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Il nostro femminismo

di Camilla Ravera 

 

da L’Ordine nuovo del 10 marzo 1920*

La  III Internazionale, nel suo I Congresso di fondazione, aveva approvato soltanto un documento di orientamento generale sul movimento femminile. Ma nel congresso – che segnò l’effettiva costruzione della nuova Internazionale – discusse in apposita commissione femminile il problema della donna; ed elaborò un’ampia risoluzione, in cui si riconosce l’uguaglianza giuridica fra i due sessi, si respinge il pregiudizio della diversa morale sessuale fra l’uno e l’altro sesso, si rivendica la parità di retribuzione, preparazione ed avanzamento professionale, si riconosce alla maternità il valore di funzione sociale, e alla società il conseguente obbligo di creare istituzioni per l’infanzia e per l’età scolastica, e si sottolinea l’esigenza e la importanza della partecipazione femminile alla generale attività sociale, politica, culturale.

La III Internazionale creò il Segretariato internazionale femminile, presieduto da Clara Zetkin, e invitò i partiti comunisti a costituire analogamente propri organismi, nazionali e locali, per il lavoro femminile. A questa indicazione si attenne il Partito comunista italiano, costituendo, presso la segreteria centrale del partito, una commissione femminile; la quale, come inizio della propria attività, invitò le compagne di ogni federazione provinciale comunista ad esporre in un breve documento la propria opinione circa l’orientamento da dare al lavoro tra le donne.

Da Torino si rispose a quell’invito con uno scritto, apparso il 10 marzo 1921 su L’ordine nuovo – primo quotidiano del Partito comunista italiano, fondato e diretto da Antonio Gramsci – con il titolo Il nostro femminismo. Diceva:

“Il movimento femminile comunista – secondo il Comitato comunista di lavoro fra le donne di Torino – non è un movimento ‘femminista’. Il ‘femminismo’”, quale oggi appare nei suoi sostenitori, col suo programma limitato alla affermazione della parificazione dei due sessi, non può offrire alle donne, e tantomeno alle proletarie, il rimedio alla loro presente doppia servitù e la promessa di un avvenire migliore. L’uomo e la donna hanno nella vita una funzione loro propria, hanno nella loro natura dei propri valori fisici, intellettuali e sentimentali: si tratta di porre l’uno e l’altro in condizioni tali che ognuno possa liberamente svolgere, manifestare e utilizzare tali valori a beneficio proprio e della collettività. Liberato l’uomo e la donna da ogni servitù economica, posti nella possibilità di scegliere quella specie di produzione verso cui si sentono più attratti, e della quale si riconoscono più capaci, restituita ad entrambi la vera libertà di fronte alla propria natura, l’uno e l’altra potranno cooperare insieme ed intensificare, arricchire, abbellire la vita dell’umanità: seguendo ognuno la via che gli è segnata dalla natura, valendosi delle potenzialità di cui dispone, creando in sé delle possibilità nuove, nel continuo processo di evoluzione e di differenziazione che accompagna e determina la storia umana. La società umana deve utilizzare gli uni e le altre quanto più e quanto meglio è possibile, liberandoli da tutte le servitù.

Poiché solo il comunismo creerà questa libertà, solo nel comunismo la donna potrà trovare finalmente la sua emancipazione.

“Non è esistito nel mondo intero, in questi ultimi dieci anni, un partito democratico che abbia fatto per la emancipazione della donna la centesima parte di quanto la Repubblica dei Soviet ha realizzato in un anno”, diceva Lenin nel gennaio 1920. E aggiungeva: “Comprendiamo però chiaramente che il nostro lavoro ha solo un carattere preparatorio, ed è destinato a spianare il terreno per l’edificio da costruire.”

Il Comitato comunista di lavoro fra le donne dà al movimento femminile i seguenti compiti:

1) educare le lavoratrici alla conoscenza del comunismo;

2) studiare tutti i momenti e lati della vita femminile, e studiare i modi migliori di provvedere alle esigenze di essa. Per esempio:

Come debba essere informato e diretto il processo della educazione della donna; nel quale, come l’uomo, la donna deve essere preparata a diventare un elemento produttivo ed attivo della società, e ad assicurarsi la propria indipendenza economica;

Quali particolari forme di produzione possano esserle affidate in relazione alle sue possibilità costitutive;

Come debba essere tutelata e valorizzata dalla società la sua eventuale maternità. La donna madre non deve perdere il diritto alla sua indipendenza economica: e tuttavia la madre, secondo noi, almeno per il primo anno di vita del figlio, deve poter rivolgere tutte le sue attività all’allevamento e alle cure del bambino. Come la società comunista concilierà queste esigenze? Esigenze non inconciliabili, poiché l’allattamento e l’allevamento del bambino, oltre ad essere il soddisfacimento del naturale istinto materno, sono pure opera produttiva e utilissima per la famiglia umana;

e finalmente, come liberare la donna madre e compagna dell’uomo dalla schiavitù della sua casa, dove tutti i piccoli lavori familiari riducono la sua attività ad una serie infinita di minuscoli tormenti schiaccianti e bestiali. Come liberare la donna dalla schiavitù domestica, pur non trascurando i valori che sono nell’istinto materno, nella capacità femminile di creare e rendere dolce e riposante l’intimità, la casa, la famiglia: valori di cui non si può non tenere conto, poiché nella vita di ognuno hanno la loro importanza, e poiché non possiamo prevedere quale maggiore intensità ed elevatezza essi potranno acquistare in un tempo e in una società in cui, la vita materiale essendo per tutti meno dura e meno difficile, la vita dello spirito si farà più esigente, più intensa e più alta in tutte le sue manifestazioni.

La costituzione della famiglia, in una società comunista, subirà certamente delle grandi modificazioni: ma la famiglia non potrà essere abolita. Si libererà dal suo gretto spirito egoistico, naturale in un tempo come il nostro, in cui gli uomini si trovano l’uno di fronte all’altro, sfruttati e sfruttatori, o concorrenti disperati nel provvedersi il pane; si libererà dalla miseria che corrode tutti i sentimenti.

“Non possiamo prevedere le novità innumerevoli che creerà il nuovo mondo sociale nella vita sentimentale e morale dell’umanità nuova: la psicologia delle masse, i modi di pensare, di giudicare muteranno. Ma basandoci sugli elementi di cui oggi disponiamo, nella valutazione delle cose e dei possibili rivolgimenti, partendo dalla concezione che oggi abbiamo della famiglia, noi pensiamo che la donna vi debba compiere un’opera specifica da cui non possiamo, né vogliamo, dispensarla. Noi vogliamo interessare le donne a questi problemi; noi vorremmo che se ne interessassero anche i compagni comunisti” […]

Nel marzo 1922 ebbe luogo a Roma la I Conferenza nazionale delle donne comuniste, presieduta da Antonio Gramsci. Non fu una grande assemblea quanto a numero di partecipanti ed a precedente e preparatoria trattazione di temi e obiettivi; ma vivace e interessante quanto a scambio di informazioni e di opinioni.

Un commento critico di Camilla Ravera, apparso nel quotidiano L’ordine nuovo del 6 aprile 1922, diceva: “La I Conferenza nazionale delle donne comuniste aveva il compito di chiarire e precisare i principi, le direttive, le norme fondamentali del nostro movimento femminile, i modi e il contenuto della propaganda fra le donne; compito che non fu assolto in modo molto soddisfacente. Un numero esiguo di compagne intervenne alla conferenza, la quale non era stata preceduta da discussioni che in qualche modo ne preparassero il lavoro, presentassero o chiarissero dei particolari punti di vista, giungessero alla formulazione di tesi, di linee direttive che potessero poi essere considerate come il risultato di quelle discussioni e di quel convegno.

La discussione, durante la conferenza, si svolse in modo un po’ frammentario e talora confuso; e la confusione fu spesso prodotta, o accresciuta, da preoccupazioni e prevenzioni di carattere femminista: si ricadde nella vana discussione sulla superiorità o inferiorità dell’uno o dell’altro sesso, sulla rivendicazione di una maggiore considerazione della donna da parte dell’uomo, sul diritto di avere uguali attribuzioni di partito e nelle organizzazioni, o sopra altri simili argomenti ormai superati, o meglio, eliminati dai comunisti.

La questione femminile non è, per noi, soltanto una questione morale; né si deve pensare di risolverla con l’affermazione o la dimostrazione che la donna non è inferiore all’uomo, o con la richiesta dell’equiparazione dei due sessi, quale è intesa dal femminismo.

I comunisti vogliono realizzare per la donna, come per l’uomo, l’indipendenza economica; e risolvono in modo concreto il problema femminile riconoscendo alle particolari funzioni ed ai particolari uffici della donna (la maternità, la cura dei bambini e della casa) il valore di una funzione e di una produzione sociale: essi sopprimono, cioè, veramente le cause originarie della dipendenza della donna dal capitalista e dall’uomo; mentre con una migliore organizzazione, con l’industrializzazione del lavoro domestico, tendono a liberare la donna dalla schiavitù della casa. In questo modo realizzano veramente la equiparazione della donna: l’unica equiparazione praticamente realizzabile, e sopra questo loro programma richiamano l’attenzione delle proletarie. Indubbiamente la realizzazione di questa equiparazione reale, basata sull’indipendenza economica della donna dal capitalista e dall’uomo, produrrà degli effetti grandissimi sulla morale e sul costume; degli effetti che non sono forse neppure prevedibili e che rientrano nella grande rivoluzione morale e culturale che si svilupperà con la rivoluzione comunista. Noi, però, dobbiamo innanzi tutto richiamare l’attenzione delle donne sulle questioni che il comunismo si propone di risolvere.

In questo senso dobbiamo intendere e svolgere la nostra azione di propaganda fra le donne. I modi di azione variano naturalmente a seconda degli strati di popolazione a cui si rivolgono: nel nostro caso essi debbono giungere tre diverse categorie di donne:

1. la categoria delle donne salariate. L’opera di organizzazione di queste lavoratrici rientra nell’attività generale rivolta agli operai, e si può svolgere nelle organizzazioni sindacali, nelle fabbriche e nei circoli proletari; […]

2. la categoria delle donne piccolo-borghesi intellettuali (impiegate, insegnanti, ecc.) le quali, forse perché più consapevoli e più insofferenti delle particolari condizioni di dipendenza di cui soffre attualmente la donna, manifestano uno speciale interesse per la questione femminile: mediante una intelligente ed efficace azione, che può essere svolta nelle organizzazioni economiche o nei circoli culturali comunisti, si possono condurre queste lavoratrici dalle concezioni femministe piccolo-borghesi alla comprensione ed accettazione del programma comunista;

3. la categoria delle proletarie di casa. Esse non sono organizzate, né si possono organizzare con le forme sindacali; tuttavia debbono in qualche modo essere collegate con il movimento generale. I Circoli educativi comunisti, le leghe degli inquilini, i consigli di casa possono costituire gli organi di collegamento dove la nostra propaganda potrà raggiungerle e potrà influire.

La nostra propaganda tra queste donne dovrà essenzialmente basarsi sulle questioni economiche immediate, quali il caro-viveri, il caro-alloggi, ecc.; e su quelle questioni che particolarmente e direttamente interessano le donne di casa: le tristi e dure condizioni del lavoro domestico, la schiavitù della casa, il problema della maternità e dei bambini. La schiavitù della casa le affligge, le assilla, le avvilisce ogni giorno, ogni ora: e può far nascere il desiderio e far accogliere la speranza di liberarsene. Le proletarie di casa lavorano dodici ore della loro giornata a pulire, a lavare, a cucinare, a rattoppare, a fare un mondo di piccole cose antipatiche, pesanti, uggiose, che rubano tutto il tempo, che impediscono ogni occupazione, ogni soddisfazione dello spirito; che talora danneggiano la salute, sciupano la bellezza, la grazia femminile.

Noi dobbiamo comunicare alle proletarie di casa la persuasione che si può trovare il rimedio a questa situazione, la quale deriva dall’attuale organizzazione sociale e da un difetto di organizzazione del lavoro domestico; possiamo loro far comprendere, ad esempio, quanto sia assurdo che ogni donna nella sua casa debba dedicare quattro ore ogni giorno a cucinare i cibi, mentre, con una migliore organizzazione di questo lavoro, quattro o cinque donne nello stesso numero di ore potrebbero cucinare i cibi per un numero grandissimo di famiglie, con grande risparmio di tempo, di fatiche e di noia. […]

Noi dobbiamo persuadere le proletarie di casa che l’industrializzazione del lavoro domestico, voluta dai comunisti, potrà emanciparle dalla schiavitù della casa, e rendere meglio utilizzabili le loro capacità e le loro energie; e che ciò mentre sarà utile alla collettività, gioverà veramente a migliorare la condizione della donna, assicurandole la possibilità di elevarsi spiritualmente e di salvaguardare la sua salute e la sua bellezza.”

estratto da Breve storia del movimento femminile in Italia, Camilla Ravera, Editori Riuniti 1978, pp. 111-117

 

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