Il mito di Gramsci “l’Occidentale”. Egemonia, guerra di movimento e di posizione: cosa resta di Gramsci nel “gramscismo”?

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Il mito di Gramsci “l’Occidentale”. Egemonia, guerra di movimento e di posizione: cosa resta di Gramsci nel “gramscismo”?

“Il 21 gennaio 2021 sarà il centesimo anniversario della nascita del Partito Comunista d’Italia. Questa ricorrenza ci offre l’occasione per affrontare tutti i principali aspetti politici legati alla nascita del movimento comunista nel nostro paese: dai grandi avvenimenti storici come le lotte operaie del Biennio Rosso e l’ascesa del fascismo, alle tendenze principali nel movimento operaio dell’epoca (riformismo, massimalismo, astensionismo…); dal ruolo dell’Internazionale comunista nelle vicende italiane, fino alle idee politiche dei principali dirigenti come Gramsci e Bordiga.
 
Per affrontare tutti questi argomenti, come Sinistra Classe Rivoluzione organizzeremo un seminario nazionale proprio il 21 gennaio e pubblicheremo su questo sito una serie di cinque articoli. Cominciamo oggi con questo articolo di Francesco Giliani, che tratta dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci.”

la Redazione

 

di Francesco Giliani

 

«Organismi di conservazione sono oggi i partiti staliniani, i quali pretendono di imporre a priori la loro autorità e la loro direzione, sopprimendo nell’interno del partito e del movimento operaio ogni accettazione cosciente e spontanea del principio dell’autorità e della dittatura.

In tutta l’opera ed in tutto il pensiero rivoluzionario di Gramsci i due termini: libertà e dittatura, autorità e coscienza non sono mai disgiunti e opposti formalmente, ma trovano un nesso vivo e dialettico, nesso che il partito comunista stalinizzato ha completamente distrutto, sostituendo alla concezione del comunismo critico una concezione burocratica, idealistica dell’Ufficio del partito ».

(A. [Alfonso Leonetti], « Gramsci: l’Ufficio del Partito », La Verità, Parigi, n. 2, aprile 1934)

 

Premessa

Il destino postumo di Gramsci è un caso particolare e stridente di imbalsamazione del pensiero politico di un comunista. Pochi a sinistra lo criticano, anche tra i riformisti più inveterati. Sorte opposta a quel Lenin così intensamente presente nella formazione gramsciana. Il “gramscismo”, così, è diventato un’ideologia riformista.

Il dibattito interpretativo sul significato dei Quaderni del carcere è la chiave per comprendere come mai Gramsci non sia stato formalmente epurato dagli intellettuali e dai dirigenti di una sinistra profondamente degenerata a livello ideologico ed ossessionata, nei decenni alle nostre spalle, dalla volontà di considerare “cani morti” a turno un Lenin “troppo giacobino”, un Marx “liberato dall’utopia”, un Engels “positivista” e così via.

I Quaderni raramente sono stati letti per ciò che sono. Sin dal periodo successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, essi sono stati presentati e doviziosamente assemblati per accreditare culturalmente numerose svolte a destra della politica del PCI[1]. Dalla togliattiana «svolta di Salerno» del 1944, con la quale il PCI abbandonò la pregiudiziale anti-monarchica ed entrò nel governo Badoglio, al «compromesso storico» con la Democrazia Cristiana avanzato dall’allora segretario del PCI, Enrico Berlinguer, negli anni Settanta. In quei frangenti, quando il gruppo dirigente del PCI si presentava più apertamente come il “partito della nazione” e non come forza classista, aumentava anche il bisogno di accreditare la propria scelta in linea di continuità con la tradizione comunista, soprattutto per depotenziare ogni scavalcamento di massa alla propria sinistra. Era la “doppiezza” togliattiana.

Ancora negli anni Ottanta, comunque, negli imponenti cortei di partito uno slogan scandito con frequenza era «W il grande partito comunista / di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer». Persino al culmine del lungo cammino per accreditarsi presso la borghesia italiana come “responsabile” e razionale gestore delle contraddizioni della società capitalista, il gruppo dirigente dell’allora PCI (Natta, Occhetto, D’Alema ecc.) non pronunciò mai anatemi contro Gramsci. Al massimo, poteva accadere che Gramsci, in mezzo a fiumi di elogi, fosse definito «troppo fondamentalista», come fece nel 1987 Alessandro Natta, allora segretario del PCI[2]. Ciò rimase vero anche dopo lo scioglimento del PCI e la nascita del Partito Democratico della Sinistra (1991) e persino dopo la fondazione del PD (2007).

Ancora oggi, nel Comitato dei Garanti della Fondazione Gramsci si distinguono politici riformisti e liberali di provenienza PCI che verranno ricordati per le politiche anti-operaie e di privatizzazione del patrimonio pubblico e dello stato sociale che hanno portato avanti in questi ultimi decenni. Qualche nome? Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo, Massimo D’Alema, Vasco Errani, Piero Fassino, Anna Finocchiaro, Giorgio Napolitano, Achille Occhetto, Ugo Sposetti, Aldo Tortorella, Livia Turco, Walter Veltroni, Luciano Violante…

Gli intellettuali organici al gruppo dirigente del PCI hanno considerato Gramsci “cosa loro”. Furono sempre “giustificazionisti” davanti alle contraddizioni più palesi tra gli scritti del comunista sardo e la linea seguita nei decenni successivi dal PCI. Anche storici di un certo valore, come Paolo Spriano, difesero con accanimento la continuità Gramsci/Togliatti, pure a costo di accantonare provvisoriamente l’utilizzo di un metodo di ricerca rigoroso[3]. Esemplificativa di tale tendenza, politica e psicologica assieme, fu la risposta evasiva degli intellettuali del PCI quando, nel convegno organizzato nel 1977 per il 40° della morte di Gramsci, studiosi di area socialista (Norberto Bobbio, Massimo Salvadori) squarciarono in parte il velo posto su Gramsci, diventato “padre nobile” del « compromesso storico », chiedendo al PCI di abbandonare il comunista sardo in quanto inconciliabile con la via riformista di Enrico Berlinguer. Ma a quell’epoca esisteva ancora, nel PCI, un consistente strato di doppiezza: certe cose si facevano ma non si dovevano dire.

Dopo il crollo dello stalinismo nel 1989-1991, i “gramsciani” d’accademia hanno preso il testimone dai “gramsciani” di orbita PCI – spesso i secondi si sono trasformati nei primi. Gramsci è stato pienamente trasformato in un intellettuale dai tratti accademici. Un sacerdote del potere taumaturgico della parola e della scrittura.  Il Gramsci comunista, uomo di partito e legato alle avanguardie operaie torinesi, l’unico che conosciamo, è stato oscurato da un etereo intellettuale capace di affinare il marxismo – che, tra gli accademici, è considerato grezzo a priori – in un sofisticato strumento di analisi culturale, naturalmente senza alcuna finalità di trasformazione rivoluzionaria della realtà, men che meno in connessione con la classe lavoratrice.

Questa operazione politico-culturale, a dire la verità, ebbe già una potente anticipazione negli anni Sessanta e Settanta, quando l’arcipelago accademico del “marxismo occidentale”[4] fece di Gramsci uno dei suoi riferimenti, contrapposto al “marxismo orientale”, forma di pensiero per definizione propria di aree socio-economiche arretrate di cui il massimo interprete sarebbe stato Lenin, o un’essenza chiamata “leninismo” ma in realtà calcata sullo stalinismo ed ossessionata dalla presa del potere con la sola forza militare. La tesi, che dovette sembrare originale a tanti “cercatori di novità”, era già stata formulata nelle sue linee essenziali dal riformista socialista Filippo Turati e dalla socialdemocrazia internazionale tra la fine degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti.

Insomma, salvare Gramsci da Lenin e dalla rivoluzione d’Ottobre è, da decenni, il grido di battaglia di schiere di intellettuali e cattedratici variamente collocati nel campo della sinistra riformista, spesso ex stalinisti ma anche di provenienza “movimentista”.

L’interpretazione dei concetti gramsciani di egemonia e del binomio guerra di posizione/guerra di movimento costituisce, all’interno della riflessione sui Quaderni, il punto nevralgico utilizzato per la trasformazione di Gramsci in un pantofolaio e raffinato assertore di una lotta democratica e culturale per trasformare dall’interno  la società capitalista, e magari anche l’animo umano. Ma questo Gramsci, “il loro”, un autentico riformista, non è mai esistito. Al netto di tutte le oscillazioni ed anche degli errori di Gramsci, che però rimase sempre un comunista.

Alla testa del partito: Gramsci tra “bolscevizzazione” e Tesi di Lione (1924-1926)

Per una piena comprensione delle tesi esposte da Gramsci nei Quaderni è particolarmente necessario richiamare la sua evoluzione politica negli anni immediatamente precedenti il suo arresto. Ci riferiamo, in particolare, al periodo (1924-1926) durante il quale Gramsci fu alla testa del giovane Partito Comunista d’Italia (PCdI).

Ancora nel giugno 1923, Gramsci riteneva necessario fare blocco assieme alla sinistra di Amadeo Bordiga contro la destra del partito guidata da Angelo Tasca, che egli riteneva esprimesse una tendenza liquidazionista e di conciliazione coi capi riformisti della CGL. Pur non avendo mai adottato una visione coincidente con quella di Bordiga, Gramsci si oppose, assieme alla direzione del PCdI al fronte unico ed alla parola d’ordine del governo operaio e contadino, le principali elaborazioni tattiche del III e del IV congresso dell’Internazionale Comunista (IC).

Anche in quel periodo, tuttavia, Gramsci ebbe una qualche comprensione dei limiti di una politica basata sulla sola propaganda e fondata sull’attesa che il partito potesse beneficiare della delusione dei lavoratori per le politiche riformiste del PSI e dei capi della CGL. Del resto, la passività politica del PCdI bordighiano durante la crisi del regime politico liberale fu manifesta, ad esempio nell’astensionismo in occasione dell’ascesa del movimento degli «Arditi del popolo»[5]. L’IC, a più riprese, criticò duramente il mero propagandismo della sezione italiana.

La direzione del PCdI, elettoralmente astensionista di principio, aveva accettato soltanto per disciplina internazionale di partecipare alle elezioni, intese dall’IC leninista come tribuna di propaganda per le idee rivoluzionarie. D’altra parte, Bordiga ed i suoi rifiutavano per principio qualsiasi tattica che, nell’obiettivo di conquistare la maggioranza dei lavoratori organizzati, includesse la possibilità di un’unità d’azione con altre organizzazioni politiche del movimento operaio su obiettivi parziali.

L’IC criticò aspramente questa linea, condensata nelle tesi di Roma, approvate al II congresso nazionale del partito tenutosi nel 1922. In una lettera del marzo 1922 del Presidium dell’IC al Comitato Centrale PCd’I, ispirata da Trotskj e Radek, si legge:

«Noi invitiamo il PCI a lottare per lo scioglimento della Camera allo scopo di instaurare un governo operaio. Fissando un programma minimo per le rivendicazioni da realizzare dal governo operaio, i comunisti devono dichiararsi pronti a formare un blocco col partito socialdemocratico ed appoggiarlo, per quanto esso difende gli interessi della classe operaia. Se il PSI accetterà, incominceranno lotte, le quali saranno trasportate dal terreno parlamentare in altri campi. Con ciò è data la risposta all’obiezione che la parola d’ordine del governo operaio non significhi altro che una combinazione parlamentare. Se il PSI respinge la nostra proposta, allora le masse si persuaderanno che noi abbiamo mostrato loro una via concreta, che il PSI invece non sa cosa fare.» [6]

Nel settembre 1923, infine, Gramsci abbandonò la sua opposizione alla politica di fronte unico e allo slogan di governo operaio e contadino[7]. Il suo soggiorno a Mosca, dove poté confrontarsi sistematicamente coi dirigenti bolscevichi, tra cui Trotskij, ebbe senza dubbio un ruolo in questo cambiamento di posizione.

Qualche mese dopo, egli andò oltre e riconobbe alla tattica del fronte unico una valenza universale e non limitata ad una qualche area geografica o socio-economica del pianeta:

«In primo luogo perché la concezione politica dei comunisti russi si è formata su un terreno internazionale e non su quello nazionale; in secondo luogo perché nell’Europa centrale ed occidentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati proletari, ma anche perciò creato lo strato superiore, l’aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l’azione delle masse e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre 1917.»[8]

Questa evoluzione di Gramsci verso le posizioni del bolscevismo si diede in un momento particolare. In primo luogo, nel dicembre del 1923 iniziò la battaglia dell’Opposizione di Sinistra di Trotskij contro la burocratizzazione del partito e dello Stato sovietico. In reazione, si saldò un blocco tra Zinoviev, Kamenev e Stalin.

Gramsci mostrò di avere consapevolezza anche dell’aspetto ideologico del dibattito in corso in URSS, quello che opponeva Trotskij alla dottrina anti-marxista del «socialismo in un solo paese» formulata da Stalin nel gennaio 1924. In prima battuta, Gramsci sembrò anche provare una certa simpatia per le tesi dell’opposizione:

«È noto che nel 1905 già Trotzki riteneva che in Russia potesse verificarsi una rivoluzione socialista e operaia, mentre i bolscevichi tendevano solo a stabilire una dittatura politica del proletariato alleato ai contadini, la quale servisse d’involucro allo sviluppo del capitalismo, che non doveva essere intaccato nella sua struttura economica. È noto anche che nel novembre 1917 (…) Lenin e la maggioranza del partito era passata alla concezione di Trotzki e intendeva manomettere non solo il governo politico, ma anche il governo industriale.»[9]

I conflitti scoppiarono anche nell’IC. Dopo il fallimento della mancata insurrezione dell’ottobre 1923 in Germania, Trotskij prospettò una stabilizzazione relativa del capitalismo. Invece, le previsioni di Stalin e Zinoviev, che non riconoscevano la sconfitta patita in Germania, erano di rivoluzione imminente. Al V congresso dell’IC, giugno 1924, l’applicazione della tattica del fronte unico venne esclusa, ad eccezione di una sua ultimatistica applicazione «dal basso»:

«La tattica del fronte unico assume il suo significato più proprio quando il fronte unico è realizzato sotto la direzione comunista tra operai comunisti, socialdemocratici e apartitici nella fabbrica, nel consiglio di fabbrica, nel sindacato.»[10]

In pratica, ciò equivaleva ad un invito ai lavoratori socialisti ad abbandonare il proprio partito. Il fronte unico veniva così ridotto ad un poco efficace ultimatum ed i dirigenti riformisti potevano presentarlo ai lavoratori che ancora li seguivano come una specie di inganno architettato dai comunisti.

In quegli anni tumultuosi di rivoluzione e contro-rivoluzione, gli avvenimenti si susseguivano ad un ritmo infernale. Nella primavera del 1924, in seguito all’assassinio del deputato del Partito Socialista Unitario (PSU)[11] Giacomo Matteotti da parte di sicari fascisti agli ordini di Mussolini, il paese entrò in una fase di acuta lotta politica. Le masse entrarono in fermento, i fascisti non avevano ancora consolidato la loro ascesa al potere.

Quasi nel medesimo tempo, l’IC pose alla testa del partito Gramsci ed un piccolo gruppo di quadri maturato assieme a lui sin dagli anni del Biennio Rosso [12]. Quel gruppo dirigente, ancora minoritario nel partito, fu messo in sella da una manovra dell’IC, incapace di discutere politicamente con la direzione bordighiana. Quell’atto costituì uno strappo con la tradizione politica leninista dei primi anni dell’Internazionale Comunista. In un certo senso, fu il battesimo, in Italia, dei metodi zinovievisti che dominarono la fase della cosiddetta bolscevizzazione dei partiti comunisti. Nonostante il nome, la “bolscevizzazione” non era certo l’assunzione degli insegnamenti della storia del bolscevismo e della rivoluzione russa, ma piuttosto una tendenza a dirimere le questioni politiche ricorrendo a mezzi organizzativi. Fu una tappa, la prima, della degenerazione dell’IC.

La riprova che il gruppo di Gramsci fosse in netta minoranza all’interno del partito venne dalla conferenza straordinaria di Como, tenutasi nel maggio del 1924. Erano presenti i segretari interregionali, federali ed i membri del Comitato centrale. Vi furono 3 documenti in discussione: uno della destra di Tasca, uno del centro presentato da Gramsci ed uno della sinistra firmato da Bordiga. Per Bordiga votarono 33 segretari di federazione su 45, 4 segretari interregionali su 5, il rappresentante della gioventù comunista e un membro del Comitato centrale (CC). Tasca ottenne il voto di cinque segretari federali, uno interregionale e 4 membri del CC. Gramsci quello di 4 segretari federali e 4 membri del CC.

Quel voto delegittimava il centro gramsciano. Dopo un simile risultato, Gramsci e i suoi non pensarono affatto di mettersi in discussione, valutando l’impossibilità di dirigere un partito comunista senza una condivisione della linea da parte del corpo militante. Ma questo, del resto, era in consonanza col metodo di costruzione dei gruppi dirigenti dettato da Zinoviev, allora segretario dell’IC. Mantenuto nel tempo, questo metodo di direzione non può che facilitare lo sviluppo di una burocrazia all’interno del partito.

Trotskij definì la “bolscevizzazione” in questi termini:

«La bolscevizzazione del 1924 aveva un carattere assolutamente caricaturale. Si puntava la pistola alla tempia degli organismi direttivi dei Pc esigendo che prendessero posizione sulle divergenze nel Pc dell’Urss, si esigeva da loro che senza informazioni, senza dibattiti, prendessero immediatamente e definitivamente posizione sulle divergenze esistenti nel Pc dell’Urss. Con ciò essi sapevano anticipatamente che dalla posizione assunta dipendeva se avrebbero potuto restare o no nell’Internazionale comunista. »[13]

Il partito italiano venne riorganizzato direttamente da Mosca. Dopo il V congresso dell’Internazionale, il CC fu portato a 17 membri: 9 del centro del partito, 4 della destra e 4 «terzini», ovvero membri di una corrente del PSI guidata da Giacinto Serrati che in quell’anno si fuse col PCdI. La sinistra di Bordiga rimase fuori.

Nell’aprile del 1925 nacque il Comitato d’Intesa per collegare tutti gli elementi della corrente di sinistra. Il centro del Partito andò su tutte le furie e destituì tutti i suoi membri dalle loro funzioni dirigenti. Bruno Fortichiari, tra gli altri, fu rimosso da segretario della federazione di Milano. Le posizioni si divaricarono ancora di più quando Bordiga prese apertamente posizione per l’Opposizione nel dibattito in URSS, in un articolo intitolato «La quistione Trotzki» che, scritto nel febbraio del 1925, fu bloccato per mesi dalla direzione del partito e poi pubblicato da l’Unità solo nel luglio. In quella contesa, Gramsci s’era schierato con la maggioranza del partito sovietico. In una relazione al CC del febbraio del febbraio 1925, egli affermò:

«Nella mozione si dovrebbe, inoltre, dire come le concezioni di Trotzki e soprattutto il suo atteggiamento rappresentano un pericolo, in quanto la mancanza di unità nel partito in un paese in cui vi è un solo partito, scinde lo Stato. Ciò produce un movimento   controrivoluzionario; la qual cosa non significa, però, che Trotzki sia un controrivoluzionario: ché in questo caso ne dovremmo chiedere l’espulsione.»[14]

Come agì, nella crisi Matteotti del 1924-1925, quel PCdI diretto da Gramsci ed in via di “bolscevizzazione”? L’abbandono della tattica del fronte unico sancita dal V congresso dell’IC provocò errori e sbandamenti.

In prima battuta, l’iniziativa era in mano alle forze liberali e riformiste. Il 14 giugno i deputati dei partiti di opposizione decisero di non partecipare più ai lavori parlamentari e formarono il Comitato delle opposizioni. Iniziò l’Aventino, ovvero il boicottaggio dei lavori parlamentari combinato ad un appello al re perché frenasse l’ascesa del fascismo. A questo blocco, composto da gran parte delle opposizioni borghesi, nonché da massimalisti e riformisti, partecipò in un primo momento anche il PCdI. Il Comitato delle opposizioni fu un movimento democratico e legalitario. Impaurito davanti all’azione di massa, rifiutava la proposta comunista dello sciopero generale: a destituire Mussolini avrebbero dovuto essere il re e la magistratura – che però non ne avevano la minima intenzione e non lo fecero!

Il gruppo parlamentare del PCdI uscì da quel comitato e, quando il 27 giugno la CGL proclamò un’astensione dal lavoro di 10 minuti, i comunisti furono gli unici ad incitare allo sciopero generale per l’intera giornata.

Dopo l’uscita dal blocco dell’Aventino, il PCd’I utilizzò in modo impavido la tribuna parlamentare ma assunse una posizione generale incerta. La sua parola d’ordine, «Via il governo degli assassini!», non chiariva quale governo si volesse sostituire a quello fascista. Questa indecisione tendeva la mano, di fatto, al Comitato delle opposizioni.

La successiva evoluzione si concretizzò, il 15 ottobre 1924, nella proposta del CC di lanciare la formula dell’anti-parlamento, cioè di trasformare l’Aventino in un’assemblea parlamentare delle opposizioni:

«Il partito comunista ritiene che la riunione dei gruppi parlamentari di Opposizione in un’assemblea convocata sulla base del regolamento parlamentare come Parlamento opposto al Parlamento fascista avrebbe invece un valore ben diverso dall’astensione    passiva perché allargherebbe la crisi e rimetterebbe in movimento le masse, condizione essenziale per una lotta efficace contro il fascismo. Esso invita quindi le opposizioni a convocare questa assemblea. »[15]

La proposta fu naturalmente respinta da tutti gli altri partiti. Lo slogan lanciato dal PCd’I cercava di uscire dalla passività dell’Aventino, ma lo faceva con una formulazione che apriva alla collaborazione tra partiti che rappresentavano classi diverse e antagoniste; peraltro, quell’unità, se realizzata, non avrebbe fatto svanire le illusioni delle masse nell’opzione democratica, né tantomeno avrebbe separato i lavoratori che seguivano il PSI ed il PSU dai propri dirigenti.

In quello stesso autunno, il PCdI lanciò campagne nazionali per rafforzare l’Associazione nazionale di difesa tra i contadini, diretta dal partito e contrapposta alla Federterra, organizzazione di massa diretta dai socialisti. Nelle fabbriche la medesima linea di azione venne praticata tramite i Comitati d’agitazione per l’unità proletaria, di fatto alternativi ai sindacati esistenti. L’insuccesso di questi due tentativi di fronte unico «dal basso» fu un’occasione perduta, quanto meno per avvicinare un settore delle masse socialiste. Queste, infatti, furono a fatica mantenute nella passività dalla linea “aventiniana” di capitolazione di fronte ai liberali praticata dai loro dirigenti.

La proposta dell’«antiparlamento», però, continuò ad essere rivendicata, anche nelle Tesi di Lione del 1926, come esempio di quelle «soluzioni intermedie di problemi politici generali» che il partito avrebbe dovuto utilizzare sul terreno agitativo al fine di «poter costituire un ponte di passaggio verso le parole d’ordine del partito»[16]. Se, formalmente, l’impostazione del problema era sostanzialmente corretta, la confusione nasceva nella sua applicazione e veniva amplificata dall’accostamento alla tattica seguita dai bolscevichi nei confronti del governo Kerensky in occasione del tentativo di colpo di Stato di Kornilov (agosto 1917)[17].

Nel giugno 1925, quando Mussolini aveva recuperato il controllo della situazione, il PCdI avanzò la parola d’ordine, confusa, di una «Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini». La formula fu criticata da Trotskij, sia nella corrispondenza con il gruppo bordighiano Prometeo che con Pietro Tresso, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli, i tre membri dell’Ufficio Politico del PCdI espulsi nel 1930 per trotskismo:

«Voi mi ricordate che ho criticato a suo tempo la formula “Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini”, formula lanciata a suo tempo dal Partito comunista italiano. Voi mi dite che questa formula non aveva avuto che un valore del tutto episodico e che attualmente è stata abbandonata. Voglio tuttavia dirvi perché reputo questa formula come sbagliata o almeno equivoca in quanto formula politica. L'”Assemblea repubblicana” costituisce innegabilmente un organismo dello Stato borghese. Che cosa sono invece i “Comitati operai e contadini”? È evidente che in qualche modo sono un equivalente dei Soviet operai e contadini. Allora bisogna dirlo. In quanto organismi di classe delle masse povere operaie e contadine – sia che voi li chiamate Soviet o Comitati – costituiscono sempre delle organizzazioni di lotta contro lo Stato borghese per diventare poi organismi insurrezionali e trasformarli, infine, dopo la vittoria, in organismi di dittatura proletaria. Come è possibile in queste condizioni, che un’Assemblea repubblicana – organo supremo dello Stato borghese – abbia come base degli organismi di Stato proletario?»[18]

Queste oscillazioni si accompagnarono, nella parabola gramsciana, ad un accomodamento con la declinazione più tendente all’opportunismo della linea impressa da Zinoviev e Stalin all’IC. Il caso del Comitato Anglo-Russo, formato tra i sindacati russi e quelli britannici nell’obiettivo di creare uno scudo protettivo in più per l’URSS, lo mostrò con chiarezza.

Anche dopo il tradimento dello sciopero generale del maggio 1926 da parte dei vertici sindacali britannici, infatti, Gramsci ritenne che quel blocco dovesse essere salvaguardato:

«Io penso che nonostante la indecisione, la debolezza e se si vuole il tradimento della sinistra inglese durante lo sciopero generale, il Comitato anglo-russo debba essere mantenuto perché è il terreno migliore per rivoluzionare non solo il mondo sindacale inglese ma anche i sindacati di Amsterdam.»[19]

Trotskij, invece, criticò la direzione del PCUS e dell’IC poiché, nel maggio 1926, «era necessario stare al passo con le forze più attive del proletariato britannico e rompere in quel momento con il General council in quanto traditore dello sciopero generale.»[20]

Segnato dalla “cicatrice” della cosiddetta bolscevizzazione, nel 1925-1926 il PCdI non era certo ancora un partito stalinizzato. Lo attestano le tesi preparate per il III congresso, svoltosi clandestinamente nel gennaio 1926 a Lione, in Francia.

Bisogna precisare che quelle tesi, che ottennero il 90% dei delegati contro il 10% alla sinistra, furono imposte anche con metodi organizzativi e burocratici. Ad esempio, tutti gli iscritti che non votarono per la sinistra furono conteggiati come voti per la direzione.

Malgrado ciò, in quelle tesi erano difesi con forza alcuni punti strategici fondamentali per un partito comunista rivoluzionario.

La tesi numero 4, ad esempio, chiariva la natura della futura rivoluzione italiana e la sua principale forza motrice:

«Il capitalismo è l’elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista. Nei paesi capitalistici la sola classe che può attuare una trasformazione sociale reale e profonda è la classe operaia.»[21]

Le prospettive sul movimento di massa che avrebbe potuto rovesciare il fascismo, altrettanto corrette, prefigurarono una linea opposta a quella «Svolta di Salerno» imposta al partito da Stalin e Togliatti nel 1944:

«La possibilità di abbattimento del regime fascista per una azione di gruppi antifascisti sedicenti democratici esisterebbe solo se questi gruppi riuscissero, neutralizzando l’azione del proletariato, a controllare un movimento di masse fino a poterne frenare gli sviluppi. La funzione della opposizione borghese democratica è invece quella di collaborare col fascismo nell’impedire la riorganizzazione della classe operaia e la realizzazione del suo programma di classe. (…) La opposizione potrà tornare ad essere protagonista dell’azione di difesa del regime capitalista solo quando la stessa compressione fascista più non riuscirà a impedire lo scatenamento dei conflitti di classe, e il pericolo di una insurrezione di proletari e della sua saldatura con una guerra di contadini apparirà grave e imminente.»[22]

Quel ruolo di difesa del regime capitalista, nel 1943-1948, sarebbe stato assunto non solo dalle correnti liberali borghesi ma anche, e ciò fu decisivo nel disorientare e deviare la spinta rivoluzionaria di massa, dai capi del PCI e del PSI. Quel pericolo, individuato nelle Tesi di Lione dall’eventuale crescita di una «tendenza di destra» nel partito, fu anch’esso compreso e anticipato, anche se non era certo possibile prevedere, nel 1926, la portata che avrebbe avuto nel 1943-1948:

«La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato nella impossibilità di rapidamente rovesciare il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese-proletario per la eliminazione    costituzionale del fascismo, a una passività della avanguardia rivoluzionaria, a un non-intervento attivo del Partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il Partito comunista deve essere «l’ala sinistra» di una opposizione di tutte le forze che cospirano all’abbattimento del regime fascista. Esso è la espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice.»[23]

La stessa formula del governo operaio e contadino, per come formulata dal IV congresso dell’IC del 1922, venne infine messa a fuoco, almeno in termini teorici:

«Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del «governo operaio e contadino». Esso indica anche alle masse più arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell’avanguardia proletaria più evoluta (lotta per la dittatura del proletariato).»[24]

In questo caso, tuttavia, la pratica oscillante del partito durante la fase della crisi Matteotti era all’origine di una certa confusione nella definizione concreta di quella parola d’ordine. La tesi, infatti, continuava così:

«In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente [l’«antiparlamento»]», per poi continuare con una definizione generale più corretta e precisa:

«Una realizzazione di essa [formula di agitazione del governo operaio e contadino] infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile diretta dal proletariato, in alleanza coi contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.»[25]

Eredità della linea seguita nel corso della crisi Matteotti, nelle Tesi di Lione rimasero alcuni riferimenti non del tutto chiari sul partito repubblicano, definito piccolo-borghese ma assimilato ai massimalisti del PSI ed agli “unitari” del PSU tra le formazioni da considerare in una politica di fronte unico[26].

Sul terreno della concezione organizzativa, la “bolscevizzazione” aveva lasciato un segno più marcato. Le tesi del centro gramsciano, infatti, proibirono di fatto le frazioni, aprendo la strada al successivo monolitismo stalinista («32. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. […] La esistenza e la lotta di frazione sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano l’unità aprendo la via alla influenza di altre classi »[27]).

La tragedia principale del Congresso di Lione sta, dunque, nell’approdo a posizioni politiche che in buona parte riprendono i tratti essenziali della linea approvata nei primi quattro congressi dell’IC, ma in un momento “sbagliato”, perché coincidente con la prima fase della degenerazione burocratica dell’IC. Quest’ultimo processo avrebbe inevitabilmente segnato il futuro del PCd’I.

Lo stesso si potrebbe dire, a livello di traiettoria personale, per Gramsci. Drammaticamente, quando ruppe con la concezione ultra-sinistra di Bordiga, gli eventi in URSS e nell’IC posero un ostacolo al suo avvicinamento alle posizioni di Lenin e Trotskij.

Lo si sarebbe potuto misurare, nell’ottobre 1926, dal contenuto della lettera che Gramsci, a nome dell’Ufficio Politico del PCdI, inviò al CC del partito russo. Egli paventava la scissione del PCUS ma ne attribuiva l’eventuale responsabilità all’Opposizione Unificata, nata in seguito alla convergenza tra l’Opposizione di Sinistra, la tendenza «Centralismo Democratico» ed il gruppo di Zinoviev e Kamenev che aveva rotto con Stalin[28]. L’opposizione fu resa persino responsabile dell’utilizzo strumentale da parte del regime fascista delle divisioni nel partito comunista sovietico[29].

Sul merito del dibattito politico, la presa di posizione di Gramsci fu netta, ancor più che in passato, a favore della corrente di Stalin:

«Dichiariamo ora che riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del Comitato centrale del Partito comunista dell’URSS e che in tal senso certamente si pronunzierà la maggioranza del partito italiano, se diverrà necessario porre  tutta la quistione. (…)

Ripetiamo che ci impressiona il fatto che l’atteggiamento delle opposizioni investa tutta la linea politica del Comitato centrale, toccando il cuore stesso della dottrina leninista e dell’azione politica del nostro partito dell’Unione. È il principio e la pratica dell’egemonia del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri dello Stato operaio e della rivoluzione.»[30]

L’Opposizione, per Gramsci, non impostava correttamente il problema dell’egemonia del proletariato nella società sovietica e non sarebbe stata capace di apprendere dalla classe lavoratrice la necessità, talora, di sacrificare i propri «interessi corporativi» per mantenere l’«egemonia». Egli sintetizzò così la sua condanna della corrente che stava combattendo la degenerazione burocratica del regime sorto dall’”Ottobre”:

«Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.»[31]

La richiesta, nella parte conclusiva della lettera, di impiegare clemenza verso i dirigenti dell’Opposizione[32] fu giudicata da Togliatti una concessione eccessiva all’Opposizione ma non può certo essere sufficiente per attribuire una patente di antistalinismo a Gramsci.

Per Togliatti, attribuire anche solo «un po’ di torto anche al Comitato centrale» si sarebbe risolto «a totale beneficio della opposizione»[33] e ciò sarebbe stato un errore imperdonabile.

Amareggiato dalla lettera di Togliatti, soprattutto dai suoi toni, Gramsci, comunque, scrisse di essere disposto ad una concessione ulteriore, inserendo il suo giudizio di condanna all’inizio della lettera, prima della sezione sui rischi insiti nella eventuale scissione del partito comunista sovietico[34]. Egli, peraltro, ribadì che «le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico.»[35]

Poche settimane dopo questa corrispondenza, Gramsci perse la propria libertà personale per opera del regime fascista. Nel pieno della maturità politica, in carcere si sarebbe portato dietro anche tutti i segni della fase della “bolscevizzazione”.

Gramsci in carcere e la storia del PCI

Nel X Plenum del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista (IC), tenutosi nel luglio 1929, la svolta avventurista associata alla teoria del «social-fascismo» esplose in faccia al PCI. Nell’analisi dell’IC, ormai in via della stalinizzazione, socialdemocrazia e fascismo divennero due «stelle gemelle». Tale svolta implicò, ad esempio, il rifiuto di principio, da parte dei dirigenti del Kommunistische Partei Deutschlands (KPD, Partito Comunista di Germania), di organizzare qualsiasi tipo di fronte unico col partito socialdemocratico contro l’ascesa dei nazisti.

Tornando al 1929, nel PCdI Togliatti adattò rapidamente la linea del partito alle direttive staliniane. Ciò si traduceva nella prospettiva di un’imminente disgregazione del regime fascista ed in un verbalismo rivoluzionario del tutto separato dalla realtà, incluso il rifiuto di qualsiasi parola d’ordine democratica. Gramsci, in carcere a Turi, espresse un veemente disaccordo con la nuova linea di ultra-sinistra che subì come un «cazzotto nell’occhio». Nell’ipotesi del crollo del fascismo, per Gramsci non imminente, egli insistette sulla necessità di adottare rivendicazioni democratiche, come quella dell’Assemblea Costituente, nella prospettiva di un interludio democratico-borghese causato dalla debolezza del partito rivoluzionario.

Nel dopoguerra, la presentazione unilaterale e priva dei necessari riferimenti al dibattito internazionale di questa posizione gramsciana permise al gruppo dirigente togliattiano di interpretarla come un’anticipazione della politica riformista seguita dal PCI con la «svolta di Salerno».

Inoltre, Gramsci fu utilizzato come risorsa imprescindibile per presentare il PCI come il partito che portava la fiaccola della cultura nazionale e democratica italiana. I Quaderni divennero un “prodotto finito” da inserire nello sviluppo di lungo periodo della cultura italiana, rimuovendo completamente la tempesta mondiale nella quale Gramsci si formò e compì scelte nette tra guerre, rivoluzioni e contro-rivoluzioni. E tutto ciò portò a glissare sulle note che in forma criptica trattavano questioni controverse sullo sviluppo dell’Unione Sovietica negli anni Trenta.

Ma che tra Gramsci ed il partito vi fossero stati dissensi lo attestò più di tutto il silenzio completo su di lui che calò nelle pubblicazioni ufficiali del PCI dal giugno 1931 al dicembre 1933.

Contrariamente a quanto fabbricato da Togliatti nel suo necrologio[36], nel quale non mancò un disgustoso riferimento a «Trotsky puttana del fascismo», Gramsci in carcere non dimostrò alcun interesse al pensiero di Stalin e non richiese alcun suo libro alle autorità carcerarie. E non imparò certo il russo per leggere le opere di Stalin, come affermò in modo grottesco Togliatti. Al contrario, secondo la testimonianza dell’ex deputato del PCdI Ezio Riboldi, compagno di carcere di Gramsci a Turi nel primo semestre del 1930, egli commentò con questa riflessione il fideismo col quale il Quarto congresso del partito aveva accolto la prospettiva staliniana di una caduta a breve del fascismo in Italia, accompagnata dalla crescita in linea retta della rivoluzione proletaria:

«Bisogna tener presente che l’habitus mentale di Stalin è ben diverso da quello di Lenin. Lenin, essendo vissuto per molti anni all’estero, possedeva una visione internazionale dei problemi politico-sociali: cosa che non si può dire di Stalin, il quale è rimasto sempre in Russia, conservando la mentalità nazionalista che si esprime nel culto dei “grandi russi”. Anche nell’internazionale Stalin è prima russo e poi comunista: bisogna stare attenti.»[37]

Questa osservazione, che ovviamente non può essere verificata in modo categorico, penetra la ristrettezza nazionale della formazione politica di Stalin e riveste notevole importanza, soprattutto poiché mostrerebbe il superamento dell’ammirazione espressa da Gramsci a più riprese, anche prima del carcere, su un presunto realismo “nazionale” di Stalin[38].

Ma il necrologio elogiativo scritto da Togliatti non sorprende. È, infatti, con la svolta del VII congresso dell’IC, agosto 1935, verso la politica dei Fronti Popolari, alleanze interclassiste nelle quali i partiti comunisti si subordinavano ad una frazione della borghesia, che si rintracciano i primi segnali di cambiamento nella gestione pubblica della figura di Gramsci. In un articolo di Ruggiero Grieco su Lo Stato Operaio, mensile teorico del partito, Gramsci venne presentato come un grande intellettuale e un «grande italiano». Questa idea non ha smesso di circolare. Una delle sue numerose consacrazioni, in Italia, fu la conferenza accademica tenutasi a Cagliari nel 1967 per il 30° anniversario della morte di Gramsci.

Le laboriose e farraginose reinterpretazioni di Gramsci sono state il prodotto della perdurante doppiezza del gruppo dirigente del PCI, in tensione tra la sua politica riformista e le sue origini rivoluzionarie, vive nella memoria collettiva degli sfruttati fino agli anni ’80 del Novecento, e talvolta anche oltre. Incalzati dall’intellettualità democratica sulla necessità di rompere con Gramsci come riferimento politico attuale, i dirigenti del PCI mostrarono sempre una certa resistenza. Persino Giorgio Napolitano, esponente della corrente di destra del partito, i “miglioristi”, prese posizione contro la richiesta di rottura col Gramsci “politico” formulata da Mondo Operaio, rivista teorica dell’allora Partito Socialista Italiano[39].

Alcuni anni dopo, nell’articolo «Addio a lui e a Turati»[40], Lucio Colletti, sbolliti gli ardori rivoluzionari giovanili ma non ancora approdato a Forza Italia, si spinse oltre ed esplicitò – con la franchezza che si poteva permettere chi non obbediva più a nessuna doppiezza perché passato armi e bagagli con la borghesia – che le scelte fatte dal PCI avevano, in pratica, marcato una distanza incolmabile con Gramsci. Aldo Schiavone intervenne per dare man forte a Colletti – i tempi per una sterzata verso il campo sociale avverso stavano maturando anche nell’intellettualità legata al PCI – e scrisse di una totale inadeguatezza del Gramsci “politico”. Gramsci, sosteneva Schiavone, doveva essere rilanciato soltanto sul piano culturale per farne un autore classico della storia delle dottrine politiche.

Come fosse un Niccolò Machiavelli o un Thomas Hobbes.

Il Gramsci di Togliatti

I Quaderni del carcere uscirono per la prima volta in Italia nel 1951. Rimosso il conflitto tra Gramsci in carcere ed il partito stalinizzato, la sua figura fu consapevolmente utilizzata per presentare il PCI come partito “nazionale” e accreditarsi presso un ampio settore di intellettuali di provenienza non comunista. L’operazione sui Quaderni divenne cruciale.

Bisognava concentrarsi sul martire antifascista e sull’uomo – offrendo suggestioni risorgimentali – isolato dalle sue scelte politiche. A questo già aveva provveduto la prima edizione delle Lettere dal carcere, uscita nel 1947 attentamente censurata da Felice Platone, uomo di mano di Togliatti. Questi aveva cancellato qualsiasi riferimento cordiale di Gramsci a Bordiga, Trotskij, Rosa Luxemburg ed a figure minori, come Lucien Laurat, invise a Stalin. Ma solo i Quaderni, presentati truffaldinamente come prodotto finito, permisero un salto di qualità nella mummificazione di Gramsci. Togliatti, infatti, aveva in mano un insieme di note che, per quanto disorganiche e frammentarie, furono divise in blocchi e proposte come una teoria complessiva.

Sul concetto di egemonia, Togliatti storse il bastone verso un’interpretazione culturale ma rimase prudente e affermò una continuità tra Lenin e Gramsci. A quell’epoca, il PCI prestava ancora giuramento al pensiero a sua volta imbalsamato e distorto di Lenin e non era consigliabile creare contrapposizioni tra due “santini” di quel calibro.

Il discorso, però, mutava sul concetto di guerra di posizione. Su tale terreno, la rilettura di Gramsci iniziò col PCI di Togliatti. L’occasione, in effetti, era ghiotta. Un Gramsci che opponesse rigidamente la guerra di posizione, ovvero la lenta costruzione del blocco sociale anticapitalista, alla guerra di movimento, cioè la prevalenza dell’offensiva aperta contro la borghesia, si adattava perfettamente alla strategia gradualista abbracciata dal PCI, la cosiddetta democrazia progressiva applicata con zelo ferreo già durante la Resistenza. La guerra di posizione fu presentata come l’immagine teorica della politica del PCI nel dopoguerra. Gramsci ne diventava – senza poter obiettare nulla! – il padre nobile.

Il paziente lavoro di un municipio conquistato dal PCI o di una cooperativa “rossa”, casamatta “gramsciana” del PCI all’interno del capitalismo, potevano così essere contrapposti al presunto velleitarismo di coloro i quali ritenevano catastrofico imboccare la strada della via “italiana”, parlamentare e pacifica al socialismo, adottata dall’VIII congresso dal PCI nel 1956. Anche lo Stato, Costituzione alla mano, doveva essere conquistato e svuotato della sua essenza reazionaria dall’interno, mandando sempre più deputati e senatori a Roma e centrando sul parlamento l’attività del partito. Questa strategia di inserimento nello Stato borghese era stata perseguita dal PCI togliattiano sin dalla «svolta di Salerno» ed una lettura strumentale dei Quaderni aiutava a contrastare chi trovava che i conti non tornassero, per esperienza politica personale, collettiva o anche perché aveva letto con gli occhi aperti Stato e rivoluzione di Lenin, testo da sempre detestato dai riformisti.

È giusto, tuttavia, chiedersi se vi siano stati nei Quaderni punti effettivamente deboli, utilizzati dagli epigoni per aprire brecce e rintracciare revisioni. Per iniziare tale lavoro, basta seguire le citazioni preferite dai commentatori togliattiani e da Togliatti stesso. Si trova così, in uno dei primi volumi usciti con Einaudi delle note di Gramsci dal carcere, la seguente considerazione, ispirata dall’introduzione di Marx alla sua Critica dell’economia politica del 1859, citata con abbondanza da Togliatti e in seguito piegata fino all’estremo in senso gradualista:

«Occorre muoversi nell’ambito di due principi: 1) quello che nessuna società si pone compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti.»[41]

C’è, in questo passaggio, spazio per una forzatura, un’interpretazione della transizione dal capitalismo al socialismo che ricalchi meccanicamente la plurisecolare fase di passaggio dall’Europa feudale a quella borghese[42]?

In Occidente, secondo Gramsci, lo Stato non era riducibile al suo apparato repressivo centrale perché attorno ad esso sussistevano una serie di «fortificazioni», «trincee» e «casematte» della borghesia, talora stratificatesi nel corso di secoli. In generale, di conseguenza, Gramsci riteneva che in Occidente il proletariato avrebbe incontrato una resistenza maggiore e avrebbe dovuto combattere una lunga guerra di posizione attorno alle  «casematte» della società capitalista. Fin qui, nulla di discutibile. Che cosa, allora, non torna? Che Gramsci non abbia chiarito se in Occidente il proletariato avrebbe dovuto e potuto conquistare il potere allo stesso modo della borghesia, issatasi politicamente alla guida della società dopo una lunghissima fase di erosione della supremazia economica della nobiltà, ovvero dopo aver disgregato il feudalesimo dall’interno. Suggerire questo parallelo o non esplicitare la sua inadeguatezza – come è forse il caso di Gramsci – significherebbe alludere alla possibilità, per il proletariato, di imporre il suo modo di produzione e la sua visione del mondo senza guerra di movimento, ovvero senza rottura rivoluzionaria?

Oltre certi limiti, il parallelo con la transizione alla società borghese non regge teoricamente e porta con sé distorsioni. Mentre, infatti, la borghesia era, come la nobiltà, una classe proprietaria e poté così convivere, in alcuni casi per diversi secoli, accanto ai feudatari, il proletariato è una classe non proprietaria, anzi la prima classe non proprietaria a porsi il compito della conquista del potere e dell’abolizione della proprietà privata. In merito, scrisse Riccardo Guastini negli anni Settanta del XX secolo:

«Infine, anche senza dimenticare che abbiamo a che fare con gli appunti di un carcerato e non con un programma di partito, non si può fare a meno di notare l’assoluto silenzio di Gramsci su di un punto cruciale della strategia politica: il momento (il quando e il come) della rottura rivoluzionaria. Dopo la conquista dell’egemonia e dei suoi apparati, dopo l’accerchiamento del potere centrale, sarà ancora necessaria la distruzione (più o meno violenta, ma certo non indolore) degli apparati politici della borghesia? O ci si deve aspettare un coinvolgimento automatico, una caduta spontanea delle rimanenti fortificazioni del capitale? Gramsci tace su tutto ciò. E per questa ragione Stefano Merli ha parlato della dottrina gramsciana come di una “teoria della rivoluzione senza rivoluzione”, cioè senza rottura rivoluzionaria e senza potere operaio.»[43]

Il problema sorge, quindi, nella assimilazione della rispettiva posizione strutturale della borghesia e del proletariato. L’estensione del concetto crea problemi. Molti interpreti di Gramsci hanno scritto che la tesi più originale del comunista sardo era l’idea che in una formazione sociale capitalista la classe lavoratrice potesse essere culturalmente egemone prima di diventare la classe politicamente dominante. L’idea è un’assurdità.

Ma Gramsci distingue accuratamente l’egemonia politica da esercitare verso il ceto medio, potenzialmente classe alleata, e la coercizione verso le classi avversarie successiva alla conquista del potere. L’ipotesi di Stefano Merli su una «teoria della rivoluzione senza rivoluzione», dunque, contiene anch’essa elementi di forzatura.

Per andare al fondo della questione, la posizione del proletariato è strutturalmente diversa (ricchezza, educazione, tempo libero ecc.) da quella borghesia d’epoca illuminista che poté elaborare la propria cultura all’interno dell’Ancien Régime. Ma se si impiega il termine egemonia per entrambe può sorgere confusione. Questa confusione, presente anche in Gramsci nelle note dei Quaderni sul giacobinismo, consentì alle sistemazioni successive del suo pensiero di indicare la possibilità dell’assunzione dell’egemonia “culturale” da parte della classe lavoratrice, ovvero la direzione della società, senza la conquista del potere politico e la trasformazione della struttura. Quest’operazione è riuscita anche perché Gramsci, nei Quaderni, sembra aver dato per scontato l’assioma dei primi quattro congressi mondiali dell’Internazionale Comunista sulla necessità storica della forza nell’abbattimento dello Stato borghese, premessa politicamente avversata da gran parte dei suoi commentatori successivi. Gramsci, però, non mise mai in discussione questo principio, anche se nei Quaderni non vi ritornò sopra se non in note marginali. Da sottolineare, a conferma di ciò, la critica di Gramsci a Croce per la sua esaltazione unilaterale del momento «consensuale ed etico» nella storia europea, a scapito del momento militare e della forza. È, quindi, discutibile costruire interpretazioni sull’indeterminatezza presente nei Quaderni gramsciani sull’ipotesi che la piena egemonia da parte del proletariato possa cronologicamente precedere, nel processo rivoluzionario, la conquista del potere politico.

Sul concetto in questione la storia delle rivoluzioni ha fornito risposte piuttosto nette e concordanti. Che cosa insegna altrimenti, tra le altre cose, lo studio attento della Russia sovietica negli anni della guerra civile, quando persino dopo la conquista del potere il partito bolscevico si scontrò a più riprese con elementi di corporativismo presenti nelle fasce più professionalizzate della classe lavoratrice – per esempio, i ferrovieri ancora influenzati dai menscevichi – e l’Armata Rossa dovette fronteggiare, politicamente oltre che militarmente, bande di contadini che non volevano saperne né di Bianchi né di Rossi?

Il punto è che, se il capitalismo si è affermato e riprodotto in forma allargata in modo spontaneo dentro i pori della società feudale, un’economia socialista non si costruirà “a fette” o con “isole liberate” da addizionare una dopo l’altra. Peraltro, quelle “fette”, nate in momenti di particolare crisi del sistema e forza del movimento, non sono mai riuscite a convivere a lungo, come un’isola felice, con forme economiche capitalistiche dominanti e sostenute dallo Stato rimasto borghese. Già sappiamo dalla storia del PCI o della Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD, Partito Socialdemocratico di Germania) qual è l’approdo di un’epocale opera di “egemonia” guidata da un partito sempre più di governo, appoggiato da un sindacato sempre più “responsabile” e da una gamba economica cooperativa sempre più potente e sempre più inserita nel sistema bancario, assicurativo e finanziario.

Ma la guerra di posizione, necessaria secondo Gramsci per logorare l’avversario anche sul terreno dell’egemonia, per lui non significò mai accettazione delle regole del gioco democratico-borghese e fiducia nell’evoluzione in senso proletario delle istituzioni liberali. Non c’è in Gramsci la prospettiva di una pacifica conquista del consenso che sfoci in una nuova gestione – “dal basso” o “partecipata” che sia – delle istituzioni borghesi. Lo lamentò Nicola Badaloni, dal punto di vista del PCI berlingueriano, osservando che Gramsci «non giunge a pensare la democrazia come luogo politico complessivo della transizione storica». Non si tratta però, come afferma sempre Badaloni, di «soreliana svalutazione della democrazia»[44] bensì, semplicemente, dell’adesione di Gramsci alla concezione marxista dello Stato e della rivoluzione.

Parallelamente alla spessa cortina fumogena sui Quaderni, per il gruppo dirigente del PCI fu necessario far conoscere il meno possibile il Gramsci del periodo 1919-1926. Era il Gramsci delle tesi sui consigli di fabbrica come cellula della società comunista e soprattutto il Gramsci pienamente inserito nel dibattito dell’Internazionale Comunista prima della sua degenerazione nazional-riformista del periodo staliniano. Un Gramsci, dunque, troppo poco nazionale e costituzionale. Si doveva dimenticare quel Gramsci che, in pieno Biennio Rosso, poteva scrivere:

«la classe operaia non si preoccupa per il fatto che lo stato borghese vada in pezzi, anzi contribuisce al fatto con tutte le sue forze, essa di fatto è l’unica che tenda realmente a “salvare” la patria e a evitare la catastrofe industriale: ma per il compimento di questa missione vuole tutto il potere.»[45]

Quel Gramsci non sarà mai digeribile per il riformismo: la sua prosa, infatti, non emana un patriottico sospiro su ciò che l’Italia avrebbe potuto essere e non è stata. Non pensa nemmeno di eliminare le tare di sviluppo della società italiana nell’ambito del capitalismo ma, al contrario, di utilizzare anche le tare di un capitalismo arretrato per abbatterlo.

Se si osserva il piano di pubblicazione degli Editori Riuniti, casa editrice dell’allora PCI, si constaterà che gli scritti politici gramsciani del 1919-1926 ricevettero scarsa attenzione. La prima edizione nei tascabili, incompleta, fu edita soltanto nel 1973. Questa sproporzione nello studio di Gramsci esiste tuttora ed è rivelatrice di persistenti paure ed ambiguità.

Il “marxismo occidentale” e Gramsci: un interludio decisivo

Dalla fine della seconda guerra mondiale la democrazia borghese, soprattutto grazie al boom economico, conobbe nei paesi capitalisti avanzati tempi relativamente più stabili che nella fase storica precedente. Questo dato ha un legame con lo sviluppo del cosiddetto marxismo occidentale. In ambito intellettuale, infatti, le relazioni meno aspre tra le classi ed il consolidamento in campo operaio della socialdemocrazia e dello stalinismo favorirono ed alimentarono una scissione tra ricerca e militanza politica.

Numerosi cattedratici che si reputavano marxisti iniziarono ad impiegare una lingua sempre più cifrata, lontana dalla classe della quale si era cercata l’emancipazione. In questo ambiente, Gramsci diventò un punto di riferimento indiscusso, i suoi scritti del carcere si trasformarono in prefigurazione della situazione sociale e politica del trentennio post-bellico in Europa, Usa e Giappone. Questo sentimento fu amplificato da un pessimismo sulla capacità della classe lavoratrice di emanciparsi. Un pessimismo che, però, non era stato di Gramsci.

Lo aveva ribadito Gramsci stesso, riflettendo sulla funzione della propria esperienza politica in tempi di riflusso, proprio nei Quaderni:

«Qualcosa c’è di mutato fondamentalmente. E si può vedere. Che cosa? Prima tutti volevano essere aratori della storia, avere le parti attive, ognuno avere una parte attiva. Nessuno voleva essere «concio» della storia. Ma può ararsi senza prima ingrassare la terra?  Dunque ci deve essere l’aratore e il «concio». Astrattamente tutti lo ammettevano. Ma praticamente? «Concio» per «concio» tanto valeva tirarsi indietro, rientrare nel buio, nell’indistinto. Qualcosa è cambiato, perché c’è chi si adatta «filosoficamente» ad essere  concio, che sa di doverlo essere, e si adatta. È come la quistione dell’uomo in punto di morte, come si dice. Ma c’è una grande differenza, perché in punto di morte si è ad un atto decisivo che dura un attimo; invece nella quistione del concio, la quistione dura a lungo, e si ripresenta ogni momento. Si vive una volta sola, come si dice; la propria personalità è insostituibile. Non si presenta, per giocarla, una scelta spasmodica, di un istante, in cui tutti i valori sono apprezzati fulmineamente e si deve decidere senza rinvio. Qui il rinvio è di ogni istante e la decisione deve ripetersi ogni istante. Perciò si dice che qualcosa è cambiato. Non è neanche la quistione di vivere un giorno da leone o cento anni da pecora. Non si vive da leone neppure un minuto, tutt’altro: si vive da sottopecora per anni e anni e  si sa di dover vivere così. L’immagine di Prometeo che invece di essere aggredito dall’aquila, è invece divorato dai parassiti. Giobbe l’hanno potuto immaginare gli ebrei: Prometeo potevano solo immaginarlo i greci; ma gli ebrei sono stati più realisti, più spietati,  e anche hanno dato una maggiore evidenza al loro eroe.»[46]

Il pessimismo ed il cinismo di molti intellettuali fu alimentato, nel dopoguerra, dalla sconfitta dell’estensione della rivoluzione, particolarmente nei paesi a capitalismo avanzato, e dal  consolidamento dello stalinismo. Ma non fu nemmeno estraneo a caratteristiche sociologiche di quel gruppo. Bisogna altresì precisare che in Europa lo stalinismo apparve a molti intellettuali affascinati dal marxismo come l’unica incarnazione politica operaia dotata di senso, a prescindere dalle scelte politiche personali che potevano essere di adesione, come nel caso di Althusser, di fiancheggiamento critico alla Sartre o di rifiuto ed isolamento alla Marcuse[47].

Ma la cesura storica fu profonda. Fin dai tempi della Seconda Internazionale, anche i dirigenti socialisti di livello nazionale o internazionale con una provenienza intellettuale avevano mantenuto una certa unità tra teoria e prassi. Ma la nascita dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, fondato nel 1923 dall’austro-marxista Karl Grunberg come ente affiliato all’università di Francoforte, fu una novità, anche se rimaneva ancora la collaborazione coll’Istituto Marx-Engels di Mosca. Fino ad allora, dirigenti operai anche aspramente in conflitto tra loro come Karl Kautsky e Rosa Luxemburg disprezzavano entrambi i “socialisti della cattedra” (Kathedersozialisten) che evitavano incarichi di partito per insegnare all’università.

Nel 1930 Grunberg venne sostituito da Max Horkheimer, privo di esperienza politica concreta: il suo discorso inaugurale s’incentrò sulla riforma della scuola, la sua gestione sancì l’abbandono del materialismo storico e la chiusura della rivista alla storia del movimento operaio. L’adattamento ai gusti culturali del mondo accademico s’accentuò con l’esilio negli USA, seguito alla presa del potere da parte di Hitler nel 1933. Nel dopoguerra, i riconoscimenti accademici nella filo-occidentale Repubblica Federale Tedesca e la spoliticizzazione degli studi procedettero di pari passo, fino all’apologia del capitalismo da parte di Horkheimer nel 1970. Adorno rimase più estraneo alla politica. Marcuse, su posizioni più radicali ma isolato da una forza politica marxista, finì col teorizzare l’integrazione della classe operaia nel meccanismo consumista e l’impossibilità per il pensiero socialista di connettersi alla prassi del proletariato contemporaneo in un qualsiasi paese a capitalismo avanzato.

Questa deriva, di certo, fu favorita anche dall’ambiente angusto esistente nei partiti stalinisti. La libera ricerca era censurata: potevano salvarsi, e non sempre, riflessioni lontane dai problemi cruciali della strategia rivoluzionaria.

Il tratto di fondo del “marxismo occidentale” fu la sua scissione dalla lotta rivoluzionaria, che finì per trasformarsi in ostilità. Non è casuale il silenzio dei prolifici “marxisti occidentali” sul funzionamento dell’economia capitalista, sulla natura dello Stato borghese e, più in generale, sui problemi della strategia rivoluzionaria. Quella corrente intellettuale si spostò con decisione verso la filosofia, a sua volta impantanata in un soggettivismo di lungo periodo.

Il marxismo fu così ridotto ad un interminabile ed intricato discorso sul metodo, un’ossessione epistemologica, un’esaltazione per la lettura dei Manoscritti marxiani del 1844, pubblicati a Mosca nel 1932, in un percorso intellettuale che riprodusse, rovesciandolo, l’itinerario di Marx. L’ossessione più comune fu quella di cercare prima di Marx un punto di osservazione per svelare il “vero” carattere dell’opera marxiana, combinato ad un rifiuto superficiale degli scritti filosofici engelsiani. Insomma, nei “marxisti occidentali” non vi fu traccia della marxiana Tesi 11 su Feuerbach: l’interpretazione del mondo non sembrava servire al fine di cambiarlo da cima a fondo. L’attività teoretica diventò una disciplina esoterica, inquinata da un tecnicismo espressivo e linguistico tuttora montante.

In assenza di un polo rivoluzionario di classe, l’attrazione principale, compresi i ciclici propositi di “ritorno a Marx”, venne esercitata dalla cultura borghese.

Si comprende che il Gramsci dei Quaderni, con la sua analisi di quelli che Engels avrebbe definito i livelli più alti della sovrastruttura, fosse l’icona dei “marxisti occidentali”. Ma Gramsci, contrariamente a loro, aveva studiato il problema della sovrastruttura indicando nel suo grado d’autonomia una questione da indagare in rapporto al rovesciamento della struttura sociale capitalista. Se, dunque, i “marxisti occidentali” si sono in parte appoggiati su talune debolezze delle note gramsciane dei Quaderni, Gramsci non può però essere inserito tra i loro “padri spirituali”.

Falsa coscienza dell’”accademia gramsciana”

I “gramsciologi” contemporanei[48] hanno deformato Gramsci più di quanto non avesse fatto Togliatti assieme ai vari Vacca, Ragionieri, Badaloni, Gruppi e compagnia. Certo, il più recente lavoro di “spoliticizzazione” del pensiero gramsciano non sarebbe stato possibile se per alcuni decenni lo stalinismo nostrano non avesse modellato con infinita pazienza, ed enormi mezzi a disposizione, un Gramsci a immagine e somiglianza delle svolte e controsvolte del PCI.

Cadendo nel grottesco, certe pretese intellettuali mandarono in confusione anche il sanguinario – ma non certo acuto – dittatore cileno Pinochet, giunto ad affermare che «La dottrina del comunista Antonio Gramsci è marxismo in una forma aggiornata… è pericolosa perché penetra nella coscienza del popolo e soprattutto nella coscienza degli intellettuali.»[49] È una tesi piuttosto fantasiosa. Nell’utilizzo accademico di Gramsci, infatti, si trovano ben poche tracce di sovversivismo. La tendenza prevalente è quella di distinguere Gramsci dal marxismo, staccandolo dalla tradizione rivoluzionaria di cui era parte. Gramsci è presentato in termini ben sintetizzati da Emanuel Saccarelli «come il marxista occidentale sofisticato (non colpevole del riduzionismo attribuito ad una imprecisata e “volgare” ortodossia), come il competente teorico della sovrastruttura (che già vira verso quella svolta culturale e linguistica abbracciata da ampie sezioni del mondo accademico contemporaneo), o, forse più sorprendentemente, come l’incesto teorico di una svolta post-marxista.»[50]

Talvolta, questa reinterpretazione di Gramsci non mantiene nemmeno un briciolo di senso della misura. Soprattutto quando è costretta ad esplorare il Gramsci politico. Così, ad esempio, Anne Showstack Sassoon, autorevole in campo accademico, descrisse il governo di Tony Blair come un «progetto gramsciano» in un volume dedicato all’ascesa del New Labour, e Tony Blair come il “moderno principe” gramsciano dell’era contemporanea[51]. Polvere di stelle…

Altri reputati interpreti di Gramsci quali Vacca, Cornel West o Adam Przeworki appartengono o sono appartenuti a quella tradizione socialdemocratica contro la quale Gramsci combatté per tutta la sua vita, anche negli anni del carcere. Ma dell’opposizione di Gramsci al riformismo, nei loro studi, rimane poco.

Dalla rimozione di Gramsci come quadro politico discende la fissazione degli accademici sugli scritti gramsciani che essi reputano più familiari, a discapito del giornalismo politico, delle relazioni ai congressi o delle circolari di partito. Gli scritti dal carcere, invece, possono apparire più familiari ad un accademico, anche se ciò è dovuto principalmente alle tragiche condizioni nelle quali essi vennero prodotti: isolamento politico (anche da gran parte dei detenuti politici del PCdI), censura fascista e, ad un certo stadio, declino fisico e scoraggiamento umano. Gramsci è rovesciato in una figura che egli avrebbe deriso, in un intellettuale rassegnato o fiducioso nel potere corrosivo della critica culturale.

La produzione carceraria di Gramsci è stata separata dalle sue scelte politiche. I suoi dissensi col partito e l’IC sono stati un’occasione per sviluppare l’idea che Gramsci, alla fine della sua vita, avesse fatto un passo indietro rispetto alla militanza rivoluzionaria per diventare nient’altro che un brillante accademico, un “teorico critico” su cui scrivere libri e commissionare tesi di dottorato. Come osserva Saccarelli, nelle università «leggiamo Gramsci nella maniera in cui leggeremmo, ad esempio, Michel Foucault. Brennan identifica l’origine di gran parte degli errori in questa operazione. Si ignora la caratteristica di rivoluzionari, di intellettuali di partito come era Gramsci.»[52]

Il temperamento di Gramsci e le riflessioni, anche amare, causate dalla delusione per l’evoluzione del partito e dell’internazionale ai quali aveva dedicato la sua vita cosciente si sono trasformate in abbandono delle idee. Un Gramsci rinnegato da accogliere fuori dalla famiglia comunista. Ma Gramsci non cercò mai una via per abbandonare la militanza politica. La stessa rottura col partito, in carcere, non fu il prologo dell’avvicinamento ad altre tendenze politiche.

Libera da vincoli politici col movimento operaio, l’ultima leva di “gramsciologi” s’è potuta dedicare alla trasfigurazione del concetto di egemonia. Accogliendo tacitamente l’interpretazione togliattiana della guerra di posizione come unica strategia per l’Occidente capitalista e non come variante tattica complementare della guerra di movimento, i “gramsciologi” partono dall’assunto indimostrato che in Gramsci il concetto di egemonia si dissoci dalla prospettiva della presa del potere da parte della classe lavoratrice. In sostanza, Gramsci, nei lunghi anni di carcere, avrebbe meditato sull’entusiasmo degli anni Venti e compreso che la rivoluzione era un fenomeno possibile solo nell’Oriente “arretrato”. Un’altra variante della distorsione del concetto di egemonia è quella assunta dall’operaismo di Mario Tronti. Come osserva giustamente Alessandro Giardiello, infatti:

«Con l’autonomia del politico, l’operaismo scopriva l’uso operaio del capitale e del potere. La classe operaia era potere: secondo Tronti, l’errore della socialdemocrazia non era quello di pensare che si potesse gestire la macchina statale capitalista, ma quello di essere subalterna alla sua iniziativa. “Dentro il lavoro deve nascere una nuova gerarchia, non di valori, ma di poteri, una diversa distribuzione della forza sul terreno della politica diretta.

L’ipotesi diventava quella di un’alleanza dei produttori e di una nuova Nep (Nuova politica economica), una gestione dell’economia capitalistica sotto la guida politica operaia che utilizzava la macchina statale (borghese) per sconfiggere le arretratezze della società italiana, per promuovere la riforma dello Stato e rimettere in moto lo sviluppo.»[53]

Tornando a Gramsci, a noi non interessa sapere se lui prevedesse il rinvio dell’assalto rivoluzionario mondiale al capitalismo per un periodo di una durata maggiore a quello pensato da Lenin, Trotskij, Bordiga – quest’ultima ipotesi peraltro sarebbe ardua da sostenere – o chicchessia. Chissenefrega, verrebbe da dire. La diffusa tesi accademica da individuare e contrastare è invece che la riflessione carceraria sulla sconfitta del movimento operaio, incapace di opporsi all’ascesa del fascismo, si fosse estesa alla necessità di ridefinire la missione storica del proletariato. Negli scritti gramsciani del periodo 1921-26 nulla suggerisce tale tesi. Al contrario, la penna di Gramsci vibra nel denunciare le responsabilità politiche soggettive e perfino la codardia personale dei riformisti alla testa del PSI e della CGL.

Slegato dalla lotta della classe lavoratrice per l’emancipazione propria e dell’umanità, il concetto di egemonia diventa un’essenza spirituale. Spariti i rapporti di forza e di dominio tra le classi, i “gramsciologi” dilagano per migliaia di pagine sulla «riforma intellettuale e morale» e sulle meraviglie della lotta culturale.

Le pagine di Gramsci sul concetto di egemonia dicono altro. Innanzitutto, è bene precisare che la teoria dell’egemonia non è esposta in modo sistematico ma è dispersa e sminuzzata in decine di note storiche, politiche e letterarie. Con quel concetto, Gramsci indica una parte integrante del dominio di classe ovvero la supremazia ideologica di una classe sulle altre per mezzo di specifici apparati (Chiesa, partiti, famiglia, giornali, scuola, università). L’egemonia indicherebbe ciò che integra la dittatura in senso stretto, ovvero gli apparati repressivi dello Stato. Per ragioni di studio, Gramsci separa artificialmente i due elementi ed analizza in modo specifico il cosiddetto momento dell’egemonia. Gli intellettuali sono, dunque, analizzati da Gramsci come i «commessi» della classe dominante per l’esercizio del dominio culturale-ideologico. Nulla nei Quaderni porta a considerare lo Stato altro che «tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati.»[54]

Anche il proletariato, per Gramsci, deve disporre dei propri intellettuali per diffondere la propria concezione del mondo. Il loro luogo di raggruppamento deve essere il partito comunista. Senza partito, nessuna classe è capace di conquistare posizioni egemoniche. Non c’è in Gramsci alcun corteggiamento ad un ceto intellettuale progressista separato dalla classe lavoratrice.

Gramsci e Trotskij: egemonia, fronte unico e Assemblea Costituente all’ombra del « social-fascismo »

Il Gramsci dei Quaderni possedeva una preziosa qualità agli occhi dello stalinismo. Nei Quaderni, infatti, sono disseminati alcuni giudizi piuttosto negativi, ancorché grossolani e imprecisi, su Trotskij.

In più punti dei Quaderni Gramsci muove a Trotskij l’accusa di «cadornismo politico»[55], ovvero di prevedere un’azione politica sempre e per principio all’offensiva, senza essere in grado di adeguare la propria riflessione politica alla concretezza degli alti e bassi della lotta di classe. Questo presunto limite è ricollegato, da Gramsci, alla teoria trotskiana della rivoluzione permanente, messa nel mirino della restaurazione staliniana sin dal gennaio 1924. Ecco Gramsci:

«§ Passato e presente. Passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico. Questa mi pare la quistione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle quistioni sollevate dal Bronstein [Trotskij], che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta. »[56]

Sullo stesso tema, centrale nella riflessione dei Quaderni, Gramsci si spiega ulteriormente. Data l’importanza del passaggio, lo citiamo estesamente:

«§ Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale. È da vedere se la famosa teoria di Bronstein sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare osservazione del generale dei cosacchi Krasnov), in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui quadri della vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici era profondamente nazionale e  profondamente europeo. (…)

Mi pare che Ilici [Lenin] aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel ’17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il comando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione  degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc.»[57]

Prese alla lettera, le critiche di Gramsci a Trotskij nei Quaderni riproducono il racconto standardizzato di Trotskij diffuso dallo stalinismo. Secondo Saccarelli quelle note, scritte tra il 1930 ed il 1932, sarebbero «uno schermo protettivo costruito dall’autore per evitare il pericolo della sua aspra critica della dottrina stalinista del  Terzo Periodo.»[58] Messo a confronto con Lenin, Trotskij è presentato come «un internazionalista astratto ed un avventurista di ultra-sinistra»[59] incapace di connettere i principi generali del marxismo con la situazione concreta e le peculiarità nazionali, oltre che avverso alla finezza tattica del fronte unico.

Sullo stesso registro, Bergami aveva asserito che «la contrapposizione, istituita nel Quaderno 7 (1930-1931), tra Trotskij fautore della guerra di movimento in permanenza e Lenin sostenitore della guerra di posizione, come soluzione strategica adatta al riflusso della rivoluzione in Occidente, non rende conto dello sviluppo del pensiero di Trotskij nella storia del partito bolscevico e della Terza Internazionale fino al 1926.»[60]

In effetti, Trotskij fece blocco proprio con Lenin, nel III e IV congresso mondiale dell’IC, per convincere la maggioranza dei delegati della necessità di un riorientamento tattico incarnato dalla politica del fronte unico. Le affermazioni di Gramsci, dunque, sono del tutto errate. E troppo forzate sono le conclusioni di Saccarelli quando scrive che Trotskij fu per Gramsci uno «schermo protettivo». Come si può ignorare, infatti, che la critica al “sinistrismo” della politica del Terzo Periodo, accompagnata da una presa di distanza dalle tesi di Trotskij, fu precisamente la posizione che assunse l’opposizione “di destra” e buchariniana[61]  del Comintern? Quella corrente, nel 1930, formò la Internationale Vereinigung der Kommunistischen Opposition (IVKO, Opposizione Comunista Unificata Internazionale), guidata dal gruppo tedesco attorno a Heinrich Brandler ed August Thalheimer, ex dirigenti del partito comunista tedesco. Che lo sviluppo politico di Gramsci andasse in quella direzione è probabile, anche per il suo recente passato di dirigente nell’IC di Zinoviev, e spiegherebbe assai bene il bisogno di marcare una linea di separazione netta tra sé e Trotskij. L’IVKO, del resto, rimase estremamente critica sulle tesi di Trotskij e non condannò i processi-farsa di Mosca fino a quando, nel 1938, ne venne travolto anche Bucharin.

Gramsci non poteva ignorare che Trotskij aveva redatto il più importante documento politico dell’IC concernente la tattica del fronte unico. Eppure, presentato come la figura paradigmatica della guerra di movimento, Trotskij diventa nelle note di Gramsci il teorico dell’assalto frontale sempre e comunque. A Trotskij, quindi, Gramsci attribuì le posizioni del dirigente comunista ungherese Bela Kun nel 1921, quando questi suggerì e teorizzò la disastrosa “azione di marzo” della KPD, basata sulla confusione tra putchismo e azione rivoluzionaria di massa[62]. Lo stesso Bela Kun per il quale un Lenin furibondo coniò l’espressione offensiva «fare delle “kunerie”». Malgrado tutto ciò, è Trotskij che figura nei Quaderni «come il grezzo»[63]. Minimizzare la portata di questa scelta, ridurla ad un’astuzia, non rende un servizio alla verità.

Si può invece concordare con Bergami il quale, al proposito, scrive di «artificiosità delle critiche di Gramsci» il quale «precostituisce una condanna di astrattezza e di profetismo inconcludente per le concezioni di Trotskij in quanto inficiate di napoleonismo anacronistico e antinaturale»[64]. Al contrario, la spiegazione gramsciana della guerra di posizione e della situazione nei paesi a capitalismo avanzato contiene echi proprio della relazione di Trotskij sul fronte unico al quarto congresso mondiale dell’IC, al quale lo stesso Gramsci partecipò personalmente.

Come giudicare, dunque, le note di Gramsci che identificano Trotskij, in contrasto con Lenin, come il teorico delle disastrose guerre di movimento, dell’attacco “all’arma bianca”?

O si trattò di una capitolazione politica completa oppure Gramsci volle mantenere la sua critica ad una svolta tattica dell’IC lontana dalla critica complessiva alla degenerazione dell’URSS e dell’IC svolta da Trotskij e dall’Opposizione di Sinistra sin dal 1923. Quest’ultima, come già detto, ci sembra l’ipotesi più razionale. Anche perché tiene in considerazione, per inquadrare la collocazione di Gramsci rispetto all’IC, non solo una questione – che sia la lettera dell’ottobre 1926, la critica al social-fascismo o altro ancora – ma l’insieme del percorso a noi noto.

Alcune ricostruzioni sostengono che al Lenin come teorico dell’egemonia sarebbe in realtà da contrapporre Bucharin, e non Trotskij, come teorico della sua messa in soffitta. A tale proposito c’è nei Quaderni un riferimento, criptico, al Bucharin che, nel 1921 come nel 1931, difese posizioni teoriche di ultra-sinistra. Le critiche di Gramsci al tentativo di Bucharin di sistematizzare e popolarizzare il marxismo attraverso il Manuale di sociologia popolare rafforzano tale percezione, allargando lo sguardo sull’inadeguatezza e sul declino teorico del marxismo in URSS. In quei passi Gramsci analizza gli scritti filosofici di Bucharin e scrive che il crescente fatalismo e determinismo meccanicista dell’ideologia ufficiale dell’URSS era un sintomo della prevalente passività e segnalasse che i «subalterni» di un tempo non riuscivano ad agire come una forza sociale cosciente dei propri compiti. D’altronde, Gramsci sottolineò che quando il silenzio, e non il tumulto, caratterizzano la vita del partito, ciò era indizio non dell’unificazione reale della molteplicità bensì della sua soppressione dall’alto. In una nota dell’aprile 1932, Gramsci analizzò il fenomeno della “statolatria” scrivendo che si trattava di un processo necessario per una classe, il proletariato, impossibilitata ad una vita indipendente e libera prima della conquista del potere politico. Ma sarebbe stato un problema, continuava Gramsci, se la statolatria si fosse incancrenita e fosse diventata perpetua perché ogni iniziativa continuava ad essere determinata da funzionari statali.[65] Oltre a questo punto d’analisi – certo significativo perché scritto mentre in URSS l’apparato burocratico statale concentrava un potere sempre maggiore a spese della classe lavoratrice – Gramsci non si spinse.

Non ci sono note gramsciane sul tema della progressiva estinzione dello Stato, tema invece centrale nella riflessione di Lenin almeno a partire da Stato e rivoluzione e dalle Tesi di aprile  e  fino ai suoi ultimi interventi politici. Tanto meno riflessioni che lascino anche solo intravedere una vicinanza con le tesi sul processo di degenerazione burocratica e “termidoriana” della rivoluzione russa. In altre parole, i Quaderni e l’evoluzione politica di Gramsci fino al 1926 non permettono in alcun modo di affermare che le critiche a Trotskij, scorrette ed ingiuste, possano essere interpretate in modo sostanzialmente differente dalla lettera del testo, come affermato da numerosi studiosi, anche di estrema sinistra[66]. Ricordiamo, d’altronde, che la tradizione dei marxisti, quando sottoposti a dure condizioni di prigionia e di censura, è stata da sempre quella di esprimere una parte del proprio pensiero ma mai qualcosa che non condividevano. Ci sorprenderebbe che Gramsci si sia comportato in modo difforme da tale modalità.

La stessa dirompente testimonianza di Ercole Piacentini[67], compagno di carcere di Gramsci, sulle riflessioni gramsciane a proposito dello stalinismo come «Termidoro» della rivoluzione russa, ovvero precisamente il nodo teorico fondamentale sul quale si raggruppò l’Opposizione di Sinistra russa ed internazionale, non trovano nei Quaderni alcuna significativa ripresa. La critica del regime sovietico rimane schiacciata sulle peculiarità del Terzo Periodo, che fu soltanto una delle espressioni programmatiche dello stalinismo. Peraltro lo stalinismo, lungi dall’adottare una posizione settaria – si ricordi già nel 1925-1927 l’opportunismo verso il Kuomintang cinese o verso i dirigenti dei sindacati britannici durante lo sciopero generale di 9 giorni del 1926 – ebbe di norma un orientamento opposto, rimandando la lotta per il socialismo ad un futuro indefinito e distante. Lo stalinismo fu settario solo sul terreno della tattica ed in una fase ristretta della sua storia – il socialfascismo del periodo 1929-1934 – e agì invece come forza favorevole alla collaborazione di classe in modo organico prima coi fronti popolari ed in seguito coi governi di unità nazionale durante la seconda guerra mondiale.

La stessa critica gramsciana alla collettivizzazione forzata, inoltre, è imperniata sulla condanna dell’abbandono del paziente lavoro di egemonia, includente compromessi e sacrifici da parte della classe operaia, iniziato con la NEP, per Gramsci autentica base del regime sovietico e punto di partenza per le critiche del 1924-1926 al presunto «corporativismo» dell’Opposizione di Sinistra[68].

Le note dei Quaderni su Trotskij necessitano dunque, come e più di altri argomenti, una conoscenza della storia politica di Gramsci e un’ipotesi sulla sua evoluzione in relazione ai dibattiti del movimento comunista internazionale.

Di sicuro, sappiamo che il gruppo dirigente staliniano del PCdI nascose la famosa lettera dell’ottobre 1926, giudicata da Togliatti troppo morbida, con la quale Gramsci prese posizione, a nome della segreteria del partito, a favore di Stalin contro l’Opposizione Unificata di Trotskij, Kamenev e Zinoviev. A pubblicare per primo quella lettera nel 1938 sul Nuovo Avanti! fu Angelo Tasca, che nel frattempo aveva rotto da destra col PCdI.

In quel testo, Gramsci criticava  soltanto gli eccessi  di Stalin nella gestione della battaglia contro l’Opposizione Unificata, il suo voler «stravincere», e sembrava illudersi di poter continuare l’opera di allontanamento del PCdI dall’impostazione estremista di Bordiga, come Lenin e soprattutto Trotskij gli avevano proposto nel suo soggiorno moscovita nel 1922-1923, rimanendo parzialmente al di sopra della mischia nelle questioni che stavano infiammando l’IC. Pare proprio questo il senso della critica a Bordiga, che si muoveva caparbiamente in «un’ottica internazionale», mentre Gramsci sosteneva il primato, in quel momento, di «un’ottica nazionale», mostrando di essere permeato da un certo “provincialismo” nell’impostare il problema del conflitto in URSS.

Altri dirigenti comunisti, specialmente in Europa, furono già in quegli anni più netti e lucidi nell’analizzare i germi dello stalinismo e nel tentare di opporvisi frontalmente – pensiamo al gruppo dirigente del PC polacco o a quello francese del 1923-1924.

Il tatticismo gramsciano del 1926 può essere spiegato. Da un lato, senza dubbio, Gramsci temeva di spaccare, sulle valutazioni in merito all’evoluzione dell’URSS e dell’Internazionale Comunista, l’unità politica faticosamente conquistata dal gruppo dirigente del PCdI formatosi nel 1923-1924 nella polemica contro la sinistra bordighiana, allora peraltro considerata solidale con Trotskij; d’altra parte, egli condivideva le tesi politiche della maggioranza del PCUS attorno alla frazione di Stalin e si illuse, non avendo affatto chiara la profondità sociale del conflitto interno al PCUS, di poter concorrere ad una sua attenuazione.

Nel dopoguerra, grazie alle testimonianze di compagni che lo avevano conosciuto in carcere, divenne sempre più difficile coprire i dissensi di Gramsci col partito e l’IC. In realtà, vi fu una vera e propria rottura.

Il dirigente trotskista Pietro Tresso, espulso dall’Ufficio Politico del PCdI nel 1930, scrisse che l’espulsione di Gramsci per la sua contrarietà alla svolta sul «social-fascismo» era un fatto ma non venne resa pubblica poiché era prassi consolidata non espellere nessuno, in caso di divergenze politiche, mentre era in carcere o al confino. Lo stesso Bordiga, ad esempio, fu espulso soltanto alla fine dei suoi tre anni di confino.

Tuttavia, proprio la natura del principale conflitto politico tra Gramsci e l’IC, ovvero la teoria del «social-fascismo» e la rinuncia in Italia alla parola d’ordine di Assemblea Costituente, servì successivamente a consolidare l’idea di un Gramsci che, se non era fedele a Mosca e a Stalin, era tale perché anticipatore della successiva e “democratica” scelta dei Fronti Popolari – impressa nella memoria politica degli intellettuali progressisti come svolta “pluralista” dell’IC ma, in realtà, portata avanti in tutto il mondo a suon di epurazioni, processi politici ed eliminazioni fisiche perpetrate direttamente dalla NKVD di Stalin.

Ciò che Gramsci disse in carcere sulla necessità della parola d’ordine democratica dell’assemblea costituente in una probabile fase transitoria nella quale, dopo la caduta del fascismo, la rivoluzione proletaria non avesse avuto la forza per imporsi immediatamente, non si distanziava, nel metodo seguito, da quanto fecero i bolscevichi nell’avanzare parole d’ordine transitorie negli otto mesi tra la rivoluzione di Febbraio e quella di Ottobre. Su quel punto, è chiara la fedeltà di Gramsci alle Tesi di Lione del III congresso del PCdI del 1926.

Gramsci sottolineò anche che nell’assemblea costituente i comunisti avrebbero dovuto dimostrare nella pratica l’assoluta illusorietà di una trasformazione socialista per via istituzionale e parlamentare. Così relazionò nel 1933 alla centrale del PCdI il comunista Athos Lisa sulle posizioni assunte da Gramsci in carcere:

«Le prospettive rivoluzionarie in Italia devono essere fissate in numero di due, cioè la prospettiva più probabile, e quella meno probabile. Ora, secondo me, la più probabile è quella del periodo di transizione. Perciò a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve far sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine  della “Costituente” non come fine a sé, ma  come mezzo.

La “Costituente” rappresenta la forma d’azione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe lavoratrice, nel seno della quale può e deve svolgersi, a mezzo dei propri rappresentanti, l’azione del partito che deve essere intesa a svalutare tutti i progetti di riforma pacifica, dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria.»[69]

Se però si cancella questo Gramsci e se ne dilata nel vuoto l’immagine di un uomo che riflette nell’isolamento sul «cazzotto nell’occhio» che per lui fu il social-fascismo, allora è possibile dipingere un Gramsci che rompe con l’avventurismo ultra-sinistro dell’IC per approdare su posizioni socialdemocratiche. Studiosi di orientamento bordighista lo sostengono da decenni, compiendo un errore opposto e speculare a chi ha cercato di costruire forzatamente un’analogia tra Gramsci e Trotskij.[70]

Per completare l’operazione, però, è stato necessario anche cancellare dalla memoria la corrispondenza sulla questione della Costituente tra Trotskij ed i tre ex membri dell’Ufficio Politico del PCdI che fondarono nel 1930 l’Opposizione di Sinistra italiana. In quei testi sono espressi contenuti politici compatibili con quelli di Gramsci, almeno per come li riportò Athos Lisa, e l’idea, rivendicata nel dopoguerra da Leonetti, che la svolta del 1930 avesse seppellito definitivamente il “partito di Gramsci”, nel programma, nel metodo d’analisi ed anche in quello di direzione. A proposito del futuro periodo di transizione dopo la caduta del fascismo in Italia, Trotskij, appunto, scrisse a Tresso, Leonetti e Ravazzoli nel maggio 1930:

« (3) A ciò che precede fa seguito la questione del periodo di “transizione” in Italia. Innanzitutto bisogna stabilire con chiarezza: di transizione da che cosa a che cosa? Periodo di transizione dalla rivoluzione borghese (o “popolare”) alla rivoluzione proletaria,  è una cosa. Periodo di transizione dalla dittatura fascista alla dittatura proletaria, è un’altra cosa. Se si pensa alla prima concezione, la questione della rivoluzione borghese si pone in primo luogo e si tratta di inserirvi il ruolo del proletariato, dopodiché soltanto si porrà la  questione del periodo di transizione verso una rivoluzione proletaria. Se si pensa alla seconda concezione viene allora ad essere posta la questione di una serie di battaglie, sconvolgimenti, rovesciamenti di situazioni, brusche svolte, che costituiscono nell’insieme le diverse tappe della rivoluzione proletaria. Queste tappe potranno essere numerose. Ma esse non possono in alcun caso contenere nel loro seno una rivoluzione borghese o il suo feto misterioso, la rivoluzione “popolare”.

Ciò vuol dire che l’Italia non può per un certo periodo di tempo tornare ad essere uno Stato parlamentare o diventare una “repubblica democratica”? Ritengo – in perfetto accordo con voi, penso – che questa eventualità non è esclusa. Ma allora essa non risulterà come frutto d’una rivoluzione borghese, ma come un aborto di una rivoluzione proletaria insufficientemente matura o prematura. […] La vittoria del fascismo fu il risultato della nostra sconfitta nella rivoluzione proletaria del 1920. Soltanto una nuova rivoluzione proletaria può rovesciare il fascismo. Se anche questa volta essa non fosse destinata a trionfare (debolezza del partito comunista, manovre e tradimento dei socialdemocratici, dei massoni, dei cattolici) lo Stato di transizione che la controrivoluzione borghese si vedrà allora costretta a stabilire sulle rovine del suo potere sotto forma fascista, non potrà essere altro che uno Stato parlamentare e democratico. […] (4) Ma ciò significa che noi, comunisti, respingiamo a priori ogni obiettivo democratico, ogni parola d’ordine di transizione o di preparazione, fermandoci rigorosamente alla sola dittatura proletaria? Sarebbe dar prova di un vano settarismo dottrinario. Non crediamo neanche per un istante che un semplice salto rivoluzionario sia sufficiente a saldare ciò che separa il regime dalla dittatura proletaria.

Non neghiamo affatto la fase di transizione con le sue esigenze transitorie, ivi comprese le esigenze della democrazia. Ma è precisamente con l’aiuto di queste parole d’ordine di transizione dalle quali scaturisce sempre la via verso la dittatura del proletariato, che l’avanguardia comunista dovrà conquistare la classe operaia tutta intera e che questa ultima dovrà unificare attorno a sé tutte le masse sfruttate della nazione. E qui non escludo neanche l’eventualità di una Assemblea Costituente che in certe circostanze potrebbe essere imposta dagli avvenimenti, o, più precisamente, dal processo di risveglio rivoluzionario delle masse oppresse. […] Se la crisi rivoluzionaria dovesse scoppiare, per esempio, nel corso dei prossimi mesi (sotto la spinta della crisi economica da una parte, sotto l’influenza rivoluzionaria venuta dalla Spagna), le grandi masse lavoratrici sia operaie che contadine farebbero giustamente seguire le loro rivendicazioni economiche da parole d’ordine democratiche (quali la libertà di stampa, di coalizione, sindacale, di rappresentanza democratica nel Parlamento e nei comuni). Ciò significa che il partito comunista dovrà respingere queste esigenze? Al contrario. Dovrà imprimere loro l’aspetto più audace e più categorico che sia possibile. Perché non si può imporre la dittatura del  proletariato alle masse popolari. Non si può realizzarla che conducendo la battaglia – la battaglia a fondo – per tutte le rivendicazioni, le esigenze e i bisogni transitori delle masse, e alla testa di queste masse.»[71]

In modo indipendente, dunque, sulla situazione in Italia Gramsci aveva sviluppato una riflessione analoga a quella di Trotskij e dei tre dirigenti comunisti italiani che avrebbero aderito nel 1930 all’Opposizione di Sinistra internazionale. In merito alla loro espulsione dal PCdI, peraltro, non è da escludere che Gramsci avesse espresso un parere contrario. Infatti, sarebbe stato il timore di una rottura virulenta a suggerire al fratello maggiore, Gennaro Gramsci, di tacere al partito la risposta ricevuta da Antonio in merito all’espulsione dei tre, oltre che alla nuova linea del PCdI. Nel 1965, poco prima di morire, Gennaro Gramsci avrebbe raccontato il contenuto politico di quel colloquio al giornalista-biografo Giuseppe Fiori in questi termini: «non ne giustificava l’espulsione e respingeva la nuova linea dell’Internazionale, condivisa da Togliatti a suo giudizio troppo affrettatamente.»[72]

Le valutazioni concordanti sulla natura della rivoluzione che avrebbe rovesciato il regime fascista in Italia sono di estrema rilevanza ma, naturalmente, non cancellano quanto detto sulla comprensione generale di quel periodo storico. Basti pensare che l’unico riferimento diretto nei Quaderni sul bonapartismo connesso allo sviluppo storico dell’URSS individuò l’embrione di una tendenza in quella direzione nelle posizioni espresse da Trotskij nel corso del dibattito del 1920 sulla funzione dei sindacati dopo la presa del potere[73].

La condizione carceraria, ovviamente, non aiutò Gramsci a formarsi un’opinione approfondita. Il clima isterico di caccia all’oppositore, responsabilità dello stalinismo, penetrò anche nelle carceri e nel confino e diede il colpo finale a qualsiasi discussione collettiva tra i comunisti incarcerati dalla repressione fascista. D’altra parte, fare di Gramsci un “semi-trotskista” o un “trotskista inconscio” sarebbe un’operazione arbitraria e non renderebbe un servizio né a Gramsci né al trotskismo.

Egemonia: il passato di un concetto marxista

Molti intellettuali, non ultimo Norberto Bobbio, hanno suggerito che il concetto di egemonia è un’innovazione gramsciana, ma così non è. Una sintetica storia del concetto è imprescindibile per sprovincializzare la questione e capire quali letture e dibattiti avesse alle spalle Gramsci.

L’espressione egemonia, nel nascente movimento marxista russo, fu utilizzata fin dagli anni ’80 del XIX secolo per definire il ruolo della classe operaia nella lotta contro lo zarismo. Per Plechanov come per Axelrod, ma anche per Lenin, il termine indicava la necessità per il proletariato di ingaggiare una lotta politica, in polemica con le tendenze economiciste, e la sua supremazia sulle altre classi nella rivoluzione borghese contro lo zarismo. Poco dopo la scissione del 1903 tra bolscevichi e menscevichi, Lenin accusò questi di aver abbandonato l’idea di egemonia – «l’aspetto più grossolano del riformismo nella socialdemocrazia russa»[74] – subordinandosi  politicamente alla direzione del capitale russo nella rivoluzione borghese-democratica contro lo zarismo.

Ad inizio Novecento quel dibattito si spostò in Germania, nel cuore del movimento operaio. Kautsky contrappose la «strategia del logoramento», indefinitamente lunga e centrale in Occidente, a quella del rovesciamento. Il logoramento sarebbe stato proprio dell’Occidente a partire dalla sconfitta della Comune di Parigi del 1871 – e qui c’è una coincidenza con riferimenti gramsciani dei Quaderni. L’occasione storica per l’accendersi di questo dibattito era stata la rivoluzione russa del 1905 – quando per la prima volta comparvero i soviet, forme avanzate di potere proletario – che Kautsky voleva a tutti i costi esorcizzare e considerare fenomeno tipico di società arretrate e non universalizzabile.

A Kautsky che riponeva la fiducia nell’avvento del socialismo per mezzo del succedersi delle elezioni fino al conseguimento della maggioranza parlamentare, rispose duramente Rosa Luxemburg. Per il “papa” dell’Internazionale Socialista l’assalto frontale della rivoluzione russa del 1905 era il prodotto dell’arretratezza di quella società, lo sciopero generale era una forma di lotta «primitiva ed amorfa», inopportuna in Occidente dove avrebbe fornito alla reazione un pretesto per reprimere il movimento operaio altrimenti destinato ad un’irresistibile e graduale ascesa.

Lenin, nel 1910, intervenne nel dibattito a fianco della Luxemburg. Egli denunciò la rigida contrapposizione proposta da Kautsky tra la Russia zarista e l’Europa delle democrazie parlamentari come la razionalizzazione di una capitolazione all’elettoralismo. Anche la Luxemburg criticò la «rigida antitesi tra la Russia rivoluzionaria e l’Europa occidentale parlamentare», intravedendovi le radici di un orientamento opportunista. Per Rosa, gli scioperi in Russia del 1905 dai quali era nato il Consiglio dei delegati operai di Pietroburgo erano

«tanto poco ‘amorfi e primitivi’, da poter anzi essere tranquillamente raffrontati per arditezza, violenza, solidarietà di classe, tenacia, conquiste materiali, fini progressivi e risultati organizzativi, ad un qualunque movimento sindacale dell’Europa occidentale.»

Rosa affondò ulteriormente il colpo sintetizzando così il ragionamento di Kautsky:

«In poche parole, sorride di tante promesse l’orizzonte delle prossime elezioni al Reichstag che peccheremmo di criminale leggerezza se pensassimo ad un qualunque sciopero di massa, avendo davanti una vittoria certa, messaci ‘in tasca’ dalla scheda elettorale.»[75]

Dopo la rivoluzione d’Ottobre, il termine egemonia cadde in disuso tra i bolscevichi. La formula bolscevica della «dittatura democratica degli operai e dei contadini» interna al sistema capitalista non s’era concretizzata. La prospettiva dell’egemonia del proletariato in una rivoluzione democratica cadde anch’essa. Terminò anche la controversia teorica che aveva visto opporre i concetti di egemonia e dittatura del proletariato.

Nei documenti dell’IC la parola d’ordine dell’egemonia venne utilizzata per indicare il compito del proletariato di dirigere, cioè di esercitare la direzione, sugli altri settori sfruttati della popolazione nella lotta contro il capitalismo. Nel IV congresso mondiale dell’IC (1922), il termine venne esteso al dominio della borghesia sul proletariato quando la prima riesce a ridurre l’azione del secondo ad un quadro corporativo, cioè ad una divisione tra lotta politica e lotta sindacale[76].

Dalla lettura dei Quaderni è chiaro che Gramsci partì da quella tradizione politica e persino lessicale, in particolare dall’idea della necessità per il proletariato di allearsi con altri settori sfruttati. Riprendendo un concetto formulato da Trotskij, Gramsci distinse con nettezza dittatura del proletariato, da esercitare contro i nemici di classe anche con la forza, ed egemonia, da esercitare sui contadini la cui «buona volontà ed entusiasmo» devono potersi collocare a fianco del proletariato.

Non sarebbe però mancata, nei Quaderni, una nota nella quale Gramsci liquidò erroneamente ed in modo sbrigativo la teoria della rivoluzione permanente – è palese il prisma della distorsione staliniana – come un abbandono della ricerca dell’alleanza tra i lavoratori urbani ed i contadini, cioè come un abbandono del concetto di egemonia[77].

Che cosa divenne, quel concetto, nei Quaderni?

Se in alcuni passaggi l’egemonia sembra essere prerogativa della società civile, in opposizione al dominio o coercizione proprio dello Stato, in altri testi l’egemonia è analizzata come la sintesi del consenso ottenuto tramite gli organi cosiddetti privati (non sempre) ma incardinati nell’ordinamento borghese (scuole, chiese, radio, università ecc.) e la coercizione. Nel regime parlamentare borghese, osservò Gramsci, l’egemonia si doveva realizzare preferibilmente «senza che la forza soverchi di troppo il consenso.»[78] Però, se l’egemonia è intesa come consenso-coercizione, allora essa si sposta all’interno dello Stato stesso e, tutt’al più, Gramsci avrebbe mantenuto una differenza di sfumatura distinguendo egemonia politica – cioè statale – e civile. Quello che appare indiscutibile è che Gramsci non formulò una teoria organica.

Nei Quaderni le parole Stato, società civile ed egemonia sono sottoposte ad uno slittamento concettuale. Qual è il filo di questi slittamenti? La riflessione, in Gramsci, scivola dalla questione delle alleanze sociali del proletariato, soprattutto in “Oriente”, all’analisi delle strutture del potere politico borghese in “Occidente”, ovvero nei paesi a capitalismo avanzato. Resta tuttavia vero che la principale configurazione di questi termini, per il destino postumo del pensiero di Gramsci, si è rivelata essere l’opposizione tra l’Oriente, dove «lo Stato è tutto» e la guerra di manovra è appropriata, e l’Occidente della guerra di posizione dove lo Stato è una «scorza esterna» rispetto alla società civile «robusta e capace di resistere a forti scossoni».

Ma, così hanno ragionato gramsciologi maliziosi, se in Occidente l’egemonia prevale sulla coercizione come modalità di espressione del potere della borghesia, allora è «l’ascendente culturale della classe dominante che al fondo garantisce la stabilità dell’ordinamento capitalistico.»[79] E qui tanti gramsciologi smaniano per andare oltre e attaccare la teoria marxista sullo Stato come organo di dominio di classe, mentre ben più profondo era Lenin quando osservò che gli zar governavano con la forza mentre la borghesia britannica e francese lo faceva con l’inganno, la lusinga, il Parlamento e le concessioni democratiche finalizzate a conservare l’essenziale, cioè la sacralità della proprietà privata.

Ma se, come il socialdemocratico Tamburrano[80], si vuole fare dire a Gramsci più di quanto egli scriva, allora si prosegue oltre Gramsci stesso per affermare, da riformisti con spruzzata di post-modernismo, che lo Stato essenzialmente non è più, in Occidente, un organo classista di repressione come lo era nella Russia zarista e che il potere è concentrato nei mezzi di informazione più che nei mezzi di produzione.  Se, in Occidente, il potere del capitale avesse preso la forma dell’egemonia culturale, saremmo indotti a riconoscere come valido l’antico dogma riformista sulla praticabilità della via elettorale al socialismo. Ma questo punto di vista, mai espresso da Gramsci, dimentica di considerare che le “normali” condizioni di subordinazione ideologica delle masse si fondano su una coercizione, a tratti silenziosa e poco visibile, che la rendono possibile: il monopolio della violenza legale da parte dello Stato. Senza questa prerogativa materiale, il sistema di controllo culturale diventerebbe immediatamente fragile.

In Gramsci la riflessione sull’egemonia diventa per lo più un riferimento alla solidità ed all’articolazione del dominio borghese nell’occidente capitalistico. Un grado tendenzialmente maggiore di consenso degli oppressi in grado di ridurre le espressioni eclatanti del dominio coercitivo della borghesia, come peraltro fu illustrato in modo penetrante da Lenin ne L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Lenin aveva analizzato, sin dall’Imperialismo (1916), che uno degli effetti politici di questa nuova fase del capitalismo era la formazione, nei paesi imperialisti, di una «aristocrazia operaia» grazie alle briciole dei super-profitti coloniali. Questo concetto venne ripreso nel 1920 ne L’estremismo:

«In paesi più progrediti rispetto alla Russia quel certo carattere reazionario dei sindacati si è manifestato, e doveva indubbiamente manifestarsi, con molta più forza che da noi. I menscevichi russi hanno trovato (e in pochissimi sindacati trovano tuttora) l’appoggio dei sindacati a causa della grettezza corporativa, dell’egoismo e dell’opportunismo professionale. I menscevichi dell’Occidente «si sono annidati» molto più stabilmente nei sindacati; in Occidente si è delineato – con molta più forza che da noi – uno strato di «aristocrazia operaia» corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo borghese, di mentalità imperialista, asservita e corrotta dall’imperialismo. Questo fatto è   innegabile. La lotta contro i Gompers, contro i signori Jouhaux, Henderson, Merrheim, Legien e soci in Europa occidentale è infinitamente più difficile della lotta contro i nostri menscevichi, che rappresentano un tipo sociale e politico assolutamente omogeneo.» [la sottolineatura è nostra][81]

Gramsci abbozzò un’analisi sulle caratteristiche dei sistemi politici dei paesi capitalisti avanzati, più capaci di reggere eventi di rottura come crisi economiche e guerre. In quei contesti, sosteneva Gramsci, sarebbe stato improbabile per il proletariato un attacco frontale alla borghesia senza una lunga e difficile guerra di posizione – nei fatti, la costruzione del rapporto di forza a livello soggettivo. In questo, giova ripeterlo, Gramsci non innovava rispetto alle conquiste teoriche dei primi quattro congressi mondiali (1919-1922) dell’Internazionale Comunista.

Gramsci e Trotskij: le note sulla rivoluzione permanente, ovvero ancora su guerra di manovra e guerra di posizione (e fronte unico)

La matassa è più complicata se si considera il frammento dei Quaderni sulla rivoluzione permanente. L’espressione, nella nota gramsciana, è riferita all’indirizzo di Marx alla Lega dei Comunisti nel 1850, quando questi ipotizzava un drastico balzo dalle rivoluzioni borghesi del 1848 alle rivoluzioni proletarie. Quella ipotesi, secondo Gramsci, fu cancellata dalla storia con la sconfitta della Comune di Parigi nel 1871. Da quel momento in poi, secondo lui, la strategia politica dell’attacco frontale sembrerebbe adottabile soltanto nei paesi coloniali ed arretrati e non nelle democrazie borghesi dell’Occidente.

L’egemonia assurge a principio esplicativo delle strutture del potere di classe nelle democrazie borghesi stabili tipiche dell’Occidente. La guerra di manovra diventerebbe una strategia residuale, attuale ai margini dello sviluppo capitalista. Al contrario in Occidente, dove lo Stato è soltanto la «trincea esterna» del dominio di classe, il nucleo centrale è la società civile, a sua volta esterna alla sfera economica, diversamente dall’uso comune del termine in Hegel ma anche in Marx. Senonché, appare nuovamente l’ombra di Trotskij, presentato come il propugnatore di una dottrina divenuta astratta e superata. Come già osservato, la dottrina della rivoluzione permanente viene descritta in forma caricaturale:

«A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania del 48-49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein, si manifestò inerte e inefficace nel 1905 e in seguito: era una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione intellettualizzata, invece, senza usarla «di proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della società che occorreva trasformare, di alleanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana. Nell’un caso, temperamento giacobino senza il contenuto politico adeguato, tipo Crispi; nel secondo caso temperamento e contenuto giacobino secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta intellettualistica.»[82]

In Gramsci l’analisi dello Stato e la questione della tattica del fronte unico sono collegate. Lo Stato, però, è definito in modo oscillante tra tre sfumature non coincidenti: talora sarebbe un ente in rapporto «equilibrato» (contrariamente all’Oriente) con la società civile, talaltra la «scorza esterna» e quasi non necessaria della società civile ma altrove anche una «struttura massiccia» che annienta l’autonomia della società civile. Inoltre, se in alcune note lo Stato si oppone alla società civile, in altre, successive, Gramsci sembra includere la società civile nello Stato. Non si sfugge all’impressione di una certa confusione.

Dalla ragnatela delle note gramsciane, secondo Anderson, emergerebbe una linea di collegamento ed interpretativa generale: egemonia civile = guerra di posizione = fronte unico. La catena di equivalenze è convincente e sembra indicare la convinzione gramsciana che la tattica del fronte unico fosse da adottare non come tattica ma come strategia per tutta un’epoca storica.

Nel preparare il suo ragionamento sulla tattica rivoluzionaria più adatta all’Occidente capitalistico avanzato, Gramsci aveva fatto riferimento al dibattito strategico svoltosi tra i comandi militari supremi a proposito della prima guerra mondiale. L’obiettivo immediato della sua critica era il cosiddetto cadornismo, una sorta di analogo in campo politico dell’ultra-sinistrismo che costituiva il bersaglio di Gramsci. Ecco come impostò la questione:

«L’osservazione del generale Krasnov (nel suo romanzo) che l’Intesa (che non voleva una vittoria della Russia imperiale, perché non fosse definitivamente risolta a favore dello zarismo la quistione orientale) impose allo stato maggiore russo la guerra di trincea (assurda dato l’enorme sviluppo del fronte dal Baltico al Mar Nero, con grandi zonepaludose e boscose) mentre unica possibile era la guerra manovrata, è una mera scempiaggine. In realtà l’esercito russo tentò la guerra di manovra e di sfondamento, specialmente nel settore austriaco (ma anche nella Prussia Orientale) ed ebbe successi brillantissimi per quanto effimeri. La verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di non avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è noto quante perdite siano costate l’ostinazione degli stati maggiori nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era “imposta” dai rapporti generali delle forze in contrasto. […] La stessa riduzione deve avvenire nell’arte e nella scienza politica, almeno per ciò che riguarda   gli Stati più avanzati, dove la “società civile” è diventata una struttura molto complessa e resistente alle “irruzioni” catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le   superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco d’artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva distrutto solo la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di      fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le cose certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l’elemento della rapidità, del tempo accelerato, della marcia progressiva e definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico. L’ultimo fatto del genere nella storia della politica sono stati gli   avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell’arte e della scienza politica [il corsivo è nostro][83]

Le ultime righe di questo passo, assieme all’osservazione sullo scacco dell’avanzata dell’Armata Rossa su Varsavia nell’agosto 1920, pongono il tema di un’eventuale contrapposizione tra la strategia dei bolscevichi nel 1917 – che pure fecero uso del metodo del fronte unico anche nel corso di quell’anno cruciale – ed una corretta strategia nei paesi a capitalismo avanzato? In un passo successivo Gramsci pare procedere ad una trattazione teorica di questo punto, contrapponendo Oriente ed Occidente in modo netto:

«In Oriente lo Stato era tutto; la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.»[84]

Le conclusioni di questa nota (« In Oriente lo Stato era tutto; la società civile era primordiale e gelatinosa;  nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte») sono il passaggio più utilizzato dai commentatori che sostengono la rottura di Gramsci con la visione dell’Internazionale Comunista delle origini. Curiosamente, una opposizione del genere tra Oriente ed Occidente era stata proposta anche da Bordiga nel suo intervento del febbraio 1926 – preparato anche assieme a Trotskij e nel quale il comunista napoletano si contrappose a Stalin ed a Bucharin – al VI Plenum dell’Esecutivo dell’IC:

«Lo sviluppo in Russia non ci dà quindi esperienze di importanza fondamentale sul modo in cui il proletariato dovrà abbattere il moderno stato capitalista, liberale, parlamentare, che esiste da molti e molti anni e possiede una grande capacità di difendersi.[…] Noi dobbiamo sapere come si attacca e si conquista il moderno Stato borghese, uno Stato che nella lotta armata si difende ancor più efficacemente di quanto non abbia saputo difendersi l’autocrazia zarista e che, per giunta, si difende con l’aiuto della mobilitazione ideologica e l’educazione in senso disfattista del proletariato ad opera della borghesia. Questo problema nella storia del partito comunista russo non si presenta.»[85]

Contrariamente al quadro che emergerebbe dai sibillini riferimenti di Gramsci, Trotskij non fu affatto, nemmeno sul terreno della dottrina militare, un “teorico dell’offensiva”. Replicando a Frunze, nel dibattito all’interno dell’Armata Rossa Trotskij sottolineò così il tipo di nesso esistente tra piano politico e militare:

«Sfortunatamente non mancano tra i nostri dottrinari di nuovo conio, quegli ingenui sostenitori dell’offensiva che, sotto le insegne di una teoria militare, cercano di introdurre nei circoli del nostro esercito le stesse unilaterali tendenze ‘ultrasinistre’ che già ebbero ad esprimersi al III congresso dell’Internazionale nella veste della teoria dell’offensiva: considerando che (!) viviamo in un’epoca rivoluzionaria, proprio per questo (!) il partito comunista deve attuare la politica dell’offensiva. Tradurre le concezioni di ‘ultrasinistra’ nel linguaggio della teoria militare significa moltiplicarne gli errori.»[86]

Trotskij criticò le posizioni di chi faceva della manovra o della posizione un principio assoluto: «Senza offensiva non si perviene alla vittoria. Ma la vittoria è di chi attacca quando è necessario attaccare, e non di chi attacca per primo »[87]. Risoltosi il dibattito coi “teorici dell’offensiva”, Trotskij sviluppò le sue posizioni precisamente sulla probabile distinzione tra le future guerre civili tra le classi in Occidente ed in Oriente, senza alcuna ‘rozzezza’ e mantenendo un approccio rivoluzionario. Per Trotskij era altamente probabile che in Occidente il ricorso alla guerra di posizione sarebbe stato maggiore che in Russia:

«In paesi altamente sviluppati, con enormi centri abitati, con una Guardia bianca già militarmente inquadrata, la guerra civile può assumere – ed in molti casi senza dubbio assumerà – una fisionomia assai meno dinamica, molto più serrata, vale a dire un carattere affine alla guerra di posizione.»[88]

A queste note, Trotskij aggiungeva che non si doveva con ciò intendere che in Occidente la guerra tra le classi potesse essere ridotta a pura guerra di posizione. Una tale precisazione non c’è nel Gramsci dei Quaderni. Questo lo ha reso interpretabile e forzabile da parte dell’accademia gramsciana.

A proposito del Gramsci critico della teoria trotskiana della rivoluzione permanente, ci si permetta di precisare che tutta la formazione del comunista sardo dopo la fondazione del PCdI, ed in particolare una lettera scritta da Gramsci nel febbraio 1924 da Vienna, lasciano supporre un’ottima comprensione del dibattito scoppiato in URSS dopo la morte di Lenin ed anche una certa iniziale propensione per la prospettiva politica di Trotskij[89], abbandonata piuttosto rapidamente.

Come spiegare, allora, che nei Quaderni Gramsci critichi la posizione di Trotskij facendone una caricatura che la assimila ad una volontà di esportare la rivoluzione napoleonicamente, cioè attraverso mezzi militari e burocratici?

Non abbiamo strumenti per comprendere se Gramsci avesse mutato posizione e, in modo intellettualmente non limpido, sfigurasse la posizione con cui polemizzava, oppure se avesse deciso di coprirsi o se la causa sia un’altra. La contraddizione reale sembra essere in Gramsci ed è strumentale aggiustarla a proprio gradimento anni o decenni dopo.

La caratterizzazione gramsciana della rivoluzione permanente come una sorta di «teoria dell’offensiva» è priva di fondamenta. Gramsci attribuisce a Trotskij le posizioni dei “teorici dell’offensiva” che animarono, soprattutto nel terzo congresso mondiale dell’IC (1921), una dura opposizione di sinistra contro Lenin e Trotskij.

Furono infatti proprio questi ultimi due a sostenere per primi, all’interno dell’IC, che il capitalismo era entrato in una fase di relativa stabilizzazione dopo gli insuccessi dell’ondata rivoluzionaria del 1917-1920 e che ciò avrebbe dovuto implicare un cambiamento tattico, in primis in Europa occidentale, per conquistare pazientemente la maggioranza del proletariato organizzato. La tattica del fronte unico serviva a questo fine e l’opposizione ad essa non venne da qualche presunto “marxista orientale” ma proprio da importanti settori dei giovani PC dell’Europa occidentale[90], compreso quello italiano e incluso Gramsci stesso, che considerarono quella scelta un riavvicinamento di principio alla socialdemocrazia e dunque un tradimento.

In Germania, la discussione aveva assunto nel 1921 un aspetto drammatico perché l’applicazione della teoria dell’offensiva, ispirata a Mosca da Bela Kun e Bucharin (allora ancora a sinistra del partito), aveva provocato la tragedia della “azione di marzo” quando, dopo la provocazione del ministro degli Interni prussiano e socialdemocratico Horsing che occupò militarmente le zone minerarie della Germania centrale dove il KPD aveva alcuni suoi bastioni, la direzione comunista passò all’offensiva insurrezionale in un’azione avventurista che espose decine di migliaia di comunisti ad un spietata repressione da parte dello Stato. In quell’occasione la critica, durissima, al passaggio troppo meccanico dalla guerra di posizione alla guerra di movimento venne proprio da Lenin e Trotskij, che in Germania si erano espressi apertamente per le posizioni della destra del partito, favorevole al fronte unico e guidata fino al marzo 1921 da Paul Levi, il quale venne espulso dall’IC per il modo col quale aveva preso immediatamente e pubblicamente le distanze dalla “azione di marzo”[91].

Tutto questo, Gramsci lo sapeva e non per sentito dire. Durante il suo soggiorno a Mosca tra l’estate 1922 e novembre 1923 fu proprio Trotskij a discutere intensamente con lui per provocare un suo distacco dalla frazione di Bordiga. Gramsci, pur se ancora in blocco con la sinistra del partito[92], era infatti considerato uno degli elementi sui quali puntare per superare il settarismo della fase nascente del PCdI. Si prova quindi un certo disappunto nel commentare certe grossolane prese di posizione contenute nei Quaderni.

Gramsci oggi

Bisogna dare a Gramsci quel che è di Gramsci, senza temere di metterne in evidenza anche gli errori. Il compito è reso più difficile dalla sterminata letteratura gramsciana, vera e propria coltre ideologica polimorfa che impedisce di riconoscerlo come comunista. I Quaderni si sono prestati più di qualsiasi altro scritto alla deformazione dell’intera figura di Gramsci, pesantemente imbalsamato in una fitta e tutto sommato coerente rete di luoghi comuni riformisti e liberali.

Separare Gramsci dalla masnada di pennivendoli che lo incensa è un dovere elementare per dei marxisti rivoluzionari. Ciò non deve impedire, in nessun caso, di vedere i Quaderni per quello che sono, anche quando la loro disorganicità fatica a comunicarci il senso generale di quell’opera incompiuta o quando una prosa a volte molto indiretta – frutto della volontà di beffare la censura? di logoramento? di involuzione del pensiero? – indica una riflessione poco cristallina.

Sarà comunque sempre utile tenere a mente che Gramsci, concependo durante il confino l’idea di una storia degli intellettuali in Italia, chiese consiglio in primo luogo ad Amadeo Bordiga e a lui propose un confronto sistematico su quel suo lavoro. Più di molte sofisticate elucubrazioni, questo episodio indica che Gramsci intendeva, col lavoro dei Quaderni, contribuire allo sviluppo del marxismo come teoria rivoluzionaria sul terreno che prediligeva. In questi termini, già nel 1923, aveva individuato una lacuna nella produzione teorica del movimento operaio in Italia:

«Pensate: in più di trent’anni di vita, il Partito socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia. Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato.»[93]

Nulla può dunque far pensare che Gramsci volesse “superare” Marx e Lenin, considerandoli troppo angusti nel far dipendere le sovrastrutture ideologiche dalla struttura economica, vero mantra dogmatico di schiere di intellettuali post o ex (o mai) marxisti dei quali gli ultimi tre-quattro decenni sono stati rigurgitanti.

È però vero che, dopo la crisi della rivoluzione russa e dell’Internazionale Comunista, fu Trotskij a sviluppare il marxismo e porlo all’altezza delle nuove sfide. Da lì, anche oggi, le nuove generazioni di rivoluzionari dovranno passare per formarsi in preparazione delle battaglie imminenti che ci attendono.

Per nulla attenti alle sottigliezze, specie se inerenti alla storia del movimento comunista internazionale, i cosiddetti gramsciani si sono gettati come forsennati sulla critica alla trasposizione meccanica in Occidente della guerra di movimento adottata dai bolscevichi in “Oriente” e ne hanno fatto un feticcio. L’obiettivo, in fondo, è spezzare il legame di Gramsci con Lenin e con la Rivoluzione d’Ottobre. Presentare l’Ottobre 1917 come un colpo di Stato va nella stessa direzione. Tale visione, questa sì grezza oltre che reazionaria, ignora che per la presa del potere da parte dei bolscevichi fu necessaria la conquista dell’egemonia nei consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, organismi di massa che nel febbraio del 1917 erano a gran maggioranza guidati da riformisti.

Ma v’è anche un’ignoranza, più di fondo, nella rimozione del fatto che i dirigenti bolscevichi si formarono quasi tutti – ma non Stalin – su orizzonti culturali e di vita larghi e per nulla riconducibili al peraltro ambiguo concetto di “Oriente”, conoscendo quattro o cinque lingue, partecipando ai dibattiti dell’allora Internazionale Socialista ed a contatto col movimento operaio di Germania, Inghilterra, Francia, Italia, Svizzera, Stati Uniti ecc., ovvero i paesi nei quali erano emigrati.

Del resto, gli articoli di Lenin e Trotskij del 1922-23 sull’importanza del lavoro culturale, specie nelle campagne, che cosa indicavano se non, per usare termini gramsciani, l’individuazione della necessità di approfondire l’egemonia del proletariato sulle classi alleate?[94]

È grottesco che i “gramsciani”, massimamente ignoranti nella storia del movimento comunista, finiscano con l’attribuire come tratto distintivo del “loro” Gramsci fine conoscitore dei meccanismi complessi – guai a non definirli così – della società occidentale una finezza che, in realtà, egli maturò nell’Internazionale Comunista. Addirittura, per alcuni anni Gramsci pensò, insieme a buona parte del PCdI, che l’IC fosse troppo manovriera e non sufficientemente ancorata ai principi teorici generali ed unificanti del marxismo.

Ma questo, per i “gramsciani” d’accademia, è un libro chiuso. Come il Gramsci comunista. L’unico che esistette. Quello che ricordò Pietro Tresso nella rivista dei trotskisti francesi:

«I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato anche che, due anni fa, Gramsci era stato espulso dal partito, espulsione che la direzione aveva deciso di tener nascosta almeno fino a quando Gramsci avesse potuto parlare liberamente. E ciò per poter sfruttare la personalità di Gramsci a proprio fine. In ogni caso i burocrati staliniani si sono dati da fare per seppellire Gramsci politicamente, prima che il regime mussoliniano non vi riuscisse fisicamente.

Gramsci è morto, ma per il proletariato, per le giovani generazioni che arrivano alla rivoluzione attraverso l’inferno fascista, resterà sempre colui che, durante gli ultimi vent’anni, meglio di ogni altro ha incarnato le sofferenze, le aspirazioni e la volontà degli operai e dei contadini poveri d’Italia. Resterà un esempio di dirittura morale e di onestà intellettuale assolutamente inconcepibile per la congrega dei leccapiatti staliniani la cui parola d’ordine è “arrangiarsi”.

Gramsci è morto, ma dopo aver assistito alla decomposizione e alla morte del partito che egli aveva potentemente aiutato a costruire, e dopo aver sentito nelle sue orecchie i colpi di pistola caricati da Stalin che hanno abbattuto tutta una generazione di vecchi bolscevichi. Gramsci è morto, ma dopo aver saputo che altri vecchi bolscevichi, come Bucharin, Rikov e Rakovski erano già pronti per il macello. Gramsci è morto per un colpo al cuore, forse non sapremo mal che cosa ha contribuito di più ad ucciderlo: se gli undici anni di sofferenza nelle prigioni mussoliniane o i colpi di pistola che Stalin ha fatto tirare nella nuca di Zinoviev, di Kamenev, di Smirnov, di Piatakov e dei loro compagni nei sotterranei della Ghepeù.

Addio Gramsci»[95]

Note

[1] Ci riferiamo, in primo luogo, al fazioso lavoro di cura propedeutico alla pubblicazione delle opere di Gramsci uscite dal 1947 per Einaudi da parte di Elsa Fubini e Felice Platone, supervisionati da Togliatti. Per riferimenti, cf. G. Bergami, Il Gramsci di Togliatti e l’altro. L’autocritica del comunismo italiano, Le Monnier, Firenze 1991, pp. 133-138.

[2] F. Ottolenghi, G. Vacca, « A 50 anni dalla scomparsa del grande comunista. Così Gramsci ci ha insegnato a innovare con coraggio. Riflessioni di Natta su un’eredità storica », l’Unità, 18-1-1987.

[3]Questi, ad esempio, scrisse: «Ma l’insistere nel 1937, da parte di Gramsci anzitutto, sul nesso nuovo (inconcepibile nel 1930, ad esempio) tra Costituente e fronte popolare, acquista una pregnanza maggiore, non si scontra più, anzi si accosta, si fa consentaneo, con quanto pensano, se non tutti, alcuni dirigenti comunisti in esilio, del Centro estero», in P. Spriano, Gramsci in carcere e il partito, p. 108. L’unica evidenza in tale senso, però, era un biglietto del dirigente staliniano Mario Montagnana a Togliatti, vergato il giorno stesso della morte di Gramsci, nel quale Montagnana comunicava a Togliatti di aver appreso da Sraffa che «Ha detto [Gramsci] che il fr[onte] pop[olare] in Italia è l’Assemblea Costituente», P. Spriano, ibidem, p. 102. Senonché, fu lo stesso Sraffa ad inficiare l’affermazione di Montagnana in una lettera indirizzata allo stesso Spriano, in P. Spriano, ibidem, p. 103.

[4]Per una ricostruzione delle genesi storica del “marxismo occidentale”, cf. P. Anderson, Considerazioni sul marxismo occidentale, Laterza, Bari 1969.

[5] Gli Arditi del popolo erano un movimento antifascista, spontaneo e di massa, che sorse a partire dal 1921 in varie città italiane. Per quanto avessero un carattere politicamente eterogeneo, la composizione sociale degli Arditi del popolo era fortemente proletaria, ma il PcdI, contrario alla possibilità che i suoi militanti potessero organizzarsi sul terreno politico e militare con lavoratori “ideologicamente non comunisti”, preferì formare una propria organizzazione di autodifesa, staccando i propri militanti dal resto della classe. Venne così persa un’occasione decisiva per arrestare l’avanzata delle milizie fasciste.

[6] L. Trotskij, Scritti sull’Italia, Erre Emme, Roma 1990, p. 82.

[7] A. Gramsci, « Lettera a Negri » [Mauro Scoccimarro], 5-1-1924, in P. Togliatti (a c. di), La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista italiano nel 1923-1924,  Editori Riuniti, Roma 1962, p. 150.

[8] Cf. Masci [Antonio Gramsci] a Palmi (Palmiro Togliatti] e Urbani [Umberto Terracini], 9-2-1924, in ibidem, pp. 196-197.

[9] Ibidem, p. 187.

[10] «Tesi sulla tattica del Comintern», in A. Agosti (a c. di), La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. II (1924-1928), t. 1, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 121.

[11] Partito nato da una scissione di destra del Partito Socialista Italiano, che aveva avuto luogo nel 1922.

[12] Processo rivoluzionario che si sviluppò in Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, tra il 1919 e il 1920, e che culminò con l’occupazione delle principali fabbriche del paese. Il movimento venne sconfitto soprattutto a causa della linea tentennante del partito socialista.

[13] L. Trotskij, La Terza Internazionale dopo Lenin, Samonà e Savelli. Roma, p. 160.

[14] A. Gramsci, «Relazione al Comitato centrale», 6-2-1925, in A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1974, p. 473.

[15] Il partito decapitato, L’internazionale, Milano 1988, p. 149.

[16] La situazione italiana e i compiti del PCdI, tesi approvate dal III congresso del Partito Comunista d’Italia, gennaio 1926, in A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 512.

[17] «La presentazione e agitazione di queste soluzioni intermedie è la forma specifica di lotta che deve essere usata contro i partiti sedicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei più forti sostegni dell’ordine capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il colpo di Kornilov)», La situazione italiana e i compiti del PCdI, tesi approvate dal III congresso del Partito Comunista d’Italia, gennaio 1926, in ibidem.

[18] L. Trotskij, Scritti sull’Italia, cit., p. 184.

[19] A. Gramsci, «Un esame della situazione italiana», 2-3 agosto 1926, in A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 124. Il testo costituì la relazione svolta da Gramsci al Comitato direttivo del partito del 2-3 agosto 1926.

[20] L. Trotskij, «Resolution on the general strike in Britain», luglio 1926, in L. Trotskij, On Britain, Monad Press, New York 1973, p. 255. Il documento fu presentato al Plenum del PCUS del 14-23 luglio 1926.

[21] La situazione italiana e i compiti del PCdI, tesi approvate dal III congresso del Partito Comunista d’Italia, gennaio 1926, in A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 490.

[22] Ibidem, p. 499.

[23] Ibidem, p. 501.

[24] Ibidem, p. 512.

[25] Ibidem, p. 513.

[26] Ibidem, p. 511.

[27] Ibidem, pp. 505-506.

[28] «Una scissione di questo genere, indipendentemente dai risultati numerici delle votazioni di congresso, può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza d’opposizione non accetta con la massima lealtà i principî fondamentali della disciplina rivoluzionaria di partito, ma anche se essa, nel condurre la sua polemica e la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali», A. Gramsci, «Al Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico», ottobre 1926, in A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 126.

[29] «Questa campagna, se dimostra quanto siano ancora smisurate le simpatie che la Repubblica dei Soviet gode in mezzo alle grandi masse del popolo italiano che, in alcune regioni, da sei anni, non riceve che una scarsa letteratura illegale di partito, dimostra altresì come il fascismo, che conosce molto bene la reale situazione interna italiana e ha imparato a trattare con le masse, cerchi di utilizzare l’atteggiamento del blocco delle opposizioni per spezzare definitivamente la ferma avversione dei lavoratori al governo di Mussolini e per determinare uno stato d’animo in cui il fascismo appaia almeno come una ineluttabile necessità storica, nonostante le crudeltà e i mali che lo accompagnano», ibidem, p. 127.

[30] Ibidem, p. 129.

[31] Ibidem, p. 130.

[32]« I compagni Zinoviev, Trotzki, Kamenef hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati fra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del Comitato centrale dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive », ibidem.

[33] P. Togliatti a A. Gramsci, 18-10-1926, in A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, cit., p. 132.

[34] «In ogni caso, appunto in vista di ciò e della possibilità di una tale apparenza, in una lettera aggiunta ti avevo autorizzato a modificare la forma: potevi benissimo posporre le due parti e mettere subito nell’inizio la nostra affermazione di « responsabilità » dell’opposizione. Questo tuo modo di ragionare perciò mi ha fatto una impressione penosissima», A. Gramsci a P. Togliatti, 26-10-1926, in ibidem, p. 135.

[35] Ibidem, p. 136.

[36] P. Togliatti, «Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana», Lo Stato Operaio, n. 5-6, 1937.

[37] E. Riboldi, Vicende socialiste. Trent’anni di storia italiana nei ricordi di un deputato massimalista, Edizioni Azione Comune, Milano 1964, p. 182.

[38] Per una inversione del rapporto tra nazionale e internazionale si legga la nota seguente di Gramsci: «I rapporti internazionali precedono o seguono (logicamente) i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente», A. Gramsci, Quaderno 13, Nota 2. Oppure la nota seguente, più articolata: «Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici [Trotskij] e Bessarione [Stalin] come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari [bolscevichi] si vede che la sua originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie», A. Gramsci, Quaderno 14, Nota 68.

[39]Cf. F. Coen (a cura di), « Egemonia e democrazia. Gramsci e la questione comunista nel dibattito di Mondoperaio », supplemento di Mondoperaio, n. 7/8, luglio-agosto 1977, pp. 64-65.

[40] L. Colletti, « Addio a lui e a Turati », L’Espresso, 8-3-1987.

[41] A. Gramsci, Quaderno 13, nota 17.

[42] La dinamica di quella transizione, peraltro, dovette essere ben chiara a Gramsci, il quale scrisse: « Differenze tra la Francia, la Germania e l’Italia nel processo di presa del potere da parte della borghesia (e Inghilterra). In Francia si ha il processo più ricco di sviluppi e di elementi politici attivi e positivi. In Germania il processo si svolge per alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del 48 fallisce per la scarsa concentrazione borghese (la parola d’ordine di tipo giacobino fu data dall’estrema sinistra democratica: «rivoluzione in permanenza») e perché la quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la quistione nazionale; le guerre del 64, del 66 e del 70 risolvono insieme la quistione nazionale e quella di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo dello Stato politico con ampi privilegi corporativi nell’esercito, nell’amministrazione e sulla terra: ma almeno, se queste vecchie classi conservano in Germania tanta importanza e godono di tanti privilegi, esse esercitano una funzione nazionale, diventano gli «intellettuali» della borghesia, con un determinato temperamento dato dall’origine di casta e dalla tradizione. In Inghilterra, dove la rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l’estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè le «teste rotonde» di Cromwell; la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch’essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (del resto l’aristocrazia inglese è a quadri aperti e si rinnova continuamente con elementi provenienti dagli intellettuali e dalla borghesia) », in A. Gramsci, Quaderno 19, Nota 24.

[43] R. Guastini, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, in AA. VV., Gramsci un’eredità contrastata. La nuova sinistra rilegge Gramsci, Ottaviano, Milano 1979, p. 82.

[44] N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi, Torino 1975.

[45] Cf. Avanti!, 11-2-1920.

[46] A. Gramsci, Quaderno 9, nota 53.

[47] Cf. P. Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, op. cit., pp. 97-119.

[48] A tale proposito, una critica penetrante della produzione accademica contemporanea su Gramsci è in E. Saccarelli, Gramsci and Trotsky in the Shadow of Stalinism. The Political Theory and Practice of Opposition, Routledge, Londra 2008, pp. 21-86.

[49] Cit. in J. Buttigieg, International Gramsci Society Newsletter, marzo 1993.

[50] «as the admirably sophisticated Western Marxist (innocent of the reductionnism of some unspecified vulgar orthodoxy), as the able theorist of the superstructure (already veering toward that cultural and linguistic turn that defines large sections of contemporary academia), or, perhaps most stunningly, as himself the theoretical incesto of a post-Marxist turn», Saccarelli, op. cit., p. 23.

[51]Cf. A. S. Sassoon, « From realism to creatività: Gramsci, Blair and Us », in A. Coddington e M. Perryman (a c. di), The Moderniser’s Dilemma: Radical Politics in the Age of Blair, Lawrence & Wishart, Londra, 1998, p. 160.

[52] «we read Gramsci the way we may read, say, Michel Foucault. Brennan identifies much of what is wrong with such an operation. It ignores the distinctiveness of revolutionaries, of party intellectuals like Gramsci», Saccarelli, op. cit., p. 25.

[53] A. Giardiello, « Operaismo. La disfatta di un’utopia letale », Falcemartello, n. 1, 2015.

[54]  A. Gramsci, Quaderno 15, Nota 10.

[55] Da Luigi Cadorna, generale italiano della prima guerra mondiale, noto per aver sferrato una serie di offensive frontali contro le solide linee di difesa austriache sull’Isonzo e sul Carso, che si risolsero in sanguinosi fallimenti.

[56] A. Gramsci, Quaderno 6, Nota 138.

[57] A. Gramsci, Quaderno 7, Nota 16.

[58] «protective device designed by the author to defuse the danger of his fierce critique of the Stalinist Third Period», Saccarelli, op. cit., p. 83.

[59] «flippant internationalist and a ultra-left adventurer», ibidem, p. 82.

[60]  G. Bergami, Gramsci comunista critico, Franco Angeli, Milano 1981, p. 76.

[61] Da Nikolaj Ivanovic Bucharin, dirigente bolscevico che, dopo aver sostenuto posizioni estremiste di sinistra nei primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, era divenuto il principale esponete dell’ala destra nel partito e nell’Internazionale.

[62] Nel marzo del 1921 il partito comunista tedesco si lanciò in un avventato tentativo insurrezionale, condotto in un momento sfavorevole e senza il necessario appoggio delle masse.

[63] «as the villain», Saccarelli, op cit., p. 82.

[64] G. Bergami, op. cit., p. 77.

[65] Cf. «Per alcuni gruppi sociali, che prima della ascesa alla vita statale autonoma non hanno avuto un lungo periodo di sviluppo culturale e morale proprio e indipendente (come nella società medioevale e nei governi assoluti era reso possibile dall’esistenza giuridica degli Stati o ordini privilegiati), un periodo di statolatria è necessario e anzi opportuno: questa «statolatria» non è altro che la forma normale di «vita statale», di iniziazione, almeno, alla vita statale autonoma e alla creazione di una «società civile» che non fu possibile storicamente creare prima dell’ascesa alla vita statale indipendente. Tuttavia questa tale «statolatria» non deve essere abbandonata a sé, non deve, specialmente, diventare fanatismo teorico, ed essere concepita come «perpetua»: deve essere criticata, appunto perché si sviluppi, e produca nuove forme di vita statale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia «statale» anche se non dovuta al «governo dei funzionari» (far diventare «spontanea» la vita statale)», A. Gramsci, Quaderno 8, Nota 130. Sul medesimo tema, declinato nell’analisi dell’azione individuale, si veda anche A. Gramsci, Quaderno 8, Nota 142.

[66]Oltre al già citato Saccarelli, cf. P. Anderson, Ambiguità di Gramsci, cit.; F. Benvenuti- S. Pons, « L’Unione Sovietica nei ‘Quaderni del carcere’ », in G. Vacca (a c. di), Gramsci e il Novecento, Carocci, Roma 1999, pp. 108-109 e 119. Più recentemente, un tentativo pieno di forzature di armonizzare Gramsci e Trotskij è stato effettuato da J. Dal Maso, El marxismo de Gramsci, Ediciones IPS, Buenos Aires, 2016.

[67] Cf. E. Piacentini, «Con Gramsci in carcere», test. Raccolta da P. Giannotti, in Rinascita, a. XXXI (1974), n. 42, p. 32 ; D. Gamba, In carcere con Gramsci. Storia di Ercole Piacentini combattente della libertà, Pascal Editrice, 2005.

[68]  Gramsci, in particolare, aveva condiviso la critica svolta nel 1925 da Bucharin, sostenitore di un approfondimento della NEP, alla teoria della rivoluzione permanente. Si veda N. Bucharin, « The Theory of Permanent Revolution », Communist Review, a. V, n. 10, febbraio 1925.

[69] Rapporto di Athos Lisa redatto a Parigi per incarico di Togliatti il 22 marzo 1933, originariamente pubblicato su Rinascita il 12 dicembre 1964, è ora in A. Lisa, Memorie. In carcere con Gramsci, prefazione di U. Terracini, Feltrinelli, Milano 1973, p. 88.

[70] Cf. C. Riechers, Gramsci e le ideologie del suo tempo, Graphos, Genova 1993; A. Peregalli (a cura di), Il comunismo di sinistra e Gramsci, Dedalo libri, Bari 1978.

[71] L. Trotskij, Scritti sull’Italia, Erre Emme, Roma, 1990, II ed. rivista e ampliata, pp. 187-189.

[72]  G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Bari 1966, p. 292.

[73] «La tendenza di Leone Davidovi [Trotskij] era legata a questo problema. Il suo contenuto essenziale era dato dalla «volontà» di dare la supremazia all’industria e ai metodi industriali, di accelerare con mezzi coercitivi la disciplina e l’ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Sarebbe sboccata necessariamente in una forma di bonapartismo, perciò fu necessario spezzarla inesorabilmente. Le sue soluzione pratiche erano errate, ma le sue preoccupazioni erano giuste. In questo squilibrio tra pratica e teoria era insito il pericolo. Ciò si era manifestato già precedentemente, nel 1921. Il principio della coercizione nel mondo del lavoro era giusto (discorso riportato nel volume sul Terrorismo e pronunziato contro Martov), ma la forma che aveva assunto era errata: il «modello» militare era diventato un pregiudizio funesto, gli eserciti del lavoro fallirono», A. Gramsci, Quaderno 4, Nota 52.

[74] V. I. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, vol. XVII, p. 215.

[75] R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi, Torino, p. 345.

[76] P. Anderson, Ambiguità di Gramsci, op. cit., pp. 29-30.

[77] Cf. A. Gramsci, Quaderno 1, Nota 44.

[78] Cit. in P. Anderson, Ambiguità di Gramsci, op. cit., p. 39.

[79] Ibidem, p. 43.

[80] N. Tamburrano, Gramsci, Sugarco, Milano 1977.

[81] V. Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, AC editoriale, Milano 2003.

[82] A. Gramsci, Quaderno 1, Nota 44.

[83] A. Gramsci, Quaderno 13, Nota 44.

[84] A. Gramsci, Quaderno 13, Nota 44.

[85] A. Bordiga, Scritti scelti, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 190-191.

[86] L. Trotskij, Military Writings, New York, p. 47.

[87] Ibidem, p. 88.

[88] Ibidem, pp. 84-85.

[89] P. Togliatti (a cura di), La formazioone del gruppo dirigente del PCI nel 1923-1924, cit., pp. 187-189.

[90] È inoltre da sottolineare che, all’epoca, due figure come Korsch e Lukacs, poi entrate nel gotha del “marxismo occidentale”, si opposero frontalmente alla tattica del fronte unico da posizioni di ultra-sinistra e intrise di un profondo volontarismo sul “fare come in Russia”, senza aver studiato veramente a fondo la dinamica dell’Ottobre.

[91] L’analisi di Levi sull’azione di marzo, tradotta in inglese, è ora in P. Levi, In the steps of Rosa Luxemburg, a c. di David Fernbach, Historical Materialism Books, Londra 2011.

[92]Nel giugno 1922, ad esempio, Gramsci difese la posizione critica di Bordiga sul fronte unico alla seconda riunione dell’esecutivo allargato della Terza Internazionale.

[93] A. Gramsci, La voce della gioventù, 1-11-1923.

[94] Cf. L. Trotskij, Rivoluzione e vita quotidiana, Savelli, Roma, 1972.

[95] Blasco [Pietro Tresso], “Un grand militant est mort… Gramsci”, La lutte des classes, n. 44, 14-5-1937.

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