare da argine a qualsiasi movimento insurrezionale. L’obiettivo non è più il socialismo ma la “democrazia progressiva”, formula vuota con la quale si copre la restaurazione capitalistica e la ricostruzione dello Stato borghese. Il disarmo dei partigiani, l’amnistia ai fascisti concessa da Togliatti in quanto ministro, la dissoluzione di ogni elemento di contropotere operaio (come i consigli di gestione sorti nelle fabbriche abbandonate dai padroni dopo il 25 aprile), sono alcuni degli elementi di questa politica di restaurazione.

La massa degli sfruttati vede nel PCI e nell’URSS vittoriosa le guide di un processo che potrebbe portare l’Italia al socialismo, a rovesciare il potere della borghesia. Il PCI organizza oltre due milioni di iscritti, è la forza maggioritaria nella CGIL. Ma si tratta di una speranza drammaticamente errata, e nel giro di pochi anni la classe dominante, sostenuta dall’imperialismo USA, può rinsaldare il proprio potere.

Si parlò a suo tempo della “doppiezza” del PCI e di Togliatti, che a dire dei reazionari parlavano di democrazia ma in realtà aspettavano “l’ora X” per scatenare una rivoluzione. Ma la vera doppiezza era quella esercitata contro le masse, che videro tradite le loro aspettative.

Gli anni ’70 e il “compromesso storico”

Se tra il primo e il secondo dopo guerra c’è quindi una contrapposizione frontale rispetto al ruolo dei comunisti, diverso è il rapporto tra gli anni ’40 e gli anni ’70. Il PCI arriva all’Autunno Caldo come un partito consolidato nel suo insediamento elettorale e militante, ma profondamente influenzato dall’epoca precedente. Il “miracolo economico” del dopoguerra ha creato le basi per una rinascita del riformismo in tutto l’Occidente. Nell’elaborazione dei dirigenti del PCI il riferimento al socialismo, al marxismo, diventa sempre più vago e sfumato, al posto della rivoluzione si postula una transizione pacifica con la “via italiana al socialismo” sulle basi della Costituzione.

La forte tradizione militante e l’identificazione con le aspirazioni comuniste impedivano di abbracciare apertamente un’identità compiutamente riformista, ma le forze materiali premevano in quella direzione. Né si trattava solo di riferimenti teorici e culturali. Il rapporto con l’URSS costituiva un elemento di emarginazione del PCI rispetto alla borghesia italiana e agli USA, che vedevano il partito come una forza da escludere da qualsiasi coalizione di governo.

Gli anni ’70 sono la fase in cui questa contraddizione arriva al punto di rottura. Le lotte operaie e giovanili dal 1968-69 in avanti hanno ribaltato i rapporti di forza. La classe lavoratrice è all’offensiva e verso la metà degli anni ’70 verso il PCI convergono nuovamente grandi speranze di cambiamento della società. Lo slogan “È ora di cambiare, il PCI deve governare!” si riflette nelle grandi avanzate elettorali del 1975-76, che portano il partito oltre i 12 milioni di voti. D’altra parte nella stessa borghesia prevalgono le posizioni di chi ritiene inevitabile una collaborazione almeno temporanea col gruppo dirigente del PCI per riprendere il controllo della situazione, in una sorta di ripetizione di quanto avvenuto nel 1945-48.

Il risultato di questa doppia spinta viene razionalizzato da Berlinguer, che nel 1973 propone la linea del “compromesso storico”, ossia una prospettiva di governo comune tra comunisti, socialisti e democristiani. È una reincarnazione della “svolta di Salerno” di Togliatti, e come quella chiarisce che l’obiettivo del PCI non è una rivoluzione e neppure un governo delle sinistre, ma la collaborazione di classe con il principale partito borghese (la DC appunto). Nel 1976, alla vigilia delle elezioni politiche, la linea del compromesso storico viene completata con la dichiarazione di Berlinguer di “sentirsi più sicuro” sotto l’ombrello della NATO. Anche se la rottura finale con Mosca arriverà solo nel 1980, di fatto il passaggio è stato completato: l’apparato del PCI abbandona la “doppia fedeltà” e riconosce pienamente il suo inserimento nel quadro del capitalismo italiano, del suo apparato statale e delle sue alleanze internazionali.

Solo tenendo conto di questi passaggi fondamentali (e di altri che per motivi di spazio non possiamo trattare in questa sede) è possibile comprendere anche la parabola sfociata infine nell’odierno Partito Democratico.

Una sconfitta storica, quindi. Ma oggi possiamo anche dire la fine di un equivoco che ha condannato almeno tre generazioni di militanti a disperdere i loro sforzi generosi ed eroici.

Le macerie ideologiche di quella storia sono ampiamente superate. Nessuna delle idee e delle formule politiche delle quali si nutrivano i dirigenti del “grande PCI” può esercitare oggi alcun ruolo reale. Le macerie materiali invece verranno definitivamente spazzate via solo quando la lotta di classe riprenderà ad avanzare, e darà nuova vita e una forma finalmente adeguata alle aspirazioni rivoluzionarie che per generazioni si sono espresse nell’adesione di massa all’idea del comunismo.

 

 

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