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Lavorare per cancellare l’imperialismo dalla faccia della terra è un dovere fondamentale di cui si fanno carico tutti i comunisti. Il giorno in cui abbiamo aderito alla lotta per il socialismo è stato il giorno in cui ci siamo impegnati in una lotta intransigente per un mondo senza imperialismo: dai paesi oppressi alle potenze imperialiste, relegando la sua eredità sanguinosa alla pattumiera della storia, dove appartiene. La domanda è: come?
Alla ricerca di una risposta, alcuni comunisti oggi si orientano verso Mao Zedong, il leader della rivoluzione cinese del 1949, per una guida. La rivoluzione cinese ha liberato milioni di persone dal giogo dell’imperialismo, dai proprietari terrieri e dai capitalisti, attraverso l’esproprio dei loro beni, un atto veramente antimperialista. La domanda che dobbiamo porci è se Mao sia stato coerente nei consigli che ha dato agli altri comunisti che lottano in molti paesi contro l’oppressione imperialista. Cercheremo di rispondere a questa domanda.
I marxisti hanno a lungo spiegato che per porre fine all’imperialismo, il capitalismo deve essere rovesciato in tutto il mondo. Lenin, in particolare, spiegava che l’imperialismo rappresenta la fase più alta del capitalismo e che la lotta contro l’imperialismo è una lotta per porre fine al capitalismo. Pertanto, affermava: “Nelle condizioni internazionali attuali non c’è salvezza per le nazioni dipendenti e deboli se non in un’unione di repubbliche sovietiche.” Vale a dire, solo la dittatura del proletariato può offrire una via d’uscita ai popoli oppressi dal punto di vista dei loro interessi nazionali del mondo.
Confrontiamo questo con il consiglio dato da Mao ai giovani rivoluzionari africani che visitarono la Cina nel 1959: “Il compito dell’Africa nel suo insieme è opporsi all’imperialismo e a coloro che seguono l’imperialismo, non opporsi al capitalismo o instaurare il socialismo… L’attuale rivoluzione in Africa consiste nell’opporsi all’imperialismo e portare avanti i movimenti di liberazione nazionale. Non è una questione di comunismo, ma una questione di liberazione nazionale” (enfasi nostra).
Qui, la lotta contro l’imperialismo e il capitalismo sono contrapposte, in un modo che si trova in netta contraddizione con la posizione di Lenin. Qual era la radice di questa differenza? E cosa fece Mao in pratica nella lotta contro l’imperialismo sulla scena mondiale dopo che il Partito Comunista Cinese, sotto la sua guida, prese il potere in Cina? Infine, come dovrebbe essere una vera politica comunista volta all’abbattimento dell’imperialismo?
Cosa avrebbe potuto fare Mao, e cosa fece realmente
Molti rivoluzionari in tutto il mondo considerano Mao Zedong un eroe anti-imperialista principalmente perché la Rivoluzione Cinese del 1949, che i comunisti ritengono il secondo evento più importante della storia dopo la Rivoluzione Russa del 1917, liberò la Cina dal giogo dell’imperialismo e servì da ispirazione per i popoli oppressi e dominati in tutto il mondo.
Ma bisogna chiedersi: il regime nato dalla rivoluzione – la Repubblica Popolare Cinese con Mao Zedong alla sua guida – ha perseguito una politica comunista per combattere l’imperialismo a livello internazionale?
Se Mao avesse preso ad esempio Lenin, vale a dire se si fosse comportato come un rivoluzionario che lavorava per rovesciare il capitalismo a livello internazionale, avrebbe cercato al più presto di rifondare un’organizzazione internazionale di comunisti con il pieno sostegno del Partito Comunista Cinese (PCC), che ora governava un paese di dimensioni continentali. Questo fu ciò che fecero Lenin e Trotskij con l’Internazionale Comunista, la cui formazione, come partito mondiale della rivoluzione socialista, fu di primaria importanza, nonostante tutte le difficoltà che la repubblica sovietica assediata affrontava in quel momento.
Questo non fu mai fatto in Cina, né fu mai preso in considerazione. Invece, il regime di Mao si accontentava di formare relazioni bilaterali lasse e mutevoli con organizzazioni di sinistra in tutto il mondo, laddove tali relazioni fossero ritenute vantaggiose per i suoi interessi nazionali. A volte fornivano armi e fondi a gruppi stranieri all’estero. Tuttavia, questo aiuto era disponibile solo quando si allineava con gli interessi geopolitici della Cina. Questa era sempre l’asse della politica di Mao, e non la lotta contro l’imperialismo mondiale.
Lo vediamo chiaramente nel caso delle numerose insurrezioni comuniste del Sud-est asiatico che confidavano in Mao per ricevere una direzione. Riguardo al Myanmar, ad esempio, invece che assistere il Partito Comunista locale della Birmania (CPB) nel prendere la guida del movimento di liberazione nazionale, la Cina diede garanzie al governo borghese che non avrebbe avuto contatti con il CPB e proibì ai comunisti cinesi nella diaspora di sostenere le loro lotte. Parlando con il primo ministro birmano U Nu, che firmò un accordo d’indipendenza con il governo britannico che il CPB definì “un’indipendenza fasulla”, Mao non nascose le sue considerazioni “pragmatiche” e prive di principi:
“Ci sono radicali tra la diaspora cinese in Myanmar. Ci siamo assicurati che non interferissero nella politica interna del Myanmar. Insegniamo loro a seguire le leggi dei paesi ospitanti e a non contattare i partiti armati che si oppongono al governo birmano. Inoltre, non organizziamo partiti comunisti tra la diaspora cinese. Quelli che si erano organizzati si sono già sciolti. Facciamo lo stesso in Indonesia e Singapore. Istruiamo la diaspora cinese in Birmania a non partecipare ad attività politiche all’interno del Myanmar, solo a quelle approvate dallo Stato birmano, come cerimonie, e nient’altro. Altrimenti ciò ci metterebbe in una posizione scomoda e ci renderebbe difficile agire” (Conversazioni con il Primo Ministro birmano U Nu, 11 dicembre 1954, Opere Complete di Mao Zedong, vol. 6).
In altre parole, per mantenere relazioni cordiali con uno Stato capitalista vicino, Mao voltò le spalle alla lotta rivoluzionaria dei lavoratori e dei contadini birmani. Questo cambiò solo negli anni ’60, quando la Cina maoista entrò in conflitto con il Myanmar, che all’epoca iniziò a schierarsi con l’Unione Sovietica nella rottura sino-sovietica. Per Mao, il CPB non era un compagno nella lotta per il socialismo internazionale, ma una pedina nel perseguire gli interessi nazionali della Cina. Inutile dire che questo è ben lontano dalle idee internazionaliste comuniste di Marx e Lenin.
Lenin sottolineava sempre che solo una rivoluzione internazionale vittoriosa poteva garantire la sopravvivenza dello Stato dei lavoratori in Russia. Promuovere la rivoluzione socialista mondiale era lo scopo principale della fondazione dell’Internazionale Comunista. Basta citare alcune frasi per sottolineare la sua posizione del tutto chiara.
Quattro mesi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il 7 marzo 1918, Lenin spiegava: “In ogni caso, sotto tutte le circostanze concepibili, se la Rivoluzione tedesca non arriva, siamo condannati.” A maggio, Lenin spiegava: “Attendere che le classi lavoratrici compiano la rivoluzione su scala internazionale significa immobilizzare tutti nell’attesa… Iniziatasi con un successo brillante in un paese essa attraverserà forse periodi tempestosi, giacché potrà trionfare definitivamente solo su scala mondiale e soltanto grazie agli sforzi comuni degli operai di tutti i paesi” (Lenin, Opere complete, vol. 27, pag. 340, enfasi nostra).
Confrontiamo queste prospettive pienamente rivoluzionarie e internazionaliste con il cinismo passivo e all’insegna del compromesso del Partito Comunista di Mao riguardo alla rivoluzione birmana.
Il “consiglio” di Mao – guidato dal desiderio di vedere relazioni amichevoli con governi borghesi – portò a conseguenze letali per i comunisti in più di un paese. Il Partito Comunista Indonesiano, un tempo uno dei partiti comunisti più grandi e meglio organizzati al mondo, perseguì una strategia di collaborazione con la “borghesia nazionale progressista” su consiglio di Mao e del PCC, che cercavano di ottenere favori dal governo di Sukarno.
Invece di armare la classe operaia e prendere il potere, come avrebbero potuto fare, i comunisti indonesiani riposero piena fiducia in Sukarno, che cercava di mantenersi in equilibrio tra le classi nella società indonesiana. Questo equilibrismo inevitabilmente venì meno, e Sukarno fu rovesciato in un colpo di Stato. I comunisti, politicamente e fisicamente impreparati per questa svolta degli eventi, furono annientati, con circa 1,5 milioni di comunisti massacrati sotto la dittatura di Suharto.
Vediamo lo stesso atteggiamento nei confronti del Vietnam: una politica di continui zig-zag, determinata non dagli interessi dei vietnamiti o della rivoluzione mondiale, ma dalle preoccupazioni legate alla sicurezza geopolitica dello Stato cinese.
Nel 1954, le forze partigiane sotto la guida del celebre Ho Chi Minh erano in una posizione di forza non solo per scacciare l’imperialismo dall’intero Vietnam, ma anche dal Laos e dalla Cambogia. Cosa consigliò invece il primo ministro cinese Zhou Enlai a Ho? Lo convinse non solo a ritirare le sue forze da Cambogia e Laos, consegnando entrambi i paesi a regimi filo-imperialisti, ma anche ad accettare un Vietnam diviso come mossa per placare l’imperialismo statunitense. Zhou disse a Ho:
“Poiché gli imperialisti temono l’‘espansione’ della Cina, non permetteranno assolutamente che il Vietnam ottenga una grande vittoria. Se chiediamo troppo [alla conferenza di Ginevra] e se la pace non viene raggiunta in Indocina… Dobbiamo quindi isolare gli Stati Uniti e mandare a monte i loro piani; altrimenti, cadremo nella trappola preparata dagli imperialisti statunitensi. Di conseguenza, anche dal punto di vista militare, non saremo in grado di conquistare [parti del] Vietnam.”
Zhou Enlai era un fedele seguace delle politiche di Mao. Il suo consiglio costituiva una strategia rivoluzionaria contro l’imperialismo? È riuscito a fermare l’aggressione statunitense? Lo scoppio della guerra del Vietnam, solo pochi anni dopo, rispose negativamente a queste domande.
Il consiglio di Zhou a Ho Chi Minh era basato sulle preoccupazioni egoistiche della burocrazia cinese, che temeva un confronto con l’imperialismo statunitense a sud del proprio confine. Pertanto, convinsero i vietnamiti a ritardare la propria liberazione dall’imperialismo per contribuire all’obiettivo miope di proteggere gli “interessi nazionali” della Cina. Perché le cose andarono così?
Nel 1949, la vittoria della Rivoluzione Cinese fu basata sul trionfo dell’Esercito di Liberazione Popolare guidato da Mao, che era arrivato a conquistare le città. Inizialmente, Mao credeva che il Partito Comunista potesse trovare un accordo con la classe capitalista, ma quest’ultima fuggì dalla Cina, e presto Mao fu costretto a realizzare nazionalizzazioni su larga scala. Questa non fu una rivoluzione basata sulla conquista del potere direttamente da parte della classe operaia attraverso organi di potere operaio democratico, come era avvenuto in Russia nel 1917. Piuttosto Mao, mentre abbatteva il capitalismo, istituì una nuova burocrazia direttamente derivata dall’esercito contadino, che si elevava sulle masse e sviluppava i propri privilegi e interessi.
Proteggere questi interessi e garantire il potere e i privilegi di questa burocrazia, e non diffondere la rivoluzione mondiale, divenne la principale preoccupazione della politica interna ed estera del regime di Mao. Così si spiegano i tentativi di appacificarsi con l’imperialismo e i regimi reazionari vicini.
Quando, tuttavia, queste politiche inevitabilmente fallirono, Mao e la burocrazia furono costretti a cambiare direzione, adottando una nuova strategia e aumentando gli aiuti al Vietnam del Nord nella sua guerra contro l’imperialismo statunitense. Ma mentre la burocrazia cinese si occupava dei propri ristretti interessi nazionalisti, lo stesso faceva la burocrazia russa, il che portò inevitabilmente a un conflitto alla fine degli anni ’60. Successivamente, vedendo i vietnamiti troppo allineati con l’Unione Sovietica, Mao ritirò gran parte del sostegno cinese e cercò di riparare le relazioni… con l’imperialismo statunitense! In tutto questo, gli interessi nazionali della burocrazia, e non quelli della lotta contro l’imperialismo mondiale, rimasero il fattore costante.
Come Mao si schierò con i reazionari all’estero
Mao non si limitò a fornire consigli errati e aiuti incoerenti ai rivoluzionari comunisti al di fuori della Cina. Quando era conveniente per i suoi interessi a breve termine, il suo regime aiutò attivamente sanguinosi controrivoluzionari che lavorarono per affogare i comunisti nel sangue.
Perché fu fatto? La preoccupazione principale era indebolire l’influenza dell’Unione Sovietica, che era entrata in conflitto con la Cina. Nella lotta contro l’Unione Sovietica, definita “social-imperialista”, il regime cinese sostenne regimi che godevano anche dell’appoggio dell’imperialismo statunitense in tre continenti.
Negli anni ’60, a seguito di un conflitto di confine tra Cina e India e del crescente avvicinamento di quest’ultima all’Unione Sovietica, la Cina di Mao e il dittatore militare pakistano Ayub Khan divennero rapidamente stretti alleati. Le relazioni divennero così strette che la Cina (insieme agli Stati Uniti) divenne uno dei principali esportatori di armi al regime pakistano.
Quando la classe dominante pakistana si trovò di fronte a un’insurrezione rivoluzionaria negli anni ’60 e alla possibile secessione del Pakistan orientale (l’attuale Bangladesh) dal Pakistan occidentale, Mao corse fedelmente in aiuto dei suoi alleati borghesi. Mao consigliò persino al leader contadino maoista del Bangladesh, allineato alla Cina, Abdul Hamid Khan Bhashani, di sostenere Ayub Khan! Questo costrinse Bhashani a far quadrare il cerchio fra la palese contraddizione di lottare per l’indipendenza del Bangladesh, e il sostegno di un regime che lottava contro di essa. Il regime maoista giocò così un ruolo chiave nel garantire che la lotta per l’indipendenza del Bangladesh non potesse cadere sotto la guida comunista.
Anche dopo che i loro alleati pakistani si erano macchiati di sangue nel tentativo di reprimere l’indipendenza del Bangladesh, la Cina continuò a sostenere fedelmente i suoi alleati controrivoluzionari, arrivando persino a utilizzare la sua posizione nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU per negare al Bangladesh l’ingresso nell’ONU fino al 1975.
Nel Sud-est asiatico, Mao instaurò relazioni con il dittatore di destra filippino appoggiato dagli Stati Uniti, Ferdinando Marcos; questo nonostante i comunisti filippini fossero impegnati in una lotta mortale contro il regime di Marcos. Queste “relazioni amichevoli” sono riassunte in una famosa foto in cui Mao bacia teneramente la mano della moglie di Marcos, Imelda Marcos, nota per il suo stile di vita borghese e la sua collezione di 3mila paia di scarpe.
In Africa, il comportamento della Cina fu altrettanto traditore. Durante la guerra d’indipendenza dell’Angola contro il Portogallo, iniziata negli anni ’60, la resistenza degenerò rapidamente in una guerra civile a tre tra le varie fazioni. In questo conflitto, la Cina sostenne le forze reazionarie di destra del FNLA e dell’UNITA (Fronte nazionale di liberazione dell’Angola e Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola, Ndt), fornendo loro armi e addestramento. Queste forze venivano simultaneamente aiutate dagli Stati Uniti.
Un documento del 2017 pubblicato da uno storico dell’Università Sun Yat-sen di Guangzhou spiegava chiaramente come la Cina fosse interessata a mantenere un movimento di resistenza angolano diviso proprio per impedire al MPLA (Movimento popolare di liberazione dell’Angola, Ndt) filo-sovietico di dominare il movimento per l’indipendenza dal Portogallo. Ancora una volta, l’obiettivo principale della politica estera della Cina di Mao non era quello di promuovere le lotte rivoluzionarie anti-imperialiste, ma di ottenere un vantaggio geopolitico, in questo caso contro il suo rivale, l’Unione Sovietica.
In America Latina, i crimini controrivoluzionari della Cina maoista sono particolarmente evidenti nella tragica sconfitta della rivoluzione cilena del 1973. Quando il generale di destra Pinochet rovesciò il governo di sinistra, democraticamente eletto, di Allende tramite un colpo di Stato sostenuto dalla CIA, Zhou Enlai insistette sul fatto che questi non fossero altro che gli “affari interni” del Cile, e optò immediatamente per stabilire relazioni con il nuovo regime di Pinochet.
Mentre gli attivisti di sinistra cercavano rifugio nelle ambasciate straniere di Santiago per sfuggire all’orgia controrivoluzionaria sanguinaria scatenata da Pinochet, l’ambasciata cinese chiuse vergognosamente le sue porte a coloro che cercavano rifugio. Per i leader del PCC, le relazioni bilaterali con il regime di Pinochet e i suoi sostenitori statunitensi avevano un’importanza maggiore delle vite dei lavoratori e dei giovani rivoluzionari del Cile.
Bisogna notare che, vergognosamente, molti di questi crimini controrivoluzionari furono condotti in armonia con le attività di Henry Kissinger, uno dei criminali di guerra più spietati del periodo postbellico. Infatti, come stratega freddo e calcolatore dell’imperialismo statunitense, Kissinger vide un’opportunità di indebolire l’Unione Sovietica attraverso la collaborazione con la Cina, accelerando così la distruzione di entrambe le potenze staliniste. La burocrazia cinese guidata da Mao, con la sua limitata prospettiva nazionalista, non si fece scrupoli rispetto a un simile avvicinamento.
Ancora oggi, il PCC si riferisce a Kissinger come a “un vecchio amico del popolo cinese”. In effetti, era un vecchio amico della burocrazia e, in seguito, della nascente classe capitalista cinese, il cui sviluppo fu favorito dalla burocrazia stalinista.
Dobbiamo chiedere ai nostri lettori che nutrono simpatie verso il maoismo: Henry Kissinger non era forse un nemico chiaro del proletariato e un difensore della forza imperialista più reazionaria della Terra? C’è qualcosa di genuinamente “anti-imperialista” nella politica di Mao da cui i comunisti internazionali possono trarre ispirazione? Purtroppo, chiunque risponda in maniera affermativa a questa domanda non è un comunista.
Come il collaborazionismo di classe di Mao ha diseducato i comunisti nel mondo
Possiamo vedere come la politica estera di Mao fosse chiaramente dettata da interessi nazionalisti ristretti e non da considerazioni di lotta contro l’imperialismo. Tuttavia, questa politica cinica era rivestita di giustificazioni teoriche. Mao pretendeva di presentarsi come un grande teorico “marxista-leninista”, il cui “contributo teorico” consisteva nel consigliare ai comunisti di tutto il mondo di seguire un percorso fatale di collaborazionismo di classe.
Nelle Opere Complete di Mao (vol. 8), troviamo perle come “Il compito dell’Africa è lottare contro l’imperialismo, non contro il capitalismo” (21 febbraio 1959), il cui contenuto è esattamente quello che il titolo suggerisce. “Chiunque proponga di instaurare il socialismo in Africa commetterebbe un errore… La natura della rivoluzione lì è una rivoluzione borghese-democratica, non una rivoluzione socialista proletaria”, spiegò chiaramente il presidente Mao ai suoi interlocutori.
Nello stesso anno, durante un incontro con i leader comunisti latinoamericani, troviamo di nuovo Mao che consiglia loro che “affinché la classe operaia possa vincere, deve formare un’alleanza con due classi. Una è la piccola borghesia, che comprende i contadini e la piccola borghesia urbana… l’altra è la classe sfruttatrice, cioè la borghesia nazionale… abbiamo una cosa in comune: l’opposizione all’imperialismo, e quindi possiamo costruire un fronte unito” (Opere Complete di Mao, vol. 8).
Ma nonostante queste affermazioni, non si poteva trovare da nessuna parte in America Latina una borghesia nazionale in opposizione all’imperialismo. Per sua natura, la classe capitalista di questo continente era dominata dall’imperialismo e legata da mille fili agli interessi imperialisti. Oltre a ciò le borghesie nazionali, temevano le masse molto più dei loro padroni imperialisti.
Allo stesso modo, durante un incontro con l’iconico leader della Rivoluzione Cubana, Che Guevara, che già guidava una rivoluzione di successo che aveva sottratto il potere alla borghesia, Mao utilizzò lo stesso ritornello:
“[La] piccola borghesia e la borghesia nazionale latinoamericana hanno paura del socialismo. Per un lungo periodo, non dovreste affrettare la riforma sociale. Questo approccio sarà utile per conquistare la piccola borghesia e la borghesia nazionale latinoamericana.”
Ironia della sorte, la Rivoluzione Cubana ebbe successo proprio perché andò contro il consiglio di Mao: espropriò la classe capitalista ed instaurò un’economia pianificata, grazie alla quale furono in grado di realizzare riforme progressiste di vasta portata.
Ci sono molti altri esempi, ma quelli sopra citati sono sufficienti a dimostrare che il collaborazionismo di classe tra il proletariato e la borghesia della nazione oppressa è stato un consiglio costante di Mao su come “opporsi” all’imperialismo.
Tuttavia, la borghesia nazionale dei paesi oppressi è inevitabilmente legata agli interessi degli imperialisti da migliaia di fili del mercato mondiale. Pertanto, non solo sono organicamente incapaci di portare avanti una lotta di liberazione nazionale, ma la combatterebbero attivamente.
La stessa Rivoluzione cinese del 1949 dimostrò proprio questo aspetto, quando la borghesia nazionale cinese fuggì a Taiwan, insieme a Chiang Kai-Shek e al Kuomintang. Mao aveva effettivamente cercato di formare un “fronte unito” con i capitalisti cinesi, sperando di creare un regime essenzialmente capitalistico che chiamava “Nuova Democrazia” in coalizione con “tutte le classi rivoluzionarie”, tra cui includeva una sezione (inesistente) dei capitalisti che, a suo dire, non si opponevano alla rivoluzione.
Ma, sulla base dello svilupparsi degli eventi, in particolare le pressioni dell’imperialismo statunitense dopo l’inizio della guerra di Corea, Mao fu costretto ad abbandonare questo schema. Il governo del PCC presto espropriò tutti i settori dell’economia e istituì un’economia pianificata nazionalizzata.
In effetti, tutte le rivoluzioni coloniali del XX secolo hanno dimostrato questo punto. Alcune lo hanno dimostrato positivamente, come la Cina o Cuba, dove la rivoluzione ha fatto passi avanti solo espropriando la “borghesia nazionale”. Altre hanno dimostrato lo stesso punto negativamente, con l’instaurazione di regimi formalmente “indipendenti” in cui la borghesia nazionale ha preso il potere e ha continuato ad agire come agente locale dell’imperialismo, aiutando il loro continuo saccheggio e reprimendo la classe operaia e i contadini.
L’insistenza di Mao nell’istruire gli altri partiti comunisti nella direzione opposta, che in molti casi portò a sanguinosi fallimenti, fu successivamente sviluppata in una nuova “teoria” esclusivamente maoista.
Negli anni ’70, Mao propose una “teoria” che divideva i paesi del pianeta in tre categorie. Non prese come punto di partenza le relazioni di proprietà nei vari paesi, cioè se predominasse la proprietà capitalista o quella statale nazionalizzata. Invece, enfatizzò il livello di sviluppo economico di un paese e le sue presunte ambizioni “egemoniche”. Ciò che emerse fu la nuova “Teoria dei Tre Mondi”. Come Mao spiegò al presidente dello Zambia, Kenneth Kaunda, nel 1974:
“Ritengo che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica appartengano al Primo Mondo. Gli elementi medi, come il Giappone, l’Europa, l’Australia e il Canada, appartengono al Secondo Mondo. Noi siamo il Terzo Mondo… Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno molte bombe atomiche e sono più ricchi. L’Europa, il Giappone, l’Australia e il Canada, del Secondo Mondo, non possiedono così tante bombe atomiche e non sono così ricchi come il Primo Mondo, ma più ricchi del Terzo Mondo… Tutti i paesi asiatici, tranne il Giappone, appartengono al Terzo Mondo. Tutta l’Africa e anche l’America Latina appartengono al Terzo Mondo.“
Si noti che Mao includeva sia i paesi capitalistici dell’Europa occidentale che le economie pianificate deformate dell’Europa orientale nella categoria “Europa”.
Secondo Mao, poiché i paesi del Secondo Mondo avevano conflitti di interesse con quelli del Primo Mondo, i paesi del Terzo Mondo potevano e dovevano cercare di ottenere il loro sostegno. “Dobbiamo conquistarli, paesi come l’Inghilterra, la Francia e la Germania occidentale”, affermava. Molte di queste potenze del “Secondo Mondo”, come definite da Mao, sono indiscutibilmente paesi imperialisti. Mao consiglia quindi ai paesi del “Terzo Mondo” di chiedere aiuto agli imperialisti! Peggio ancora, per Mao, era accettabile ricevere l’aiuto dell’imperialismo per indebolire l’Unione Sovietica!
La “Teoria dei Tre Mondi” inaugurò un’era di avvicinamento e cooperazione della Cina con i governi capitalisti e avrebbe aperto la strada alla futura apertura al capitale straniero e alla restaurazione del capitalismo in Cina sotto il controllo del PCC.
Come segno di questo avvicinamento, nel 1975 la Cina divenne il primo paese nominalmente “comunista” a stabilire relazioni diplomatiche con la Comunità Economica Europea, formata dai paesi imperialisti dell’Europa occidentale. Mao iniziò anche a stabilire legami con i politici della Germania occidentale a scapito della Germania orientale, in particolare con il cancelliere della Germania occidentale Helmut Schmidt.
Attraverso Deng Xiaoping, la Cina maoista dichiarò a Schmidt che favoriva la riunificazione tedesca, il che significava il sostegno all’annessione della Germania orientale da parte della Germania occidentale su una base capitalista. Mao successivamente ribadì personalmente questa posizione a Henry Kissinger.
Sostenere attivamente la sostituzione dell’economia pianificata di un paese con le relazioni di proprietà capitaliste è, in sé, un tradimento straordinario. Ma questo deriva logicamente dal principale interesse nazionale della Cina maoista: stabilire relazioni con i paesi imperialisti europei in cambio di una mobilitazione contro l’Unione Sovietica.
In contrasto con il suo desiderio di stabilire di relazioni amichevoli con l’imperialismo europeo, il suo atteggiamento verso l’ondata rivoluzionaria che stava attraversando l’Europa in quel momento fu di indifferenza e persino di irritazione per come interferiva con i suoi piani diplomatici. Infatti, in una telefonata con il presidente statunitense Gerald Ford, Mao espresse approvazione per la “stabilizzazione di Portogallo e Spagna”, due paesi che stavano attraversando un fermento rivoluzionario.
La “Teoria dei Tre Mondi” di Mao non fu un’innovazione, ma piuttosto discendeva fedelmente dalla ristretta visione nazionalista dello stalinismo, che poneva gli interessi della classe operaia mondiale molto al di sotto dell’interesse della burocrazia di rimanere al potere entro i propri confini. Accettava il diritto dei capitalisti a dominare determinati settori del mondo, piuttosto che lottare per unire la classe operaia per rovesciarli in tutto il mondo.
Maoismo e “anti-revisionismo”
Le distorsioni teoriche di Mao non derivano da una teoria comunista coerente, ma dall’insistenza dello stalinismo a collaborare con la borghesia e mantenere relazioni pacifiche con l’imperialismo. Questa politica cerca di creare una vita tranquilla per la burocrazia, affinché essa possa godere dei privilegi accumulati in base al suo ruolo amministrativo nelle economie pianificate. Questo fu giustificato per la prima volta da Stalin sotto la maschera della teoria del “socialismo in un solo paese”.
Tuttavia, le relazioni tra le burocrazie sovietica e cinese, dopo la spaccatura sino-sovietica, divennero estremamente aspre. Questa spaccatura fu essa stessa una dimostrazione lampante del ristretto nazionalismo di queste burocrazie nazionali concorrenti.
Se questi due regimi avessero rappresentato democrazie operaie sane, si sarebbero uniti in una federazione unica di Repubbliche Sovietiche europee e asiatiche, utilizzando le risorse di un intero continente per lottare per il socialismo mondiale. Il fatto che entrambi fossero dominati da burocrazie privilegiate che difendevano i propri interessi nazionali portò inevitabilmente a una scissione.
In questo contesto, Mao ed il PCC si presentarono come il lato “anti-revisionista” nella loro controversia con Mosca. Apparentemente, affermavano di sostenere le idee genuine del comunismo, in opposizione ai “revisionisti”, “fascisti” e “social-imperialisti” che improvvisamente si accorsero che risiedevano al Cremlino.
In questa disputa, il PCC denunciò lo slogan di Krusciov della “coesistenza pacifica” con i paesi imperialisti e riaffermò la necessità della lotta di classe, soprattutto nel mondo coloniale. Questa posizione, a sua volta, creò l’impressione che Mao e il PCC fossero i portabandiera della lotta contro l’imperialismo. Molti comunisti nel mondo divennero partigiani della Cina a causa della posizione di Mao su questa questione.
Il PCC aveva il diritto di affermare di essere difensore della teoria marxista contro il revisionismo? No. In realtà, il “marxismo-leninismo ortodosso” che difendevano era esso stesso una revisione e una caricatura del marxismo: vale a dire lo stalinismo.
L’innovazione “teorica” centrale di Stalin, mantenuta da Mao, fu l’idea anti-marxista, del tutto sconosciuta nei circoli bolscevichi fino a quando Stalin la propose dopo la morte di Lenin nel 1924, del “socialismo in un solo paese”. Più che una “teoria”, questa rappresenta la psicologia della burocrazia conservatrice e nazionalista-riformista che si era affermata nell’Unione Sovietica a spese della democrazia operaia, tradotta in linguaggio pseudo-marxista. Questa “innovazione” rimase al 100% parte del bagaglio teorico della burocrazia maoista.
Questa burocrazia privilegiata, che si nutriva in maniera parassitaria dell’economia pianificata, non aveva alcun interesse per la rivoluzione mondiale e la lotta per il comunismo. Qualsiasi rivoluzione in cui la classe operaia avesse preso il potere e lo avesse esercitato attraverso organi democratici di governo dei lavoratori, come i soviet (consigli operai), avrebbe messo in discussione il diritto delle burocrazie sovietica e cinese di esistere. Temettero anche che la diffusione della rivoluzione avrebbe “provocato” gli imperialisti, il che avrebbe potuto mettere in pericolo il loro dominio. Meglio trovare un modus vivendi con l’imperialismo.
In realtà, nella disputa tra Mosca e Pechino riguardo alla questione della “coesistenza pacifica”, Mao e il PCC non contrapponevano la “coesistenza pacifica” alla rivoluzione mondiale. Il PCC si opponeva invece alla tattica di Krusciov di un immediato riavvicinamento con l’Occidente e favoriva l’uso delle lotte di liberazione nazionale nei paesi coloniali, non per combattere l’imperialismo, ma per fare pressione sugli imperialisti al fine di ottenere condizioni migliori per i “paesi socialisti” per godere della coesistenza pacifica. Si tratta solo di una differenza tattica su come salvaguardare il “socialismo in un solo paese”, come descritto in una lettera indirizzata al Comitato Centrale del PCUS:
“È necessario che i paesi socialisti si impegnino in negoziati di vario tipo con i paesi imperialisti. È possibile raggiungere alcuni accordi attraverso negoziati, facendo affidamento sulle corrette politiche dei paesi socialisti e sulla pressione dei popoli di tutti i paesi. Ma i compromessi necessari tra i paesi socialisti e i paesi imperialisti non richiedono che i popoli e le nazioni oppressi seguano l’esempio e si compromettano con l’imperialismo e i suoi lacchè. Nessuno dovrebbe mai chiedere, in nome della coesistenza pacifica, che i popoli e le nazioni oppressi rinuncino alle loro lotte rivoluzionarie.
L’applicazione della politica di coesistenza pacifica da parte dei paesi socialisti è vantaggiosa per ottenere un ambiente internazionale pacifico per la costruzione socialista, per smascherare le politiche imperialiste di aggressione e guerra e per isolare le forze imperialiste dell’aggressione e della guerra.”
Ovviamente, come abbiamo ampiamente dimostrato, Mao e il PCC abbandonarono questa politica apparentemente più “rivoluzionaria” allineandosi con forze controrivoluzionarie, molte delle quali appoggiate anche dagli Stati Uniti, quando e dove ciò risultava utile ai loro interessi.
Collegata a questa idea del “socialismo in un solo paese” è la teoria stalinista della rivoluzione a tappe. Questa afferma che prima che il socialismo possa essere realizzato, in tutti i paesi deve avvenire una lunga fase di sviluppo capitalistico.
Ciò che è necessario nei paesi arretrati dominati dall’imperialismo, quindi, sono rivoluzioni borghesi ben orchestrate, in cui i lavoratori agiscano come collaboratori volenterosi della borghesia, per creare le condizioni per tale sviluppo, molto prima che ci possa essere la possibilità di una rivoluzione socialista con il proletariato alla guida.
Non c’è assolutamente nulla in comune tra questa concezione e il vero leninismo. In effetti, furono i menscevichi ad affermare, prima della rivoluzione russa del 1917, che la classe operaia della Russia arretrata dovesse legarsi alla borghesia liberale per aiutarla a prendere il potere. Essi respinsero l’idea che la dittatura del proletariato potesse essere stabilita in Russia prima che fosse stabilita nelle nazioni occidentali avanzate.
Non c’è nemmeno l’ombra di autentico “marxismo” in questa teoria. Marx ed Engels hanno sempre insistito sull’indipendenza completa della classe operaia dalla borghesia. Ai tempi di Lenin, i bolscevichi insistevano sul fatto che la classe operaia dovesse lottare per la direzione della rivoluzione, in alleanza con i contadini ma contro la borghesia, che aveva chiaramente dimostrato di essere reazionaria. Nel Secondo Congresso del Comintern, Lenin sottolineò ulteriormente la natura reazionaria della borghesia nazionale riguardo al movimento di liberazione della propria nazione:
“Si è sviluppata una certa intesa tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella delle colonie, tanto che molto spesso, forse nella maggior parte dei casi, la borghesia dei paesi oppressi, sebbene sostenga anche i movimenti nazionali, combatte comunque tutti i movimenti rivoluzionari e le classi rivoluzionarie con un certo grado di accordo con la borghesia imperialista, cioè insieme a essa.“
Ma la vecchia idea menscevica fu riproposta dalla burocrazia stalinista dopo la morte di Lenin proprio per giustificare il loro approccio di collaborazione di classe in tutto il mondo, per ingraziarsi gli imperialisti e la borghesia nazionale.
C’è una linea diretta che collega gli artefici menscevichi di questa teoria alla sua adozione da parte del Partito Comunista Cinese. Fu proprio un ex menscevico, Aleksandr Martynov – un uomo pesantemente criticato per il suo opportunismo da Lenin nel “Che fare?” ma accolto nel Partito Comunista da Stalin – a consigliare direttamente al nascente PCC di adottare la teoria di un “blocco di quattro classi”. Questo “blocco”, sosteneva, doveva includere il proletariato, i contadini, la piccola borghesia… e la cosiddetta borghesia “nazionale”.
Per unire queste classi, Martynov esortò il PCC a limitare la rivoluzione cinese al raggiungimento di compiti puramente borghesi, mentre portava la classe operaia sotto la guida della borghesia nazionale, rappresentata dal Kuomintang. Il PCC non rinunciò mai a questa prospettiva, che è riproposta come un filo conduttore in tutti gli scritti di Mao.
Vediamo, quindi, che nonostante tutte le accuse della Cina maoista di “revisionismo” contro la leadership dell’Unione Sovietica dopo Krusciov, non avevano assolutamente alcun diritto di affermare di sostenere le autentiche idee marxiste. Il contenuto politico di entrambi i regimi, nonostante la loro rancorosa rivalità, era ugualmente revisionista.
Radici materiali
La visione nazionalista del regime di Mao non era semplicemente un prodotto dei capricci soggettivi di Mao. Questo articolo non è semplicemente una critica alle caratteristiche personali di Mao. Le sue politiche interne ed estere erano guidate in ultima analisi dalle necessità della burocrazia della Repubblica Popolare Cinese, che egli rappresentava.
La Rivoluzione Cinese del 1949 costituì un enorme passo avanti per la rivoluzione mondiale, ma fu compiuta non attraverso l’attività indipendente delle masse operaie guidate da un partito bolscevico, ma da un esercito contadino con a capo un partito burocratico e stalinista.
La classe operaia cinese giocò un ruolo passivo mentre il Kuomintang perdeva una battaglia dopo l’altra contro il PCC. Quando il PCC prese il potere, quindi, istituì un regime in cui la democrazia operaia era completamente assente, modellato sull’Unione Sovietica degenerata e stalinista. Tuttavia, il capitalismo fu distrutto e furono stabilite nuove relazioni economiche. La Cina divenne ciò che i marxisti definiscono uno “Stato operaio burocraticamente deformato”.
Nonostante i grandi progressi realizzati attraverso l’economia pianificata nazionalizzata, che trascinò il paese fuori dall’arretratezza opprimente in cui era intrappolato, la Cina non fu mai governata dagli organi democratici della classe operaia, ma dalla dittatura monopartitica del PCC di Mao, costituito da una burocrazia di ex operai, ex studenti e intellettuali che venivano considerati senza classe. Fu questa macchina a determinare le politiche sopra elencate e che mantenne l’ortodossia stalinista del “socialismo in un solo paese”, rinunciando nei fatti alla lotta per la rivoluzione mondiale.
Vi erano profondi interessi materiali in gioco nella determinazione di questa politica: i burocrati erano principalmente interessati a difendere i propri privilegi, che ottenevano sotto forma di redditi ricavati dall’economia pianificata nazionalizzata, che essi gestivano. Sognavano di creare una situazione mondiale stabile in cui avrebbero potuto continuare a godere dei frutti che la posizione conferiva loro.
Per questa burocrazia vi erano anche pericoli in una rivoluzione di successo all’estero. Qualsiasi rivoluzione che avesse prodotto una democrazia operaia sana avrebbe potuto ispirare i lavoratori all’interno di questi Stati operai deformati, mostrando un esempio da seguire per rovesciare politicamente il dominio della burocrazia. Questi fattori plasmarono la visione nazionalista della burocrazia dirigente.
Nel tentativo di salvaguardare principalmente i propri interessi nazionali, piuttosto che quelli del proletariato mondiale, spesso limitarono e persino sabotarono le opportunità rivoluzionarie.
Questa visione non era esclusiva del regime maoista. L’Unione Sovietica stalinista, la Corea del Nord, il Vietnam, i regimi dell’Europa orientale, e così via, avevano tutti essenzialmente la stessa prospettiva. E nella misura in cui le burocrazie avevano la propria base di potere e non erano semplicemente sostenute dall’Unione Sovietica, usarono questo potere anche per manovrare l’una contro l’altra secondo i propri ristretti interessi nazionali. La loro politica estera non era dettata dalla diffusione della rivoluzione mondiale, ma dalla difesa dei loro confini e delle loro sfere di influenza.
Mao, Tito, Krusciov, Kim Il-Sung, e gli altri loro pari, potevano parlare di socialismo mondiale e inveire contro l’imperialismo. Cantavano l’Internazionale a eventi e cerimonie. Avevano persino ospitato e intrattenuto rapporti con organizzazioni rivoluzionarie straniere. Ma alla fine hanno tutti difeso gli interessi del proprio “Stato socialista”, cioè delle burocrazie che stavano alla loro guida.
A lungo andare, a meno che l’imperialismo mondiale non fosse stato rovesciato, questi Stati operai deformati erano essi stessi destinati a soccombere. Il “socialismo in un solo paese” era un’illusione. Alla fine, queste burocrazie non si sarebbero accontentate di godere solo di privilegi e alti redditi a spese dell’economia pianificata. Avrebbero cercato, in ultima analisi, di trasformarsi nei proprietari dei mezzi di produzione. In assenza di una rivoluzione politica che mettesse al potere la classe operaia e diffondesse la rivoluzione a livello mondiale, questo è quello che alla fine è successo, con terribili conseguenze reazionarie.
I compiti dei comunisti oggi
Oggi dobbiamo imparare le lezioni di questa tragedia e tornare a Lenin. Piuttosto che sostenere questo o quel governo capitalista, dobbiamo, come spiegava Lenin, basarci sul movimento rivoluzionario del proletariato mondiale.
Dobbiamo riallacciare il filo della storia e ricominciare il compito intrapreso da Lenin: rifondare un’Internazionale Comunista rivoluzionaria, un partito mondiale della rivoluzione socialista. È dovere dei comunisti organizzati in tale partito spiegare agli operai avanzati nei paesi imperialisti che spetta a loro porre fine all’imperialismo alla sua radice e che la loro stessa liberazione è intimamente legata a questo compito.
Nel mondo ex coloniale, ora i comunisti devono organizzare gli operai avanzati attorno a un programma di rivoluzione socialista. Non può esserci alcun capitalismo “democratico” o “nazionale” in queste nazioni. Le teorie staliniste della rivoluzione a tappe hanno dimostrato la loro bancarotta. Solo strappando totalmente il potere politico ed economico dalle mani della loro classe dirigente locale e lottando per diffondere la rivoluzione socialista a livello mondiale, i popoli oppressi del mondo possono porre fine al dominio imperialista e raggiungere una vera liberazione nazionale. Dobbiamo in ogni momento evidenziare la questione di classe e costruire una solidarietà di classe internazionalista.
Queste prospettive sono l’unico modo per relegare nel passato l’imperialismo e la sua eredità. Ma sottolineiamo che, da tutto ciò, deriva il compito di costruire un’Internazionale rivoluzionaria per diffondere queste idee e formare comunisti nelle sue fila, affinché queste concezioni diventino le idee dominanti nella classe operaia e siano messe in pratica.
Questo è il lavoro comunista che l’Internazionale Comunista Rivoluzionaria sta conducendo in tutto il mondo, sia nei paesi imperialisti che in quelli dominati. Ci basiamo sulle granitiche fondamenta della teoria marxista, sviluppata nel tempo da Marx, Engels, Lenin e Trotskij, nei primi quattro congressi dell’Internazionale Comunista, nei documenti fondativi della Quarta Internazionale e negli scritti di Ted Grant dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tutto ciò rappresenta il filo genuino e ininterrotto delle idee comuniste, l’arma necessaria per trionfare sull’imperialismo ed il capitalismo in tutto il mondo.