La curva dello sviluppo capitalistico
3 Ottobre 2015Bilancio delle elezioni in Catalogna: solo una politica socialista e rivoluzionaria potrà risolvere la questione nazionale
5 Ottobre 2015Proponiamo la traduzione di un documento di Alan Woods e Ted Grant, pubblicato nel febbraio 2000 sul sito In defence of Marxism. Il testo contiene una ampia rassegna delle posizioni di Marx, Engels, Lenin, della Seconda e Terza Internazionale riguardo la questione nazionale; nella seconda parte la posizione classica del marxismo viene applicata all’analisi di alcuni dei principali esempi di conflitti legati all’oppressione nazionale: Paese Basco, Palestina, Irlanda del Nord, Balcani. Si tratta di un testo di fondamentale importanza per comprendere come affrontare da un punto di vista di classe e rivoluzionario il problema dell’oppressione nazionale oggi.
Introduzione
La questione delle nazionalità, vale a dire l’oppressione delle nazioni e delle minoranze nazionali, che ha caratterizzato il capitalismo dalla sua nascita fino al momento attuale, ha sempre occupato un posto centrale nella teoria marxista. In particolare, gli scritti di Lenin affrontano questo importante argomento molto dettagliatamente, e ci forniscono ancora delle solide basi per analizzare questa questione così complicata ed esplosiva. È corretto affermare che senza una valutazione corretta della questione nazionale, i bolscevichi non sarebbero mai riusciti a prendere il potere nel 1917. Solo ponendosi alla testa di tutti gli strati oppressi della società, il proletariato poté unire sotto la bandiera del socialismo le forze di massa necessarie per rovesciare il dominio degli oppressori. L’incapacità di comprendere i problemi e le aspirazioni delle nazionalità oppresse dell’impero zarista avrebbe pregiudicato seriamente la lotta rivoluzionaria del proletariato.
I due ostacoli fondamentali per il progresso dell’umanità sono da un lato la proprietà privata dei mezzi di produzione e dall’altro lo stato nazionale. Ma, mentre la prima metà di questa equazione è abbastanza chiara, la seconda non ha ricevuto l’attenzione che meritava. Oggi, nell’epoca del declino imperialista, quando le contraddizioni stridenti di un sistema socioeconomico che sta marcendo hanno raggiunto i limiti più insopportabili, la questione nazionale sta rialzando la testa dappertutto, con le conseguenze più tragiche e sanguinose. Lungi dal passare in secondo piano come uno stadio antiquato dello sviluppo umano, come immaginano i riformisti senza speranza, ha acquisito una forma particolarmente velenosa e maligna che minaccia di trascinare intere nazioni nella barbarie. La soluzione di questo problema è una componente essenziale per la vittoria del socialismo su scala mondiale.
Nessuna nazione, nemmeno gli stati più grandi e potenti, può sottrarsi allo schiacciante dominio del commercio mondiale. Il fenomeno che i borghesi chiamano globalizzazione, previsto da Marx ed Engels 150 anni fa, sta sviluppandosi quasi in condizioni di laboratorio. Dalla Seconda guerra mondiale, e particolarmente negli ultimi vent’anni, c’è stata una colossale intensificazione della divisione internazionale del lavoro e un enorme sviluppo del commercio mondiale, ad un livello che Marx ed Engels non potevano neanche immaginare. L’interconnessione dell’economia mondiale è arrivata ad un grado mai visto prima nella storia dell’umanità. Ciò costituisce uno sviluppo totalmente progressista, perché significa che le condizioni materiali per il socialismo mondiale sono oggi presenti.
Il controllo dell’economia mondiale è nelle mani delle 200 multinazionali più grandi. La concentrazione del capitale ha raggiunto proporzioni sbalorditive. Tutti i giorni 1.300 miliardi di dollari attraversano le frontiere in transazioni internazionali, e il 70% di queste avvengono fra le multinazionali. Ogni giorno che passa, enormi monopoli ingaggiano lotte mortali per assorbire altri giganti. Grandi somme di denaro vengono spese per queste operazioni che stanno concentrando un potere inimmaginabile nelle mani di un numero sempre minore di compagnie. Agiscono come cannibali feroci e insaziabili, divorandosi a vicenda alla ricerca di profitti sempre più grandi. In questa orgia cannibalistica, la classe operaia ha sempre da perdere. Appena avviene una fusione la direzione della compagnia annuncia una nuova ondata di licenziamenti e chiusure, e una pressione spietata sulla forza lavoro per aumentare i margini di profitto, i dividendi e i salari dei managers.
In un tale contesto il libro di Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, acquista un carattere più che mai attuale. Lenin spiegava come l’imperialismo è il capitalismo nel periodo dei grandi trust e monopoli. Ma il grado di monopolizzazione dei giorni di Lenin sembra un gioco da bambini rispetto alla situazione odierna. Nel 1999 il numero di fusioni internazionali sono state 5100. Il valore degli accordi è aumentato del 47 per cento rispetto al 1998, arrivando a 798 miliardi di dollari. Con simili cifre sbalorditive sarebbe possibile risolvere la maggior parte dei problemi pressanti di povertà, analfabetismo e malattie nel mondo. Ma ciò presuppone l’esistenza di un sistema razionale di produzione in cui i bisogni di molti hanno la precedenza sui super profitti di pochi.
Il potere colossale di queste gigantesche compagnie multinazionali, che si fondono sempre di più con lo stato capitalista, producono il fenomeno che il sociologo americano Wright-Mills ha denominato “Complesso militare-industriale”, che domina il mondo come mai si era visto nella storia.
Qui vediamo una contraddizione sorprendente. Sulle basi della globalizzazione, l’argomentazione proposta dalla borghesia e particolarmente dalla piccola borghesia è che nei fatti lo Stato nazionale non abbia più importanza. In ciò non c’è nulla di nuovo. È la stessa argomentazione portata avanti da Kautsky nel periodo della Prima guerra mondiale (la cosiddetta teoria del superimperialismo), quando spiegava, in effetti, che lo sviluppo del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo avrebbe gradualmente eliminato le contraddizioni del capitalismo. Non ci sarebbero state più guerre perché lo sviluppo stesso del capitalismo avrebbe reso gli stati nazionali superflui. La stessa teoria è avanzata oggi da teorici revisionisti in Gran Bretagna come Eric Hobsbawn. Questo ex-stalinista che è passato all’estrema destra del laburismo spiega che lo Stato nazionale è stato solo un periodo transitorio della storia umana che ora è stato superato.
Gli economisti borghesi hanno più volte sostenuto la stessa cosa. Cercano di abolire le contraddizioni del sistema capitalista semplicemente negando la loro esistenza. Ma precisamente in questo momento, quando il mercato mondiale è divenuto la forza dominante sul pianeta, gli antagonismi nazionali hanno ovunque acquisito un carattere feroce e la questione nazionale ha dappertutto assunto un carattere particolarmente intenso e velenoso.
Con lo sviluppo dell’imperialismo e del capitalismo monopolistico, il sistema capitalista ha superato i limiti angusti della proprietà privata e dello Stato nazionale, che giocano oggi approssimativamente lo stesso ruolo che giocavano i principati e gli staterelli nel periodo precedente la nascita del capitalismo. Durante la Prima guerra mondiale Lenin scrisse:
“L’imperialismo è la fase suprema del capitalismo. Nelle nazioni avanzate il capitale ha superato i limiti dello stato nazionale, ha sostituito la competizione col monopolio e ha creato le condizioni oggettive per il raggiungimento del socialismo” (Lenin, Opere complete, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, gennaio-febbraio 1916, Vol. 22).
Chiunque non riesca a comprendere questa verità elementare sarà incapace di comprendere non solo la questione nazionale, ma tutti i più importanti avvenimenti dell’epoca attuale.
Tutta la storia degli ultimi cento anni è la storia della ribellione delle forze produttive contro i confini ristretti dello Stato nazionale. Si è sviluppata un’economia mondiale – e con essa le crisi mondiali e le guerre mondiali. Dunque il quadro dipinto dal Prof. Hobsbawm di un mondo in cui le contraddizioni nazionali sono eliminate è una fantasia senza valore. È vero proprio il contrario. Con la crisi generale del capitalismo la questione nazionale non rimane confinata ai paesi ex coloniali. Sta cominciando a colpire pure i paesi capitalisti avanzati, anche in luoghi dove sembrava essere risolta. In Belgio, una delle nazioni più sviluppate d’Europa, il conflitto tra valloni e fiamminghi ha assunto un carattere velenoso che, in determinate circostanze potrebbe condurre alla divisione del paese. A Cipro gli antagonismi nazionali tra turchi e greci, ampliano il conflitto tra Grecia e Turchia. Di recente la questione nazionale nei Balcani ha trascinato l’Europa sull’orlo di una guerra.
Negli Usa abbiamo il problema del razzismo contro i neri e anche contro gli ispanici. In Germania, Francia e altri paesi vediamo la discriminazione e gli attacchi razzisti contro gli immigrati. Nell’ex Unione Sovietica la questione nazionale ha avuto come conseguenza la caduta in una situazione di caos sanguinario di guerre e di guerre civili in un paese dopo l’altro. In Gran Bretagna, dove il capitalismo esiste da più tempo, il problema delle nazionalità non è ancora risolto. Non solo in Irlanda del Nord, ma anche in Galles e Scozia è stato posto decisamente all’ordine del giorno. In Spagna abbiamo il problema di Euskadi, della Catalogna e della Galizia. Più incredibile di tutto, dopo più di cent’anni dall’unificazione dell’Italia, la Lega Nord avanza la proposta reazionaria della divisione dell’Italia sulla base dell’autodeterminazione del Nord (Padania). La conclusione è inevitabile: solo a nostro rischio e pericolo possiamo ignorare la questione nazionale. Se vogliamo trasformare la società, è imperativo avere una posizione scrupolosa e chiara su questo argomento. A tal proposito ci rivolgiamo ai lavoratori e ai giovani, alla base dei Partiti socialisti e comunisti, che vogliono capire le idee del marxismo per lottare per il cambiamento della società. A loro dedichiamo questo lavoro.
Parte I – La questione nazionale nella storia
“Nell’Europa occidentale l’epoca della fase di formazione degli Stati borghesi, se si lascia da parte la lotta dei Paesi Bassi per l’indipendenza e il destino della nazione-isola, l’Inghilterra, iniziò con la Rivoluzione Francese e fu essenzialmente completata circa cento anni dopo con la formazione dell’Impero tedesco” (L. Trotskij, Storia della Rivoluzione russa)
Nonostante la maggior parte della gente pensi che lo Stato nazionale sia qualcosa di naturale, e quindi con radici nel lontano passato, se non nel sangue e nell’anima di uomini e donne, nei fatti esso è una creazione moderna, che per la verità esiste solo da duecento anni. Le uniche eccezioni sono l’Olanda, dove la rivoluzione borghese nel XVI secolo prese le forme di una guerra di liberazione nazionale contro la Spagna, e l’Inghilterra a causa della sua posizione singolare di regno-isola dove lo sviluppo capitalista ha avuto luogo prima che nel resto dell’Europa (dalla fine del XIV secolo in avanti). In precedenza non c’erano nazioni, ma solo tribù, città-stato ed imperi. È scientificamente scorretto riferirsi a questi ultimi come a “nazioni” come si fa frequentemente. Un autore nazionalista gallese fa addirittura riferimento alla “nazione gallese” prima dell’invasione romana della Gran Bretagna! I gallesi all’epoca erano un agglomerato di tribù non diverso fondamentalmente da altre tribù che abitavano quella che oggi è conosciuta come Gran Bretagna. È una caratteristica perniciosa degli scrittori nazionalisti quella di cercare di creare l’impressione che la “nazione” (specialmente la loro particolare nazione) sia sempre esistita. In effetti, lo Stato nazionale è un’entità che si è evoluta storicamente. Non è sempre esistita, e non esisterà sempre in futuro.
In realtà lo Stato nazionale è un prodotto del capitalismo. Fu costruito dalla borghesia che aveva bisogno di un mercato nazionale. Doveva abbattere le restrizioni locali, con piccole aree regionali con proprie tasse, strade a pedaggio, sistemi monetari, di misurazione del peso e dello spazio. Il passaggio seguente di Robert Hellbroner lo illustra graficamente quando descrive il viaggio di un mercante tedesco intorno all’anno 1550:
“Andreas Ryff, un mercante, barbuto e impellicciato, è di ritorno a casa a Baden, scrive alla moglie che ha visitato trenta mercati e ha il sedere indolenzito per il viaggio a cavallo. Ha ancora più problemi per le seccature di quei tempi, quando è in viaggio viene fermato una volta ogni dieci miglia per pagare una tassa di dogana, tra Basilea e Colonia ha pagato 31 imposte.
E non è tutto. Ogni popolazione presso cui si reca ha la propria moneta, le proprie regole e norme, le proprie leggi. Solo nell’area attorno a Baden ci sono 112 diversi sistemi di misurazione della lunghezza, 92 sistemi di misurazione diversi per i cereali, e 123 per i liquidi, 63 per i liquori, 80 diversi sistemi di peso” (R. Hellbroner, The Wordly Philosophers, pag. 22).
Il superamento di questi particolarismi locali fu una passo in avanti gigantesco per quell’epoca. Il radunare insieme le forze produttive in un unico Stato nazionale è stato un compito storico enormemente progressista della borghesia. Le basi per questa rivoluzione furono poste nel tardo Medioevo, nel periodo del declino del feudalesimo e dell’ascesa della borghesia e delle città che gradualmente affermavano i loro diritti. I re medievali avevano bisogno di soldi per le loro guerre ed erano costretti ad appoggiarsi sulla classe dei mercanti e dei banchieri in ascesa come i Fugger e i Medici. Ma l’ora dell’economia di mercato non era ancora scoccata. Quello che esisteva era una forma embrionale di capitalismo, contraddistinta dalla produzione su piccola scala e dal mercato locale. Non si poteva ancora parlare di un vero mercato nazionale, o di uno Stato nazionale. Certo, gli elementi di un qualche moderno Stato europeo erano abbozzati, ma erano ancora in uno stadio non sviluppato. Sebbene la Francia prendesse forma durante la Guerra dei cent’anni contro l’Inghilterra, questi conflitti avevano un carattere feudale e dinastico, piuttosto che veramente nazionale. I soldati che combattevano nelle guerre dovevano maggior fedeltà al loro signore locale piuttosto che al re di Francia, e nonostante l’esistenza di un linguaggio e di un territorio comuni, si consideravano Bretoni, Burgundi o della Guascogna piuttosto che francesi.
Solo gradualmente, e in modo doloroso, attraverso un periodo di diversi secoli è sorta una vera coscienza nazionale. Questo processo era parallelo all’ascesa del capitalismo, dell’economia di mercato e dalla nascita graduale del mercato nazionale, di cui un esempio tipico fu il commercio della lana in Inghilterra nel tardo Medioevo. Il declino del feudalesimo e l’ascesa delle monarchie assolute che, per loro interesse, incoraggiavano il commercio e il mercato, accelerarono il processo. Come spiega Robert Heilbroner:
“Dapprima ci fu l’apparizione graduale delle unità politiche nazionali in Europa. Sotto i colpi delle guerre contadine e delle conquiste dei re, l’esistenza isolata del primo feudalesimo ha fatto spazio alle monarchie centraliste. E con le monarchie venne la crescita dello spirito nazionale; a sua volta ciò significò un patrocinio del re per le industrie favorite, come le grandi creazioni di tappezzeria francesi, e lo sviluppo di flotte ed eserciti con tutte le industrie satelliti ad essi necessarie. L’infinità di regole e leggi che affliggevano Andreas Ryff e i mercanti del sedicesimo secolo che viaggiavano come lui fecero spazio a leggi nazionali, misure comuni, e monete più o meno uniche.” (Ibid. pag.34)
La questione nazionale, da un punto di vista storico, riguarda il periodo della rivoluzione democratica borghese. Strettamente parlando, la questione nazionale non fa parte del programma della rivoluzione socialista, dal momento che avrebbe dovuto essere risolta dalla borghesia nella sua lotta contro il feudalesimo. Fu la borghesia che creò lo Stato nazionale per prima. La costruzione dello Stato nazionale fu, ai suoi tempi, uno sviluppo enormemente progressista e rivoluzionario, e non fu raggiunto in modo pacifico e senza conflitti. La prima vera nazione europea, l’Olanda, venne formata come risultato di una rivoluzione borghese che prese la forma di una guerra di liberazione nazionale contro la Spagna imperiale. Negli Stati Uniti avvenne sulle basi di una guerra rivoluzionaria di liberazione nazionale nel XVII secolo e si consolidò per mezzo di una sanguinosa guerra civile nel 1861-65. Anche in Italia l’unificazione fu conquistata attraverso una guerra di indipendenza nazionale. L’unificazione della Germania, un compito progressista all’epoca, fu portata avanti da Bismarck con mezzi reazionari, sulle basi di una guerra e una politica di “ferro e sangue”.
La Rivoluzione francese
La costituzione dei moderni Stati nazionali europei (con l’eccezione dell’Olanda e dell’Inghilterra) comincia con la Rivoluzione francese. Fino a quel punto il significato di Stato nazionale era identico a quello di regno. La nazione era la proprietà del sovrano regnante. Questo sistema di leggi antiquato, ereditato direttamente dal feudalesimo, era in conflitto diretto con la nuova situazione legata all’ascesa della borghesia. Per conquistare il potere, la borghesia era costretta a presentarsi come rappresentante del popolo, cioè la Nazione. Come spiega Robespierre:
“Negli stati aristocratici la parola patria non ha significato tranne per le famiglie patrizie che detengono la sovranità. Solo in democrazia lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che la compongono” (citato in La Rivoluzione Bolscevica, E. H. Carr).
Il primo principio della Rivoluzione francese era il più implacabile centralismo. Questa fu la condizione essenziale per il suo successo nella lotta di vita o morte contro il vecchio regime appoggiato dall’intera Europa. Sotto la bandiera della “Repubblica, una e indivisibile” la rivoluzione unì la Francia per la prima volta in una nazione, spazzando via i particolarismi locali e i separatismi bretone, normanno e provenzale. L’alternativa sarebbe stata la disintegrazione e la morte della rivoluzione stessa.
Lo scontro sanguinoso in Vandea era una guerra contro il separatismo e contro la reazione feudale. L’abbattimento dei Borboni diede un impeto poderoso allo spirito patriottico in tutta l’Europa. Nel primo periodo l’esempio di un popolo rivoluzionario che era riuscito a rovesciare il vecchio ordine monarchico fu dappertutto fonte di ispirazione e punto di attrazione alle forze progressiste e rivoluzionarie. In un secondo tempo gli eserciti rivoluzionari della repubblica francese furono costretti a iniziare un’offensiva contro le potenze alleate dell’Europa, che si unirono sotto il comando dell’Inghilterra e dello zarismo russo per schiacciare la rivoluzione. Con un’impresa eroica, le forze rivoluzionarie riuscirono a fare indietreggiare le forze delle reazione su ogni fronte, rivelando così a un mondo sbalordito la forza di un popolo rivoluzionario e di una nazione in armi.
L’esercito rivoluzionario portava ovunque lo spirito della rivolta, ed era costretto a portare un messaggio rivoluzionario nei territori che occupava. Nella fase ascendente della rivoluzione, gli eserciti della Repubblica francese apparivano ai popoli dell’Europa come dei liberatori.
Per riuscire a vincere la lotta titanica contro il vecchio ordine, erano obbligati a fare appello alle masse per portare avanti le stesse trasformazioni rivoluzionarie che avevano avuto luogo in Francia. Era una guerra rivoluzionaria, quale non se ne erano mai viste prima. La schiavitù fu abolita nelle colonie francesi. Il messaggio rivoluzionario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo era dappertutto il proclama che chiamava a raccolta e annunciava la fine dell’oppressione monarchica e feudale. Come evidenzia David Thompson:
“(I francesi) erano aiutati in realtà da alleati residenti in quei paesi, e la parte distruttiva del loro lavoro era spesso abbastanza benvenuta. Fu solo quando le popolazioni scoprirono che i padroni francesi non erano meno severi dei loro vecchi regimi che si avvicinarono alle idee di autogoverno. L’idea che la “sovranità del popolo” debba condurre all’indipendenza nazionale era il risultato indiretto dell’occupazione francese; il suo significato originale di abolizione dei privilegi e di diritti universali, andò a fondersi con questa nuova implicazione solo come risultato delle conquiste. I rivoluzionari francesi diffusero idee liberali intenzionalmente ma crearono il nazionalismo inavvertitamente” (D. Thompson, Europe after Napoleon, p. 50).
L’esaurimento e il declino della Rivoluzione francese produssero la dittatura di Napoleone Bonaparte, così come la degenerazione dello stato operaio isolato russo più tardi portò alla dittatura bonapartista proletaria di Stalin. Il messaggio democratico rivoluzionario iniziale fu falsato e deformato nelle ambizioni imperiali e dinastiche di Napoleone che si rivelarono fatali alla Francia. Comunque, anche sotto Napoleone, sebbene in forme distorta, alcune delle conquiste della Rivoluzione francese furono conservate ed estese ai territori europei conquistati dai francesi, con risultati rivoluzionari, specialmente in Germania e Italia:
“I risultati più devastanti furono fra i più duraturi. Napoleone estese e perpetuò gli effetti della Rivoluzione francese distruggendo il feudalesimo nei Paesi Bassi e in gran parte della Germania e dell’Italia. Il feudalesimo come sistema legale, compresa la giurisdizione dei nobili sui contadini, finì, così anche il feudalesimo come sistema economico che comprendeva il pagamento di tributi da parte dei contadini ai nobili, sebbene spesso in cambio di risarcimenti e indennizzi. Alla Chiesa non fu mai concesso di riorganizzarsi. Le classi medie e i contadini divennero, come i nobili, soggetti al potere statale, e tutti egualmente obbligati a pagare le tasse. Il sistema di imposizione e di pagamento delle tasse fu reso più equo ed efficiente. Le vecchie corporazioni e oligarchie cittadine furono abolite, le barriere doganali interne rimosse. Ovunque si affermò una maggiore uguaglianza, nel senso di possibilità di carriera aperte ai talenti. Una raffica di modernizzazione colpì l’Europa all’inizio delle conquiste napoleoniche. I suoi tentativi violenti di asservire con la forza l’Europa occidentale in un blocco servile di territori satelliti o annessi riuscì, almeno, a farli liberare da privilegi e sistemi giuridici antiquati, da divisioni territoriali superate. La maggior parte di ciò che spazzò via non poté essere restaurato” (Ibid. p.67).
Ma il dominio napoleonico non fu senza inconvenienti. Per evitare di imporre pesanti tasse in patria, Bonaparte le fece gravare sui territori conquistati. E nonostante i progressi sociali, il dominio francese rimaneva un dominio straniero. Come osservò saggiamente Robespierre, a nessuno piacciono i missionari con la baionetta. L’invasione francese suscitò il suo opposto, nella forma di guerre di liberazione nazionale che in ultima analisi minarono i trionfi iniziali. La sconfitta di Napoleone nelle pianure gelate della Russia e la distruzione dell’esercito francese fu il segnale per un’ondata di insurrezioni nazionali contro i francesi. In Prussia l’intera nazione si sollevò e costrinse Federico Guglielmo III a una guerra contro Napoleone. Dal tremendo caos delle guerre napoleoniche e dalla spartizione dei vincitori nacquero la maggior parte degli Stati moderni dell’Europa così come li conosciamo oggi.
La questione nazionale dopo il 1848
L’anno 1848 fu un punto di svolta per la questione nazionale in Europa. Nel mezzo delle fiamme della rivoluzione, le aspirazioni nazionali soffocate dei tedeschi, dei cechi, dei polacchi, degli italiani e degli ungheresi vennero spinte bruscamente in primo piano. Se la rivoluzione avesse trionfato, la strada per la soluzione della questione nazionale in Germania e da altre parti, attraverso i mezzi democratici sarebbe stata aperta. Ma, come spiegarono Marx ed Engels, la rivoluzione del 1848 fu tradita dalla borghesia contro-rivoluzionaria. La sconfitta della rivoluzione significò che la questione nazionale doveva essere risolta attraverso altri mezzi. Tra parentesi, una delle cause della sconfitta fu precisamente la manipolazione della questione nazionale (per esempio il problema ceco) per fini reazionari.
In Germania, la questione nazionale poteva essere espressa in una parola: unificazione. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848 il paese rimaneva diviso in una serie di piccoli stati e principati. Ciò costituiva un ostacolo insormontabile per il libero sviluppo del capitalismo in Germania, e di conseguenza della classe operaia. L’unificazione era quindi una rivendicazione progressista. Tuttavia la questione di chi avrebbe unificato la Germania e attraverso quali mezzi aveva un’importanza centrale. Marx si augurava che il compito dell’unificazione sarebbe stato raggiunto dal basso, per opera della classe operaia che avrebbe utilizzato metodi rivoluzionari. Ma non sarebbe andata così. Dal momento che il proletariato non era riuscito a risolvere la questione attraverso metodi rivoluzionari nel 1848, fu risolta con metodi reazionari dal nobile conservatore prussiano Bismarck.
Il mezzo principale per raggiungere questo fine fu la guerra. Nel 1864 gli austriaci e i prussiani si unirono per sconfiggere i Danesi. La Danimarca perse la provincia dello Schleswig-Holstein, che, dopo una rissa tra Austria e Prussia, fu unita alla Germania nel 1865. Bismarck, avendo manovrato per tenere la Francia fuori dal conflitto, formò allora un’alleanza con l’Italia contro l’Austria. Quando l’Austria fu sconfitta nella battaglia di Königgrätz nel luglio del 1866, il dominio della Prussia sulla Germania venne garantito. In tal modo l’unificazione della Germania fu raggiunta attraverso metodi reazionari, per opera del militarismo prussiano. Ciò servì a rafforzare la posizione del militarismo prussiano e del regime bonapartista di Bismarck, e gettò i semi di nuove guerre in Europa. Il modo quindi con cui viene risolta la questione nazionale, da quale classe e per quali interessi, non è affatto una questione indifferente per la classe operaia. Non possiamo comportarci come ragazze pon-pon dei nazionalisti borghesi e piccolo-borghesi, anche quando perseguono un obiettivo che è oggettivamente progressista. In ogni momento deve essere mantenuta una posizione di classe.
Oggettivamente, l’unificazione della Germania fu uno sviluppo progressista che Marx ed Engels appoggiarono. Ma ciò non presupponeva in alcun modo che i socialisti tedeschi dovessero appoggiare Bismarck. La sola idea avrebbe provocato repulsione in Marx. Era sempre stato un oppositore di Bismarck, ma quando quest’ultimo riuscì ad unificare la Germania, Marx ed Engels furono costretti, con riluttanza, ad appoggiare questo sviluppo come un passo in avanti, perché avrebbe facilitato l’unificazione del proletariato tedesco. Così Engels scriveva a Marx il 25 luglio 1866:
“La cosa ha questo lato positivo perché semplifica la situazione, rende la rivoluzione più facile cancellando le risse tra i piccoli capitalisti e accelererà in ogni caso gli sviluppi […] Tutti i piccoli Stati saranno gettati nel movimento, le peggiori influenze localistiche cesseranno e i partiti diventeranno finalmente veramente nazionali invece che meramente locali […]
“Secondo la mia opinione, quindi, tutto quello che possiamo fare è semplicemente accettare il fatto, senza giustificarlo, e usare, fino al punto in cui possiamo, le maggiori facilitazioni per un’organizzazione nazionale e per l’unificazione del proletariato tedesco che dovranno comunque offrire loro.“
L’unificazione dell’Italia
Una situazione analoga esisteva in Italia. Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, nonostante molti tentativi di arrivare all’unificazione, l’Italia rimaneva ancora irreparabilmente divisa e soggiogata all’Austria, che aveva annesso le regioni del Nord. Inoltre, diversi Stati più piccoli, compreso il Regno Borbone delle Due Sicilie (Italia meridionale e Sicilia), erano protetti contro la rivoluzione da truppe austriache pronte ad intervenire. Lo Stato pontificio dell’Italia centrale era sotto la “protezione” francese. Solo il piccolo regno di Sardegna, basato sul Piemonte-Savoia, era libero dalla dominazione austriaca. Sotto la guida dell’abile uomo di stato e diplomatico Conte di Cavour, la dinastia regnante, conservatrice, gradualmente espanse la propria sfera d’influenza e i propri territori, cacciando via gli Austriaci da una regione dietro l’altra.
Contro l’Austria accanto all’opposizione monarchico-conservatrice dei Savoia, esisteva un movimento nazionalista rivoluzionario e radicale, che comprendeva un insieme eterogeneo di repubblicani, democratici e socialisti. Tali forze erano presenti in ogni stato italiano e pure in esilio. Il rappresentante più conosciuto di questa tendenza era Mazzini, le cui idee amorfe e confuse corrispondevano alla natura del movimento che rappresentava. Al contrario, Cavour, alla guida dello Stato settentrionale indipendente del Piemonte, era un manovratore scaltro e senza principi. Con un tipico intrigo diplomatico, prima si unì a Gran Bretagna e Francia nella spedizione contro la Russia in Crimea del 1855. Poi, dopo aver segretamente promesso all’imperatore francese Napoleone III Nizza e Savoia, ottenne un trattato che impegnava la Francia a correre in aiuto del Piemonte, nel caso di guerra con l’Austria. La guerra scoppiò nel 1859 e fu il punto d’inizio per l’unificazione dell’Italia. Ebbero luogo insurrezioni in tutti i ducati italiani e nello Stato Pontificio. Insieme ai francesi, le truppe piemontesi ottennero una vittoria significativa contro l’Austria a Solferino. L’unificazione dell’Italia sembrava essere imminente, Ma non corrispondeva agli interessi di Luigi Bonaparte, che firmò prontamente un armistizio con l’esercito austriaco in ritirata, abbandonando così al loro destino i piemontesi e i rivoluzionari.
Alla fine la guerra di liberazione italiana fu salvata dall’insurrezione in Sicilia che salutò l’arrivo della spedizione dei Mille di Garibaldi. Dopo aver vinto la battaglia per la Sicilia, la forza ribelle di Garibaldi invase l’Italia meridionale e fece un’entrata trionfale a Napoli. L’unità d’Italia era stata raggiunta con metodi rivoluzionari dal basso, ma i frutti dovevano essere raccolti altrove. Il solito intrigante Cavour convinse Londra e Parigi che sarebbe stato meglio accettare il dominio di un Piemonte conservatore su un’Italia unita piuttosto che aspettare che tutta l’Italia cadesse sotto il controllo dei repubblicani e dei rivoluzionari. L’esercito della reazione monarchica piemontese marciò verso Napoli senza ostacoli. Garibaldi, invece di combatterli, aprì loro le porte e salutò il Re del Piemonte, Vittorio Emanuele II come “Re d’Italia” il 26 ottobre. Così il popolo italiano ottenne solo una vittoria a metà, invece del trionfo completo per cui aveva versato il sangue.
Invece di una repubblica, l’Italia ebbe una monarchia costituzionale; invece di una democrazia, un sistema censitario che escludeva dal voto il 98% delle persone. Al Papa fu permesso di continuare a regnare sullo Stato della Chiesa (una concessione a Luigi Bonaparte). Nonostante ciò, l’unificazione dell’Italia costituì un passo in avanti gigantesco. Tutta l’Italia era unita, eccetto Veneto, che rimaneva sotto il controllo dell’Austria, e il Lazio. Nel 1866 l’Italia si unì alla Prussia contro l’Austria e ricevette il Veneto come ricompensa. Infine, dopo la sconfitta della Francia nella guerra Franco-Prussiana (1871) le truppe francesi si ritirarono da Roma. L’entrata dell’esercito italiano nella città segnò la vittoria finale dell’unificazione dell’Italia.
Nella seconda metà del XIX secolo, la questione nazionale nell’Europa occidentale era stata largamente risolta. Con l’unificazione dell’Italia e della Germania, dopo il 1871 la questione nazionale sembrava confinata all’Europa orientale, e in un modo particolarmente esplosivo nei Balcani, dove era inestricabilmente aggrovigliata dalle ambizioni territoriali e dalle rivalità di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania, che condussero inesorabilmente alla Prima guerra mondiale. Durante il primo periodo, circa dal 1789 al 1871, la questione nazionale giocava ancora un ruolo relativamente progressista nell’Europa occidentale. Anche l’unificazione della Germania per opera del nobile reazionario Bismarck fu considerato uno sviluppo progressista da Marx ed Engels, come abbiamo visto. Ma già nella seconda metà del XIX secolo lo sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo stava superando i limiti angusti dello Stato nazionale. Ciò si manifestava nello sviluppo dell’imperialismo e nella tendenza irresistibile verso la guerra fra le maggiori potenze. Le guerre balcaniche del 1912-13 segnarono il completamento della formazione degli stati nazionali nell’Europa sudorientale. La Prima guerra mondiale e il Trattato di Versailles (che, tra parentesi, fu stipulato sotto lo slogan del “diritto delle nazioni all’autodeterminazione”) completò il lavoro smantellando l’impero austro-ungarico e garantendo l’indipendenza della Polonia.
Parte II – Marx, Engels e la questione nazionale
La questione nazionale è un argomento il cui approfondimento ha una lunga tradizione nell’arsenale teorico del marxismo.
Possiamo trovare già negli scritti di Marx ed Engels alcuni commenti interessanti e penetranti sulla questione nazionale. Più tardi lo stesso Lenin si basò anche su questi scritti nel formulare le proprie classiche teorie sulle nazionalità. Ad esempio, Marx esaminò dettagliatamente le questioni di Polonia e Irlanda, le quali durante il XIX secolo attirarono l’attenzione del movimento operaio europeo. E’ interessante notare come Marx, che si accostò alla questione nazionale dialetticamente, senza rigidità, mutò la sua opinione in relazione ad entrambi gli argomenti.
La differenza tra la dialettica rivoluzionaria ed il pensiero astratto fu esposta brillantemente nel corso del dibattito che ebbe luogo sulla questione nazionale tra Marx e Proudhon ai tempi della Prima Internazionale. Proudhon, il socialista francese precursore dell’anarchia, negò l’esistenza della questione nazionale. La storia del movimento operaio ha sempre visto elementi settari proporre concezioni astratte della lotta di classe; queste figure non traggono le idee dalla realtà concreta delle condizioni esistenti nella società, ma si avventurano nelle aride astrazioni del proprio mondo immaginario.
I proudoniani del Consiglio Generale della Prima Internazionale consideravano politicamente trascurabile la lotta dei polacchi, italiani e irlandesi per l’emancipazione nazionale. Tutto ciò che serviva era la rivoluzione in Francia, mentre gli altri popoli avrebbero potuto attendere. Si da il caso però che i popoli oppressi non possano attendere. Nel 1866 Marx scrisse ad Engels denunciando la “cricca proudhonista” a Parigi, la quale”… dichiara le nazionalità essere una assurdità e attacca Bismarck e Garibaldi. Come polemica contro lo sciovinismo la loro tattica è utile e spiegabile. “Ma quando i seguaci di Proudhon (i miei buoni amici, Lafargue e Longuet, pure lo sono) pretendono che tutta l’Europa possa e debba sedere quieta e pacifica sino a che i signori in Francia non aboliscano la povertà e l’ignoranza, diventano davvero ridicoli” (Lettere di Marx a Engels, 7 giugno 1866).
Nel Consiglio Generale della Prima Internazionale, altrimenti detta Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL), Marx dovette combattere su due fronti; da un lato contro i piccolo-borghesi nazionalisti come Mazzini e dall’altro contro i semi-anarchici seguaci di Proudhon i quali negavano l’esistenza della questione nazionale. Il 20 giugno del 1866 Marx scrisse: “Ieri ha avuto luogo una discussione nel Consiglio Internazionale sul tema della guerra attuale… La discussione si è accesa, come prevedibile, con ‘la questione delle nazionalità’ in generale e l’atteggiamento da adottare riguardo ad essa… I rappresentanti della ‘Giovane Francia’ (non lavoratori) sono usciti con l’annuncio che tutte le nazionalità e persino le nazioni sono pregiudizi antiquati. Stirnerismo proudhonizzato… Il mondo intero attenda fino a che i Francesi siano maturi per una rivoluzione sociale…“. Sebbene Marx ed Engels attribuissero la dovuta importanza alla questione nazionale, come nella polemica con Proudhon, la consideravano subordinata alla “questione operaia”; ossia la valutavano dal punto di vista della classe operaia e della rivoluzione socialista.
La questione polacca
Come Lenin, Marx aveva una posizione molto flessibile sulla questione nazionale, che sempre considerò dal punto di vista degli interessi generali del proletariato e della rivoluzione internazionale. In diverse occasioni tra gli anni ’40 e ’60 del secolo XIX, Marx difese non solamente il diritto all’autodeterminazione per la Polonia bensì la completa indipendenza. Questa posizione fu mantenuta nonostante il fatto che il movimento indipendentista polacco a quel tempo fosse guidato dagli aristocratici reazionari. La motivazione della posizione di Marx non va ricercata in un qualche attaccamento sentimentale al nazionalismo e men che meno egli considerava il diritto all’autodeterminazione una panacea universale.
In uno dei suoi ultimi lavori, La politica estera dello zarismo russo, Engels mostra le diverse occasioni in cui il popolo polacco salvò la rivoluzione nel resto d’Europa con la sua eroica lotta contro la Russia zarista, come nel 1792-94 quando la Polonia fu sconfitta dalla Russia ma salvò la Rivoluzione francese. C’era però un altro lato della questione polacca. “La Polonia è completamente disorganizzata, una repubblica di nobili, fondata sulla spoliazione e l’oppressione del popolo, con una costituzione che rendeva impossibile qualunque azione su scala nazionale e quindi facile preda per i suoi vicini. Dall’inizio del secolo, come i polacchi stessi dicono, è esistito solo disordine…; il paese intero era costantemente occupato da truppe straniere che lo usavano come una taverna… nella quale dimenticavano regolarmente di pagare” (Engels, Opere complete).
Durante il secolo XIX la questione della Polonia ebbe importanza centrale nella politica europea e condizionò profondamente il movimento della classe operaia. Nel gennaio 1863 i polacchi insorsero. L’insurrezione si propagò a tutto il paese e condusse ad un governo nazionale. La direzione della insurrezione, però, era nelle mani della piccola nobiltà incapace di coinvolgere le masse nella rivolta. Quando finalmente il potere passò nelle mani dei grandi proprietari terrieri, questi ultimi sperando in un intervento diplomatico di Francia e Gran Bretagna, raggiunsero un accordo con lo zar, che prontamente li tradì. Il movimento fu schiacciato dai russi. Naturalmente francesi e britannici non alzarono un dito e nonostante la sconfitta, la rivolta polacca attirò le simpatie e la solidarietà dei lavoratori d’Europa. La Prima Internazionale fu fondata nel 1863 come risultato diretto di una iniziativa internazionale volta ad assistere il movimento rivoluzionario polacco. Engels indicò che l’unica speranza dell’insurrezione polacca consisteva nella classe operaia europea: “Se (i polacchi) tenessero duro” egli scrisse a Marx l’11 giugno 1863, “potrebbero rimanere coinvolti in un movimento generale europeo che li salverebbe; diversamente, se le cose si mettessero male, la Polonia si vedrebbe finita per dieci anni. Una insurrezione di questo tipo estinguerebbe la forza di lottare della popolazione per molti anni a venire” (Lettera di Engels a Marx, 11 giugno 1863).
L’atteggiamento di Marx verso la Polonia era determinato dalla sua strategia generale per la rivoluzione mondiale. A quel tempo la Russia zarista costituiva la principale minaccia verso la classe operaia e la democrazia, una forza mostruosamente reazionaria in Europa e particolarmente in Germania. Visto che in Russia a quel tempo non v’era una classe operaia, mancava la possibilità immediata di una rivoluzione. Come ebbe a dire Lenin, “La Russia era ancora addormentata mentre la Polonia era in fermento”. (Lenin, Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione). Marx quindi sostenne l’indipendenza della Polonia come strumento per colpire il vero nemico, la Russia zarista. Nel 1851 però Marx giunse a conclusioni pessimistiche circa la Polonia “cavalleresco-indolente”, maturò scetticismo nei confronti di una insurrezione guidata dall’aristocrazia polacca.
Questo basta a chiarire come Marx ed Engels subordinassero completamente la questione nazionale alla lotta di classe nella prospettiva di una rivoluzione proletaria. Non ci fu mai un obbligo assoluto per i marxisti per sostenere ogni movimento per l’autodeterminazione nazionale. Lo stesso Marx, il quale sosteneva inizialmente l’indipendenza della Polonia, si oppose radicalmente all’indipendenza dei cechi ed anche al movimento di indipendenza nei Balcani nella seconda metà dell’ottocento. Queste due posizioni solo apparentemente contraddittorie erano motivate da considerazioni parimenti rivoluzionarie. Marx comprese che, mentre la vittoria dei Polacchi avrebbe rappresentato un duro colpo alla Russia zarista con conseguenze rivoluzionarie, il movimento nazionale degli Slavi del Sud era strumentalizzato dallo zarismo per le sue mire espansionistiche nei Balcani. Come spesso accade nella storia, la lotta delle piccole nazioni viene strumentalizzata dalle grandi potenze per i loro obiettivi reazionari: chiunque commette l’errore di non saper riconoscere questo aspetto della questione nazionale cade inevitabilmente in una trappola reazionaria.
Nei suoi ultimi giorni, Engels, con straordinaria lungimiranza predisse insurrezioni rivoluzionarie in Russia: “E qui giungiamo al vero nocciolo della questione. Lo sviluppo interno della Russia sin dal 1856, promosso dallo stesso governo, ha sortito i suoi effetti sino in fondo. La rivoluzione sociale ha creato contrasti importanti. La Russia diventa ogni giorno più occidentalizzata; industria moderna, vapore, ferrovie, trasformazione di tutti i pagamenti in natura in pagamenti in denaro, con la conseguenza quindi che il crollo dei vecchi fondamenti della società sta accelerando la sua piena realizzazione. Allo stesso tempo però ciò sta conducendo all’incompatibilità del dispotismo zarista con la nuova società emergente. Si stanno formando i partiti di opposizione, costituzionali e rivoluzionari, che questo governo può controllare solo con una crescente brutalità. E la diplomazia russa intravede con orrore il giorno in cui il popolo chiederà di essere ascoltato, e dopo essersi occupata dei propri interessi interni si accorgerà che ciò non le avrà lasciato né tempo né voglia per puerilità come la conquista di Costantinopoli o dell’India o del mondo intero. La rivoluzione del 1848 che si fermò alle frontiere della Polonia sta ora bussando alla porta della Russia, la quale ha in seno molti suoi alleati che stanno giusto attendendo il momento giusto per spalancarle la porta“.
Che frasi straordinarie! Già nel 1890, 15 anni prima della prima Rivoluzione Russa e 27 prima dell’Ottobre, Engels prevedeva questi grandi eventi e collegava alla rivoluzione russa la questione nazionale in Europa. Gli eventi che seguirono gli diedero ragione. Come più tardi Lenin spiegò, dal 1880 in poi lo slogan del’indipendenza polacca cessò d’essere appropriato ai tempi visto che lo sviluppo della classe operaia in Russia poneva all’ordine del giorno la prospettiva di una rivoluzione nella Russia stessa.
La guerra franco-prussiana
Sotto l’influenza di Marx ed Engels, la Prima Internazionale adottò un atteggiamento internazionalista di principio su tutte le questioni fondamentali, sia dal punto di vista teorico che pratico. Ad esempio, durante le lotte di classe all’interno di un paese, i membri della Internazionale propagandavano e spiegavano gli avvenimenti negli altri paesi allo scopo di prevenire l’uso di crumiri stranieri.
Come già abbiamo visto, uno dei problemi centrali da affrontare per la classe operaia nella prima metà dell’ottocento fu l’unificazione della Germania. Marx ed Engels furono costretti a dare sostegno critico all’unificazione tedesca sebbene questo compito progressivo fu adempiuto con mezzi reazionari da Bismarck: in nessun modo però essi abbandonarono una posizione di classe o capitolarono davanti a Bismarck. La Prima Internazionale considerò inizialmente la guerra franco-prussiana del 1870-71 quale una lotta difensiva della Germania. Ciò era indubbiamente corretto. Il regime reazionario bonapartista di Napoleone III intendeva bloccarne il processo di unificazione nazionale con l’uso della forza, ma fece male i suoi conti. L’esercito prussiano sbaragliò i demoralizzati soldati francesi come un coltello nel burro.
Il caso della guerra franco-prussiana è un buon esempio per illustrare l’atteggiamento flessibile e rivoluzionario di Marx rispetto alla questione nazionale. Egli diede sostegno critico alla Prussia durante la prima fase della guerra, quando aveva caratteristiche prettamente difensive. In questo caso la posizione di Marx fu determinata non da considerazioni superficiali o sentimentali (egli odiava profondamente il reazionario Bismarck), bensì dal punto di vista degli interessi della classe operaia e della rivoluzione internazionale. D’altra parte la vittoria della Prussia avrebbe portato all’unificazione della Germania, un compito storicamente progressivo. Allo stesso modo la sconfitta della Francia avrebbe significato il rovesciamento del regime bonapartista di Luigi Bonaparte, aprendo la prospettiva di sviluppi rivoluzionari in quel paese. Inoltre tale esito della guerra avrebbe rappresentato un duro colpo allo zarismo in Russia, il quale confidava nella capacità del governo bonapartista di Parigi di mantenere la Germania divisa e quindi debole. Ecco perché Marx sostenne inizialmente la Prussia nella sua guerra contro la Francia nonostante il fatto che una vittoria prussiana avrebbe avuto anche l’effetto di rafforzare il governo di Bismarck, almeno in un primo momento.
Queste considerazioni generali non esauriscono la questione dell’atteggiamento marxista verso la guerra. È sempre e comunque necessario affrontare la questione nazionale da un punto di vista di classe. Anche quando la lotta di una particolare nazione avesse un contenuto progressivo, è necessario che il proletariato mantenga la propria indipendenza di classe dalla borghesia e dalle sue posizioni.
Nel corso della guerra franco-prussiana Marx cambiò la sua posizione. Dal momento in cui Luigi Bonaparte fu rovesciato (nell’ottobre 1870) e in Francia venne dichiarata la repubblica, il carattere dello scontro condotto dalla Prussia cambiò da guerra di liberazione nazionale a campagna di aggressione diretta contro il popolo di Francia, e Marx denunciò chiaramente la fine del carattere progressivo della guerra. L’occupazione della Alsazia-Lorena da parte della Prussia fu similmente un atto reazionario che non avrebbe potuto venire giustificato dal carattere progressivo dell’unificazione della Germania. Esso servì solamente a suscitare odio nazionalistico tra Francia e Germania e a preparare il terreno per la carneficina imperialista del 1914-18.
La sconfitta dell’esercito francese condusse all’immediata rivoluzione in Francia ed al glorioso quanto fondamentale episodio della Comune di Parigi. Marx aveva consigliato ai lavoratori di attendere, ma una volta che essi entrarono in azione egli si precipitò immediatamente in loro difesa. A questo punto la natura della guerra era cambiata. La questione nazionale fu per Marx sempre subordinata alla lotta di classe (la “questione operaia”). La correttezza di tale posizione è sottolineata di riflesso dalla condotta della classe dominante in ogni guerra. Non importa quanto profondo sia l’antagonismo nazionale nella classe dominante dei paesi belligeranti, essa si unirà sempre contro i lavoratori; infatti i generali prussiani si fecero da parte e non alzarono un dito mentre i loro nemici, le forze reazionarie di Versailles, attaccavano Parigi e massacrarono i Comunardi.
Marx sull’Irlanda
Come nel caso della Polonia, anche su tale questione la posizione di Marx fu determinata esclusivamente da principi rivoluzionari. Pur simpatizzando naturalmente con l’oppresso popolo irlandese, Marx sottopose sempre i dirigenti nazionalisti borghesi e piccolo-borghesi ad una critica implacabile.
Sin dall’inizio, Marx ed Engels spiegarono che la liberazione nazionale dell’Irlanda non poteva considerarsi disgiunta dal problema dell’emancipazione sociale ed in particolare da una soluzione rivoluzionaria della questione della terra. Questa analisi lungimirante ha molto a che fare con la lotta di liberazione nazionale in generale, non solo in Irlanda.
In una lettera ad Eduard Bernstein del 26 giugno 1882, Engels indicò che il movimento nazionalista irlandese consisteva in due componenti: il movimento radicale agrario che esplose sotto forma di azione diretta e spontanea del popolo trovando la sua espressione politica nella democrazia rivoluzionaria da un lato; “l’opposizione nazional-liberale della borghesia urbana” dall’altro.
Ciò vale per i movimenti popolari di ogni tempo. Essi possono avere successo solo nella misura in cui trovano una direzione nei centri urbani: nelle condizioni moderne, questa direzione può essere incarnata dalla borghesia o dal proletariato. La borghesia ha invece dimostrato in tutta la sua storia una totale incapacità di risolvere qualunque dei problemi fondamentali posti dalla rivoluzione democratico-borghese, incluso quello dell’indipendenza nazionale. L’Irlanda ne costituisce l’esempio più classico.
Il fulcro della posizione di Marx ed Engels stava nella prospettiva di una federazione volontaria tra Irlanda, Inghilterra, Scozia e Galles, la quale prospettiva fu sempre associata alla presa del potere dei lavoratori. Ciò implicava inderogabilmente la difesa incondizionata dell’unità della classe operaia. A questo proposito scrisse Engels nel 1848:
“Il popolo d’Irlanda deve lottare strenuamente, fianco a fianco con la classe operaia inglese e i Cartisti, per conquistare i sei punti del Peoples’s Charter: suffragio universale, parlamento annuale, voto a scrutinio segreto, abolizione del requisito di proprietario (Property qualification) per i membri del parlamento, retribuzione dei parlamentari e costituzione di distretti elettorali equi. Solo dopo aver visto riconosciuti questi sei punti l’Irlanda potrà ricavare qualche beneficio” (Engels, Fergus O’Connor and the Irish People, 9 gennaio 1848, enfasi nostra).
Fin dall’inizio, Marx ed Engels ingaggiarono una lotta implacabile contro i liberal-nazionalisti della classe media irlandese come O’Connell, che denunciarono essere un ciarlatano e traditore del popolo irlandese. Più tardi essi diedero sostegno critico per un limitato periodo al partito piccolo-borghese dei feniani. Questo fu logico e corretto giacché in quel momento non esisteva un movimento operaio in Irlanda, che rimase una società prettamente agraria sino all’inizio del ventesimo secolo.
Marx ed Engels non si comportarono mai da sostenitori dei feniani, visto che adottarono costantemente una posizione indipendente di classe. Criticarono spesso le tattiche avventuristiche dei feniani e le loro tendenze terroristiche, la loro visione strettamente nazionalista e il loro rifiuto di accettare un collegamento col movimento operaio inglese. Nonostante il fatto che i feniani fossero l’ala più avanzata del movimento democratico rivoluzionario irlandese, e qualcuno di loro fosse sensibile ad inclinazioni socialiste, Marx ed Engels non si facevano illusioni su di loro. Il 29 novembre 1867, Engels scrisse a Marx:
“Riguardo ai feniani tu hai proprio ragione. L’insopportabilità degli inglesi non deve farci scordare che i dirigenti di quella setta sono perlopiù dei somari e in parte sfruttatori e noi non possiamo in nessun modo farci complici delle stupidità che accadono in ogni cospirazione. E queste accadranno di sicuro.“
Engels dimostrò ben presto di essere nel giusto. Due settimane più tardi, il 13 dicembre 1867, un gruppo di feniani provocò un’esplosione nella prigione londinese di Clerkenwell in un tentativo fallito di liberare i loro compagni incarcerati. L’esplosione distrusse molte case circostanti e ferì 120 persone. Prevedibilmente l’incidente causò un’ondata di sentimenti anti-irlandesi nella popolazione. Il giorno seguente Marx scrisse ad Engels la sua indignazione:
“L’ultimo exploit dei feniani nella prigione di Clerkenwell è stata una grossa stupidaggine. Le masse londinesi, che hanno dimostrando grande simpatia per la causa irlandese, saranno ora infuriate dall’episodio e finiranno direttamente tra le braccia del partito di governo. Non ci si può aspettare che il proletariato londinese sia disposto a saltare in aria per la gloria degli emissari feniani. C’è sempre una specie di fatalità in un tipo di cospirazione così segreto e melodrammatico.“
Pochi giorni dopo, il 19 dicembre, Engels rispose come segue: “La stupidaggine di Clerkenwell è stata ovviamente opera di pochi fanatici specialisti; è la sfortuna di ogni cospirazione finire a questo modo stupido, perché ‘dopo tutto qualcosa deve accadere e qualcosa deve essere pur fatto’. In particolare in America la cosa ha fatto molto scalpore ed alcuni stupidi saltano su per istigare a compiere queste stupidaggini. In più questi cannibali sono in genere anche grandi codardi, come quell’Allen con l’idea di liberare l’Irlanda dando fuoco ad una sartoria.“
Se Marx ed Engels potevano scrivere in termini così taglienti circa i feniani, si provi ad immaginare cosa avrebbero detto della tattica terrorista dell’Ira negli ultimi 30 anni, al cui confronto “l’atrocità di Clerkenwell” fu solo una marachella. L’effetto più reazionario del terrorismo individuale, che per nulla indebolisce lo Stato borghese ma al contrario sortisce il solo effetto di rafforzarlo, è che crea divisione nella classe operaia e la indebolisce di fronte agli sfruttatori. Ciò fu indubbiamente il punto più debole dei feniani che Engels criticò quando scrisse sprezzantemente che: “per questi nobiluomini l’intero movimento operaio è pura eresia e al popolo irlandese non deve essere concesso di sapere che i lavoratori socialisti sono i suoi soli alleati in Europa.“
Naturalmente Marx ed Engels difendevano i prigionieri feniani contro i maltrattamenti dello Stato inglese. Essi sempre difesero il diritto del popolo irlandese all’autodeterminazione. Ma a differenza dei settari feniani lo fecero sotto una prospettiva socialista e non nazionalista. Da strenui sostenitori dell’internazionalismo proletario e come rivoluzionari Marx ed Engels non si stancarono mai di sottolineare la relazione tra il destino dell’Irlanda e la prospettiva di una rivoluzione proletaria in Inghilterra. Negli anni ’40 e ’50 Marx pensò che l’Irlanda potesse conquistare l’indipendenza solo attraverso la vittoria della classe operaia inglese. Più tardi, negli anni ’60, cambiò idea adottando il punto di vista che fosse più probabile il fatto che una vittoria in Irlanda avrebbe potuto essere la scintilla che accendesse la rivoluzione in Inghilterra. Anche la lettura più distratta degli scritti di Marx circa la questione irlandese evidenzia che la sua difesa dell’indipendenza irlandese dopo il 1860 fu determinata esclusivamente dagli interessi generali del proletariato e della rivoluzione in Inghilterra, paese che Marx considerava essere quello chiave per il successo della rivoluzione mondiale. In un comunicato confidenziale ai membri del Consiglio Generale della Prima Internazionale, scritto nel marzo 1870, Marx illustra il suo punto di vista: “Sebbene l’iniziativa rivoluzionaria giungerà probabilmente dalla Francia, solo l’Inghilterra può assumere il ruolo di traino per la rivoluzione economica. È l’unico paese dove non ci sono più contadini e dove la proprietà della terra è concentrata in così poche mani. È l’unico paese dove il modo capitalistico e la divisione del lavoro su larga scala controllata dai padroni abbracciano oramai l’intera produzione. È l’unico paese dove la grande maggioranza della popolazione consiste di lavoratori salariati. È l’unico paese dove la lotta di classe e l’organizzazione sindacale della classe operaia abbia raggiunto un certo grado di maturità e universalità. É l’unico paese da dove, proprio a causa del dominio del mercato mondiale, qualunque rivoluzione in campo economico può rapidamente propagarsi al mondo intero. Se il latifondismo ed il capitalismo sono esempi classici dell’Inghilterra, d’altro canto le condizioni materiali per la loro distruzione sono più che altrove mature qui.”
Sotto quest’ottica la questione nazionale irlandese era solo una parte del quadro più generale della prospettiva della rivoluzione socialista mondiale. Non è possibile comprendere l’atteggiamento di Marx sull’Irlanda fuori da questo contesto. La ragione per la quale Marx caldeggiò l’indipendenza irlandese dopo il 1860 fu l’esser giunto alla conclusione che gli interessi terrieri inglesi, molto forti in Irlanda, avrebbero potuto più facilmente essere sopraffatti da un movimento rivoluzionario basato nelle campagne irlandesi, dove la richiesta di autodeterminazione era indissolubilmente legata alla soluzione della questione agraria. Nello stesso memorandum Marx spiegò che: “Se l’Inghilterra è il baluardo del latifondismo e del capitalismo europeo, il solo punto dove è possibile colpirla è l’Irlanda.“
“In primo luogo, l’Irlanda è il baluardo del latifondismo inglese: se cade in Irlanda crollerebbe anche in Inghilterra. In Irlanda però ciò è molto più semplice poiché la lotta economica è colà concentrata esclusivamente sulla proprietà della terra, poiché la lotta è allo stesso tempo nazionale e poiché il popolo irlandese è molto più esasperato di quello inglese. Il latifondismo in Irlanda è mantenuto in vita esclusivamente dall’esercito inglese: nel momento in cui venisse meno l’unione forzata tra i due paesi, una rivoluzione sociale infiammerebbe presto l’Irlanda. Il latifondismo inglese non verrebbe solo a perdere una grande risorsa di ricchezza ma anche la propria forza morale derivante dalla dominazione dell’Inghilterra sull’Irlanda. D’altra parte, mantenendo il potere dei suoi proprietari terrieri in Irlanda, il proletariato inglese li rende invulnerabili nell’Inghilterra stessa.“
“In secondo luogo, la borghesia inglese non ha solo sfruttato la povertà irlandese per controllare meglio la classe operaia con l’immigrazione forzata di poveri irlandesi, ma ha pure diviso il proletariato in due fazioni ostili. Il fuoco rivoluzionario dei lavoratori celti non va d’accordo con la natura del lavoratore anglosassone, solido e determinato ma lento. Al contrario, in tutti i grandi centri industriali dell’Inghilterra esiste un profondo antagonismo tra i lavoratori inglesi e quelli irlandesi. Il lavoratore medio inglese odia l’irlandese come un concorrente responsabile dell’abbassamento dei salari e del tenore di vita, oltre a provare antipatie nazionali e religiose. Egli lo vede con gli stessi occhi con cui i bianchi poveri degli stati meridionali del Nord America vedevano gli schiavi neri. Tale antagonismo tra i proletari in Inghilterra è artificialmente fomentato e sostenuto dalla borghesia, la quale sa bene che questa divisione è il vero segreto per mantenere il potere.“
Marx conclude: “La risoluzione del Consiglio Generale sulla amnistia irlandese costituisce solo un’introduzione ad altre risoluzioni che confermeranno come, giustizia internazionale a parte, si tratti di una precondizione per l’emancipazione della classe operaia inglese finalizzata a trasformare l’attuale unione forzata (ossia l’asservimento dell’Irlanda) in una confederazione libera ed equa se possibile o in una completa separazione se necessaria.“
Si noti con che attenzione Marx scelga le sue parole e con quanto scrupolo egli esprima la posizione proletaria sulla questione nazionale. Principalmente la questione irlandese non può essere considerata separatamente dalla prospettiva della rivoluzione socialista mondiale, della quale è parte integrante. Più nello specifico, come punto d’inizio della rivoluzione socialista in Inghilterra. E poi? Marx non considera automatico che la liberazione nazionale irlandese possa concludersi con la separazione dalla Gran Bretagna. Egli afferma l’esistenza di due possibilità: o “libera ed equa confederazione”, considerata chiaramente preferibile (“se possibile”) o “completa separazione”, che Marx considera possibile ma non il miglior esito auspicabile. Quale sia l’alternativa che possa verificarsi dipende, soprattutto, dalla condotta del proletariato inglese e dalla prospettiva di una rivoluzione socialista vittoriosa in Inghilterra.
Da ciò deriva che il punto di vista di Marx che fu sempre quello della rivoluzione proletaria e dell’internazionalismo. Questa considerazione e solo questa fu ciò che determinò il suo approccio ad ogni altra manifestazione della questione nazionale. Secondo Marx ed Engels la “questione operaia” è sempre stata quella fondamentale. Non sarebbe mai potuto accadere loro di ridurre la propaganda sulla questione irlandese ad un semplice slogan come quello di “fuori le truppe!” o comportarsi da consiglieri non pagati dei nazionalisti. Al contrario Marx ed Engels fecero polemica implacabile contro la demagogia dei nazionalisti borghesi e piccolo-borghesi d’Irlanda e in favore dell’unità rivoluzionaria della classe operaia irlandese e inglese.
La storia ha dimostrato la correttezza della valutazione di Marx ed Engels circa la borghesia e piccola borghesia nazionalista irlandese. Nel 1922 la borghesia nazionalista irlandese tradì la lotta di liberazione nazionale accettando la divisione dell’Irlanda in Nord e Sud. I nazionalisti piccolo-borghesi hanno sempre dimostrato la loro inettitudine nel risolvere la “questione del confine”. La tattica del terrorismo individuale, così dettagliatamente criticata da Marx ed Engels, si è dimostrata fallimentare e controproducente. Dopo 30 anni di cosiddetta “lotta armata” in Irlanda del Nord, l’unificazione dell’Irlanda si è ulteriormente allontanata, oggi più che mai. L’unica via per la soluzione della questione nazionale irlandese va cercata in una politica dalle basi di classe, internazionalista, socialista; la politica di Marx, Lenin e del grande rivoluzionario proletario e martire, James Connolly.
Solo la classe operaia può risolvere il problema unendosi attorno a un programma di classe per condurre una lotta implacabile contro la borghesia di Londra e di Dublino. La conditio sine qua non per il successo è l’unità della classe operaia, e questa non potrà mai essere raggiunta su basi nazionaliste. Il nazionalismo piccolo-borghese ha arrecato danni incalcolabili alla causa dell’unità dei lavoratori in Irlanda del Nord. Le ferite possono e devono essere guarite e ciò non può avvenire altrimenti che sulla base di una chiara rottura col nazionalismo e l’adozione di una politica di classe nello spirito e nelle idee di Larkin e Connolly. La questione nazionale in Irlanda sarà risolta da una trasformazione socialista della società o non si risolverà mai.
La Seconda Internazionale
Fondata nel 1889, l’Internazionale Socialista, diversamente dalla Prima Internazionale, era composta da organizzazioni di massa, partiti socialdemocratici e sindacati di massa. La sfortuna della Seconda Internazionale fu di essere nata in un periodo di crescita capitalista prolungata. Nel periodo 1870-1900 la produzione mondiale di greggio crebbe di due volte e mezzo. Le ferrovie si espansero di due volte e mezzo. Germania e Stati Uniti lanciarono la sfida all’egemonia della Gran Bretagna, uno scontro che cominciò a dividere il mondo in sfere di influenza e colonie. Parallelamente la rapida crescita dell’industria significò anche una crescita nei paesi capitalisti sviluppati della classe operaia e delle sue organizzazioni. Nelle ultime tre decadi del XIX secolo negli Stati Uniti e in Russia la classe operaia triplicò. In Gran Bretagna i sindacati crebbero di quattro volte tra il 1876 e il 1900. In Germania gli iscritti ai sindacati crebbero da decine di migliaia a milioni. E parallelamente a questo ci fu una solida crescita nella militanza, nei voti e nell’influenza dei partiti socialdemocratici di massa.
Ma fin dall’inizio, benché in teoria si battesse per il marxismo, alla nuova Internazionale mancò la chiarezza teorica che era garantita dalla presenza di Marx ed Engels. Un chiaro esempio era il suo atteggiamento verso la questione nazionale. La Seconda Internazionale non capì realmente questo tema che ricevette un trattamento insoddisfacente nei congressi. Nel 1896 al congresso londinese dell’Internazionale passò la seguente risoluzione:
“Il congresso si dichiara in favore dell’autonomia piena per tutte nazionalità ed esprime la sua simpatia coi lavoratori di qualsiasi paese che soffrono sotto il giogo militare, nazionale o altri dispotismi e chiama i lavoratori di tutti questi paesi a aderire completamente alla linea della coscienza di classe degli operai di tutto il mondo, organizzati per il rovesciamento del capitalismo internazionale e per la socialdemocrazia internazionale” (Citato in E. H. Carr, La Rivoluzione Bolscevica).
La posizione della Seconda Internazionale sulla questione coloniale era ambigua e vaga. La sinistra tendeva ad una posizione anticolonialista, ma c’erano quelli che giustificavano il colonialismo sulle basi di una sua presunta “missione di civilizzazione.” Così nei dibattiti sulla questione coloniale nel congresso di Amsterdam del 1904, il delegato olandese Van Kol difese apertamente il colonialismo. Presentò una risoluzione che affermava:
“Le nuove necessità che si faranno sentire dopo la vittoria della classe operaia e la sua emancipazione economica faranno del possesso delle colonie una necessità, persino sotto il futuro sistema di governo socialista.” E domandò al congresso: “Possiamo abbandonare metà del globo al capriccio di popoli ancora nella loro infanzia, che non sviluppano la ricchezza enorme del sottosuolo e lasciano incolte le parti più fertili del nostro pianeta?” (La lotta di Lenin per un Partito Rivoluzionario).
Il congresso aveva dato un entusiastico benvenuto a Dadabhai Naoroji, fondatore e presidente del Congresso Nazionale Indiano, ma nella sua risoluzione sull’India, nonostante facesse appello all’autogoverno, specificò che l’India sarebbe dovuta rimanere sotto la sovranità britannica. Non appoggiò, ma neppure respinse le posizioni di Van Kol. Nel dibattito sull’immigrazione, una mozione razzista era stata presentata dall’americano Hillquit e sostenuta dagli austriaci e dagli olandesi. Ma causò una tale tempesta di proteste che dovette essere ritirata. Ma il solo fatto che una tale mozione potesse essere proposta in un congresso Internazionale era un sintomo della pressione borghese e delle idee del nazionalismo sui partiti socialisti.
La rivoluzione russa del 1905 diede un possente impulso alla rivoluzione coloniale, spingendo le masse ad agire in difesa delle loro aspirazioni nazionali in Persia, Turchia, Egitto ed India. Questo servì ad acuire le differenze nelle file dell’Internazionale socialista sulla questione coloniale e nazionale. Al congresso di Stuttgart del 1907, dove Lenin e Rosa Luxemburg presentarono i loro famosi emendamenti sulla guerra, c’era una lotta acuta tra la sinistra (in realtà centrista), rappresentata da Lebedour, e la destra, guidata dal revisionista Eduard Bernstein, sulla questione coloniale. I delegati olandesi, tipici imperialisti piccolo borghesi, erano nuovamente i difensori più chiari del colonialismo. La sinistra che si opponeva era una minoranza. Nel corso di un dibattito rovente, Bernstein fece le seguenti osservazioni:
“Dobbiamo allontanarci dalla nozione utopistica del semplice abbandono delle colonie. Le conseguenze ultime di un tale punto di vista sono di ridare gli Stati Uniti agli indiani (scompiglio in sala). Le colonie sono là; dobbiamo partire da quello. Anche i socialisti dovrebbero riconoscere il bisogno per i popoli civilizzati di agire in qualche modo come i guardiani di quelli incivili” (Ibid.).
Confutando gli argomenti del ruolo “civilizzatore” del colonialismo, il delegato polacco Karski (Julian Marchlewski) rispose: “David ha asserito il diritto di una nazione ad esercitare la tutela sopra un’altra. Ma noi polacchi conosciamo il vero significato di questa tutela, sia lo zar russo che il governo prussiano hanno agito come i nostri guardiani (voci: “Molto bene!”). David cita Marx sostenendo il suo punto di vista che ogni nazione deve attraversare il capitalismo, ma su questo si sbaglia. Quello che Marx diceva era che i paesi che avevano già cominciato lo sviluppo capitalista dovevano continuare il processo fino al completamento. Ma non aveva mai affermato che questo era un prerequisito assoluto indispensabile per tutte le nazioni…“
“Noi socialisti capiamo che ci sono altre civiltà oltre a quella dell’Europa capitalista. Non abbiamo assolutamente motivo di essere così presuntuosi della nostra cosiddetta civiltà, né possiamo imporla sui popoli asiatici con le loro civiltà antiche. (voci: “bravo!”) David pensa che le colonie affonderebbero nella barbarie se lasciate a sé stesse. Quello sembra difficilmente il caso dell’India. Piuttosto prefiguro il fatto che, una volta indipendente, l’India continuerebbe a trarre profitto dall’influenza della civiltà europea nel suo futuro sviluppo ed essa crescerebbe così nel suo più pieno potenziale” (Ibid.).
Alla fine la decisione sull’India non venne messa al voto.
Benché i dirigenti dell’Internazionale cercassero di nascondere le fenditure con tutti i generi di accordi diplomatici, il risultato finale di ciò fu la catastrofe dell’agosto 1914, quando ogni singolo partito della Seconda Internazionale con l’eccezione di russi e serbi – tradì i principi di internazionalismo e sostenne la guerra imperialista. L’assenza di una vera politica rivoluzionaria internazionalista fu interamente esposta nell’estate del 1914 quando la Seconda Internazionale cadde sulla linea del socialsciovinismo.
Autonomia nazional-culturale
Una variante particolare della questione nazionale nella Seconda Internazionale fu avanzata dai socialdemocratici austriaci prima della Prima guerra mondiale. Essi difesero la teoria della cosiddetta autonomia nazional-culturale. La stessa posizione fu adottata in Russia dal Bund ebraico. Alla conferenza socialdemocratica di Brno (1899) l’idea di autonomia nazionale culturale difesa dagli slavi meridionali venne scartata. Invece, la Conferenza adottò lo slogan di autonomia territoriale, che sebbene insufficiente, era certamente migliore. Più tardi, sotto l’influenza del teorico centrista Otto Bauer e del suo compagno Karl Renner (che scriveva sotto lo pseudonimo di Rudolf Springer), il partito cambiò la sua posizione e adottò la linea dell’autonomia nazionale culturale.
Rifiutando il collegamento tra nazione e territorio, Bauer definì una nazione come “una relativa comunità di carattere.” (Otto Bauer, Die Nationalfrage and die Sozialdemokratie) Ma cos’è il carattere nazionale? Bauer lo definisce come “la somma di caratteristiche che distinguono il popolo di una nazionalità dal popolo di un’altra nazionalità – caratteristiche complesse e spirituali che distinguono una nazione da un’altra” (Ibid.). È fin troppo chiaro come questa definizione non sia altro che una pura tautologia: il carattere nazionale è quello che distingue dall’altra! E cosa rende una nazione diversa da un’altra? “Il carattere di un popolo è determinato da nient’altro che il loro destino. Una nazione non è altro che una comunità di destini [determinata] dalle condizioni sotto le quali la gente produce i propri mezzi di sussistenza e distribuisce i prodotti del proprio lavoro” (Ibid.).
Così, secondo Bauer, la nazione è “l’insieme di persone legate in una comunanza di carattere da una comunità di destini.” (Ibid.) Renner l’ha definita come segue: “Una nazione è un’unione di persone pensanti simili con una parlata simile, [è] una comunità culturale di gente moderna non più legata al suolo.” (R. Springer, Das Nationale Problema) Questo approccio alla questione nazionale non era scientifico, ma soggettivo e “psicologico” per non dire mistico. Era un tentativo senza successo ed opportunista per cercare una soluzione alla questione nazionale nell’impero Austro-ungarico facendo concessioni al nazionalismo borghese. Il marxismo, al contrario, si accosta alla questione nazionale da un punto di vista storico-economico.
Mentre i bolscevichi, cercavano una soluzione al problema nazionale attraverso il rovesciamento rivoluzionario dello zarismo, i socialdemocratici austriaci avvicinavano la questione nello spirito di riforme piccole e graduali. Bauer scrisse: “Noi perciò per prima cosa presumiamo che le nazioni austriache rimarranno nella stessa unione politica nella quale esistono insieme nello stesso tempo, e chiediamo come le nazioni in questa unione aggiusteranno le relazioni fra loro, e fra loro e lo Stato” (Citato in Stalin, La questione nazionale e il marxismo).
Una volta rotto il collegamento tra nazione e territorio, venne proposta l’idea di raggruppare i componenti di diverse nazionalità che vivevano in aree diverse in una unione nazionale interclassista. I membri di gruppi nazionali diversi avrebbero partecipato insieme alle conferenze e avrebbero votato per decidere a che nazionalità appartenere. Tedeschi, cechi, ungheresi, polacchi, ecc.., avrebbero votato per il loro Consiglio – un “parlamento culturale della nazione” come lo definiva Bauer. Con tali mezzi i socialdemocratici austriaci cercarono di evitare lo scontro aperto con lo Stato asburgico riducendo la questione nazionale a un affare puramente culturale-linguistico. Bauer arrivava ad affermare che l’autonomia locale per le nazionalità sarebbe stato un passo in avanti verso il socialismo che “divide l’umanità in comunità nazionali delimitate” e “presenta un quadro eterogeneo di unioni nazionali di persone e corporazioni.”
Questa filosofia è in completo contrasto col punto di vista di classe e con i principi internazionalisti del marxismo. Rappresenta il nazionalismo piccolo borghese travestito con una fraseologia “socialista”. Per questa ragione Lenin era aspro contro di essa. Era particolarmente ostile all’idea di scuole separate per nazionalità diverse. Su questo Lenin scrisse: “L’autonomia nazional-culturale implica precisamente il più raffinato, e perciò, il più dannoso, nazionalismo, implica la corruzione dei lavoratori con lo slogan della cultura nazionale e la propaganda profondamente dannosa e perfino antidemocratica della divisione delle scuole per nazionalità.
In breve, questo programma indubbiamente contraddice l’internazionalismo del proletariato ed è concorde solo con gli ideali del nazionalismo piccolo borghese” (Lenin, Il Programma Nazionale del Posdr, 15 dicembre 1913).
Il posto dove l’effetto dannoso di questa teoria piccolo-borghese fu più evidente è nel campo dell’istruzione. Così, Lenin si oppose a ogni condizione sociale privilegiata per lingua, ma, in contrasto con Otto Bauer ed i fautori dell’”autonomia nazionale-culturale” si oppose veementemente ad installare scuole separate per i bambini di nazionalità diverse: “L’esecuzione pratica del piano per l’extraterritorialità’ (fuori dal territorio sul quale vive una data nazione e distinto da essa), o autonomia ‘nazional-culturale’, significherebbe solo una cosa: il frazionamento dell’istruzione secondo nazionalità, cioè, l’introduzione di curie nazionali per la scuola. E’ sufficiente immaginare chiaramente la vera sostanza del tanto celebrato progetto del Bund per capire il suo carattere profondamente reazionario, perfino dal punto di vista della democrazia, per non parlare della lotta classe del proletario per il socialismo” (Lenin, Commenti Critici sulla Questione Nazionale, ottobre-dicembre, 1913).
Qui vediamo la differenza fondamentale tra leninismo e nazionalismo piccolo borghese. I marxisti lottano contro ogni modello di oppressione nazionale, inclusa quella linguistica. Non è permissibile che un uomo o donna sia privata del diritto di parlare la propria lingua, di insegnarla, usarla in un tribunale o in qualunque altra funzione ufficiale. In genere, non c’è nessuna particolare ragione per l’esistenza di una lingua “ufficiale”, o per speciali diritti dati ad una lingua rispetto ad un’altra. Ma separare i bambini su base nazionale, linguistica o religiosa, è reazionario e retrogrado. La segregazione nelle scuole ha giocato un ruolo reazionario in Sud Africa e negli Stati Uniti. La separazione di bambini cattolici e protestanti in Irlanda del nord, nelle cosiddette scuole religiose, non gioca un ruolo meno pernicioso. La religione non ha nessuno posto nel sistema educativo e deve esserne radicalmente separata. Se le chiese desiderano insegnare le loro dottrine, devono farlo nel proprio tempo e con fondi propri, raccolti nelle loro congregazioni, non dallo Stato. E mentre le scuole devono soddisfare le necessità dei diversi gruppi, e i fondi devono essere trovati appositamente per questo, è completamente inaccettabile separare i bambini su linee nazionali-linguistiche creando così la base per i pregiudizi e i successivi conflitti.
L’ostilità della popolazione fiamminga in Belgio verso il francese è il prodotto di generazioni di discriminazione della lingua fiamminga e l’imposizione forzata del francese. La questione può comunque presentarsi con molti aspetti anche contraddittori. In Sudafrica l’insegnamento di lingue native nelle scuole (invece dell’inglese) era una misura di oppressione nazionale. Allo stesso modo i rappresentanti delle nazionalità non russe lottarono essi stessi affinché si insegnasse il russo ai loro bambini. Per esempio in Armenia nelle scuole della chiesa, ai bambini veniva insegnato il russo, benché non fosse obbligatorio. Quello a cui i bolscevichi si opponevano era la discriminazione contro qualsiasi lingua, l’assimilazione e l’imposizione forzata di una lingua e una cultura dominante.
Ma non c’è nessuna ragione perché una qualsiasi lingua debba avere un monopolio. In Svizzera non ci sono due, ma tre lingue ufficiali. Ora con la tecnologia moderna, non c’è nessuna ragione perché la gente non possa ricevere un’istruzione e comunicare in parlamento o in un tribunale nella lingua che vogliono. Ma quello che non è accettabile è l’introduzione del veleno nazionalista o religioso nelle scuole:
“I marxisti, egregi nazionalisti-socialisti, hanno un programma generale per la scuola che chiede, per esempio, scuole completamente laiche. Dal punto di vista dei marxisti, lasciare questo programma generale non è mai lecito in qualsiasi stato democratico (e la domanda di introdurre una qualsiasi materia locale, lingua locale, e così via, deve dipendere da una decisione degli abitanti). Dal principio che l’istruzione dovrebbe essere sottratta allo Stato e trasferita alle nazioni, ne consegue comunque che i lavoratori dovrebbero permettere alle nazioni del nostro Stato democratico di spendere i soldi del popolo in scuole ecclesiastiche! Senza essere consapevole di ciò, il Sig. Liebmann ha esposto chiaramente la natura reazionaria dell’autonomia ‘cultural-nazionale!‘” (Lenin, Commenti Critici sulla Questione Nazionale, ottobre-dicembre 1913).
Su questo come su ogni altro aspetto della questione nazionale, mentre i marxisti combattono risolutamente senza eccezioni tutte le manifestazioni di oppressione e discriminazione, mantengono una posizione di classe. Così, in Belgio, dove i nazionalismi fiammingo e vallone hanno cercato – sfortunatamente con qualche successo – di dividere la società belga ed il movimento operaio su linee nazionali usando la questione della lingua, i marxisti belgi hanno elaborato domande di transizione sulla questione della lingua. Dove, per esempio, un lavoratore è stato costretto dai datori di lavoro ad imparare il fiammingo o il francese, hanno richiesto che gli fosse dato stipendio pieno per il tempo perso e che i corsi fossero pagati dall’azienda, sotto il controllo delle organizzazioni dei lavoratori, ed inoltre, che gli fosse conferito un pagamento addizionale per l’acquisizione di nuove capacità.
Da tutto questo è chiaro perché Lenin insisteva sempre sul bisogno di avvicinare la questione nazionale da un punto di vista strettamente di classe. “Lo slogan della democrazia operaia” ha scritto Lenin, “non è la cultura nazionale, ma la cultura internazionale della democrazia e del movimento operaio mondiale” (Lenin, Commenti critici sulla questione nazionale, ottobre-dicembre 1913).
E ancora: “Il programma nazionale della democrazia operaia è: assolutamente nessun privilegio per qualsiasi nazione o per qualsiasi lingua; la soluzione della domanda dell’autodeterminazione politica di nazioni, per esempio, cioè della loro secessione statale, in un modo assolutamente libero e democratico; far passare una legge che copra tutto il paese e che proclami illegale e nulla ogni misura che in qualsiasi modo garantisca privilegi ad una qualsiasi nazione, che violi l’uguaglianza delle nazioni o il diritto di una minoranza nazionale, ed in virtù della quale ogni cittadino dello Stato avrà il diritto di richiedere l’abrogazione di tali misure come incostituzionali e la prosecuzione di coloro che le portano avanti.” (Ibid.)
La natura divisoria dell’”autonomia culturale-nazionale” venne mostrata chiaramente dai suoi effetti dannosi sull’unità dei lavoratori nella stessa Austria. Dopo il Congresso di Wimberg, il partito socialdemocratico austriaco cominciò a dividersi in partiti nazionali. Invece di un partito dei lavoratori unito nel quale tutte le nazionalità erano presenti, si formarono sei partiti separati – tedesco, ceco, polacco, ruteno, italiano e jugoslavo. Questo incoraggiò l’espansione del sentimento sciovinista e degli antagonismi nazionali nel movimento dei lavoratori, con risultati negativi: il partito ceco non voleva avere nulla a che fare con quello tedesco, e così via.
Come sempre succede, le cosiddette politiche pratiche del riformismo raggiunsero risultati opposti a quelli che volevano. Il programma di autonomia nazionale-culturale era stato inteso come mezzo per prevenire lo scioglimento dell’impero Austro-ungarico, ma ebbe precisamente l’effetto opposto. Il rovesciamento degli Asburgo avrebbe potuto condurre ad una rivoluzione proletaria, come successe nella rivoluzione russa del febbraio. Ma il fallimento della classe operaia nel prendere il potere condusse direttamente alla disintegrazione dell’Austria-Ungheria su linee nazionali, mentre la politica di Lenin del diritto delle nazioni all’autodeterminazione ebbe l’effetto di unire i lavoratori e i contadini della maggior parte delle nazioni oppresse, creando così le condizioni per una federazione dei soviet. Questa, non il separatismo, era la posizione dei bolscevichi, che trovò una conferma brillante dopo il 1917.
Parte III – Cenni sulla questione nazionale
“Mentre in Stati nazionalmente omogenei le rivoluzioni borghesi hanno sviluppato potenti tendenze centripete, incoraggiando l’idea di vincere i particolarismi, come in Francia, o vincere la divisione nazionale, come in Italia e Germania – in Stati nazionalmente eterogenei al contrario, come Turchia, Russia, ed Austria-Ungheria, la rivoluzione borghese in ritardo ha rilasciato forze centrifughe.” (L. Trotskij, Storia della Rivoluzione russa)
La Russia prerivoluzionaria era un paese estremamente arretrato, semi-feudale, molto dipendente dall’imperialismo straniero. Era simile a molti paesi del Terzo Mondo di oggi. Inoltre, il problema delle nazionalità ha occupato un posto centrale nella vita politica russa. Benché alla Russia zarista piacesse travestire la sua politica espansionista dandosi un’immagine di protettrice delle piccole nazioni oppresse dei Balcani, era una prigione delle nazionalità. Il 43% della popolazione della Russia zarista era della nazionalità dominante grande russa, mentre il 57% era composto da ucraini, georgiani, polacchi, finlandesi e altre nazionalità oppresse.
Settanta milioni di grandi russi dominavano novanta milioni di non russi, e tutti erano dominati e oppressi dalla casta burocratica dello Stato zarista. A peggiorare le cose, il livello economico e culturale delle popolazioni soggiogate era generalmente più alto di quello in Russia, almeno nei territori occidentali. Mentre sì può discutere se l’espansione Russa verso est, nel Caucaso e particolarmente in Asia Centrale abbia giocato un certo ruolo progressivo, questo non era certamente il caso di Polonia Finlandia e degli stati Baltici. Come il vecchio Engels commentava: “La Finlandia è finlandese e svedese, bessarabica, rumena, il regno di Polonia è polacco. Qui non si pone la questione di un’unione di razze disperse e affini che portano tutte il nome di russi; qui non vediamo altro che la conquista con la forza e a viso scoperto di territorio straniero, null’altro che un semplice furto” (Marx-Engels, Opere complete).
Il partito bolscevico aveva fin dall’inizio una posizione scrupolosa sulla questione nazionale. Questo era essenziale per conquistare le masse, particolarmente i contadini. La questione nazionale normalmente non è così sentita nella classe operaia, a differenza della massa della piccola borghesia, specialmente il contadino. Storicamente la questione nazionale e la questione agraria sono legate strettamente. Qualche volta, perfino marxisti piuttosto colti non afferrano questa questione. Per conquistare l’ascolto delle masse piccolo borghesi e avvicinarle alla causa della rivoluzione, l’uso della democrazia e di altre richieste parziali, come la domanda per il diritto di autodeterminazione, era assolutamente necessario. Ma l’uso di tali slogan ha senso solo come parte della lotta del proletariato e del suo partito per ottenere la direzione delle masse in una lotta diretta contro la borghesia, i partiti e le tendenze piccolo borghesi. La condizione prioritaria per il successo dell’ala rivoluzionaria è perciò una lotta implacabile contro il nazionalismo borghese e piccolo borghese. E per condurre una tale lotta, è necessaria. una posizione chiara sulla questione nazionale
Come Lenin, anche Trotskij ha scritto parecchio sulla questione nazionale. Di particolare interesse è il meraviglioso capitolo sulla questione nazionale nella Storia della Rivoluzione russa che, meglio di ogni altro, riassume la posizione del partito bolscevico sulla questione. Ma fu soprattutto Lenin a sviluppare ed estendere la posizione marxista sulla questione nazionale. Riassumendo la posizione bolscevica, Trotskij scrisse: “Lenin imparò presto l’inevitabilità di questo sviluppo di movimenti centrifughi nazionali in Russia, e per molti anni lottò – in particolare contro Rosa Luxemburg – per quel famoso paragrafo 9 del vecchio programma del partito che formulava il diritto delle nazioni all’autodeterminazione – vale a dire il diritto di completa separazione come Stati. Con ciò il partito bolscevico non si impegnava a difendere un vangelo secessionista. Assumeva semplicemente come obbligo il lottare implacabilmente contro ogni forma di oppressione nazionale, incluso il mantenimento forzato di questa o quella nazionalità nei confini dello Stato.
Solo così il proletariato russo poté gradualmente ottenere la fiducia delle nazionalità oppresse.“
“Ma questo era solo un lato della questione. La politica dei bolscevichi nella sfera nazionale aveva anche un altro aspetto, apparentemente contraddittorio con il primo ma in realtà complementare. Nella struttura del partito, e delle organizzazioni dei lavoratori in generale, il bolscevismo ha insistito su un centralismo rigido, implacabilmente in guerra contro ogni nazionalismo che potesse mettere i lavoratori l’uno contro l’altro o dividerli. Mentre rifiutava apertamente agli Stati borghesi il diritto di imporre la cittadinanza obbligatoria, o perfino una lingua di Stato, su una minoranza nazionale, il bolscevismo allo stesso tempo si fece un obbligo di unire il più strettamente possibile, con i mezzi della disciplina volontaria di classe, i lavoratori di nazionalità diverse. Così ha apertamente respinto il principio della federazione nazionale nella costruzione del partito. Una organizzazione rivoluzionaria non è il prototipo dello stato futuro, ma soltanto lo strumento per la sua creazione. Uno strumento dovrebbe essere adattato a foggiare il prodotto; non dovrebbe includere il prodotto. Così una organizzazione centralizzata può garantire il successo di una lotta rivoluzionaria, perfino quando il compito è di distruggere l’oppressione centralizzata delle nazionalità” (Trotskij, Storia della Rivoluzione russa).
Cosa è una nazione?
Nel periodo precedente la Prima guerra mondiale Lenin dedicò molto tempo alla questione nazionale, ed in particolare a rispondere alle teorie revisioniste di Otto Bauer. Nel periodo 1908-10, Lenin era in esilio e quasi completamente isolato. Data la mancanza di contatti con Russia e la scarsezza di collaboratori, salutò l’arrivo di Stalin, un’abitante della Georgia giovane quasi sconosciuto a lui, con entusiasmo. Come al solito, Lenin spese molto tempo ad incoraggiare il nuovo venuto, come sempre faceva con giovani compagni. Come ulteriore lato positivo, Stalin era un’abitante della Georgia, che è una nazionalità oppressa. Lenin afferrò l’opportunità per fare conferenze al suo alunno – che aveva verificato essere estremamente diligente – sulle linee fondamentali della sua politica sulla questione nazionale.
Il risultato fu un lungo articolo che apparve al termine del 1912 nelle pagine del periodico Prosveshcheniye (Illuminismo), sotto il titolo La questione nazionale e il marxismo.
Nel 1914 l’articolo apparve nella forma di un opuscolo intitolato La questione nazionale e il marxismo. Fu pubblicato nel secondo volume delle opere di Stalin. Per anni è stato concepito come lo standard del lavoro del partito sulla questione nazionale, e nei fatti, a dispetto di una presentazione piuttosto formale, non è un cattivo articolo. Questo, comunque, non era un risultato del genio teorico di Stalin.
Infatti questo articolo non era tutto opera di Stalin. Come segnalò E. H. Carr: “L’evidenza esterna ed interna mostra che venne scritto sotto l’ispirazione di Lenin” (E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica). Le idee esposte in questo articolo sono interamente quelle di Lenin.
L’introduzione a questo articolo, scritto nel periodo dell’agitazione antisemita attorno al famoso caso Beyliss, avverte che “l’ondata di nazionalismo si è spinta in avanti con forza accresciuta e minaccia di sommergere le masse operaie.” E aggiunge: “Questi tempi cruciali hanno posto un’importante missione al partito socialdemocratico – resistere al nazionalismo e proteggere le masse dall’‘epidemia’ generale. Perché solo i socialdemocratici, e solo loro, possono fare ciò, opponendo al nazionalismo l’arma dell’internazionalismo, l’unità e l’indivisibilità della lotta di classe” (J. V. Stalin, Il Marxismo sulla questione nazionale e coloniale).
Il problema centrale era come può essere definita una nazione. Questa domanda non è tanto facile quanto potrebbe apparire. Sarebbe come definire il tempo. Sant’Agostino disse di sapere che cosa fosse il tempo, ma se qualcuno gli chiedeva di definirlo, era incapace di farlo. Lo stesso è con una nazione. Ognuno pensa di sapere cos’è, ma se gli viene domandato di darne una definizione, si troverebbero presto in difficoltà. L’opuscolo pubblicato con la firma di Stalin tenta di fornire un tale definizione. Il risultato è probabilmente quanto si può ottenere di più vicino ad una formulazione soddisfacente. Contro la definizione soggettiva di Bauer, una nazione è qui definita nel senso scientifico marxista: “Una nazione è un’entità stabile di linguaggio, territorio, vita economica, formazione psicologica, che si è storicamente evoluta e si manifesta in una cultura comune” (Ibid.).
Così, una nazione deve avere una lingua e un territorio comuni, una storia e una cultura condivise, ed è anche unita da potenti legami economici. Questo per quanto riguarda la definizione generale, che è indubbiamente corretta ed in ogni caso molto superiore all’approccio “psicologico” di Otto Bauer e dei sostenitori dell’”autonomia nazionale-culturale.” Ciononostante, come con tutte le definizioni generali, questo non significa esaurire la questione. Nella vita reale si trovano sempre varianti concrete che possono contraddire la definizione in uno o più dettagli. La domanda di cosa è una nazione è notoriamente sdrucciolevole e ha condotto più di una volta a conseguenze dolorose.
Prendiamo ad esempio la lingua. L’importanza della lingua per una nazione è chiara. Sembra essere la più evidente distinzione del marchio di nazionalità. Nella sua Storia della Rivoluzione russa, Trotskij esprime così l’importanza della lingua: “La lingua, è lo strumento più importante di comunicazione umana, e di conseguenza dell’industria. Diviene nazionale insieme col trionfo dello scambio di merci che integra le nazioni. Su queste fondamenta lo Stato nazionale è eretto come l’arena più conveniente, proficua e normale per il gioco delle relazioni capitaliste” (Trotskij, Storia della rivoluzione russa).
E tuttavia ci possono essere eccezioni perfino a questa regola molto importante. Pochi, per esempio, negherebbero che la Svizzera è una nazione. L’identità nazionale svizzera si è forgiata durante secoli di lotta per ottenere un’identità nazionale unica, principalmente contro l’Austria. Ma la svizzera non ha una lingua comune, come sottolinea lo stesso Lenin:
“In Svizzera ci sono tre lingue statali, ma le leggi che sono sottoposte a referendum vengono stampate in cinque lingue, vale a dire, in due dialetti Romanici in aggiunta alle tre lingue statali. Secondo il censimento del 1900 questi due dialetti sono parlati da 38.651 dei 3.315.443 abitanti di Svizzera, cioè da un poco al di sopra dell’1%. Nell’esercito ufficiali e sottufficiali permettono la più larga libertà ai loro uomini di parlare nel loro linguaggio nativo. Nei cantoni di Graubünden e Wallis (ciascuno con una popolazione poco sopra i centomila) entrambi i dialetti godono di un’uguaglianza completa.“
(Lenin, Commenti critici sulla questione nazionale, ottobre-dicembre 1913)
La chiave per comprendere la questione sta nella proposizione iniziale che una nazione è una entità “storicamente evoluta”. La dialettica non procede da definizioni astratte e formali, ma da una valutazione concreta di processi viventi, di come le cose si sviluppano, cambiano ed evolvono. Una nazione non è qualcosa di fisso e statico. Può cambiare ed evolvere. Nazioni possono essere create dove niente esisteva prima. Questo è precisamente il modo in cui la nazione moderna è venuta in essere. Questo fu il caso di Francia, Italia e Germania. Più tardi, la consapevolezza nazionale indiana è stata creata – inavvertitamente, naturalmente – dall’imperialismo britannico. Ora, col decadimento del capitalismo e l’incapacità della borghesia indiana di offrire una via di uscita, c’è un chiaro segno dell’indebolimento e della frammentazione di questa consapevolezza nazionale che pone pericoli immensi per il futuro dell’India.
Storicamente, le nazioni possono formarsi a partire dalla materia prima disponibile, attraverso guerre, invasioni e rivoluzioni che dissolvono i vecchi legami e frontiere e ne creano dei nuovi. Questo storico rimescolamento può trasformare le cose nel loro opposto. Quello che era ieri una nazione oppressa o una colonia asservita può trasformarsi nello stato più mostruosamente oppressivo e imperialista. Il miglior esempio sono gli Stati Uniti stessi, che erano originariamente una colonia della Gran Bretagna e sono ora il più possente e il più reazionario Stato imperialista del mondo. Similmente, Stati borghesi, che si sono solo recentemente liberati dalla dominazione straniera, rimangono in una posizione di fronte alle grandi potenze imperialiste su scala mondiale, e ciononostante giocano il ruolo di potenza imperialista locale che opprime e sfrutta paesi più deboli vicini a loro. Così, l’India gioca il ruolo dell’imperialista in relazione al Nepal, all’Assam e al Kashmir. La Russia zarista prima del 1917 era una delle principali potenze imperialiste, sebbene non esportasse capitale e fosse un paese arretrato, semi-feudale che era in relazioni semicoloniali con Gran Bretagna, Francia e con gli altri paesi capitalisti sviluppati.
Una questione di classe
La questione nazionale, come tutte le altre questioni sociali, è in fondo un problema di classe. Questo era il punto di vista di Lenin, e il punto di vista di qualsiasi marxista genuino. Nel suo lavoro Commenti critici sulla questione nazionale, Lenin spiega questa tesi elementare del Marxismo con chiarezza ammirevole:
“Ogni cultura nazionale, anche se non sviluppata, contiene elementi di cultura democratica e socialista, poiché in ogni nazione ci sono masse produttrici sfruttate, le cui condizioni di vita inevitabilmente danno origine all’ideologia democratica e socialista. Ma ogni nazione ha anche una cultura borghese (e la maggior parte delle nazioni hanno anche una cultura ecclesiastica e da Cento Neri) che prende la forma, non soltanto di “elementi” ma di cultura dominante. Perciò, in generale, la “cultura” nazionale è la cultura dei proprietari terrieri, del clero e della borghesia.“
È l’Abc per un marxista che le idee dominanti di ogni nazione sono le idee della classe dominante. Lenin insiste sul fatto che l’accettazione di un “cultura nazionale” è né più né meno che l’accettazione della dominazione della borghesia di ogni nazione. La questione nazionale è una questione di classe. I marxisti non devono oscurare le contraddizioni della classe, ma al contrario, portarle allo scoperto. Questo non è meno obbligatorio nel caso di una nazionalità oppressa che di una nazione che opprime. Come spiega Lenin nei Commenti critici sulla questione nazionale, “nei consigli d’amministrazione delle società per azioni, i capitalisti di differenti nazioni siedono l’uno a fianco dell’altro, completamente frammischiati. Nelle fabbriche, operai di diverse nazionalità lavorano fianco a fianco. Su tutte le questioni politiche serie e profonde, gli schieramenti avvengono su linee di classe, e non di nazionalità” (Ibid.).
In un’altra opera scrive: “Gli interessi della classe operaia e la sua lotta contro il capitalismo richiedono la completa solidarietà e l’unità più stretta dei lavoratori di tutte le nazioni; richiedono l’opposizione alla politica nazionalista della borghesia di ogni nazionalità.”
E ancora: “Non c’è differenza per i salariati ad essere sfruttati principalmente dalla borghesia grande russa, o da quella polacca, o da quella ebrea, ecc. Il lavoratore salariato che è giunto a comprendere i propri interessi di classe è indifferente tanto ai privilegi statali dei capitalisti grandi russi, quanto alle promesse dei capitalisti polacchi o ucraini di costruire un paradiso in terra quando ottengano quegli stessi privilegi…“
“In qualsiasi caso, il lavoratore salariato sarà oggetto di sfruttamento. Qualsiasi lotta contro lo sfruttamento, per essere vittoriosa richiede che il proletariato sia libero dal nazionalismo, e che sia per così dire assolutamente neutrale nella lotta per la supremazia che intercorre fra le borghesie delle varie nazioni. Se il proletariato di qualsiasi nazione dà il minimo appoggio ai privilegi della “sua” borghesia nazionale, inevitabilmente susciterà sfiducia nel proletariato delle altre nazioni; indebolirà la solidarietà di classe internazionale dei lavoratori e li dividerà, per la gioia della borghesia. E il rifiuto del diritto di autodeterminazione, o di secessione, inevitabilmente significa, nella pratica, l’appoggio alla nazione dominante.” (Il diritto delle nazioni all’autodecisione).
Il punto principale nelle argomentazioni di Lenin era sempre la necessità di unire i lavoratori e le masse oppresse contro la borghesia: “La cultura nazionale della borghesia è un fatto (e, ripeto, la borghesia si accorda dovunque con i proprietari terrieri e con il clero). Il nazionalismo borghese aggressivo, che offusca, inganna e divide i lavoratori in modo che la borghesia li possa condurre per la cavezza: questo è il fatto fondamentale di oggi.”
“Chiunque voglia servire il proletariato deve unire i lavoratori di tutte le nazioni e combattere fermamente il nazionalismo borghese, tanto quello ‘di casa’ che quello straniero.” (Commenti critici sulla questione nazionale).
Su questa questione Lenin fu sempre implacabile. Dai suoi articoli e discorsi si potrebbero riportare decine di citazioni simili.
Indipendenza di classe
Le rivendicazioni nazionali hanno un carattere democratico, non socialista. L’oppressione nazionale non colpisce solo la classe operaia, anche i lavoratori ne portano il peso maggiore. La questione nazionale tocca l’intero popolo e l’insieme delle masse, e in particolare la piccola borghesia. Nonostante ciò, come abbiamo mostrato, Lenin si accostava ad essa da un punto di vista di classe, e noi lo facciamo esattamente nello stesso modo.
Colpisce nel leggere gli scritti di Lenin la profondità e la chiarezza con le quali si esprimeva sulla questione nazionale. Naturalmente, questa aveva una lunga storia nel movimento operaio russo, a partire dai dibattiti con il Bund ebraico al secondo congresso del Partito operaio socialdemocratico russo nel 1903. Come trattava Lenin la questione nazionale? In realtà, egli teneva una posizione negativa su questa questione. Lenin spiegò centinaia di volte che i bolscevichi russi erano contro qualsiasi forma di oppressione nazionale. Non si tratta di cosa si sostiene, ma a cosa ci si oppone. È sufficiente dire a cosa ci opponiamo: ci opponiamo a qualsiasi forma di oppressione nazionale, linguistica o razziale, e combatteremo contro di esse, e tanto basta per quello che riguarda una tendenza proletaria che voglia restare su una posizione democratica coerente e mantenere al tempo stesso la sua indipendenza di classe.
Lenin non disse mai che i marxisti devono appoggiare la borghesia nazionale, o la piccola borghesia nazionalista. Al contrario, la premessa fondamentale della posizione di Lenin sulla questione nazionale era una assoluta indipendenza di classe. Il primo principio del leninismo è sempre stata la necessità di combattere la borghesia, sia nella nazione oppressa che in quella dominante. In tutti gli scritti di Lenin sulla questione nazionale c’è una critica implacabile non solo della borghesia nazionalista, ma anche della piccola borghesia nazionalista, e non a caso. L’idea di Lenin è che la classe lavoratrice si deve porre essa stessa a capo della nazione per guidare le masse alla trasformazione rivoluzionaria della società. Così, nei Commenti critici sulla questione nazionale scrive:
“Il risveglio delle masse dal loro torpore feudale, la lotta contro tutte le oppressioni nazionali, per la sovranità del popolo e per la sovranità delle nazioni, è progressiva. Quindi, è un dovere vincolante per un marxista mantenere la più risoluta e coerente democrazia su tutti i punti della questione nazionale. Si tratta di un compito prevalentemente negativo. Ma il proletariato non può andare oltre questo e appoggiare il nazionalismo, perché oltre a questo punto comincia l’attività ‘positiva’ della borghesia che si sforza di rafforzare il nazionalismo” (il sottolineato è nostro).
Poco oltre, per ulteriore chiarezza, aggiunge: “Lottare contro tutte le oppressioni nazionali – sì, certamente. Lottare i qualsiasi tipo di sviluppo nazionale, per la “cultura nazionale” in generale – certamente no” (ibid.)
E ancora, nel Diritto delle nazioni all’autodecisione, Lenin scriveva: “Ecco perché il proletariato si limita a, per così dire, alla richiesta negativa del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, senza offrire garanzie ad alcuna nazione, e senza impegnarsi a concedere nulla a danno di altre nazioni.“
In un’altra opera, Lenin scrive sull’influenza dannosa del nazionalismo nel movimento operaio: “La conclusione è che ogni nazionalismo liberal-borghese causa la più grande corruzione fra gli operai e infligge un immenso danno alla causa della libertà e della lotta di classe proletaria. È tanto più dannosa in quanto la tendenza borghese (e feudale-borghese) si nasconde sotto lo slogan della “cultura nazionale”. In nome della cultura nazionale – grande russa, polacca, ebraica, ucraina, e altre – i reazionari centoneri, i clericali, e anche la borghesia di tutte le nazioni, fanno il loro sporco lavoro.
“Questi sono i fatti dell’odierna vita nazionale, se la esaminiamo dal punto di vista della lotta di classe e non dal punto di vista di insipidi ‘principi generali’, declamazioni e frasi.” (Commenti critici sulla questione nazionale).
Non è forse chiaro? I lavoratori hanno l’obbligo di opporsi a tutte le forme di discriminazione nazionale e di oppressione. Ma hanno anche l’obbligo di rifiutare l’appoggio a qualsiasi forma di nazionalismo. Che contrasto con quei cosiddetti marxisti che non perdono occasione per applaudire l’Ira, l’Eta o l’Uck nella convinzione errata di perseguire una politica leninista! Sfumare la linea divisoria fra il marxismo e il nazionalismo è una violazione di tutto quello per cui Lenin ha lottato.
Per combattere le illusioni perniciose smerciate dai nazionalisti, Lenin avvertiva che “il proletariato non può appoggiare qualsiasi consolidamento del nazionalismo, al contrario, appoggia tutto ciò che contribuisce a cancellare le distinzioni nazionali e a rimuovere le barriere nazionali, appoggia tutto ciò che rende più stretti i legami fra le nazionalità, o che conduce all’amalgamare le nazioni. Agire differentemente significa prendere le parti del filisteismo nazionalista reazionario” (ibid.).
Questa è la vera posizione del leninismo riguardo al nazionalismo, ed è ben lontana dalla volgare distorsione che tenta di ridurre tutto al “semplice” slogan “per l’autodecisione”. Questo significa precisamente cadere nel filisteismo reazionario e abbandonare il punto di vista marxista, vale a dire proletario. Ben lungi dal glorificare il nazionalismo e la creazione di nuove barriere attraverso il separatismo, Lenin, come Marx, aveva un’opinione molto negativa della “ristrettezza di vedute delle piccole nazioni”. Entrambi erano a favore di Stati il più larghi possibili, a parità di tutte le altre condizioni. Lenin lottava per l’abolizione di tutte le frontiere, non per erigerne di nuove. Lottava per il mescolamento delle nazioni e persino per l’assimilazione (se questa era volontaria), e non certo per la glorificazione del linguaggio e della cultura di una nazione contrapposta all’altra. Vediamo la sua posizione espressa con le sue stesse parole: “Il proletariato, tuttavia, non solo non si impegna a sostenere lo sviluppo nazionale di ogni nazione, ma, al contrario, mette in guardia le masse contro simili illusioni, sostiene la massima libertà di relazioni su basi capitaliste e accoglie qualsiasi forma di assimilazione, eccetto quella forzata o quella che si costruisce sul privilegio.”
E ancora: “Il nazionalismo borghese e l’internazionalismo proletario: questi sono i due slogan inconciliabilmente ostili che corrispondono ai due grandi campi di classe in tutto il mondo capitalista e che esprimono due politiche (più di questo: due visioni del mondo) sulla questione nazionale” (ibid., l’evidenziatura è nostra).
Non ci possono essere dubbi di sorta su questo. Il nazionalismo borghese e l’internazionalismo proletario sono due politiche profondamente incompatibili, che riflettono gli interessi incompatibili di due classi ostili.È inutile girare attorno tentando di nascondere questa evidente verità. Lenin era saldamente perl’internazionalismo proletario e contro il nazionalismo, in qualsiasi forma fosse mascherato. Il fatto che egli si opponesse a tutte le forme di oppressione nazionale, e mostrasse simpatia per i popoli oppressi, non dovrebbe essere utilizzato per nascondere questo fatto incontestabile: Lenin era un nemico del nazionalismo.
Lenin e Rosa Luxemburg
Lenin, come Marx, dovette condurre una lotta su due fronti riguardo la questione nazionale. Era necessario lottare contro l’influenza delle idee opportuniste e revisioniste come quelle di Otto Bauer, che riflettevano la pressione della borghesia e della piccola borghesia nazionalista sull’avanguardia proletaria. Ma allo stesso tempo era necessario lottare contro coloro che negavano l’importanza della questione nazionale. Lenin condusse un’aspra polemica contro Rosa Luxemburg per molti anni su questa questione, affinché il partito assumesse una posizione corretta. In seguito, durante la Prima guerra mondiale, dovette condurre una lotta contro Bukharin e Pjatakov, che a loro volta dichiaravano che la questione nazionale non era più rilevante e si opponevano alla rivendicazione dell’autodecisione.
Non c’è bisogno di dire che Rosa Luxemburg fu una grande rivoluzionaria e un’internazionalista, ma il suo internazionalismo aveva un carattere piuttosto astratto. Così, ella negava il diritto del popolo polacco all’autodecisione e descriveva l’idea della nazionalità ucraina come un’invenzione di intellettuali.
Anche se i socialdemocratici polacchi avevano una posizione scorretta e astratta, erano veri internazionalisti, e la loro posizione era motivata dalla necessità di combattere il nazionalismo reazionario piccolo borghese del cosiddetto Partito socialista polacco di Pilsudski. Il Pps (Polska Partija Socialistyczna) non era in realtà un partito socialista, ma un partito nazionalista piccolo borghese, fondato nel 1892. Il Pps lottava per il separatismo e si sforzava di scindere gli operai polacchi da quelli russi. Come in tutti i movimenti nazionalisti piccolo borghesi di massa, nel Pps c’erano una destra e una sinistra. Nel 1906 le due ali si scissero. Successivamente, durante la Prima guerra mondiale, la sinistra del Pps si allontanò dal nazionalismo e finì col fondersi con i socialdemocratici polacchi nel dicembre 1918, per fondare il Partito comunista operaio polacco. L’ala destra, tuttavia, rimase legata al nazionalismo, e durante la Prima guerra mondiale organizzò la Legione polacca, che combatteva a fianco dell’imperialismo austro-tedesco.
Lenin stesso era un russo, vale a dire un membro della nazionalità dominante, quella grande russa. Rosa Luxemburg era polacca (ed ebrea). Lenin comprendeva la necessità di una estrema sensibilità nei confronti dei popoli oppressi dallo zarismo russo. Egli si rivolgeva ai compagni polacchi grosso modo in questi termini: “Noi comprendiamo la vostra situazione. Voi siete socialdemocratici polacchi, e il vostro primo compito è quello di lottare contro i nazionalisti polacchi. Naturalmente è necessario che facciate così. Ma non chiedete a noi, russi, di rimuovere dal nostro programma lo slogan del diritto all’autodecisione dei polacchi. Perché, come socialdemocratici russi, il nostro primo dovere è di lottare contro la nostra borghesia, la borghesia russa e lo zarismo. Perché solo in questo modo possiamo noi, socialdemocratici russi, dimostrare ai polacchi che non abbiamo alcun desiderio di opprimerli, e gettare così le basi per l’unità di entrambi i popoli nella lotta rivoluzionaria.”
Con una brillante applicazione della dialettica, la posizione di Lenin del diritto all’autodecisione non era diretta a dividere i lavoratori e i popoli russo e polacco, ma al contrario ad unirli.
Unità delle organizzazioni operaie
Lenin sosteneva il diritto all’autodecisione esclusivamente dal punto di vista di far avanzare la lotta di classe, di unire la classe operaia. Per i bolscevichi la questione nazionale non rappresentava solo un ostacolo, ma anche un potenziale rivoluzionario. Senza una posizione corretta sulla questione nazionale, la rivoluzione d’Ottobre non avrebbe mai avuto luogo. Ma una parte integrale della politica di Lenin sulla questione nazionale fu, a partire dal 1903, la sua insistenza sulla necessità di mantenere la sacra unità della classe lavoratrice e delle sue organizzazioni al di sopra di tutte le distinzioni di nazionalità, lingua, razza o religione.
Così egli si oppose implacabilmente ai tentativi del Bund ebraico di organizzare i lavoratori ebrei separatamente da quelli russi. Su questo punto scrisse con grande enfasi:
“In contrasto con i litigi nazionalisti dei diversi partiti borghesi su questioni di lingua, ecc., la democrazia proletaria avanza la rivendicazione: assoluta unità e fusione dei lavoratori di tutte le nazionalità in organizzazioni sindacali, cooperative, di consumo, di istruzione e tutte le altre, per contrastare il nazionalismo borghese di ogni tipo. Solo questa unità può salvaguardare la democrazia e gli interessi dei lavoratori contro il capitale – che e già diventato internazionale, e lo diventa sempre di più -,e può salvaguardare gli interessi dello sviluppo dell’umanità verso un nuovo modo i vita al quale siano estranei ogni tipo di privilegi e sfruttamento” (Commenti critici sulla questione nazionale).
Trotskij sottolineò correttamente come il diritto all’autodecisione fosse solo una metà della posizione di Lenin sulla questione nazionale. L’altro lato della medaglia era una implacabile opposizione alla divisione del movimento operaio su linee nazionali. Dobbiamo distinguere con chiarezza tra questi due elementi. Il diritto all’autodecisione è una rivendicazione democratica – o, più precisamente, democratico-borghese. Questa prima metà del programma, quindi, riguarda la nazione nel suo complesso. Ma per quello che riguarda il proletariato, non c’è neppure da porre la questione di dividere le organizzazioni operaie su linee nazionali. Anche se la posizione di Lenin su questo punto era assolutamente chiara e priva di ambiguità su questo punto, oggi ciascuna di quelle sette miserevoli che si definiscono “trotskiste” hanno non solo appoggiato, ma anche promosso e portato avanti politiche criminali che in un modo o nell’altro dividono le organizzazioni dei lavoratori su linee nazionali.
Dividere i sindacati su linee nazionali o razziali è un’assoluta mostruosità che non ha nulla in comune con il leninismo. Eppure in Gran Bretagna i gruppi settari hanno attivamente partecipato alla creazione si organizzazioni separate per i neri nei sindacati e nel partito laburista. In Scozia hanno appoggiato la formazione di un sindacato scozzese dei lavoratori del petrolio, il che costituisce una violazione grossolana dei più elementari principi del marxismo. Esempi simili si possono citare per ogni paese.
Su questo dobbiamo essere chiari: la creazione di organizzazioni separate per differenti gruppi nazionali o razziali è un atto criminale che può solo portare a una frantumazione e a un indebolimento del movimento operaio. Una cosa è combattere il razzismo e lo sciovinismo della nazione maggioritaria. Tutt’altra cosa è dividere la classe lavoratrice su linee nazionali, linguistiche, religiose o razziali.
Questa non fu mai la posizione del partito bolscevico, né prima ancora del Posdr. Nessuna delle tendenza della socialdemocrazia russa (se escludiamo i dirigenti del Bund ebraico) consentiva a dividere il movimento su linee nazionali su questa questione i menscevichi avevano la stessa posizione, su questa questione, dei bolscevichi. La questione era stata dibattuta a fondo fin dal primo periodo, quando i socialdemocratici ebrei avevano avanzato la richiesta di un’organizzazione separata all’interno del Posdr. Il Bund (l’organizzazione socialdemocratica ebraica), che era molto forte nella Russia occidentale e in Lituania, dove c’era una numerosa popolazione ebraica, rivendicava il diritto di essere l’unica forza a poter parlare a nome dei lavoratori ebrei, e chiese anche il diritto a costruire un’organizzazione socialdemocratica separata. Questa richiesta venne risolutamente respinta da Lenin e dai marxisti russi, che insistevano che ci fosse un solo partito operaio e un solo sindacato. Questa è anche la nostra posizione odierna. L’arma più importante in mano alla classe lavoratrice è l’unità. Questa deve essere mantenuta ad ogni costo. Ci opponiamo radicalmente alla divisione della classe operaia su linee nazionali, di razza, lingua, religione o altro. In altre parole, prendiamo una posizione di classe.
La questione ebraica
Con fastidiosa frequenza, coloro che sono favorevoli alla divisione del movimento operaio su linee di nazionalità, di sesso o di razza, tentano di giustificare al loro posizione ricorrendo alla più smaccata demagogia o a un sentimentalismo lacrimoso, appellandosi al triste destino degli oppressi e alle mostruose ingiustizie che soffrono come “prova” della “impossibilità” di unire in organizzazioni comuni neri e bianchi, uomini e donne, protestanti e cattolici, e così via. Questo argomento spurio è confutato dalla storia dello stesso bolscevismo, come dimostra l’atteggiamento di Lenin verso il Bund ebraico. Gli ebrei in Russia erano mostruosamente oppressi da una discriminazione sistematica, costretti a vivere segregati nelle “Zone di insediamento”, e soggetti periodicamente a pogrom sanguinosi. Solo una percentuale limitata di ebrei veniva accettata negli impieghi pubblici e nelle scuole statali medie e superiori. Nel 1917 esistevano 650 leggi che contenevano restrizioni nei confronti egli ebrei. Qui vediamo un esempio di oppressione nazionale nelle sue forme più crude e brutali.
Lenin spiegò sempre come il dovere dei lavoratori fosse di combattere la propria borghesia. Questo significa tutti i lavoratori, fino a quelli delle nazioni più oppresse. Per questa ragione la socialdemocrazia russa aveva sempre respinto la richiesta del Bund. Il fatto che gli ebrei soffrissero della più terribile oppressione non era un argomento valido. Il Bund portava avanti lo slogan dell’autonomia nazionale-culturale, che aveva copiato dal programma di Otto Bauer e degli austromarxisti. Nella situazione degli ebrei russi, questo slogan era ancora più insensato che non nel caso dell’Austria-Ungheria. Con la loro popolazione dispersa e prevalentemente urbana, gli ebrei russi non potevano indicare un territorio chiaramente definito come proprio, che costituisce una delle prime condizioni di esistenza di una nazione. L’idea dell’autonomia nazional-culturale era di riunire la popolazione ebrea dispersa attorno a scuole e altre istituzioni esclusivamente ebraiche. Questa rivendicazione, che Trotskij definì un’utopia reazionaria, avrebbe avuto l’effetto di approfondire la separazione degli ebrei dal resto della popolazione e di aumentare le frizioni e le tensioni nazionali.
Gli ebrei non possedevano né un territorio comune, né una lingua comune. Molti ebrei in Russia e in Europa orientale parlavano l’yiddish, ma molti altri no. Nei paesi capitalisti avanzati gli ebrei parlavano la lingua dei paesi nei quali vivevano. In realtà, gli ebrei sefarditi provenienti dalla Spagna mantennero lo spagnolo come madrelingua per secoli dopo essere stati cacciati dalla Spagna e dispersi in tutto il Mediterraneo. Dove ne ebbero la possibilità, gli ebrei si assimilarono nella popolazione del paese nel quale risiedevano. Ma il fanatismo e l’oscurantismo della chiesa cattolica medioevale impedirono che questo avvenisse. Gli ebrei vennero esclusi e separati con la forza dalla società. Privati del diritto a possedere la terra, furono costretti a ricorrere ad altri mezzi di sostentamento ai margini della società feudale, inclusi il commercio e il l’usura. La separazione forzata degli ebrei era ancora più smaccata nell’arretrata Russia zarista.
Anche Lenin trovava delle difficoltà nel definire gli ebrei. La definizione più prossima alla quale giunse fu quella di una speciale casta oppressa, come mostra il seguente passaggio: “Lo stesso vale per la nazione più oppressa e perseguitata, gli ebrei. La cultura nazionale ebraica è lo slogan dei rabbini e della borghesia, lo slogan dei nostri nemici. Ma ci sono altri elementi nella cultura ebraica e lungo la storia degli ebrei. Dei dieci milioni e mezzo di ebrei che vivono nel mondo, poco più di metà si trovano in Russia e Galizia, paesi arretrati e semi-barbari che forzosamente mantengono gli ebrei nella posizione di una casta. L’altra metà vive nel mondo civilizzato, e non sono segregati come una casta. In quei paesi, gli aspetti grandemente progressivi della cultura ebraica si sono fatti sentire con chiarezza: il suo internazionalismo, la sua reattività ai movimenti avanzati dell’epoca (la percentuale di ebrei nei movimenti democratici e proletari è ovunque superiore alla percentuale di ebrei nella popolazione nel suo complesso)” (Commenti critici sulla questione nazionale).
Anche se gli ebrei mancavano degli attributi di una nazione, e Lenin non li considerava come tali, dopo la rivoluzione d’Ottobre i bolscevichi offrirono loro l’autodeterminazione, garantendo una patria nel territorio del Biribaidjian dove avrebbero potuto emigrare, anche se pochi scelsero di farlo. Questo era infinitamente preferibile alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, su una terra occupata dagli arabi per oltre un millennio, causando uno spargimento di sangue e guerre senza fine in Medio oriente. L’instaurazione dello Stato di Israele fu un atto reazionario al quale all’epoca i marxisti si opposero. Trotskij aveva avvertito in anticipo che si sarebbe trasformato in una trappola crudele per il popolo ebreo, e la storia dell’ultimo mezzo secolo ha dimostrato come questo fosse vero. Tuttavia, oggi lo Stato di Israele esiste e non si può far tornare indietro le lancette dell’orologio. Israele è una nazione, e non possiamo fare appello alla sua abolizione. La soluzione del problema nazionale palestinese (del quale tratteremo più avanti) può solo essere raggiunta attraverso la formazione di una federazione socialista del Medio oriente nella quale arabi e israeliani possano coesistere nelle rispettive patrie autonome, con il pieno rispetto di tutti i diritti nazionali.
In Russia i sostenitori del sionismo erano sempre stati una minoranza ristretta. Un numero considerevole dei quadri del movimento rivoluzionario in Russia erano di origini ebraiche, perché gli intellettuali ebrei più avanzati comprendevano come il loro futuro dipendesse da una ricostruzione rivoluzionaria della società. Questa posizione si dimostrò essere corretta. Dopo la rivoluzione d’Ottobre in Russia il popolo ebreo conquistò la piena emancipazione civile e la completa eguaglianza. Erano soddisfatti di questo e per questo motivo furono ben pochi quelli che accolsero l’offerta di un proprio territorio nei confini dello Stato sovietico.
Autodeterminazione
La rivendicazione del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione è centrale nella posizione di Lenin sulla questione nazionale. Questo è generalmente risaputo. Ma, come una volta osservò Hegel, quello che è conosciuto non necessariamente è anche compreso. Lenin scrisse abbondantemente sulla questione nazionale, e i suoi scritti mettono in evidenza le posizioni basilari del marxismo su questo tema, che egli sviluppa in modo estremamente ricco e dialettico, affrontandolo da tutti i lati. Eppure basta dare una minima occhiata alla letteratura di gruppi che oggi pretendono di rappresentare l’eredità di Lenin per convincersi che nessuno di costoro legge più Lenin, e se lo leggono non capiscono una parola. In particolare, la richiesta del diritto all’autodeterminazione – che senza dubbio è un elemento importante nel pensiero di Lenin sulla questione nazionale – è stata strappata dal suo giusto contesto e presentata in modo meccanico e unilaterale, quasi si trattasse dell’unica cosa di cui Lenin su preoccupasse.
Che Lenin difendesse questo diritto, è abc per ogni marxista. Ma dopo l’abc ci sono molte altre lettere nell’alfabeto, e uno scolaro che ripeta costantemente l’abc non verrebbe considerato particolarmente intelligente. La dialettica, come Lenin spiegò molte volte, tratta i fenomeni analizzandoli da molti punti di vista. Astrarre un singolo elemento da un’equazione complessa, contrapponendolo a tutti gli altri elementi, significa fare un abuso infantile della dialettica, che nella storia della filosofia viene conosciuto sotto il nome di sofisma. Simili abusi conducono a commettere gli errori più marchiani. In politica, e in particolare nella politica che tratta la questione nazionale, essi portano direttamente alla difesa del nazionalismo reazionario e all’abbandono del socialismo. La questione nazionale è un campo minato, per attraversare il quale è necessaria una bussola affidabile. Nel momento in cui ci si allontana di un solo centimetro da una posizione di classe, si è perduti. Così, molti di quelli che oggi provano a citare Lenin sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione, cadono nella trappola e capitolano alle pressioni insistenti del nazionalismo piccolo borghese, che è precisamente l’opposto della posizione di Lenin.
Lasciamo ancora una volta la parola allo stesso Lenin:
“Noi non siamo favorevoli a preservare le piccole nazioni ad ogni costo“, scrisse. “A parità di tutte le altre condizioni, siamo a favore della centralizzazione e ci opponiamo all’idea filistea dei legami federali” (La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, sottolineatura nostra). Lenin non appoggiavain ogni caso il diritto delle piccole nazioni all’autodecisione, ma era ben attento a spiegare come a parità di condizioni, dobbiamo sempre appoggiare unità nazionali maggiori contro quelle minori, e la centralizzazione, su basi democratiche, contro il decentramento. Ma le altre condizioni non necessariamente sono uguali. L’esistenza dell’oppressione nazionale di una nazione da parte di un’altra obbliga il proletariato e le sue organizzazioni a combattere per difendere il diritto delle nazioni all’autodecisione.
Il diritto delle nazioni all’autodecisione è una rivendicazione democratica che i marxisti sostengono, così come appoggiamo altre rivendicazioni democratiche. Ma l’appoggio alle rivendicazioni democratiche in generale non è mai stato considerato dai marxisti come una sorta di imperativo categorico. Queste rivendicazioni sono sempre subordinate all’interesse della classe lavoratrice e della lotta per il socialismo, come Lenin spiegò chiaramente: “In pratica, il proletariato può mantenere la propria indipendenza politica unicamente subordinando la sua lotta per tutte le rivendicazioni democratiche, non esclusa la rivendicazione della repubblica, alla sua lotta rivoluzionaria per il rovesciamento della borghesia” (ibid.).
Questo non è nuovo, né particolarmente sorprendente. È in linea con la posizione generale dei marxisti sulle rivendicazioni democratiche. Anche il diritto al divorzio è una rivendicazione democratica che noi appoggiamo. In cosa consiste questo diritto? Esso significa che un uomo e una donna possono vivere assieme fino a quando entrambi ne sono felici. Ma se il rapporto fra due persone si rompe, allora hanno il diritto di separarsi. Nessuno può costringerli a vivere assieme.
Oppure possiamo considerare il diritto all’aborto. In cosa consiste? Una donna ha il diritto a decidere se avere o meno un figlio, poiché è chiaro che la donna ha il diritto a disporre come meglio crede del proprio corpo. Noi difendiamo questi diritto, ma questo significa che diciamo che il divorzio o l’aborto siano di per se cose positive? Diciamo forse che ogni donna deve avere un aborto, o che ogni coppia sposata deve divorziare? Sarebbe assurdo. Divorzio e aborto non sono cose positive, ma in certe circostanze possono essere il male minore. Noi non difendiamo il divorzio o l’aborto, ma il diritto a divorziare o ad abortire. Lo stesso vale per il diritto all’autodecisione. C’è una profonda differenza tra difendere il diritto all’autodecisione, e difendere l’autodecisione in quanto tale. È la differenza fra il marxismo e il nazionalismo piccolo borghese. Lenin fu molto chiaro su questo punto: “Per non trasgredire alla nostra lotta per il diritto all’autodecisione, quindi, non siamo tenuti non a votare ‘per la separazione’, come assume l’astuto signor Semkovsky, ma a votare per il diritto della regione che si separa a decidere da sé la questione” (Il programma nazionale del Posdr).
Questo è il nodo del problema. Per Lenin, il diritto all’autodecisione non significava che i lavoratori avessero “il dovere di votare per la separazione”, ma esclusivamente di opporsi a tutte le forme di oppressione nazionale e al mantenimento forzato di una nazione all’interno dei confini di un altro Stato, vale a dire di lasciare che il popolo decida liberamente sulla questione. Questo è in diritto democratico elementare che i bolscevichi difendevano. Ma anche questo diritto non veniva considerato come qualcosa di assoluto, ma veniva sempre subordinato agli interessi della lotta di classe e della rivoluzione mondiale. La politica di Lenin non era la separazione ma l’unione volontaria. Lo slogan del diritto all’autodecisione, lungi dall’implicare un appoggio per la separazione, era una parte integrale della lotta contro la separazione. Lenin continua: “Il riconoscimento del diritto all’autodecisione, ci assicura il signor Semkovsky, sta ‘facendo il gioco del nazionalismo borghese più sfacciato’. Questo è infantile e insensato, dato che il riconoscimento del diritto non esclude né la propaganda e l’agitazione contro la separazione, né la denuncia del nazionalismo borghese. Ma è assolutamente indiscutibile che la negazione del diritto alla secessione faccia il gioco dei più sfacciato nazionalisti grandi russi e centoneri!” (ibid.).
Prendiamo un esempio moderno. La popolazione francofona del Quebec si sente oppressa all’interno del Canada. I nazionalisti quebecois spingono per la separazione. Un marxista dirà all’abitante del Quebec: sì, vuoi avete il diritto all’autodecisione. Noi difendiamo tale diritto. Ma consideriamo che la separazione andrebbe a detrimento vostro e di tutta la popolazione del Canada. Se c’è un referendum faremo agitazione e voteremo contro la separazione. Noi lottiamo per un Quebec socialista in un Canada socialista, con pieno rispetto dei diritti nazionali come unica soluzione dei nostri problemi. Questa era approssimativamente la posizione di Lenin sulla questione nazionale.
In nessun modo Lenin considerava il diritto all’autodecisione come una panacea applicabile universalmente in tutte le circostanze. Questa idiozia è stata successivamente accolta da gruppi che fanno omaggio verbale al marxismo e al leninismo, ma non hanno la minima nozione di cosa siano. Lenin non considerava questo diritto come un diritto assoluto, al di fuori del tempo e dello spazio, ma solo come una parte della lotta del proletariato per il potere, e strettamente subordinato a tale lotta. Nell’articolo di Stalin Il marxismo e la questione nazionale, che fu virtualmente dettato da Lenin e che senza dubbio esprime la sua posizione su questo, l’idea è chiaramente espressa:
“Una nazione ha il diritto di organizzare la propria vita su linee autonome. Ha persino il diritto alla secessione. Ma questo non significa che debba farlo in ogni circostanza, che l’autonomia, o la separazione, siano sempre e comunque vantaggiose per la nazione, cioè per la maggioranza della popolazione, vale a dire le classi lavoratrici.”
“Ma quale soluzione sarà la più compatibile con gli interessi delle masse lavoratrici? Autonomia, federazione o separazione? Tutti questi sono problemi la cui soluzione dipenderà dalla situazione storica concreta nella quale una data nazione si trova.“
Di più ancora: “le condizioni, come ogni altra cosa, cambiano e una decisione che è corretta in un particolare momento può dimostrarsi completamente impraticabile in un altro” (op. cit., la sottolineatura è nostra).
Questo è assolutamente corretto. La posizione che i marxisti assumeranno in relazione alla domanda di autodecisione non può essere stabilita in anticipo. Dipende dalle circostanze concrete di ogni caso e dalle implicazioni che ha per la causa del proletariato e della rivoluzione socialista mondiale. Questa fu sempre la posizione di Lenin. Così, nel Diritto delle nazioni all’autodecisione. scrive: “Non si pone neppure il problema che i marxisti di un qualsiasi paese traccino il proprio programma nazionale senza tenere in conto tutte queste condizioni storiche generali e concrete.”
Argomentando contro i socialdemocratici polacchi, che avevano una posizione estremista e negavano in linea di principio l’autodecisione, Lenin spiega, tra altre cose, che non è compito della socialdemocrazia appoggiare qualsiasi lotta per l’autodecisione. Lenin dice quanto segue: “Dal punto di vista generale della teoria generale questo argomento è un abominio, poiché è ovviamente illogico. In primo luogo non esiste e non può esistere una qualsiasi singola rivendicazione democratica che non possa dare origine ad abusi, se il particolare non viene subordinato al generale. Noi non siamo obbligati ad appoggiare ogni lotta per l’indipendenza, né ogni movimento repubblicano o anticlericale.”
C’è un caso nel quale Lenin chiarisce che non si deve appoggiare il diritto all’autodecisione se questo significa trascinare i lavoratori in guerra. Considerava che la richiesta di appoggiare l’autodecisione (anche quando di per se fosse giustificata), come un suggerimento mostruoso se questo significava trascinare in guerra le grandi potenze. Che i bolscevichi appoggiassero la lotta nazionale in un determinato caso, dipendeva dalle circostanze concrete, e in ogni caso Lenin affrontava la questione non dal punto di vista di un ristretto nazionalismo, ma dal punto di vista della rivoluzione mondiale. Nel luglio 1916 Lenin avvertì i polacchi di non lanciare una lotta per l’indipendenza nazionale. Egli spiegò che il destino della lotta del popolo polacco era indissolubilmente legato alla prospettiva della rivoluzione in Russia e in Germania: “Sollevare oggi la questione dell’indipendenza della Polonia – scrisse – con gli attuali rapporti fra le potenze imperialiste confinanti, significa veramente correre dietro alle utopie, abbassarsi al nazionalismo più ristretto e dimenticare che la premessa necessaria è una rivoluzione europea, o perlomeno le rivoluzioni tedesca e russa.” (Riassunto della discussione sull’autodecisione, la sottolineatura è nostra).
In quella data situazione, egli consigliò ai polacchi di subordinare la loro lotta per l’autodecisione alla prospettiva della rivoluzione in Russia e in Germania. In quell’occasione i fatti diedero ragione a Lenin. Solo la rivoluzione russa creò le condizioni per la formazione di uno Stato polacco indipendente, laddove tutti gli altri tentativi si erano conclusi nel disastro. Questo intendeva Lenin quando metteva in guardia dall’”inseguire le utopie” e “abbassarsi al nazionalismo più ristretto”. Quanto era valido il consiglio di Lenin al popolo polacco! E che mostruosa caricatura della posizione di Lenin è stata quella di sostenere la frantumazione della Jugoslavia con il falso argomento dell’autodecisione! Questo è precisamente rincorrere le utopie (e in questo caso utopie reazionarie) e abbassarsi al peggior tipo di nazionalismo ristretto.
Lenin e i “pratici”
Uno dei trucchi spesso usati dalle correnti piccolo borghesi che hanno capitolato al nazionalismo è accusare il marxismo di essere utopista. “Parlare di unire i lavoratori è un’utopia”; “l’idea di una federazione socialista non è pratica”; “dobbiamo fare qualcosa subito” e così via. Come rispondeva Lenin a questi argomenti che conosceva molto bene?
“Che cosa significa l’esigenza della “praticità” nella questione nazionale?“, si domanda Lenin, e risponde:
“O l’appoggio a tutte le aspirazioni nazionali, o la risposta “sì e no” alla domanda di separazione di qualsiasi nazione, o l’immediata “realizzabilità” delle rivendicazioni nazionali.
Esaminiamo questi tre significati possibili dell’esigenza della ‘praticità’.
La borghesia, che interviene naturalmente come egemone (dirigente) all’inizio di ogni movimento nazionale, chiama azione pratica l’appoggio a tutte le aspirazioni nazionali. Ma nella questione nazionale (come del resto in tutte le altre questioni), la politica del proletariato appoggia la borghesia solo in una direzione determinata, senza mai confondersi con la politica della borghesia. La classe operaia sostiene la borghesia solamente nell’interesse della pace nazionale (che la borghesia non può dare pienamente e che è realizzabile solo con una democrazia integrale), nell’interesse della parità di diritti e per assicurare condizioni migliori alla lotta di classe. Ecco perché, nella questione nazionale, al praticismo della borghesia i proletari oppongono una politica di principio e sostengono sempre la borghesia soltanto a certe condizioni. Nella questione nazionale ogni borghesia cerca o privilegi o vantaggi esclusivi per la propria nazione: è questo il “praticismo”. Il proletariato è contro ogni privilegio, contro ogni esclusivismo. Esigere da esso il “praticismo” significa lasciarsi guidare dalla borghesia, significa cadere nell’opportunismo” (L’autodecisione delle nazioni, ed. it., pp. 73-74).
Quando nel 1914 Lenin scrisse questi brani, aveva ancora la prospettiva di una rivoluzione democratico-borghese in Russia. I bolscevichi combattevano come ala di estrema sinistra nel campo borghese democratico. Il loro scopo consisteva nella mobilitazione delle masse sotto la direzione del proletariato, non nella lotta per il potere operaio (Lenin raggiunse questa conclusione solo nel 1917), il loro intento era condurre la rivoluzione borghese-democratica del tipo più radicale, per creare così le condizioni più favorevoli per lo sviluppo del capitalismo e della lotta di classe. Naturalmente, la prospettiva di Lenin non si esauriva qui, non delineava un quadro per cui una rivoluzione democratico-borghese vittoriosa in Russia avrebbe fornito un possente impulso alla rivoluzione socialista nell’Europa occidentale e che questo, a sua volta, avrebbe permesso ai lavoratori russi, insieme a quelli europei, di trasformare la rivoluzione democratico-borghese in una rivoluzione socialista. Ma gli scopi immediati della rivoluzione erano democratico-borghesi, e i suoi punti nodali erano la questione agraria e la questione nazionale.
Anche nel periodo in cui Lenin manteneva la prospettiva di una rivoluzione democratico-borghese, sottolineava la necessità della completa indipendenza del proletariato dalla borghesia. Nella questione nazionale i lavoratori devono restare indipendenti dalla propria borghesia. Devono combattere contro l’oppressione nazionale; ma devono combattere sotto le proprie bandiere, con le proprie politiche e i propri metodi. Nella misura in cui la borghesia nazionale conduce una lotta contro l’oppressione nazionale, la classe operaia deve naturalmente sostenerla. Ma, in primo luogo, questo sostegno deve essere molto critico e in nessun caso implica che i lavoratori si leghino alla borghesia nazionale in generale. Lenin avvertiva che la borghesia preparava tradimenti, occupandosi avidamente solo del proprio interesse ristretto e cedendo alle tendenze reazionarie, e spingeva i lavoratori a non subordinarsi alla demagogia nazionalista dell’”unità”.
La posizione dei nazionalisti borghesi e piccolo borghesi contro la posizione marxista sulla questione nazionale è sempre la stessa: “Queste chiacchiere sul socialismo e sulla lotta di classe sono utopia. L’oppressione nazionale c’è ora e dobbiamo fare qualcosa per risolvere subito i nostri problemi.” Lenin rispose a questa demagogia in anticipo: “Rispondere “sì o no” alla domanda di separazione di qualsiasi nazione? Sembra una rivendicazione molto “pratica”. In realtà è assurda, metafisica sul piano teorico, e porta praticamente alla subordinazione del proletariato alla politica della borghesia… La borghesia pone sempre in primo piano le sue rivendicazioni nazionali. Le pone incondizionatamente. Il proletariato invece le subordina agli interessi della lotta delle classi” (La sottolineatura è nostra).
E ancora: “La borghesia delle nazioni oppresse farà appello al proletariato perché sostenga le sue rivendicazioni in nome della loro “praticità”. È più pratico dire “sì”, pronunciarsi per la separazione di una nazione determinata, che non pronunciarsi per il diritto di separazione di ogni e qualsiasi nazione! Il proletariato è contrario a questo praticismo: riconoscendo a tutte le nazioni l’uguaglianza politica e l’uguale diritto a costituire uno Stato nazionale, esso attribuisce il massimo valore all’unità dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni aspirazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai. La parola d’ordine del “praticismo” è nella realtà la parola d’ordine dell’accettazione acritica degli ideali borghesi” (Sottolineatura nostra).
Da queste citazioni è assolutamente chiaro che Lenin non riteneva fosse compito del proletariato sostenere tutte le battaglie per l’autodeterminazione e che spingeva i lavoratori a resistere ai tentativi dei borghesi (e, bisogna aggiungere, dei piccoli borghesi) nazionalisti per spingerli a sostenere il nazionalismo appellandosi alle loro naturali simpatie per un popolo oppresso; che la questione nazionale è sempre subordinata agli interessi generali del proletariato e della lotta di classe; e che è necessario prendere posizione per l’autodeterminazione solo sulla base del fatto che aiuta la causa del proletariato e la lotta del socialismo in quell’occasione specifica. In ogni altro caso, il proletariato non è assolutamente obbligato a sostenerla, ma deve rifiutarla con decisione.
Ad ogni modo, la posizione di Lenin sulla questione nazionale si è evoluta nel tempo come la sua prospettiva generale sulla natura della rivoluzione russa. Dopo la rivoluzione di febbraio, Lenin abbandonò la sua visione precedente che la rivoluzione russa avrebbe avuto una natura democratico-borghese (“la dittatura democratica del proletariato e dei contadini”) e passò alla posizione difesa da Trotskij sin dal 1904-5. Trotskij spiegò che, anche se obiettivamente i compiti della rivoluzione russa avevano una natura democratico-borghese, la rivoluzione poteva essere diretta solo dal proletariato alleato con i contadini poveri. La borghesia russa era entrata sulla scena della storia troppo tardi per giocare un ruolo progressivo. In queste circostanze, i compiti democratico-borghesi della rivoluzione potevano essere assolti solo dalla classe operaia, dopo aver preso il potere. In tal caso non si sarebbe trattato della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini”, ma della dittatura proletaria. Questa prospettiva si confermò brillantemente nell’ottobre del ’17.
Anche prima, come abbiamo visto, Lenin non sostenne mai l’appoggio alla borghesia nazionale, se non in circostanze limitate e sotto certe condizioni, precisando sempre che il proletariato doveva mantenere la propria indipendenza di classe dalle macchinazioni della borghesia cosiddetta progressista. Ma dopo il 1917 capì che la borghesia cosiddetta nazionale nei paesi semicoloniali come la Russia zarista non aveva più nessun ruolo progressista. Al secondo congresso dell’Internazionale comunista, Lenin cambiò apertamente la sua posizione sulla borghesia nazionale. Da quel momento ritenne la borghesia nazionale incapace di avere un ruolo progressista nei paesi feudali. La storia successiva mostrò che aveva ragione.
Parte IV – La questione nazionale dopo l’Ottobre
“Le differenti richieste democratiche, tra cui l’autodeterminazione, non sono una parte assoluta ma solo una piccola parte del movimento mondiale democratico (ora socialista). In casi specifici, la parte può contraddire il tutto; in questi casi deve essere rigettata. È possibile che il movimento repubblicano in un paese possa essere semplicemente lo strumento degli intrighi clericali o finanziar-monarchici di altri paesi; se è così non possiamo appoggiare questo particolare, concreto movimento. Ma sarebbe ridicolo cancellare la richiesta della repubblica dal programma della socialdemocrazia internazionale basandosi su questo caso” (Op. cit.).
Queste parole mostrano che il diritto all’autodeterminazione è un diritto relativo. La necessità della classe operaia di appoggiarlo o meno dipende dalle circostanze specifiche del singolo caso. Si tratta di una questione concreta. Non è possibile assumere una posizione generale, valida per tutti i casi. Lenin di sicuro non appoggiò mai questa posizione. È necessario esaminare ogni caso concreto e fare attenzione a distinguere cosa è progressista e cosa reazionario. Altrimenti si fa confusione. E la posizione di Lenin si dimostrò corretta nel 1917. La questione nazionale venne risolta in Russia non dalla borghesia ma dalla rivoluzione socialista. Questo è un fatto che tutte le calunnie sul bolscevismo non cancellano. È fondamentale che chi vuole comprendere veramente la posizione marxista della questione nazionale parta dall’analisi del 1917.
Come Lenin aveva previsto, i polacchi conquistarono l’indipendenza solo grazie alla rivoluzione in Russia. La rivoluzione d’ottobre creò le condizioni per il riconoscimento della Polonia. La destra del partito socialista polacco fu spinta alla testa del governo da dove si affrettò a restituire il potere alla borghesia polacca. Quest’ultima, appoggiandosi alla Gran Bretagna e alla Francia, dichiarò guerra alla Russia nel 1920. I bolscevichi non solo si difesero dalla borghesia reazionaria polacca ma portarono la guerra in Polonia. Significava questo negare il diritto all’indipendenza della Polonia? Lenin rispose alla questione in anticipo nell’articolo Risultati della discussione sull’autodeterminazione, scritto nel luglio del 1916:
“Se la situazione concreta davanti alla quale si trovava Marx all’epoca dell’influenza predominante dello zarismo nella politica internazionale si ripetesse, per esempio, in una forma in cui diversi popoli cominciassero la rivoluzione socialista (come nel 1848 in Europa hanno cominciato la rivoluzione democratica borghese), e altri popoli risultassero i baluardi principali della reazione borghese, noi pure dovremmo essere per la guerra rivoluzionaria contro di essi, al fine di “schiacciarli” e distruggere tutti i loro avamposti, quali che fossero i movimenti delle piccole nazionalità che qui avessero luogo” (Op. cit.).
Il brano mostra adeguatamente la vera posizione di Lenin verso l’autodeterminazione. La questione nazionale (compresa l’autodeterminazione), è sempre subordinata agli interessi generali del proletariato e della rivoluzione mondiale. Il proletariato deve sostenere le lotte di liberazione nazionale delle nazioni oppresse nella misura in cui sono dirette contro l’imperialismo e lo zarismo. In questo senso il movimento nazionale può rivelarsi un alleato del proletariato, come i contadini. Ma quando questi movimenti nazionali sono diretti contro la rivoluzione, quando le piccole nazioni vengono usate come burattini dell’imperialismo e della reazione (il che succede spesso, come si vede dalla storia), allora l’atteggiamento del movimento operaio deve essere di completa ostilità anche al punto di fare la guerra a questi movimenti. Questo emerge con chiarezza nelle parole di Lenin.
Il programma bolscevico sulla questione nazionale era pensato come mezzo per unire lavoratori e contadini di tutte le nazionalità della Russia zarista per il rovesciamento rivoluzionario dello zarismo. Dopo aver preso il potere, i lavoratori russi garantirono il diritto di autodeterminazione alle nazionalità oppresse, ma nella gran maggioranza dei casi i popoli decisero di restare assieme e di partecipare alla federazione socialista, anche se la Polonia e la Finlandia si separarono ed entrambe svilupparono dittature reazionarie ostili al potere sovietico. L’Ucraina cadde sotto il controllo tedesco. I bolscevichi non intervennero contro la Finlandia e la Polonia, non a causa dell’autodeterminazione ma perché erano troppo deboli per farlo. In seguito, infatti, intervennero in Polonia, in Ucraina e in Georgia.
Dopo la rivoluzione d’ottobre in più di un’occasione il governo bolscevico fu costretto a fare guerra a movimenti nazionalisti reazionari, per esempio i Dasnaki armeni o la Rada ucraina, che fungevano da copertura dell’intervento imperialista contro la repubblica sovietica. Nel 1920, Lenin era a favore della guerra rivoluzionaria contro la Polonia. Trotskij vi si opponeva non per ragioni di principio, non certo per via dell’autodeterminazione polacca (il regime reazionario di Pilsudsky in Polonia era solo l’agente dell’imperialismo inglese e francese che incoraggiavano l’atteggiamento aggressivo dello stesso verso la Russia sovietica), ma per ragioni pratiche.
Quando la borghesia nazionale finlandese, per i suoi fini reazionari, ruppe con la Russia dopo la rivoluzione d’ottobre, i bolscevichi non intervennero. Allora lo Stato sovietico era troppo debole. Il governo operaio stava combattendo strenuamente su molti fronti. Trotskij dovette costruire l’Armata rossa dal nulla. In Finlandia scoppiò una sanguinosa guerra civile tra le guardie bianche nazionaliste e reazionarie e i lavoratori.
Se i bolscevichi avessero avuto pronta una forza militare sarebbero senz’altro intervenuti a sostegno dei lavoratori finlandesi contro la borghesia controrivoluzionaria nazionalista. Le condizioni si rivelarono tali, al tempo, che l’intervento fu impossibile, ma questo non aveva nulla a che vedere con il “diritto all’autodeterminazione” che, come Lenin spiegò più volte, era solo una parte, per giunta piccola, della strategia generale della rivoluzione proletaria mondiale, sempre subordinata alle ragioni di questa rivoluzione come una parte è sempre subordinata allo sviluppo del tutto.
Nel 1922 nel suo libro La socialdemocrazia e le guerre d’intervento (a volte chiamato Tra rosso e bianco), Trotskij scrisse:
“Lo sviluppo economico della società di oggi ha un carattere fortemente centralista. Il capitalismo ha gettato le basi preliminari per un’economia regolata armonicamente su scala mondiale. L’imperialismo è solo l’espressione capitalista predatoria di questa tendenza ad avere un ruolo dirigente nella gestione dell’economia mondiale. Tutte le potenze imperialiste si accorgono di essere ostacolate dai ristretti limiti dell’economia nazionale e cercano mercati più ampi. Il loro scopo è monopolizzare l’economia mondiale…
L’obiettivo centrale della nostra epoca sta nel costruire strette relazioni tra sistemi economici delle varie parti del mondo e la costruzione degli interessi di tutta l’umanità, di coordinare la produzione mondiale basata sull’uso più razionale di tutte le forze e risorse. È proprio questo l’obiettivo del socialismo. È ovvio che il principio dell’autodeterminazione in nessun caso sostituisce le tendenze unificanti della costruzione economica socialista. Sotto questo aspetto, l’autodeterminazione occupa, nel processo dello sviluppo storico, una posizione subordinata riservata agli scopi democratici in genere.
Il centralismo socialista, tuttavia non può rimpiazzare il centralismo imperialista senza un periodo di transizione e alle nazionalità oppresse deve essere fornita l’opportunità di sgranchirsi le ossa rattrappite dalle catene della coercizione capitalista.
Gli obiettivi e i metodi della rivoluzione proletaria non sono in nessun modo l’eliminazione meccanica delle caratteristiche nazionali o l’introduzione di un’unificazione forzata. L’interferenza con il linguaggio, l’istruzione, la letteratura e la cultura delle diverse nazionalità è senz’altro aliena alla rivoluzione proletaria. Questa si occupa di altro rispetto agli interessi professionali degli intellettuali e degli interessi ‘nazionali’ della classe operaia. La rivoluzione sociale vittoriosa darà piena libertà a tutti i gruppi nazionali di regolare da sé le questioni della cultura nazionale riconducendo all’unità (per il bene comune e con l’approvazione dei lavoratori) gli obiettivi economici che richiedono di essere ben ponderati e commisurati alle condizioni naturali, storiche e tecniche e non per forza ai raggruppamenti nazionali. La federazione sovietica rappresenta la forma statale più adattabile e flessibile per il coordinamento dei bisogni nazionali ed economici.
I politici della Seconda Internazionale, insieme ai loro amici delle diplomazie borghesi, ridono sardonicamente al nostro riconoscimento dei diritti di autodeterminazione nazionale, noi ci curiamo di spiegare alle masse il significato storicamente limitato e non lo poniamo mai sopra l’interesse della rivoluzione proletaria” (Sottolineatura nostra).
Lenin e il nazionalismo grande-russo
Lenin conosceva e amava le tradizioni nazionali, la storia, la letteratura e la cultura russa. Internazionalista fino al midollo, era allo stesso tempo fortemente radicato nella vita e nella cultura russe. Ma Lenin non fece mai la minima concessione allo sciovinismo grande-russo contro cui condusse una lotta implacabile tutta la vita.
La vittoria della rivoluzione proletaria, naturalmente, non significava l’immediata scomparsa dei vecchi pregiudizi e abitudini, o la liquidazione della tradizione, tutte cose che, nelle parole di Marx, pesano sulla coscienza umana “come una montagna”. Non si cambia la mente degli uomini in un giorno semplicemente eliminando il potere degli sfruttatori e nazionalizzando i mezzi di produzione. La società si porta dietro le tare e le deformazioni del vecchio ordine, non solo sulla schiena ma nella testa.
Lo sviluppo di relazioni autenticamente umane tra uomini e donne, tra nazioni prima sfruttatrici e sfruttate cambia in un certo lasso di tempo, la cui lunghezza sarà determinata dal livello di sviluppo delle forze produttive, la lunghezza della giornata lavorativa e del livello culturale delle masse. Questo è appunto il senso del periodo di transizione tra capitalismo e socialismo. Nel caso della Russia, dove la rivoluzione si trovò isolata in condizioni di spaventosa arretratezza, i problemi che doveva affrontare il potere sovietico erano immani. Questo si legava direttamente alla questione nazionale. Alla vigilia della prima guerra mondiale Lenin scriveva: “La democrazia proletaria deve tener conto, già oggi, del nazionalismo dei contadini grandi-russi (non per fare a esso concessioni, ma per combatterlo)” (L’autodecisione delle nazioni, sottolineatura nostra).
E continua: “Una simile situazione pone al proletariato di Russia un compito duplice o, meglio, bilaterale: lotta contro ogni nazionalismo e, anzitutto, contro il nazionalismo grande-russo; riconoscimento non soltanto di una piena uguaglianza di tutte le nazioni in generale, ma anche della parità di diritti nella struttura statale, cioè del diritto delle nazioni all’autodecisione, alla separazione; e, inoltre, proprio nell’interesse di una lotta efficace contro ogni nazionalismo di ogni nazione, difesa dell’unità della lotta proletaria e delle organizzazioni proletarie, e di una stretta fusione di queste ultime in una comunità internazionale, contrariamente alle tendenze borghesi alla separazione nazionale.
Completa parità di diritti delle nazioni; diritto delle nazioni all’autodecisione; fusione degli operai di tutte le nazioni: ecco il programma nazionale che il marxismo, l’esperienza di tutto il mondo e l’esperienza della Russia additano agli operai” (Op. cit.).
Lenin mostrò sempre una grande sensibilità nei suoi rapporti con le nazionalità dello Stato sovietico. I bolscevichi rispettarono tutti gli impegni presi con le nazioni oppresse del vecchio impero zarista. All’inizio, lo stesso nome di Russia scomparve dai documenti ufficiali. I bolscevichi parlavano semplicemente di “Stato operaio”. In seguito, ci si mosse per costituire l’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Anche se era ovviamente in favore di una federazione volontaria, che fu creata subito dopo la rivoluzione d’ottobre, Lenin era molto attento a non dare l’impressione alle nazionalità non russe che i bolscevichi miravano semplicemente a ricreare il vecchio impero zarista con un nuovo nome. Spingeva alla cautela e alla pazienza. Tuttavia, Stalin, che venne nominato Commissario alle nazionalità perché era georgiano, aveva altre idee. È un fatto ben noto che i membri delle piccole nazioni che arrivano a posizioni di vertice in un governo di una nazione oppressiva di maggioranza tendono a divenire i peggiori sciovinisti da grande potenza. Così Napoleone Bonaparte, che era corso, divenne il più fanatico esponente del centralismo francese.
Stalin, la creatura della burocrazia, divenne un repellente sciovinista grande-russo, nonostante il fatto che parlasse a mala pena russo e con un fortissimo accento georgiano. Nel 1921, nonostante le obiezioni di Lenin, Stalin organizzò l’invasione della Georgia, che era (in teoria) uno stato indipendente. Presentatogli come un fatto compiuto, Lenin fu costretto ad accettare la situazione. Ma consigliò fortemente cautela e sensibilità nei rapporti con i georgiani, per evitare ogni segno di malversazioni russe. Al tempo, la Georgia, un paese prevalentemente contadino e piccolo borghese, era governato dai menscevichi. Lenin era in favore di una politica conciliatrice, con la prospettiva di conquistare la fiducia dei georgiani. Assegnava enorme importanza al mantenimento di relazioni fraterne tra le nazionalità, e insisteva sul carattere volontario di ogni unione o federazione. Stalin, al contrario, intendeva spingere a ogni costo all’unione della Federazione Socialista Russa (RSFSR) con la Federazione Transcaucasica, la Repubblica Ucraina e quella Bielorussa. Quando la bozza di accordo di Stalin fu sottoposta al comitato centrale, Lenin ne fece una critica severa e propose una soluzione alternativa che aveva posizioni di principio diverse. Lenin, come sempre, sottolineò gli elementi di eguaglianza e volontarietà nella natura della federazione: “Riconosciamo la nostra parità con la RSS dell’Ucraina e con le altre – scrisse – e insieme ad esse e con piena uguaglianza creiamo un’unione, una nuova federazione…” (Problemi di politica nazionale e internazionalismo proletario, p. 223).
Nel frattempo, dietro le spalle della direzione del partito, Stalin, con i suoi aiutanti Ordzhonikidze (un georgiano naturalizzato russo) e Dzerzhinski, un polacco, preparò un vero e proprio colpo di Stato in Georgia. Attuarono purghe dei menscevichi georgiani, contro la direttiva precisa di Lenin, e quando i dirigenti bolscevichi georgiani protestarono, vennero schiacciati senza pietà. Stalin e Ordzhonikidze passarono sopra a tutte le critiche. In altre parole, condussero una politica che era precisamente l’opposto di quella proposta da Lenin per la Georgia. Maltrattarono i bolscevichi georgiani e arrivarono alla violenza fisica, quando Ordzhonikidze colpì un bolscevico georgiano, un’azione inaudita. Quando Lenin, che era a letto per la malattia, scoprì alla fine quello che era successo ne fu orripilato e dettò una serie di lettere alle sue segretarie denunciando la condotta di Stalin nei termini più aspri possibili e chiedendo la più dura punizione per Ordzhonikidze.
In un testo dettato il 24-25 dicembre 1922, Lenin definì Stalin “un vero e proprio nazionalista-socialista” e un volgare “oppressore grande-russo” (cit. in Buranov, Il testamento di Lenin, p. 46). Scrisse: “Temo anche che il compagno Dzerzhinski, che andò in Caucaso per investigare sul “crimine” di questi “socialisti-nazionalisti”, si è distinto laggiù per la sua mentalità veramente russa (è noto che le persone di altre nazionalità che diventano russe assumono la mentalità russa) e che l’imparzialità di tutta la commissione viene esemplificata abbastanza bene dalle “manipolazioni” di Ordzhonikidze” (La questione nelle nazionalità e della “autonomia”, 13 dicembre 1922, Opere complete, vol. 36, p. 606.).
Lenin incolpò con molta decisione Stalin dell’incidente: “Penso, scrisse, che la deviazione di Stalin verso una posizione amministrativa, insieme al suo disprezzo per il notorio ‘socialismo nazionalista’ ha giocato un ruolo fatale. In politica, il disprezzo ha il ruolo più ignobile” (Ibidem).
Lenin legò il comportamento di Stalin in Georgia direttamente al problema della degenerazione burocratica dell’apparato statale sovietico in condizioni di spaventosa arretratezza. Condannò soprattutto la fretta di Stalin nello spingere verso l’Unione delle repubbliche sovietiche, senza tener conto delle opinioni dei popoli coinvolti, sotto la pretesa della necessità di un “apparato statale unitario”. Lenin respinse fermamente questo argomento e lo spiegò come espressione dello sciovinismo grande-russo più marcio che proveniva dalla burocrazia che, in larga parte, la rivoluzione aveva ereditato dallo zarismo:
“Si dice che ci vuole un apparato statale unito. Da dove viene questa rassicurazione? Non veniva forse dallo stesso apparato russo che, come avevo osservato in una delle precedenti sezioni del mio diario, avevamo ereditato dallo zarismo e appena dipinto di vernice rossa?
Non c’è dubbio che queste misure si dovevano rimandare a quando potessimo dire che l’apparato fosse nostro. Ma ora dobbiamo, in tutta coscienza, ammettere il contrario: l’apparato statale che definiamo nostro ci è in realtà ancora del tutto alieno; è un minestrone borghese e zarista e, in questi cinque anni trascorsi senza l’aiuto di altri paesi e essendo stati “occupati” la maggior parte del tempo con questioni militari e nella lotta contro la carestia, non è stato possibile liberarcene.
È del tutto naturale che in tali circostanze la “libertà di secedere dall’unione” con cui ci giustifichiamo sarà un semplice pezzo di carta, incapace di difendere i non russi dalle brutalità di quell’uomo veramente russo, lo sciovinista grande russo, in sostanza un mascalzone e un tiranno, che è il tipico burocrate russo. Non c’è dubbio che la percentuale infinitesima costiuita dai lavoratori sovietici e sovietizzati affogherà in questa canaglia sciovinista grande russa come una mosca nel latte” (Opere complete, vol. 36).
Dopo l’incidente georgiano, Lenin usò tutto il peso della sua autorità nella lotta per rimuovere Stalin dalla posizione di segretario generale del partito che occupava dal 1922, dopo la morte di Sverdlov. Tuttavia, la principale paura di Lenin era in quel momento che una spaccatura aperta nella direzione, in condizioni difficili, avrebbe potuto condurre ad una spaccatura del partito su linee di classe. Cercò quindi di mantenere la lotta confinata nella direzione, e le note e altro materiale non furono resi pubblici. Lenin scrisse segretamente ai bolscevichi-leninisti georgiani (inviando copie a Trotskij e Kamenev) difendendo la loro causa contro Stalin “con tutto il cuore”. Poiché non poteva seguire la questione di persona, scrisse a Trotskij chiedendogli di assumere la difesa dei georgiani nel comitato centrale.
L’evidenza documentaria delle ultime battaglie di Lenin contro Stalin e la burocrazia vennero nascosti per decenni da Mosca. Gli ultimi scritti di Lenin furono nascosti alla base del partito comunista in Russia e a livello internazionale. L’ultima lettera di Lenin al congresso, nonostante le proteste della vedova, non venne letta al congresso e rimase sotto chiave fino al 1956, quando la cricca di Kruscev la pubblicò, con altro materiale sulla Georgia e sulla questione nazionale. Dunque, la lotta di Lenin per difendere le vere politiche del bolscevismo e dell’internazionalismo proletario furono lasciate nel dimenticatoio.
“Socialismo in un paese solo”
Nazionalismo e marxismo sono incompatibili. Ma il nazionalismo è l’inseparabile gemello siamese dello stalinismo in tutte le sue varianti. Al cuore dell’ideologia dello stalinismo c’è la cosiddetta teoria del socialismo in un solo paese. Questa categoria antimarxista non avrebbe mai potuto essere appoggiata da Marx o da Lenin. Ancora nel 1924, Stalin dichiarava il suo appoggio alla posizione internazionalista di Lenin. Nel febbraio dello stesso anno, nei Principi del leninismo, Stalin riassunse così la concezione di Lenin sulla costruzione del socialismo:
“Il rovesciamento del potere della borghesia e la costituzione di un governo proletario in un solo paese non garantisce ancora la completa vittoria del socialismo. Il compito fondamentale del socialismo, l’organizzazione della produzione socialista, è ancora lontano. Può la vittoria finale del socialismo essere ottenuta in un solo paese senza lo sforzo congiunto del proletariato di molti paesi avanzati? No, è impossibile. Per rovesciare la borghesia gli sforzi di un paese non bastano, lo evidenzia la storia della nostra rivoluzione. Per la vittoria finale del socialismo, per l’organizzazione della produzione socialista, gli sforzi di un paese, particolarmente di un paese contadino come la Russia, sono insufficienti. Per questo occorrono gli sforzi uniti dei proletari di molti paesi avanzati.
Queste, nel loro insieme, sono le caratteristiche distintive della teoria leninista della rivoluzione proletaria.“
Che proprio queste fossero le “caratteristiche distintive della teoria leninista della rivoluzione proletaria” non fu mai in discussione fino alla prima metà del 1924. Vennero ripetute in centinaia di scritti, articoli e documenti da Lenin sin dal 1905. Ma prima che il 1924 finisse, il libro di Stalin fu modificato e fu inserita la posizione esattamente opposta. Alla fine del 1926, Stalin poteva asserire la concezione contraria: “Il partito parte sempre dall’idea che la vittoria del socialismo in questo paese e questo obiettivo si possono ottenere con le forze di un solo paese.”
Queste idee segnano una completa rottura con la politica di Lenin dell’internazionalismo proletario. Stalin non avrebbe mai potuto esprimere tali idee quando Lenin era ancora vivo. All’inizio, la “teoria” del socialismo in un solo paese rifletteva l’ambiente della nascente casta di burocrati che avevano tratto guadagni dalla rivoluzione d’ottobre e volevano farla finita con i tumulti e i fastidi del periodo rivoluzionario. Non era altro che l’espressione teorica della reazione piccolo borghese contro l’ottobre. Sotto le bandiere del socialismo in un solo paese, la burocrazia stalinista condusse una guerra civile unilaterale contro il bolscevismo che portò all’eliminazione fisica del partito di Lenin e alla creazione di un mostruoso regime totalitario.
Questo regime, che fu creato sulle ceneri del partito bolscevico, distrusse infine ogni lascito della rivoluzione d’ottobre. Ma questo non era chiaro da subito. Dopo la rivoluzione russa, l’Internazionale Comunista difese per un certo periodo una posizione corretta sulla questione nazionale. Tuttavia, con lo sviluppo dello stalinismo e la degenerazione della Terza Internazionale si persero le idee fondamentali. La maggior parte dei dirigenti dei partiti comunisti esteri seguiva ciecamente la linea di Mosca. Chi cercò di mantenere una posizione indipendente fu espulso. Il Comintern si trasformò da veicolo della rivoluzione mondiale a strumento della politica estera di Stalin. Quando non fece più al caso suo, questi la dissolse sprezzantemente nel 1943, senza nemmeno un congresso.
Solo un uomo spiegò in anticipo, a che cosa avrebbe portato la teoria del socialismo in un solo paese. Già nel 1928, Lev Trotskij avvertì che se il Comintern avesse adottato quella teoria, avrebbe inevitabilmente innescato un processo di degenerazione riformista-nazionale di ogni partito comunista del mondo, che fosse o meno al potere. Tre generazioni dopo, l’Urss e l’Internazionale Comunista sono state fatte a pezzi e i partiti comunisti di ogni paese hanno da tempo abbandonato ogni pretesa di lottare per una vera politica leninista.
Trotskij e la questione ucraina
Per Trotskij, come per Lenin, la questione se si dovesse o meno sostenere il diritto all’autodeterminazione era una questione concreta, la cui risposta derivava interamente dagli interessi del proletariato e della rivoluzione mondiale. Un buon esempio del metodo di Trotskij fu il suo atteggiamento verso l’Ucraina negli anni ’30. La condotta mostruosa della burocrazia stalinista verso l’Ucraina danneggiò gravemente i legami di solidarietà stabiliti tra Russia e Ucraina dalla rivoluzione d’ottobre.
Come la Georgia, l’Ucraina era un’economia agricola composta per lo più da contadini. L’Ucraina, che era un vasto paese dalle dimensioni e dalla popolazione simili alla Francia, occupava una posizione strategica per i bolscevichi. La vittoria della rivoluzione in Ucraina era cruciale per estendere la rivoluzione in Polonia, nei Balcani e, cosa più importante, in Germania. Nel gennaio del 1919 Christian Rakovsky, presidente dei Commissari del Popolo della repubblica sovietica ucraina dichiarò che “l’Ucraina è veramente un punto nodale strategico per il socialismo. Creare un’Ucraina rivoluzionaria significherebbe incendiare i Balcani e dare al proletariato tedesco la possibilità di resistere alla carestia e all’imperialismo mondiale. La rivoluzione ucraina è il fattore decisivo della rivoluzione mondiale” (Christian Rakovsky, Scritti scelti, p. 24).
Il potere sovietico vinse in Ucraina con difficoltà. In parte ciò fu dovuto all’intervento straniero, ma la difficoltà principale fu la predominanza dell’elemento contadino. La questione nazionale aggravava la situazione. Sebbene la lingua ucraina sia molto simile al russo e i due popoli abbiano due secoli di storia comune (Kiev era originariamente la capitale della vecchia Rus), gli ucraini formano comunque una popolazione autonoma con la propria lingua, la propria cultura e identità nazionale, un fatto non sempre riconosciuto dai grandi russi che chiamano tradizionalmente gli ucraini i “piccoli russi”.
La divisione nazionale in Ucraina coincideva in buona parte con le divisioni di classe della società ucraina, dove l’80% era composto da contadini che parlavano ucraino mentre gran parte della popolazione urbana parlava russo. Così i bolscevichi avevano una forte base nelle città, ma erano molto deboli nelle campagne. Dalla soluzione di questo problema dipendeva la rivoluzione ucraina. La debolezza dei bolscevichi faceva si che apparissero come un partito “russo ed ebreo”. Ma l’evolversi della rivoluzione creò le condizioni per una differenziazione della classe contadina e si riflesse nella rottura delle vecchie organizzazioni nazionaliste ucraine. Lo sviluppo più importante fu l’evoluzione verso sinistra dei borotbisti, l’equivalente ucraino dei socialrivoluzionari di sinistra russi. Durante la guerra civile, questi borotbisti si unirono ai bolscevichi, per combattere i bianchi (Petlyura). Nonostante i dubbi dei bolscevichi ucraini, Lenin richiese a più riprese che si unissero ai borotbisti. Dopo molte difficoltà, i borotbisti si fusero alla fine con il partito comunista, dando così ad esso per la prima volta una base di massa tra i contadini ucraini. Un evento decisivo per la vittoria della rivoluzione in Ucraina.
Anche se è vero che ci furono molti problemi per una deviazione “nazionalista” del partito ucraino, questa deviazione fu superata con la pazienza e il tatto che caratterizzarono sempre la politica di Lenin e Trotskij nella questione nazionale. Ma l’ascesa di Stalin e la degenerazione burocratica dello stato sovietico inasprirono enormemente lo scontento in Ucraina. Al ventesimo congresso del partito, nel 1923, Rakovsky guidò la battaglia contro le crescenti tendenze verso il burocratismo e lo sciovinismo grande-russo. In un coraggioso discorso al congresso, Rakovsky chiarificò molto bene le radici del problema in termini molto vicini a quelli di Lenin:
“Stalin è rimasto solo alla superficie della spiegazione – affermò -, c’è una seconda e più importante spiegazione, ovvero la divergenza frontale tra il nostro partito e il nostro programma da una parte e il nostro apparato statale dall’altro. Questa è la questione centrale, cruciale” (Ibid., p. 33).
E spiegò ancora: “Le nostre autorità centrali cominciano a considerare l’amministrazione di tutto il paese dal punto di vista della convenienza. Naturalmente, è faticoso amministrare venti repubbliche, e sarebbe conveniente se stessero tutte assieme. Dal punto di vista burocratico sarebbe più semplice, più comodo, più piacevole.”
La concentrazione del potere nelle mani di una nuova aristocrazia privilegiata di burocrati ebbe un effetto disastroso sulla questione nazionale in Urss. L’avventura burocratica della collettivizzazione forzata ebbe effetti devastanti in tutta l’Unione, ma da nessuna parte così disastrosi come in Ucraina. Le purghe di Stalin qui cominciarono prima che altrove, a causa del grado di resistenza a questa pazzia che condusse le masse contadine ucraine all’opposizione. Questo a sua volta si riflesse nella crescente opposizione della base del partito comunista ucraino. Tra il 1933 e il 1936, il partito ucraino venne decimato da Stalin. In un solo anno, nel 1933, più della metà dei segretari regionali di partito furono rimossi. Molti di quelli sottoposti a purga erano sostenitori di Stalin, come Skrypnik, un vecchio bolscevico e noto dirigente del partito ucraino che per protesta si suicidò nel 1933.
Era solo il primo colpo. Nel 1938, al culmine delle purghe di Mosca, quasi metà dei segretari di tutte le organizzazioni di partito vennero nuovamente rimossi. Si trattava di un avvertimento che la burocrazia di Mosca avrebbe tollerato solo una totale sottomissione.
Dal suo esilio all’estero Trotskij seguiva questi eventi con allarme crescente. Constatando che le purghe avevano colpito l’Ucraina più di qualsiasi altra repubblica, concluse che le misure oppressive della burocrazia russa avrebbero significato un peso intollerabile sulle relazioni tra Ucraina e il resto dell’Unione Sovietica. Capiva il pericolo di un ritorno del nazionalismo controrivoluzionario della borghesia ucraina. In tali circostanze, un simile sviluppo avrebbe trovato una grande eco tra i contadini. Trotskij avvertiva già il mondo dell’inevitabilità di una nuova guerra mondiale in cui Hitler avrebbe cercato di conquistare l’Unione Sovietica. In queste circostanze, la questione ucraina assumeva un’importanza decisiva per il futuro del mondo.
Fu in quelle specifiche circostanze che Trotskij propose la richiesta dell’indipendenza dell’Ucraina socialista sovietica. La sua intenzione era ben chiara: tagliare il terreno sotto i piedi ai nazionalisti borghesi ucraini che facevano campagna per staccare l’Ucraina dall’Urss su basi reazionarie, il che avrebbe significato consegnare il paese, con le sue immani risorse agricole e industriali a Hitler. Trotskij capì che una rivoluzione politica in Ucraina avrebbe inevitabilmente posto all’ordine del giorno la questione nazionale. E capì che la situazione era troppo compromessa per impedire che l’Ucraina si separasse da un’unione forzosa che nella mente delle masse era ormai associata alla violenza, alle sofferenze e all’umiliazione nazionale. L’obiettivo dei bolscevichi-leninisti ucraini era perciò dare al movimento nazionale ucraino un contenuto socialista e non borghese.
Una rivoluzione vittoriosa in Ucraina avrebbe avuto un fortissimo impatto in Russia e negli stati vicini, soprattutto nell’Ucraina occidentale che marciva sotto il tallone della dittatura bonapartista di Pilsudski in Polonia. La riunificazione dell’Ucraina sulla base di un regime socialista sovietico indipendente avrebbe condotto alla caduta di Pilsudski e all’inizio della rivoluzione socialista in Polonia, aiutando la classe operaia tedesca a rivoltarsi contro Hitler. Come nel 1919, l’Ucraina era dunque “la chiave della rivoluzione mondiale”. Se la classe operaia ucraina fosse giunta al potere, anche se ciò avesse condotto a una separazione dalla Russia, ci sarebbe stata l’opportunità di una federazione con la Russia in seguito. In ogni modo, le cose andarono diversamente da come Trotskij aveva previsto. La seconda guerra mondiale modificò queste prospettive.
Quando Stalin firmò il famigerato patto con Hitler e mandò l’Armata Rossa a occupare la sua parte di Polonia, tra cui l’Ucraina occidentale, Trotskij avvertì che Hitler avrebbe inevitabilmente violato il patto e attaccato l’Urss. In questa situazione, lo scontento nazionale in Ucraina poneva un pericolo mortale per l’Unione Sovietica: “La regola di Hitler consiste nel fissare un ordine del giorno per le sue conquiste, nel realizzarle una dopo l’altra, e nel creare per ogni nuova conquista un nuovo sistema di “amicizie”. Nella fase attuale, Hitler lascia provvisoriamente in deposito al suo amico Stalin la “grande Ucraina”. Nella fase successiva, porrà la questione: chi è padrone di questa Ucraina, Stalin o Hitler?” (Guerra e rivoluzione, ed. it., p. 82).
Avvertì che l’oppressione nazionale dell’Ucraina da parte della burocrazia stalinista grande-russa avrebbe spinto gli ucraini nelle armate hitleriane. Proprio per questo, Trotskij propose lo slogan dell’Ucraina sovietica indipendente come mezzo per combattere il nazionalismo reazionario borghese ucraino e per conquistare lavoratori e contadini ucraini all’idea del potere sovietico. Alla vigilia della seconda guerra mondiale scrisse: “L’orientamento filotedesco di una parte dell’opinione pubblica ucraina mostrerà ora la sua natura insieme reazionaria e utopica. Non rimane che un orientamento rivoluzionario. La guerra accelererà infinitamente il corso degli eventi. Per non essere colti impreparati, bisogna prendere per tempo una posizione chiara sulla questione ucraina” (Scritti 1939-40, p. 86).
Nel 1941, esattamente un anno dopo il suo assassinio per mano di un agente di Stalin, Hitler invase l’Unione Sovietica come aveva previsto Trotskij. E come temeva, molti ucraini, specialmente i contadini, inizialmente guardarono alla Germania con un certo grado di speranza, o almeno di rassegnazione. Ma la situazione mutò rapidamente come risultato delle folli politiche dei nazisti, con la loro pazzia delle “razze inferiori”. Se l’Unione Sovietica fosse stata invasa da truppe americane, con merci a basso costo al seguito, le cose sarebbero andate diversamente. Ma le truppe di Hitler arrivarono con le camere a gas. Il risultato fu che la massa della popolazione, non solo in Ucraina ma in tutta l’Urss, si compattò nella lotta agli invasori nazisti. Alla fine, il numero dei collaborazionisti fu relativamente basso. Nonostante i crimini dello stalinismo, lo videro come il male minore.
È importante osservare che Trotskij considerava l’Ucraina un caso speciale. Propose la rivendicazione di una “Ucraina sovietica indipendente” per ragioni particolari. Non avanzò mai la stessa richiesta per un’altra repubblica dell’Urss. Inoltre, questa richiesta non è più applicabile oggi.
Dopo il crollo dell’Urss, l’Ucraina, come tutte le altre ex repubbliche, ha ottenuto l’indipendenza. Ma dopo un’esperienza decennale delle gioie del capitalismo e dell’indipendenza, le masse dell’Ucraina non vogliono nessuno dei due. Hanno tratto la conclusione dallo spaventoso crollo economico e civile che ne è derivato. Cresce così un ambiente favorevole alla ricostituzione dell’Unione Sovietica. Naturalmente, gli ucraini vogliono diritti democratici, tra cui la necessaria autonomia di gestire i propri interessi e il rispetto delle giuste aspirazioni nazionali, della lingua e della cultura. Vogliono essere trattati come uguali, non come “piccoli russi”. In altre parole, vogliono una vera federazione socialista, basata su principi leninisti. Questo è anche il nostro programma. Proporre, in queste circostanze concrete, il vecchio slogan della “Ucraina sovietica indipendente” sarebbe ridicolo. Ci renderebbe più arretrati dell’ucraino medio che capisce che l’indipendenza non è una soluzione.
Anche più stupido è il tentativo di applicare il vecchio slogan di Trotskij in modo meccanico al Kosovo, come hanno fatto alcuni gruppettari. Si sono imbattuti in questa frase di Trotskij nei suoi scritti degli anni ’30, la ripetono come pappagalli, senza la minima comprensione del perché Trotskij propose quella rivendicazione. Il metodo dialettico, usato da Lenin e Trotskij, si basa sulla proposizione elementare che “la verità è sempre concreta”. Abbiamo già spiegato le ragioni specifiche che spinsero Trotskij in quella specifica circostanza a fare quella particolare proposta. Ma il caso del Kosovo, oltre mezzo secolo dopo, non ha alcuna similitudine con quello.
La dissoluzione della Jugoslavia, come quella dell’Urss, è stata un evento del tutto reazionario che non può essere appoggiato. E come sempre nei Balcani, dietro ogni movimento nazionale c’è qualche grande potenza che muove i fili. Per le grandi potenze, le piccole nazioni sono merce di scambio che usano cinicamente quando gli fa comodo. L’elemento decisivo nella situazione è costituito dalle manovre dell’imperialismo statunitense, che si nasconde dietro alla bandiera della Nato. L’Uck è un movimento del tutto reazionario che in questa situazione ha agito come agenzia locale dell’imperialismo americano. In queste circostanze, come abbiamo spiegato più volte sin dall’inizio, la guerra in Kosovo, combattuta presuntamente per la “autodeterminazione” del Kosovo, sarebbe necessariamente finita con la costituzione di un protettorato americano nella zona. Ed è proprio quello che è successo. Se c’è ancora qualcuno così cieco da non vederlo, ci dispiace per lui.
Che cosa c’entra questo, ci chiediamo, con l’autodeterminazione? In quale modo questa situazione aiuta la causa della classe operaia e del socialismo? L’Uck, un’organizzazione di criminali, trafficanti, ruffiani e massacratori di serbi, di zingari e altre minoranze, cerca di andare al potere nella speranza di avere indipendenza. Ma è impossibile. Un Kosovo indipendente significherebbe la guerra nei Balcani, e coinvolgerebbe non solo la Jugoslavia, ma l’Albania, la Macedonia, la Grecia, la Bulgaria e la Turchia. Per questa ragione gli imperialisti americani sono contrari. Ma, come dice il detto, “i folli si affrettano dove gli angeli temono di camminare”. Che cosa importa se scoppia una guerra in tutti i Balcani?, rispondono i settari, quello che conta è l’indipendenza del Kosovo. Questa pazzia sarebbe già grave, ma altri settari, ancora più fuori di testa, aggiungono una richiesta originale: “Indipendenza sì, ma socialista sovietica”.
È un peccato che gli scritti di questi geni non fossero a disposizione degli ufficiali del quartier generale della Nato, che senza dubbio avevano bisogno di un po’ di divertimento di tanto in tanto. Avrebbero fatto morire dal ridere i generali americani. L’Uck non esiste senza l’esercito americano, di cui è in realtà un reparto ausiliario. In quanto tale, non ha nessuna funzione indipendente. Solo ben nascosto dietro gli eserciti occidentali, l’”eroico” Uck è ritornato in Kosovo. E agisce solo quando gli viene ordinato. Se, come è possibile, l’Uck sgarra, verrà liquidato. La vera situazione è che l’imperialismo ora domina il Kosovo e ci rimarrà a lungo perché non ne può uscire facilmente. Questa è la realtà in Kosovo. Questa è la “autodeterminazione” portata dalle bombe americane. Aspettarsi qualcos’altro sarebbe stato da stupidi. Eppure c’erano presunti marxisti che sostennero quell’azione, anzi, la richiesero. Uno di questi signori (un “teorico marxista” a sentir loro) arrivò in effetti a scrivere a Robin Cook, il ministro degli esteri britannico, chiedendo alla Nato di bombardare la Jugoslavia. Certo, erano tutti in favore dell’autodeterminazione e dell’indipendenza e anche di un “Kosovo indipendente socialista”. Ma ora, di fronte alla realtà concreta di una nuova colonia dell’imperialismo nei Balcani e dell’orribile spettacolo di una minoranza finora oppressa che massacra e opprime le altre nazionalità che possono dire?
La questione nazionale è davvero una trappola per quelli che non considerano le cose nel loro sviluppo e fino alla loro conclusione. Se non si mantiene una ferma posizione di classe si finirà semplicemente con il cambiare l’oppressore. Il Kosovo ce ne dà un altro esempio.
La questione nazionale e lo stalinismo
Lenin spiegò che la questione nazionale è, in ultima analisi, una questione di pane. Il rapido sviluppo economico dell’Urss, reso possibile dall’economia nazionalizzata e pianificata, significò un brusco aumento nel tenore di vita e nel livello culturale di tutti i popoli dell’Unione sovietica. I miglioramenti più grandi vennero conquistati nelle repubbliche più arretrate del Caucaso e dell’Asia centrale. Fra il 1917 e il 1956 la produzione complessiva in Urss crebbe di oltre 30 volte. Ma in Kazakistan l’aumento fu di 37 volte, in Kirghizistan di 42 e in Armenia di 45. Crescite simili vennero registrate in Uzbekistan, in Tagikistan, ecc. Eppure nonostante queste conquiste significative, l’oppressione nazionale continuava ad esistere in Unione sovietica. Le vanterie della burocrazia al riguardo erano infondate. Eccone un esempio tipico:
“L’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, un tipo di stato multinazionale mai conosciuto in precedenza nella storia, è fondata sui principi della cooperazione fraterna e della fiducia reciproca. Essa è abitata da nazioni socialiste (?) – russi, ucraini, georgiani, uzbeki e altri.
Queste sono nazioni di nuovo tipo (?), senza paralleli storici. Esse sono legate da un’unità politica e morale e dall’amicizia genuina di popoli che costruiscono una nuova società. Queste nazioni hanno una nuova costituzione morale e politica, che si manifesta in una cultura comune, socialista nel contenuto e nazionale nella forma. Sono state educate dal Partito comunista nello spirito del patriottismo sovietico, dell’amicizia fra i popoli e del rispetto dei diritti degli altri popoli, nello spirito dell’internazionalismo” (introduzione al testo di Lenin La questione della politica nazionale e l’internazionalismo proletario).
I miti edulcorati della burocrazia, che presentava sotto una luce idealizzata i rapporti fra i popoli dell’Urss, avevano poco a che vedere con la reale situazione. Non è questo il luogo per trattare in dettaglio l’evoluzione dell’Urss dopo la morte di Lenin. A questo proposito, rimandiamo il lettore al libro di Ted Grant Russia, dalla rivoluzione alla controrivoluzione, nel quale la questione nazionale in Urss viene trattata più a fondo. Basti qui dire che il mostruoso sciovinismo di Stalin e della burocrazia minò la solidarietà che esisteva fra i diversi popoli dell’Unione, spianando così la strada alla rottura dell’Urss, la quale è avvenuta a scapito degli interessi di tutti i popoli. Se si accettasse la propaganda stalinista, secondo la quale tutto era perfetto, sarebbe impossibile spiegare la rapidità del crollo dell’Unione sovietica. La verità è molto diversa.
Sotto Stalin vennero commesse le azioni più mostruose contro le minoranze nazionali dell’Urss. Le purghe completarono il lavoro iniziato da Stalin nel 1922: la liquidazione di quanto rimaneva del Partito bolscevico. Intorno alla metà del 1937 venne lanciato un attacco su vasta scala contro i partiti comunisti di tutte le repubbliche. Molti dei dirigenti dei diversi partiti nazionali vennero inclusi fra gli accusati del tristemente noto processo farsa contro Bukharin nel marzo 1938. I dirigenti venivano solitamente accusati di “nazionalismo borghese”, e condannati a morte. Dopodiché era aperta la strada alle deportazioni di massa. Il numero esatto delle vittime delle purghe di Stalin non sarà probabilmente mai conosciuto, ma è certo che assommò a milioni. Né era di consolazione per gli ucraini, gli armeni, i georgiani, il fatto che gli stessi russi soffrissero in modo non meno penoso. L’estremo nazionalismo russo di Stalin venne riassunto in un discorso, pubblicato sulla “Pravda” il 25 maggio 1945, nel quale dichiarava che il popolo russo era “la più preminente nazione fra tutte le nazioni dell’Unione sovietica” e la “forza guida” dell’Urss. Implicitamente, questo significava che tutte le altre nazionalità erano popoli di seconda classe che dovevano accettare la “guida” di Mosca”. Questa concezione violava la lettera e lo spirito della politica leninista sulla questione nazionale.
Il crimine più mostruoso commesso da Stalin furono le deportazioni di massa portate avanti durante la Seconda guerra mondiale. Durante la guerra, non meno di sette interi popoli vennero deportati in Siberia e in Asia centrale, nelle condizioni più inumane. Questo fu il destino dei Tartari di Crimea, dei tedeschi del Volga, dei calmucchi, dei karachi, dei balkiri, dei ceceni e degli ingusceti. L’Nkvd – la polizia segreta di Stalin – rastrellava tutti, uomini, donne, bambini, vecchi, malati, comunisti e sindacalisti, e li spingeva in punta di baionetta sui carri bestiame, permettendo loro di portare con sé solo quanto riuscivano a trasportare. Molti morirono durante il viaggio, o appena arrivati, per fame, freddo o esaurimento. Anche soldati che combattevano al fronte, compresi i decorati al valore, vennero allo stesso modo arrestati e deportati. L’eredità di odio e amarezza creata da questi atti di crudele e barbara oppressione nazionale è durata fino ad oggi. Si è espressa nella disintegrazione dell’Unione sovietica e nell’incubo della Cecenia.
La spinta a russificare i popoli non russi emerge anche dalla composizione degli organismi dirigenti dei partiti “comunisti” delle diverse repubbliche. Nel 1952, solo una metà circa di tutti i funzionari dirigenti in Asia centrale e nelle repubbliche baltiche erano di origine locale. Altrove la proporzione era ancora più bassa. Per esempio, nel partito moldavo solo il 24,7 degli iscritti era di nazionalità moldava, e nel 1948 solo il 38 per cento degli iscritti al partito tagiko era di nazionalità tagika.
Uno degli aspetti più repulsivi dello stalinismo fu l’antisemitismo. Il partito bolscevico aveva sempre combattuto l’antisemitismo. Di conseguenza, gli ebrei videro nella rivoluzione d’Ottobre la loro salvezza. I bolscevichi diedero agli ebrei la completa libertà e l’uguaglianza dei diritti. Vennero incoraggiate la cultura e la lingua, e giunsero persino a formare una repubblica autonoma per quegli ebrei che avessero voluto vivere in uno Stato separato. Ma sotto Stalin, risorse tutta il vecchio lerciume razzista. Di nuovo gli ebrei divennero il capro espiatorio. Già negli anni ’20 Stalin era disposto ad utilizzare l’antisemitismo contro Trotskij. Poiché gli ebrei costituivano una parte significativa dei vecchi bolscevichi, essi soffrirono in modo sproporzionato durante le purghe. Dopo la seconda guerra mondiale ci fu una campagna antisemita, solo in parte mascherata sotto la foglia di fico di una lotta contro i “sionisti” e i “cosmopoliti sradicati”, espressioni che non significavano altro che “ebreo”. Il tristemente noto “complotto dei camici bianchi”, nel quale diversi medici del Cremlino vennero accusati di aver tentato di avvelenare Stalin, fu il segnale di una spudorata campagna antisemita, poiché i medici in questione erano tutti ebrei.
Dopo la dichiarazione dello Stato di Israele (che inizialmente Mosca appoggiò), la cultura ebraica, fin lì tollerata, venne duramente repressa. Tutte le pubblicazioni in yiddish vennero chiuse, così come i teatri yiddish. Nel 1952, l’anno precedente la morte di Stalin, praticamente tutte le figure di primo piano della cultura ebraica erano state fucilate, e un gran numero di ebrei arrestati. Solo la morte di Stalin prevenì una nuova purga. Persino oggi, elementi di antisemitismo sono presenti nel cosiddetto partito “comunista” di Zyuganov. Questo è di per sé sufficiente a dimostrare l’abisso che separa lo stalinismo (e il neo-stalinismo) dall’autentico leninismo.
Ora, i nodi sono tutti giunti al pettine. L’Urss è crollata in un bagno di sangue di guerre e conflitti. “La vita insegna”, come Lenin amava ripetere. E la vita ha inflitto ai popoli dell’Unione sovietica delle amare lezioni. Il fallimento del “socialismo in un solo paese” è esploso in faccia alla burocrazia, che ora è tutta indaffarata nell’opera di trasformarsi in nuova classe capitalista sfruttatrice. Nessuno può ignorare il fatto che nell’epoca moderna l’economia mondiale è il fattore decisivo. Il “socialismo in un paese solo” si è dimostrato essere un’utopia reazionaria.
L’incubo odierno, con il crollo economico, le guerre e i conflitti etnici, è l’eredità avvelenata di decenni di dominio burocratico totalitario da parte di Mosca. Tuttavia, il capitalismo non offre alcuna via d’uscita per le ex repubbliche sovietiche. L’indipendenza formale non ha risolto nessuno dei loro problemi. Al contrario: la distruzione dei legami che le collegavano a un piano comune di produzione ha condotto al crollo del commercio e della crescita economica, con conseguenze terribili per le masse. La maggior parte della popolazione indubbiamente preferirebbe tornare alla situazione precedente rispetto alla miseria odierna. La ricostruzione dell’Urss sarebbe un passo progressista, ma un ritorno al vecchio sistema burocratico non sarebbe una soluzione durevole. Tutte le vecchie contraddizioni riemergerebbero, portando a una nuova crisi. È necessario tornare al programma e alle idee originarie di Lenin e Trotskij: un regime di democrazia operaia basato sui soviet nel quale i lavoratori di tutte le repubbliche possano stabilire una federazione socialista basata su una reale eguaglianza e fraternità, nella quale nessuna nazionalità sia predominante sulle altre.
Nonostante tutto, la prospettiva della trasformazione socialista della società è ancora presente. Nonostante il crollo pauroso dell’ultimo periodo, la Russia non è più il paese contadino, arretrato e analfabeta del 1917. Una volta che la classe operaia prenda in mano il potere, si aprirebbe la prospettiva perlomeno di muovere in direzione del socialismo, anche se una vittoria definitiva può essere ottenuta solo su scala mondiale. La Russia e i paesi della Csi hanno un enorme potenziale produttivo, e una non meno gigantesca forza lavoro istruita, che rappresenta un fattore chiave per lo sviluppo delle nuove tecnologie. Il capitalismo si è dimostrato incapace di valorizzare questo potenziale. Ma un’economia nazionalizzata e pianificata democraticamente potrebbe rapidamente trasformare l’intera situazione.
In base a un’economia moderna, grazie alla quale la classe lavoratrice è oggi la schiacciante maggioranza della società, un piano di produzione socialista democratico, che mettesse a frutto tutte le immense risorse naturali, umane e tecnologiche di un territorio così ampio produrrebbe una tale abbondanza che, in un lasso di tempo relativamente breve tutte le vecchie rivalità nazionali e i sospetti reciproci diventerebbero solo brutte memorie del passato. La strada sarebbe aperta per una libera mescolanza dei popoli in una libera unione socialista, con tutto quello che significherebbe in termini di sviluppo culturale dell’umanità. Questa visione del futuro può essere di ispirazione mille volte di più dell’utopia ristretta ed essenzialmente misantropica del nazionalismo.
Parte V – Lo Stato nazionale oggi
Nel periodo classico delle rivoluzioni borghesi in Europa – approssimativamente dal 1780 al 1871 – la formazione degli Stati nazionali giocò un ruolo relativamente progressista nello spezzare i particolarismi locali, distruggere i resti del feudalesimo e porre le basi per lo sviluppo delle forze produttive fondate sui mercati nazionali. Ma nell’epoca presente, l’intera situazione è stata trasformata. I mezzi di produzione hanno da tempo superato i limiti ristretti dello Stato nazionale. Oggi lo Stato nazionale ha cessato di assolvere a qualsivoglia ruolo progressivo. Anziché sviluppare i mezzi di produzione, è un enorme freno. Questo viene implicitamente riconosciuto dalla borghesia stessa. La formazione dell’Unione europea è stata un’ammissione da parte della borghesia europea che gli Stati europei erano pigmei che non potevano competere con i due giganti dell’America imperialista e della Russia stalinista. Ma la formazione dell’Unione europea non ha abolito gli stati nazionali in Europa, al contrario. I vecchi antagonismi nazionali continuano ad esistere. In realtà oggi l’imperialismo tedesco domina l’Europa con la Francia in posizione di socio di minoranza. Ma gli antagonismi nazionali continuano ad esistere e sulla base di una recessione mondiale si intensificheranno.
Gli apologeti del capitalismo amano presentare un quadro roseo della cosiddetta globalizzazione, un mondo libero dalle contraddizioni che si muove soavemente verso una libertà e una liberalizzazione sempre maggiore. La realtà è molto diversa. Il mondo non è diventato globalizzato nel modo che essi pretendono. Da un lato, tende a rompersi in tre blocchi imperialisti rivali. Gli Usa controllano il Canada e il Sud America. In Asia c’è un blocco più debole dominato dal Giappone. L’Unione europea, dominata dalla Germania, controlla anche ampi settori del mondo coloniale in Africa, Medio oriente, Europa orientale e nei Caraibi. Gli antagonismi fra questi tre blocchi non sono mai stati così intensi nella storia come lo sono oggi. In qualsiasi altra epoca storica, questa rivalità avrebbe già portato alla guerra fra i tre blocchi. Oggi una guerra mondiale appare esclusa a causa dell’avvento di tali mezzi di distruzione di massa – nucleari, batteriologici e chimici – che le grandi potenze rischierebbero l’annientamento reciproco. Ma c’è una lotta feroce per i mercati, che inevitabilmente conduce alla guerra in una regione del mondo dopo l’altra. Basti citare la lotta per le sfere d’influenza, per l’accesso ai mercati e alle favolose ricchezze minerarie della regione che ha portato alla catastrofica epidemia di conflitti nell’Africa centrale. Questi sono presentati in genere come risultato di scontri tribali e di pura barbarie da parte degli africani. Ma dietro la maggior parte di questi conflitti possiamo vedere gli effetti della lotta fra Usa, Francia e Gran Bretagna per mantenere i propri accessi in Africa usando i loro burattini in un campo o nell’altro.
Il mondo descritto nell’Imperialismo di Lenin corrisponde con grande accuratezza all’attuale situazione internazionale. C’è una lotta intensa per i mercati fra le potenze imperialiste, anche per conquistare piccole quote. Siamo molto lontani dal quadro idilliaco di un mondo globalizzato nel quale tutte le contraddizioni sono state risolte. In realtà le potenze imperialiste si stanno azzuffando come cani attorno a un osso. Basta gettare uno sguardo alla cartina dell’Africa per vedere come i crimini dell’imperialismo abbiano distorto brutalmente la vita e lo sviluppo di milioni di esseri umani. Le frontiere venivano tracciate con il righello sulle mappe. L’Economist descrive con accuratezza cosa accadeva realmente: “I burocrati europei raggrupparono in modo causale forse 10.000 differenti tribù in poche decine di Stati coloniali”. Le guerre attuali in Africa centrale sono in parte l’eredità di questa mostruosa spartizione che calpestava tutte le divisioni naturali, geografiche, linguistiche e tribali. Per una serie di paese si tratta di un orrore senza fine, con elementi di barbarie: Congo, Ruanda, Burundi, Sierra Leone. Un articolo dell’Economist riferisce della guerra in Sierra Leone: “Bambini che uccidono i genitori, bande di cannibali che vagano per le campagne, domina il caos fiorisce la barbarie. Sierra Leone è l’ultimo paese africano a dissolversi in un caos sanguinoso. E il risultato potrebbe essere ancora peggiore.“
La spartizione imperialista dell’Africa fu un atto mostruoso. Ma oggi, a oltre un secolo di distanza, sono stati formati una serie di Stati nazionali in Africa. Il compito di dare ai diversi Stati dell’Africa post-coloniale un carattere realmente democratico, razionale e progressista può essere assolto solo dal proletariato una volta che abbia definitivamente rovesciato la dominazione dell’imperialismo e dei suoi scagnozzi locali. L’indipendenza e la capacità di resistere a qualsiasi tentativo di dominazione straniera possono essere raggiunti solo unendo il corpo diviso dell’Africa in base ad un piano comune socialista di produzione. Lo sfruttamento congiunto delle enormi ricchezze naturali del continente, il suo vasto potenziale agricolo e minerario, possono trasformare la vita dei popoli e porre fine all’incubo dei conflitti etnici.
Tuttavia il tentativo di rimescolare le carte su basi capitaliste, alterando con la guerra le frontiere attuali, può solamente avere i risultati più distruttivi e potrebbe condurre direttamente alla barbarie. Proporre di fronte a milioni di persone disperate la prospettiva di risolvere i propri problemi più pressanti alterando le frontiere non è che una vile menzogna.
In Africa è più chiaro che in qualsiasi altro luogo la natura reazionaria che può assumere un utilizzo falsificato dello slogan dell’autodeterminazione. Più volte questo è stato usato per fini reazionari, per indebolire certi Stati separandone le province ricche di risorse minerarie in modo che potessero essere più facilmente dominate dalle potenze straniere e dalle grandi compagnie multinazionali. In tutti questi casi c’era il coinvolgimento dell’imperialismo. C’è uno scontro titanico fra Stati uniti e Francia per i mercati africani. Imitando i grossi lupi, anche il cagnolino britannico tenta di intervenire in Sierra Leone, anche se prevedibilmente senza gran successo.
Alla faccia di tutti i bei discorsi sulla liberalizzazione e la democrazia, la sostanza delle cose è che l’imperialismo sta portando avanti la più feroce oppressione e sfruttamento dei popoli ex coloniali. Il basso prezzo delle materie prime è stato un fattore importante nella crescita economica dell’occidente negli ultimi 50 anni. Questo in sé è già una dimostrazione dei limiti dello Stato nazionale. Il fatto è che sulla base del capitalismo, la conquista dell’indipendenza formale, che di per sé è uno sviluppo progressivo, non può risolvere nulla. I popoli coloniali, che teoricamente ora sono padroni in casa propria, sono nella pratica interamente subordinati al mercato mondiale, cioè all’imperialismo.
Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo visto un enorme sviluppo della rivoluzione coloniale. Si trattò forse del più grande movimento dei popoli oppressi nella storia umana. Fu un enorme risveglio dei popoli coloniali, della Cina, dell’Africa, del Medio oriente, dell’Indonesia, dell’India, del Pakistan, un movimento in cui milioni di schiavi delle colonie insorsero contro i propri padroni e combatterono per la propria emancipazione nazionale. Le ragioni per le quali tutti i marxisti sostennero la rivoluzione coloniale sono evidenti. Era un movimento rivoluzionario, un colpo all’imperialismo, che sollevava le masse e faceva avanzare la lotta di classe. Eppure 50 anni dopo, se prendiamo ad esempio l’India e il Pakistan, che cosa ha risolto la borghesia? Hanno avuto l’indipendenza, ma sotto il capitalismo questa si riduce a nulla. Gli ex paesi coloniali sono legati al carro dell’imperialismo attraverso il meccanismo del mercato mondiale, e nei fatti sono più asserviti di quanto non fossero 52 anni fa. L’unica differenza è che in luogo del controllo militare e burocratico, c’è il controllo indiretto, attraverso le ragioni di scambio, vale a dire lo scambio di più lavoro con meno lavoro, e attraverso l’indebitamento.
Il debito e il calo dei prezzi delle materie prime
Il crollo finanziario in Asia si è riflesso nei mercati mondiali in un calo generalizzato dei prezzi, incluso quello del petrolio. Nel corso del solo 1998, il petrolio è sceso da circa 20 dollari a meno di 10 dollari al barile. Questo significa una ricetta fatta e finita per la rivoluzione in tutti i paesi produttori. È vero che il prezzo è poi risalito come risultato degli accordi fra l’Arabia Saudita e altri paesi produttori nel tagliare la produzione. Ma l’effetto non potrà essere durevole, soprattutto perché la maggior parte di questi paesi dipende esclusivamente dal petrolio come fonte di esportazioni. Non hanno altre fonti di reddito. Tutta la storia dei cartelli dimostra che ad un certo punto un paese comincia ad avvantaggiarsi vendendo più petrolio e l’intero accordo crolla. Lo stesso vale per tutte le materie prime.
I paesi ex coloniali sono soggetti a un doppio sfruttamento. Due sono le lame della forbice. Anche attraverso il debito, infatti, i paesi metropolitani spremono i popoli coloniali. 10 anni fa il debito accumulato dei paesi coloniali era di circa 800 miliardi di dollari. Fra il 1990 e il 1997 solo di interessi sono stati ripagati 1 miliardo e 800 milioni di dollari, vale a dire oltre il doppio della somma originale. E cosa è accaduto allo stock del debito accumulato? Nel 1994 ammontava a 1,4 miliardi di dollari e nel 1997 a 2,1 miliardi. Questo non verrà mai pagato.
In Nigeria il petrolio costituisce il 95% delle entrate dall’estero. Nel 1997 la Nigeria incassò dall’esportazione di petrolio 12 miliardi di dollari. Nel 1998 si erano ridotti a 6,8 miliardi. Questo crollo non è stato compensato dal successivo aumento dei prezzi. L’instabilità che nasce da queste oscillazioni imprevedibili nel prezzo del petrolio si riflette nella crescente instabilità politica e sociale. In ogni caso, i settori più poveri della società non hanno ricavato alcun beneficio dall’aumento del prezzo del petrolio, ma hanno sofferto le conseguenze peggiori del suo crollo. La Nigeria, che era uno dei paesi più ricchi dell’Africa, secondo l’Onu è oggi uno dei più poveri paesi al mondo. Questa situazione ha terribili conseguenze sociali che trovano la loro espressione più acuta nel crescente antagonismo fra diverse regioni e gruppi etnici.
Se i lavoratori non prendono il potere trasformando la Nigeria su basi socialiste, si prepara un incubo. Ci sono non meno di 120 gruppi etnici in Nigeria, comprese le tre nazionalità principali: gli Hausa nel nord, di religione islamica, che tradizionalmente hanno dominato lo Stato e oppresso le due altre nazionalità principali, gli Yoruba e gli Ibo nel sud e nell’est del paese. La guerra nel Biafra, durante la quale gli imperialisti vennero coinvolti nel tentativo di scindere la regione degli Ibo, portò a un bagno di sangue. Se la Nigeria dovesse frantumarsi su linee nazionali, sarebbe un massacro ancora peggiore, al confronto del quale la guerra del Biafra apparirebbe insignificante. In questa situazione proporre l’autodeterminazione non solo delle nazionalità principali della Nigeria, ma anche dei gruppi tribali, come ha sostenuto un gruppetto settario, significa toccare il vertice dell’irresponsabilità.
Anche in Indonesia la questione nazionale è molto importante, e una posizione corretta su questo è decisiva per i marxisti indonesiani come lo fu per i bolscevichi. Se il proletariato indonesiano non riesce a mostrare una via d’uscita attraverso una rivoluzione socialista, la frantumazione dell’Indonesia diverrà un rischio reale. Dato il miscuglio esplosivo di razze e religioni, le conseguenze sarebbero terrificanti. Gli avvenimenti sanguinosi di Timor est sono un avvertimento a tutti i popoli dell’Indonesia. Ora vediamo emergere un conflitto etnico sanguinoso ad Aceh, in Molucca e in altre isole. Le forze della reazione al vertice dell’esercito, i latifondisti, i capitalisti e i membri del vecchio regime, messi di fronte alla perdita del loro potere e dei loro privilegi, non esiteranno a gettare l’Indonesia in un caos sanguinoso per dividere le masse e disorientare il movimento. Solo combinando con abilità un programma che riconosca i diritti nazionali e le aspirazioni di tutti i popoli dell’arcipelago con il l’unione dei lavoratori e dei contadini poveri di tutte le nazionalità e religioni per espropriare i latifondisti e i capitalisti si può trovare una via d’uscita.
La rivoluzione coloniale oggi
Il motivo per cui la rivoluzione coloniale ha preso forme così distorte, con aberrazioni mostruose come il bonapartismo proletario, è da cercare nel ritardo della rivoluzione proletaria nei paesi occidentali da una parte, e nell’assenza di forti partiti marxisti dall’altra. Se fossero esistiti partiti di questa natura, sarebbe stato interamente possibile portare a termine la rivoluzione su linee classiche. In fin dei conti, la Russia del 1917 era un paese estremamente arretrato, un paese semi feudale e semi coloniale, e al tempo stesso una potenza imperialista. In un paese di 150 milioni di abitanti c’erano solo 3,5 milioni di lavoratori industriali, 10 milioni se si considerano tutti i settori del proletariato, i trasporti, le miniere, ecc. E tuttavia Lenin si basò sulla classe operaia e guidò in Russia una rivoluzione classica.
Non ci sono dubbi che una volta che vengano costruiti forti partiti marxisti in paesi come il Pakistan, o il Messico, non si porrà più la questione di vedere il movimento deviare sulle linee della guerriglia o del bonapartismo proletario. La guerra contadina nei paesi sottosviluppati deve essere un’arma aggiuntiva della rivoluzione proletaria, ma non può giocare il ruolo principale.
Le masse dei paesi sottosviluppati, tuttavia, non possono aspettare la creazione di partiti di massa, né possono attendere che i lavoratori francesi o britannici prendano il potere. Perciò sono inevitabili nella nostra epoca violente esplosioni, insurrezioni e anche movimenti guerriglieri, come vediamo in Colombia. In assenza di un partito bolscevico, la rivoluzione coloniale può prendere ogni sorta di forma peculiare. Non è necessario dire che i marxisti appoggeranno qualsiasi movimento dei popoli oppressi contro l’imperialismo, soprattutto se porta all’abolizione del latifondismo e del capitalismo Ma l’unico modo per risolvere i problemi dei popoli coloniali è attraverso il sistema sovietico così come Lenin e Trotskij lo svilupparono nella Russia del 1917. Sotto il capitalismo non c’è via d’uscita. La classe operaia deve prendere il potere nelle proprie mani. Nazionalizzando i mezzi di produzione, sotto il controllo e l’amministrazione democratica della classe operaia, si può dare l’avvio alla soluzione dei problemi più urgenti della società.
Nelle condizioni moderne, tuttavia, questo non è ancora sufficiente. Una politica internazionalista è un requisito fondamentale. Il nazionalismo non può offrire vie d’uscita. Se per esempio, i lavoratori e i contadini prendessero il potere in Ecuador – e questo, come abbiamo visto con lo splendido movimento dei gennaio, è del tutto possibile -, l’imperialismo Usa non rimarrebbe certo con le braccia conserte. Washington non vuole essere trascinata in un conflitto con truppe di terra in America latina (né da nessun’altra parte del mondo) per timore degli effetti all’interno. Ma indubbiamente farebbe tutto quello che è in suo potere per sabotare e distruggere la rivoluzione. Non solo organizzerebbe un blocco economico e darebbe appoggio alle forze controrivoluzionarie all’interno dell’Ecuador, ma inciterebbe anche i paesi confinanti a intervenire contro la rivoluzione. Già c’è stata una guerra pochi anni fa tra Ecuador e Perù. L’imperialismo non esiterebbe a spingere Fujimori a un nuovo conflitto armato contro la rivoluzione ecuadoriana, se questo fosse necessario.
La chiave della vittoria risiede in una politica corretta. Questo presuppone una direzione bolscevica, che rimanga fermamente sul terreno dell’internazionalismo proletario. I fondatori del socialismo scientifico sottolineavano già nel Manifesto del Partito comunista come la rivoluzione proletaria, anche se nella forma è nazionale, è sempre nella sua essenza internazionale. Questo significa che anche se i lavoratori di un particolare paese possono e devono innanzitutto saldare i conti con la propria borghesia, non possono restare sul terreno di una rivoluzione puramente nazionale. Devono muoversi per allargare la rivoluzione al di fuori delle proprie frontiere, o affrontare il rischio della sconfitta e della distruzione. Per questa precisa ragione, nazionalismo e rivoluzione socialista sono due concetti diametralmente opposti e mutuamente incompatibili.
L’unico modo nel quale, un Ecuador rivoluzionario potrebbe affrontare i suoi nemici sarebbe facendo un appello immediato ai lavoratori e ai contadini del Perù, del Venezuela, della Colombia, di tutta l’America Latina, a correre in suo aiuto. Questo appello non cadrebbe nel vuoto! L’intera America latina è in crisi profonda. Questa è l’espressione più chiara del carattere reazionario della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello Stato nazionale. Una volta che la rivoluzione cominci in qualsiasi paese del continente, tenderà ad allargarsi. Questo processo sarebbe enormemente facilitato da una politica coscientemente internazionalista. In realtà, gli Stati nazionali dell’America latina hanno un carattere artificiale. La perpetuazione della divisione di popoli che condividono la loro storia, la cultura, e, con l’eccezione del Brasile, la lingua, significa il mantenimento della balcanizzazione dell’America latina, vale a dire della condizione prioritaria per l’asservimento di milioni di persone e per il saccheggio di un continente potenzialmente prospero e avanzato da parte dell’imperialismo.
Molto tempo fa, Simon Bolivar avanzò la prospettiva di una America latina unita. Su basi capitaliste, l’idea rimase un sogno irraggiungibile. Ma sulle basi del potere operaio, una Federazione socialista dell’America latina significherebbe mettere in comune tutte le vaste risorse del continente a beneficio di tutti i suoi popoli. Questo avrebbe a sua volta un effetto elettrizzante sui lavoratori del Nord America, se si considera che oggi il 20% della popolazione Usa è oggi di lingua spagnola. Sarebbero poste le basi per la vittoria del socialismo sia a nord che a sud del Rio Grande, e quindi su scala mondiale.
La questione palestinese
La questione nazionale è cruciale in Medio oriente, e più di tutte la questione palestinese. Dopo decenni di oppressione nazionale per mano dell’imperialismo israeliano, le masse palestinesi hanno sviluppato un sentimento bruciante di opposizione all’ingiustizia e di desiderio di una propria terra. Questo è un loro diritto inalienabile, che i marxisti difendono e per il quale combattiamo. Tuttavia, l’esperienza degli ultimi trent’anni almeno, ci può fornire alcune lezioni necessarie. I dirigenti nazionalisti piccolo borghesi dell’Olp mantenevano l’idea che avrebbero potuto ottenere l’autodeterminazione attraverso la cosiddetta lotta armata contro Israele. In pratica, questo si ridusse a semplici atti di terrorismo individuale, attentati, rapimenti, dirottamenti, ecc. Queste azioni non indebolirono minimamente lo Stato israeliano. Al contrario, nella misura in cui convinsero la popolazione che il loro fine era quello di “ricacciare a mare gli ebrei”, spinsero la popolazione nelle braccia della reazione. Anziché indebolire lo Stato di Israele, lo rafforzarono.
La tattica dei dirigenti dell’Olp condusse i palestinesi a una sconfitta dopo l’altra. Prima, vennero schiacciati dal re Hussein di Giordania nel 1970, nonostante si fosse potuto facilmente prendere il potere in quel paese. Successivamente la storia si è ripetuta in Libano, dove ha contribuito a provocare una guerra civile sanguinosa con l’intervento di Israele e della Siria nel conflitto. E mentre continuavano a difendere la tattica disastrosa del terrorismo individuale, i vertici dell’Olp non avevano nessuna strategia per un’insurrezione di massa nei territori occupati. Quando infine esplose l’Intifada, Arafat e i dirigenti dell’Olp non giocarono alcun vero ruolo in essa. I giovani palestinesi dovettero affrontare la forza della macchina militare israeliana armati solo di pietre e bastoni. Nonostante ciò, il movimento di massa nel West Bank fece in pochi mesi per la causa dei palestinesi molto di più di quanto non avessero fatto in trent’anni Arafat e soci.
Le “concessioni” offerte da Tel Aviv non erano affatto il risultato delle azioni dell’Olp in esilio. Erano in parte il risultato dell’Intifada, che scosse la società israeliana e attrasse le simpatie di tutto il mondo. Ma erano anche il risultato della nuova situazione internazionale. Dopo il crollo dello stalinismo, i rapporti di forza internazionali sono cambiati. Gli Usa hanno ottenuto un predominio schiacciante su scala mondiale. Questo significa che Washington non dipende più da Israele nella stessa misura che durante la guerra fredda. L’imperialismo Usa ha interessi strategici ed economici vitali in Medio oriente, e questo significa che ha interesse a sostenere regimi arabi come quello saudita, e a mantenere la stabilità nella regione. Così Washington ha fatto pressioni su Tel Aviv affinché si raggiungesse un compromesso con i palestinesi e con gli Stati arabi confinanti. Arafat a sua volta è saltato prontamente sul carro che gli veniva offerto. Non essendo riusciti in decenni a far fare un solo passo avanti alla causa palestinese, i dirigenti dell’Olp erano ansiosi di godere dei frutti del potere che erano stati conquistati dal popolo. Quello che hanno accettato risulta essere nient’altro che un tradimento della lotta nazionale dei palestinesi.
Washington sperava di stabilizzare l’area costringendo tutti al compromesso. La questione nazionale, tuttavia, è notoriamente complicata e mutevole, e la situazione esplosiva creata in passato non può essere facilmente dipanata dall’imperialismo solo perché decide di cambiare politica. Così come l’imperialismo britannico ha creato un vero e proprio mostro di Frankenstein in Irlanda del Nord, che ora non riesce a controllare, allo stesso modo l’imperialismo americano ora scopre che avendo costruito Israele come proprio stato cliente, non sempre il burattino danza come vorrebbe chi tira i fili. La classe dominante israeliana ha i propri interessi, che possono corrispondere o meno con quelli degli Usa. Così il cosiddetto processo di pace in Medio oriente è in serie difficoltà. Nessuno dei problemi fondamentali è stato risolto.
Come avevano previsto i marxisti, l’accordo firmato da Arafat con gli israeliani era una trappola per il popolo palestinese. Questa non è autodeterminazione, ma una miserabile caricatura, e una truffa. La nuova entità palestinese è un troncone, un aborto, con Gaza separata dal West Bank e con Gerusalemme fermamente sotto il controllo israeliano. Sono state accettate ogni genere di condizioni umilianti. A peggiorare le cose, un gran numero di coloni ebrei rimane nei territori, il che significa una costante provocazione verso i palestinesi.
La cosiddetta Autorità palestinese non è altro che uno strumento di Israele, che nella pratica continua a dominare. Le condizioni delle masse arabe in Cisgiordania e a Gaza sono probabilmente peggiori che in passato, con disoccupazione di massa, in particolare fra i giovani. Israele può dare un giro di vite ogni volta che lo desidera chiudendo il confine privando così i palestinesi che lavorano in Israele del lavoro e del salario. A peggiorare le cose c’è il fatto che Arafat e la sua banda hanno formato essi stessi una élite burocratica privilegiata che agisce come poliziotto di Tel Aviv mentre si riempono le tasche a spese dei palestinesi.
L’accordo che era stato portato avanti con squilli di fanfara sotto pressione di Washington si sta rompendo. Con la caduta di Netanyahu e l’elezione del governo laburista, Washington sperava che sarebbe riuscita finalmente a imporre la propria volontà. Ma la pressione dei coloni ebrei, come avevamo previsto, ha portato a una crisi dopo l’altra. Non essendo riuscito a fare progressi con i palestinesi, il governo di Tel Aviv ha tentato di raggiungere un accordo con la Siria sulle alture del Golan. Ma non appena è stata sollevata la questione di restituire il Golan, ci sono state manifestazioni di massa in Israele in segno di protesta. I colloqui con la Siria si sono interrotti portando a una ripresa delle ostilità nel Libano meridionale.
Più serio ancora è il pericolo che il malcontento crescente delle masse in Cisgiordania e a Gaza provochi una nuova Intifada. Questo è implicito nella situazione. Una nuova Intifada avrebbe un chiaro potenziale rivoluzionario, ad una condizione: che si dia una ferma direzione rivoluzionaria che lotti per soluzioni internazionaliste. Sulle basi del nazionalismo, non c’è soluzione possibile. Una direzione lungimirante lotterebbe per collegare il movimento rivoluzionario dei palestinesi con il movimento della classe operaia israeliana. Spiegherebbe che il nemico comune dei lavoratori sia israeliani che palestinesi sono i banchieri e i capitalisti israeliani. Renderebbe chiaro che il movimento rivoluzionario palestinese non è diretto contro i cittadini comuni e cercherebbe sistematicamente punti d’appoggio nella società israeliana: tra gli studenti e i giovani progressisti, nelle fabbriche, nelle caserme. L’idea centrale deve essere quella della necessità di una trasformazione fondamentale della società, non solo in Palestina, ma anche in Israele, come unica via d’uscita dall’impasse.
Il destino dei palestinesi è stato tragico. Per oltre trent’anni hanno combattuto per l’autodeterminazione, ma su basi nazionaliste, dove sono stati portati? A una catastrofe completa e al tradimento. La lezione è chiara e deve essere appresa: il problema nazionale palestinese non può essere risolto su basi capitaliste. L’unica via per risolverlo è con mezzi rivoluzionari, con una rivoluzione socialista in Israele e nei paesi arabi vicini, a partire dalla Giordania, dove l’Olp avrebbe potuto prendere il potere già trent’anni fa se i vertici dell’Olp non avessero tradito la rivoluzione. L’unica strada per risolvere il problema è in base a una federazione socialista del Medio oriente con piena autonomia per i palestinesi e anche per gli ebrei.
I cinici piccolo borghesi diranno che questo non è “pratico”. Ci pare tuttavia che negli ultimi trent’anni si siano viste a sufficienza delle soluzioni “pratiche” sostenute da questi sapientoni, e non solo in Medio oriente. Dovunque, senza eccezioni, queste politiche “pratiche” hanno portato alla follia del terrorismo individuale è all’istupidimento nazionalista, senza ottenere altro che disastri e tradimenti. Una volta di più lo abbiamo visto con la capitolazione dei dirigenti kurdi nazionalisti del Pkk e con la svendita da parte di Mandela e Mbeki delle aspirazioni del proletariato nero in Sudafrica. Lenin aveva mille volte ragione quando scherniva le politiche “pratiche” dei nazionalisti. La semplice verità è che l’unica via d’uscita per i palestinesi è sulla base di una politica rivoluzionaria, internazionalista e di classe. Ogni altra soluzione significherà nuovi disastri. L’unico programma pratico è quello della rivoluzione socialista.
L’autodeterminazione come slogan reazionario
Il marxismo non ha nulla in comune col pacifismo. Non ci opponiamo per principio a tutte le guerre, e riconosciamo che ci sono guerre progressiste. Ma non è tutto oro quello che luccica, e non tutte le guerre combattute sotto la bandiera dell’autodeterminazione hanno un carattere progressista. In ogni caso particolare, i marxisti devono esaminare il preciso contenuto di classe di una guerra, o di una lotta nazionale, determinare quali sono gli interessi che vi sono dietro e quali implicazioni ha per la causa della classe lavoratrice del socialismo mondiale. Solo allora è possibile determinare il nostro atteggiamento riguardo a una guerra, dire se essa ha un carattere progressista o reazionario, e prendere una posizione in linea con questa determinazione.
Durante la guerra civile americana, sarebbe forse stato giusto appoggiare i Confederati in base al diritto all’autodeterminazione? La domanda si risponde da sola. Nelle condizioni date, la lotta per mantenere l’Unione aveva un carattere progressista e semirivoluzionario. Imponendo il proprio volere al Sud, gli Stati del nord indubbiamente violavano il diritto del Sud a determinare liberamente il proprio futuro. Ma questa considerazione era del tutto secondaria in paragone alle questioni fondamentali, vale a dire alle questioni di classe. Chi c’era dietro alla richiesta di autodeterminazione in quel caso? I proprietari di schiavi del Sud. La classe operaia doveva appoggiare il Nord perché il mantenimento dell’Unione significava lo sviluppo del capitalismo, e quindi del proletariato. La liberazione degli schiavi neri era un passo necessario e progressista in quella direzione. Questo è un caso molto chiaro, e nessuna persona sensata lo metterebbe in discussione. Ma ci sono molti altri esempi nei quali la domanda di autodeterminazione viene avanzata per motivi del tutto reazionari, e deve essere chiaramente respinta. Per esempio, la richiesta della Lega nord in Italia di avere il diritto a scindersi per costituire uno Stato separato ha chiaramente un carattere reazionario.
Questi esempi sono più che sufficienti per chiarire come le aspirazioni nazionali e il diritto all’autodeterminazione non sono e non possono essere assolute. Questa rivendicazione può avere un carattere progressista in un determinato contesto storico. Ma può anche essere completamente reazionaria e retrograda. In ogni situazione è necessario esaminarne il contenuto concreto, determinare quali interessi di classe sono implicati e determinare quali effetti avrebbe quel particolare movimento sugli interessi generali della classe lavoratrice e sulla lotta per il socialismo su scala internazionale. Anche se la questione nazionale è un problema complesso, è in genere sufficiente porre la questione in termini concreti per giungere a una posizione corretta. Nel 1991, proprio all’inizio del crollo della Jugoslavia, gli autori di questo documento parteciparono a un dibattito con alcuni sedicenti marxisti, nel corso del quale un settario interruppe Ted Grant gridando dalla platea: “Qual’è la tua posizione sull’autodeterminazione della Croazia?” Ted prontamente rispose con un’altra domanda: “Cosa intendi? Domandi se appoggiamo i Cetnici o gli Ustascia?” (Cioè i fascisti serbi o quelli croati). Al che l’esaminatore non ha più fatto domande.
Chiunque abbia una qualche conoscenza della storia delle guerre e della diplomazia (le due cose sono strettamente collegate) sa che è necessario fare piazza pulita delle cortine fumogene di menzogne e di mezze verità con le quali le parti in lotta tentano di ingannare l’opinione pubblica riguardo la natura di una guerra, per mettere invece a nudo i veri scopi dei contendenti. Poveretto colui che cerchi di arrivare alla comprensione di una guerra partendo dagli slogan della diplomazia! Lo slogan dell’autodeterminazione può avere un contenuto progressista e rivoluzionario, come spiegò Lenin. Ma non è sempre così. Ci sono molti casi nei quali lo slogan dell’autodeterminazione è stato usato per fini reazionari, come valida mascheratura degli intrighi imperialisti. Durante la Prima guerra mondiale l’imperialismo britannico inviò il suo agente Lawrence d’Arabia a sollevare gli arabi contro i turchi, promettendo loro l’autodeterminazione. Londra promise la Palestina agli arabi, e contemporaneamente anche agli ebrei, per poi prontamente tradire entrambi installandosi essa stessa come nuovo padrone coloniale dopo la guerra. Il mostruoso Trattato di Versailles, che asservì l’Europa e preparò le condizioni per una nuova guerra mondiale, inscriveva anch’esso sulle proprie bandiere lo slogan dell’autodeterminazione. In seguito, Hitler utilizzò lo slogan del diritto all’autodeterminazione dei tedeschi dei Sudeti, dei croati, degli albanesi e di altri per sviluppare la propria politica imperialista di espansione e di asservimenti dei popoli. Il suo capo della polizia, Heinrich Himmler, scrisse: “… Nel trattare con i popoli stranieri dell’est, dobbiamo incoraggiare il più possibile tutti i diversi gruppi nazionali; polacchi, ebrei (sic!), ucraini, russi bianchi, e tutte le altre piccole nazionalità che riusciamo a trovare.“
Non c’è nulla di particolarmente nuovo in questo. Molto tempo fa, gli antichi romani elaborarono la semplice formula che la classe dominante britannica ha utilizzato ovunque abbia messo piede: divide et impera. La politica di dividere gli Stati, di aizzare una nazione o una razza contro l’altra è da tempo un’arma essenziale dell’imperialismo. In contrasto con questa politica, i rivoluzionari hanno sempre lottato per unire la classe lavoratrice e tutti i popoli oppressi contro gli sfruttatori.
La questione nazionale oggi è molto più complicata che non ai tempi di Lenin. Lenin era solito riferirsi all’esempio della Norvegia, che si scisse dalla Svezia nel 1905. La Norvegia era stata ceduta alla Svezia come parte della sistemazione reazionaria raggiunta nel Congresso di Vienna del 1815, dopo la sconfitta di Napoleone. Non si trattò di un’unione volontaria, poiché i norvegesi si opponevano e dovettero essere incorporati con la forza dall’esercito svedese. Anche se le due lingue sono abbastanza vicine, e nonostante i norvegesi godessero di una considerevole autonomia, tuttavia soffrivano acutamente sotto la dominazione svedese. Nell’agosto del 1905 il parlamento svedese deliberò che il re di Svezia non era più da considerare anche re della Norvegia, e il popolo votò in maggioranza schiacciante a favore in un referendum per la separazione dalla Svezia. Su questo Lenin scrisse: “Questo esempio ci mostra su quali basi la secessione delle nazioni è possibile, e avviene nella realtà, sotto rapporti economici e politici moderni, e le forme che la secessione assume in condizioni di libertà politica e di democrazia” (Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione).
Il fatto che i lavoratori svedesi avessero difeso il diritto del popolo norvegese a staccarsi disarmò i reazionari svedesi, che dopo alcune esitazioni iniziali decisero di non intervenire. Questo aiutò a consolidare la solidarietà fra gli operai svedesi e norvegesi.
Ma anche se Lenin considerava questo caso come un modello di come la questione nazionale dovrebbe essere risolta, si trattò in effetti di una eccezione storica. La forma nella quale ci si presenta oggi la questione nazionale ha un carattere completamente differente. E Lenin stesso sottolineò frequentemente come i marxisti debbano prendere posizione su questo secondo le condizioni concrete di ogni caso. Quanto accadde nel 1905 in Norvegia era un gioco da bambini se confrontato con la situazione odierna in Irlanda del nord, in Libano, o nei Balcani. La Norvegia era un paese etnicamente omogeneo, senza queste complicazioni. I norvegesi si limitarono ad approvare il voto in parlamento, e ottennero l’indipendenza. Era una questione semplice, che non ha punti in comune con situazioni come quella dell’Irlanda del nord, dove la popolazione è divisa e dove il ritiro delle truppe britanniche avrebbe significato una guerra di religione fra cattolici e protestanti.
Un esempio ancora più chiaro lo troviamo nella storia recente dei Balcani, come vedremo fra breve.
Una maligna distorsione del marxismo
Come abbiamo visto, dal punto di vista del marxismo la questione nazionale non è qualcosa di nuovo inventato ieri. C’è una vasta letteratura sulla questione nazionale negli scritti di Marx, Engels, Lenin e Trotskij. Eppure, paradossalmente, non c’è probabilmente settore della teoria marxista che sia stato così poco compreso e così maliziosamente distorto. Non è neppure il caso di parlare degli stalinisti, la cui teoria del socialismo in un paese solo significa un completo abbandono del punto di vista marxista. Per quanto possa sembrare incredibile, oggi tutti i gruppi settari che si dichiarano marxisti e “trotskisti” hanno una posizione completamente scorretta sulla questione nazionale.
Nel caso dei Balcani quasi tutte queste sette hanno sostenuto l’una o l’altra banda di delinquenti, pretendendo di basarsi sulla posizione di Lenin sulla questione nazionale. In particolare il loro appoggio all’”autodeterminazione” del Kosovo ha portato la maggior parte di questi signori a capitolare all’imperialismo Usa, divenendo sostenitori entusiasti dell’Uck. Fin dall’inizio noi avvertimmo che questa posizione avrebbe inevitabilmente condotto alle conclusioni più reazionarie. La nostra previsione era che la guerra reazionaria della Nato contro la Jugoslavia avrebbe condotto non all’autodeterminazione ma all’instaurazione di un “protettorato” in Kosovo.
Vorremmo chiedere a questi signori che appoggiavano così entusiasticamente l’Uck se ritengono che la situazione odierna costituisca un avanzamento o un arretramento per la causa socialista nei Balcani. Da un punto di vista marxista non c’è un atomo di contenuto progressista in tutto questo. Non solo l’imperialismo Usa ha stabilito una solida base per le proprie operazioni nei Balcani, ma lo stesso Uck si è impegnato in una massiccia pulizia etnica con massacri di serbi disarmati, incluse donne e bambini. A queste mostruosità può portare l’abbandono di una posizione di classe sulla questione nazionale.
Niente di nuovo in tutto questo, naturalmente. In Irlanda quegli stessi sedicenti “marxisti” hanno appoggiato l’Ira nella sua campagna di terrorismo individuale negli ultimi 30 anni, capitolando di fronte al nazionalismo nel modo più abietto in violazione totale dei più elementari principi del leninismo. E dove ha portato tutto questo? Dopo una generazione di cosiddetta “lotta armata”, con oltre 3.000 morti, l’Ira non ha ottenuto nessuno dei suoi scopi. La classe operaia in Irlanda del nord è più divisa che mai in passato. I bambini cattolici e protestanti vivono e studiano separati. Le due comunità sono divise da muri e filo spinato. E la prospettiva dell’unificazione dell’Irlanda è più remota che mai.
In Afghanistan, la stessa gente ha scandalosamente difeso i cosiddetti “combattenti per la libertà”, i Mujahedin, nella loro guerra contro il regime stalinista di Kabul – una volta di più con la scusa del “diritto all’autodeterminazione” del popolo afgano. Quello stesso “diritto” veniva difeso dall’imperialismo Usa e dal Pakistan reazionario-feudale, che armavano e finanziavano quei banditi controrivoluzionari. Ora il conflitto è finito con una vittoria della reazione fondamentalista islamica nella sua forma più spaventosa. In quale modo si può giustificare la vittoria della reazione aperta dei Talebani riferendosi al diritto di autodeterminazione?
Questi sono solo alcuni esempi di dove inevitabilmente conduce l’abbandono della posizione marxista sulla questione nazionale. La saggezza di queste sette si limita a ripetere pappagallescamente sempre la stessa frase: “In fin dei conti anche Lenin appoggiava l’autodeterminazione”. Avendo letto due righe di Lenin, questi settari si immaginano di essere dei gran geni, così siamo costretti a ricordarci del vecchio proverbio inglese: “Una piccola conoscenza è una cosa pericolosa”. Non è molto intelligente quello scolaro che per mostrare le proprie conoscenze si limiti a ripetere costantemente l’Abc. Dopo l’Abc vengono molte altre lettere nell’alfabeto. Lenin, come vedremo, era ben lontano dal sostenere il diritto all’autodeterminazione in ogni occasione, ma distingueva attentamente fra quanto c’è di progressivo e quanto di reazionario, basandosi su uno studio accurato delle condizioni concrete.
Paradossalmente, coloro che da tempo hanno preso quella strada e hanno abbandonato la posizione internazionalista di classe di Marx e Lenin a favore del nazionalismo piccolo borghese, hanno tentato di criticare i marxisti per una supposta deviazione dalla “linea corretta”. A questi critici diciamo solo questo: siamo orgogliosi del fatto che solo la tendenza marxista rappresentata dal Socialist Appeal e da In Defence of Marxism, non abbia perso la testa e abbia difeso la classica posizione del marxismo, su questa come su molte altre questioni. Il nostro materiale parla da solo. Non ci vergogneremmo nel ripubblicare oggi nessuno dei nostri materiali degli ultimi 50 anni. Quelli che pretendono di parlare a nome di Lenin su questa questione semplicemente mostrano la loro ignoranza della posizione del partito bolscevico sulla questione nazionale. Lo scopo di questo documento è di rimettere le cose al loro posto. Naturalmente, non è indirizzato alle sette, che sono incapaci di imparare alcunché.
I marxisti e la questione irlandese
Come sui Balcani, lo stesso possiamo dire dell’Irlanda del nord. La tendenza marxista può essere orgogliosa delle posizioni tenute in passato. Per trent’anni abbiamo tenuto la testa sulle spalle, difendendo coerentemente una posizione di classe. Non si può dire lo stesso di altri. Quando nel 1969 scoppiarono i “torbidi” in Irlanda, il Partito comunista, l’Swp, i mandelisti dell’Img e tutte le altre sette appoggiarono l’invio delle truppe britanniche in Irlanda del Nord, sulla base del fatto che avrebbero protetto i cattolici. Oggi tutti loro preferirebbero scordarsene, ma i fatti sono ostinati. I marxisti nel partito laburista furono gli unici a denunciarlo. Fummo gli unici nel congresso laburista dell’autunno del 1969 a proporre una risoluzione che si opponeva all’invio delle truppe britanniche. Spiegavamo allora che l’esercito britannico non avrebbe potuto giocare alcun ruolo progressivo, e che le truppe venivano inviate per difendere gli interessi dell’imperialismo.
Gli stessi signori che appoggiarono allora l’invio delle truppe britanniche in Irlanda del nord, successivamente passarono all’estremo opposto, formando il cosiddetto Troops Out Movement (“Fuori le truppe” – NdT). Tutti quanti capitolarono di fronte al terrorismo individuale dell’Ira. Questa cosiddetta lotta armata è andata avanti per tre decenni. Nel 1970 l’Ira pensava che avrebbe potuto sconfiggere l’imperialismo britannico con le armi e le bombe e costringerlo ad accettare l’unificazione con il sud. All’epoca noi sostenemmo che questo era impossibile. Un’Irlanda unita non sarebbe mai stata raggiunta su queste basi, perché i protestanti erano armati e avrebbero combattuto contro. Se si fosse giunti a una guerra fra cattolici e protestanti, l’Ira sarebbe stata sconfitta e i cattolici cacciati via. Si sarebbe giunti a una revisione delle frontiere, ma questo non sarebbe stato fatto pacificamente. Avrebbe significato un terribile massacro, sulle linee di quanto abbiamo visto recentemente nella ex Jugoslavia, con l’esito finale di un regime al 100% protestante nel nord e uno al 100% cattolico nel sud. In queste circostanze, probabilmente entrambi sarebbero stati governati da dittature militari. Questo sarebbe l’unico sbocco possibile in un tentativo di risolvere la questione irlandese su basi capitaliste.
Le lezioni della Jugoslavia sono una terribile conferma di questo. Precisamente per questa ragione, non c’era e non c’è motivo per cui Londra ritiri le sue truppe dal Nord. È un’ironia della storia il fatto che oggi l’imperialismo britannico non abbia alcun interesse a mantenere la sua presa sull’Irlanda del Nord. Diversamente dal 1922, non ci sono motivi né economici, né strategici per rimanere lì. Il problema è però che un ritiro provocherebbe un caos sanguinoso che ricadrebbe sul resto del Regno Unito. Questo scenario da incubo Londra non può permetterselo, e quindi sono condannati a rimanere. E se l’Ira continuasse la sua lotta per altri 30 anni, otterrebbe gli stessi identici risultati. La politica dell’Ira ha condotto ad uno stallo completo, con risultati negativi per la classe lavoratrice e il socialismo. Con quali risultati? 3.000 morti, una intera generazione perduta, la classe lavoratrice completamente scissa su linee religiose. I media occidentali parlavano tanto del Muro che divideva Berlino. Ma nessuno parla del muro che divide Belfast tra protestanti e cattolici. Non possono parlarsi, non possono incontrarsi. Questa è la cosiddetta “linea di pace”, l’espressione più mostruosa della pazzia della divisione nazionale. Questo è stato il risultato diretto della campagna terroristica dell’Ira.
La tendenza marxista mantenne una posizione di classe e lottò per l’unità dei lavoratori. Questo era possibile. Nel 1969 nelle fabbriche c’era un movimento istintivo fra i lavoratori in favore dell’unità, che avrebbe potuto avere successo se fosse stata presente una direzione cosciente. Noi proponemmo la formazione di una milizia operaia basata sui sindacati, l’unica organizzazione che ancora univa cattolici e protestanti. Nelle condizioni concrete, questo avrebbe significato ovviamente armarsi per difendersi dalla pazzia settaria proveniente da entrambi i lati. Il nostro slogan rivoluzionario era “per una forza di difesa operaia unita!”. Questo era l’unico modo per combattere il settarismo religioso. Gli estremisti trovavano divertente la nostra posizione. In genere trovano che il leninismo sia sempre buffo. Allo stesso modo, quando Lenin era vivo i nazionalisti piccolo borghesi erano soliti ridicolizzare la sua posizione sulla questione nazionale descrivendola come un’utopia. Lenin rispondeva a questi “pratici” con il disprezzo che si erano ampiamente meritati.
E cos’hanno da dire oggi sulla situazione in Irlanda del Nord? L’Ira ha accettato la tregua per il semplice motivo che la cosiddetta “lotta armata” non portava da nessuna parte. L’idea che potessero espellere l’esercito britannico con quei metodi era completamente irreale, come avevamo indicato fin dall’inizio. E dove sono finiti? Come i dirigenti dell’Olp in Palestina, e come Mandela e Mbeki in Sudafrica, i capi del Sinn Fein hanno scambiato il fucile e le bombe con la “politica”, vale a dire con un bel vestito e uno stipendio ministeriale. Sono ben disposti ad abbandonare la causa per la quale i loro seguaci hanno sacrificato tutto, in cambio di una buona carriera e della rispettabilità borghese. La cosiddetta “lotta armata” (cioè il terrorismo individuale) è sempre finita così. I marxisti russi avevano sempre descritto i terroristi come “liberali armati di bombe”. Ora possiamo vedere confermata alla lettera quella asserzione. Dopo trent’anni, l’Ira non segue più la strada dell’unificazione dell’Irlanda. I dirigenti del Sinn Fein (il braccio politico dell’Ira) incredibilmente hanno firmato l’accordo di Venerdì santo, nel quale si specifica chiaramente che l’Irlanda del nord è parte del Regno Unito. La “concessione” del cosiddetto “accordo di frontiera” col sud serve solo a dare un contentino alle aspirazioni repubblicane, considerato che l’organismo nord-sud non ha poteri significativi.
Ma persino questo accordo è stato troppo da digerire per molti unionisti, i quali hanno alla fine puntato i piedi sul disarmo dell’Ira. Questo ha causato una crisi, dato che l’Ira non ha seriamente intenzione di abbandonare le armi. I fucili sono necessari, a parte ogni altra considerazione, perché il movimento repubblicano ha una lunga tradizione di scissioni e lotte intestine, nelle quali quelli che ieri erano i capi oggi possono diventare clienti del becchino. Già ci sono gruppi scissionisti come “Continuity Ira”, che hanno organizzato attentati per far vedere che sono ancora sulla scena. Rivendicando il disarmo immediato, gli unionisti puntavano chiaramente a un’azione provocatoria, volta ad ottenere un rifiuto dell’Ira. Questo ha portato alla rottura dell’accordo di Venerdì santo, alla sospensione del parlamento nord irlandese e alla reintroduzione del controllo diretto da parte di Londra.
La nostra posizione sull’Irlanda, tacciata di utopismo, corrisponde a quelle di Lenin e Marx. Un ruolo particolarmente vergognoso sulla questione irlandese lo hanno giocato le varie sette, in Gran Bretagna e a livello internazionale. Inseguendo una politica “praticabile”, si sono accodati in modo vergognoso all’Ira, abbandonando completamente ogni pretesa di avere una posizione di classe, e agendo come avvocati non pagati del terrorismo, il che era ancora più disprezzabile poiché loro non correvano alcun rischio. Con questo hanno capitolato completamente verso il nazionalismo piccolo-borghese e il terrorismo individuale, che in tutte le occasioni ha portato al disastro. Ma la vita stessa ha mostrato che la cosiddetta politica pratica di capitolare alla piccola borghesia non è in realtà per niente pratica. È un tradimento vergognoso della classe lavoratrice e in ogni occasione conduce al disastro. Siamo chiari su questo punto: i marxisti sono per l’unificazione dell’Irlanda. Ma questa è più lontana che mai in tutta la storia del paese. Questo è l’unico risultato della tattica del terrorismo individuale e del nazionalismo piccolo borghese degli ultimi trent’anni.
Nel momento in cui scriviamo, la situazione è altamente instabile. È possibile che, giunte sull’orlo dell’abisso, entrambe le parti facciano un passo indietro. Si arrangerebbe un qualche compromesso che comprenderebbe la consegna di qualche arma da parte dell’Ira. Se ci fosse un riaccendersi delle ostilità, i britannici reprimerebbero brutalmente. Inoltre questo sviluppo sarebbe molto impopolare da entrambi i lati della barricata. Dopo trent’anni di spargimenti di sangue, sia i cattolici che i protestanti sono stanchi. L’Ira correrebbe il rischio di perdere molta gente a causa delle denuncie. Non sarebbe una prospettiva invitante.
Ma anche l’accettazione di un compromesso non risolverebbe niente di fondamentale. Fra le fila repubblicane sorgerebbe inevitabilmente la domanda: “Per cosa abbiamo combattuto trent’anni?”.
Indubbiamente comincerà a svilupparsi un fermento nelle file repubblicane. Gli elementi più intelligenti, che sono critici verso la direzione ma non vogliono tornare nel vicolo cieco del terrorismo, saranno più aperti all’alternativa di una politica di classe. L’unica via d’uscita è il ritorno alle idee di James Connolly, alla bandiera del socialismo, l’unica bandiera che può unire la classe operaia, “arancioni” e “verdi”, nord e sud, e anche al di là del mare d’Irlanda, in Inghilterra, Scozia, e Galles, nella lotto contro il nemico comune: le banche, i monopoli e l’imperialismo britannico. Non un ritorno alla “lotta armata”, ma il ritorno alle migliori tradizioni del movimento operaio irlandese, al marxismo: questa è la via d’uscita. In passato c’era questa idea: “Prima risolviamo la questione del confine, poi parleremo di socialismo”. Ma l’esperienza di tre decenni ha dimostrato che questo è un modo sbagliato di porre la questione. Oggi abbiamo diritto di dire: la soluzione dei compiti lasciati incompiuti dalla rivoluzione democratica borghese in Irlanda – intendendo con questo la riunificazione irlandese – possono essere risolti solo dall’ascesa al potere del proletariato sia in Irlanda che in Gran Bretagna. La borghesia irlandese si è dimostrata incapace di risolvere la questione, e dio sa se hanno avuto il tempo per provarci. È ora di guardare in una direzione completamente nuova. Molto tempo fa Marx spiegò che il destino della rivoluzione in Irlanda e in Gran Bretagna erano inestricabilmente legati. Oggi questa affermazione è più vera che mai.
Euskadi
In Spagna esiste la questione nazionale dei baschi, dei catalani e dei galiziani. Per decenni, sotto la dittatura di Franco, le lingue, i diritti e le aspirazioni nazionali di questi popoli vennero schiacciati. Era naturale che l’abbattimento del vecchio regime desse un impulso al movimento delle nazionalità. Non per nulla Trotskij disse che il nazionalismo degli oppressi era solo l’involucro esterno di un bolscevismo ancora immaturo. Con una politica e una tattica corrette sarebbe stato possibile conquistare i migliori fra i giovani nazionalisti alle idee marxiste. Ma la precondizione per questo era di mantenere una posizione chiara, che difendesse fermamente le nazionalità oppresse, ma criticasse le idee confuse del nazionalismo.
Una gran parte del problema, qui, è da ricercare nel crollo dell’autorità morale del marxismo su scala internazionale. Marx, Lenin e Trotskij avevano una posizione corretta sulla posizione nazionale, che poteva trovare con facilità delle risposte nelle file dei militanti nazionalisti. Ma la gioventù nazionalista era disgustata dalle politiche grossolane dei dirigenti riformisti del movimento operaio, i quali inevitabilmente adottano la posizione della classe dominante sulla questione nazionale come su tutte le altre.
La Seconda Internazionale, come abbiamo visto, aveva una posizione molto confusa sulla questione nazionale. I risultati si videro nel 1914. In Spagna il Psoe, anche nei suoi periodi migliori, aveva una scarsissima comprensione della questione nazionale, nonostante avesse un solido appoggio nel Paese basco. Oggi naturalmente i dirigenti della destra del Psoe hanno abbandonato ogni simulacro di posizione socialista sulla questione nazionale, come l’hanno abbandonata su tutte le altre questioni. Quando erano al governo, Felipe Gonzalez e altri dirigenti “socialisti” hanno attivamente sostenuto la sporca guerra condotta dai servizi segreti spagnoli contro l’Eta. Non stupisce che i giovani baschi provino repulsione per un “socialismo” di questa natura.
In passato sarebbe stato naturale per i giovani militanti nazionalisti gravitare verso il partito comunista. La bandiera dell’Ottobre e del partito bolscevico offriva un’alternativa rivoluzionaria. Ma come risultato dei crimini dello stalinismo il movimento è stato ricacciato indietro. La decadenza ideologica dello stalinismo ha prodotto ogni genere di distorsioni confuse e grottesche – il maoismo, il castrismo, il guerriglierismo – che hanno intorbidato le acque e introdotto la confusione più spaventosa nella mente dei giovani radicalizzati. Oggi, con il crollo dello stalinismo, la confusione è se possibile ancora maggiore, con la diffusione di ogni genere di sentimenti anarchici e terroristici. Idee che appartengono alla preistoria del movimento e che già tempo fa sono state combattute da Marx, Lenin, Trotskij, sono riemerse, travestite da “nuove e moderne” teorie, aggiungendo confusione a confusione.
A tutto questo dobbiamo aggiungere la mostruosa degenerazione della cosiddetta Quarta internazionale dopo la morte di Trotskij. Il completo abbandono delle più elementari idee di Lenin e Trotskij da parte dei cosiddetti trotskisti è più chiaro che mai proprio riguardo la questione nazionale. Le sette hanno corteggiato tutti i movimenti piccolo-borghesi nazionalisti e terroristi che sorgevano in giro per il mondo, applaudendoli e comportandosi come consiglieri non pagati (e generalmente anche non richiesti) dell’Ira, dell’Eta, dell’Olp o dell’Anc. In quei casi (fortunatamente pochi) in cui avevano una qualche influenza, non hanno fatto altro che rafforzare i pregiudizi dei giovani portandoli al disastro. Questo fu, il caso dell’Argentina e dell’Uruguay negli anni ’70, dove questi elementi hanno giocato con il terrorismo e la “guerriglia urbana”. Il risultato di queste avventure fu la distruzione del movimento e la vittoria delle più feroci dittature militari. Molto giovani militanti persero la vita e la rivoluzione venne ricacciata indietro di anni.
Data la totale mancanza di autorità del marxismo, è logico che i giovani del paese basco, disgustati dallo stalinismo e dalla socialdemocrazia, cerchino un’alternativa nell’Eta e in Herri Batasuna. Nelle file dei nazionalisti baschi radicali ci sono dei giovani molto coraggiosi. È nostro compito stabilire un dialogo con loro e convincerli che l’unica via per ragiungere il loro scopo è lottare per la rivoluzione socialista. Inevitabilmente, i migliori elementi giungeranno a questa conclusione. Dobbiamo aiutarli con discussioni amichevoli e pazienti, stabilendo l’unità d’azione laddove vi sono accordi di principio, al tempo stesso sottolineando la necessità di unire nella lotta i lavoratori e i giovani in tutto lo Stato spagnolo.
Sembra essere una legge dei movimenti nazionalisti di massa come Herri Batasuna, che quando giungono a certe dimensioni, tendono a scindersi su linee di classe. Questi movimenti hanno sempre una composizione eterogenea. Possono esservi elementi di estrema destra da una parte – spesso, ma non sempre, associati con l’ala più “militarista” – ma la loro ala sinistra conterà molto combattenti onesti e potenziali rivoluzionari. Circa 30 anni fa, al sesto congresso dell’Eta, ci fu una scissione di sinistra. In assenza di una reale alternativa marxista, i mandelisti si orientarono all’Eta e conquistarono molti di questi militanti. Migliaia di validi combattenti si stavano avvicinando al trotskismo, ed era gente di valore. Con una politica e con prospettive corrette, una organizzazione marxista con 10.000 militanti in Spagna avrebbe potuto giocare un ruolo cruciale. Ma con la politica scorretta dei mandelisti l’occasione fu persa. Questi piccolo-borghesi hanno già pagato per i loro crimini politici. La loro organizzazione non esiste più, è stata liquidata con tutte le altre sette. Così è aperta la strada per lo sviluppo di una vera tendenza marxista in Euskadi. È chiaro che molti dei migliori quadri verranno dalla base e dalla periferia degli abertzales (nazionalisti baschi radicali).
Con la firma della tregua, c’è stato un cambiamento in Herri Batasuna. Hanno cambiato il nome in Euskal Herritarok (cittadini baschi), e questo è un cambiamento significativo. Inizialmente c’era un vero entusiasmo verso Eh, ma ora le cose stanno cambiando. I dirigenti di Eh opportunisticamente si sono alleati con il Pnv, il partito della grande borghesia basca. Come sempre, i nazionalisti piccolo-borghesi subordinano la classe lavoratrice alla “propria” borghesia. Ma qualsiasi lavoratore basco sa che gli industriali e i banchieri baschi sono suoi nemici tanto quanto quelli spagnoli. Non c’è niente da scegliere tra i due. I militanti onesti di Eh devono essere disgustati da questo blocco con il Pnv.
A peggiorare le cose, la tregua è stata oggi rotta. C’è la prospettiva di nuove azioni terroristiche, a cui risponda una ulteriore repressione statale, con nuovi prigionieri politici. Si riapre il vecchio ciclo infernale che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese basco per decenni senza raggiungere i suoi fini dichiarati. Su questa strada non c’è via d’uscita per Euskadi! Ora che l’Eta ha rotto la tregua, ci deve essere fermento e discussione nelle sue fila. Senza dubbio i militanti staranno cercando una spiegazione e una via d’uscita. È necessario spiegare loro in modo fermo, ma amichevole, che non ci può essere indipendenza per il Paese basco su basi capitaliste. Per giungervi, è necessaria una rivoluzione sia in Spagna che in Francia. E per arrivare a questo dobbiamo adottare una politica di classe e internazionalista, abbandonando il vicolo cieco del terrorismo individuale.
I marxisti nello Stato spagnolo hanno un passato di cui essere orgogliosi. Hanno difeso coerentemente i diritti nazionali dei baschi – incluso il diritto all’autodeterminazione. Recentemente hanno prodotto un ottimo documento sulla questione nazionale, in basco e in spagnolo. I nostri libri sono stati entrambi tradotti in spagnolo e sono stati entusiasticamente recensiti da Egin, il quotidiano di Herri Batasuna. Questo dimostra che c’è una fascia dei nazionalisti baschi che guarda verso i marxisti. È possibile conquistare al marxismo una parte significativa di giovani radicali, se si conduce una campagna energica.
Dal punto di vista marxista, il problema nazionale è una sfida, ma anche un’opportunità. Trotskij disse una volta che il nazionalismo dei popoli oppressi era solo “l’involucro esterno di un bolscevismo ancora immaturo”. Se prendiamo una posizione di principio sui problemi delle nazioni oppresse, combattendo energicamente ogni forma di oppressione nazionale, e al tempo stesso colleghiamo con chiarezza la soluzione del problema alla prospettiva della trasformazione socialista della società, sarà possibile conquistare i migliori elementi al marxismo, e costruire una organizzazione che offra una vera soluzione al problema nazionale basco su basi rivoluzionarie socialiste.
La questione nazionale e i Balcani
L’esempio più terrificante delle conseguenze di una posizione scorretta sulla questione nazionale è il destino della ex Jugoslavia. Il pantano sanguinoso di guerre, follia sciovinista, pulizie etniche in quello che una volta era un paese europeo avanzato e sviluppato dovrebbe dare materia di riflessione a tutti coloro che costantemente sbandierano la cosiddetta “autodeterminazione” come panacea universale.
Purtroppo pare che certa gente sia organicamente incapace di ragionare su qualsiasi cosa. Sulla questione dei Balcani, la tendenza marxista che fa capo al Socialist Appeal e a In Defence of Marxism ha mantenuto la testa sulle spalle lungo tutto l’ultimo decennio, prendendo una chiara posizione leninista. Fin dall’inizio abbiamo spiegato che non c’era neppure un atomo di contenuto progressista nello smembramento della ex Jugoslavia. Al contrario, ciascuna delle varie sette estremiste ha appoggiato i croati, o i serbi, o la povera piccola Bosnia (come il “povero piccolo Belgio” del 1914) e correva qua e la con le bandiere dell’Uck, e ciascuna di esse è caduta in una posizione reazionaria.
La propaganda occidentale tenta sempre di descrivere questi conflitti – che si tratti dei Balcani, dell’Africa o della Russia – come un prodotto del carattere di quei popoli, di una pretesa arretratezza, della razza, ecc. Si pretende che i serbi, i croati, i bosniaci non possano vivere insieme, che si odiano da sempre, e così via. Questa è una menzogna.
Durante la Seconda guerra mondiale ci fu un terribile conflitto fra serbi e croati, nel quale, tra l’altro, i serbi furono le vittime, ferocemente perseguitate dal regime fascista croato degli ustascia, la cui brutalità causò persino le proteste della Germania nazista. Eppure sotto Tito la questione nazionale in Jugoslavia era stata largamente risolta. Sulle basi dell’economia nazionalizzata e pianificata, e dello sviluppo delle forze produttive, e con la politica piuttosto intelligente di Tito, che diede l’autonomia a ciascuna repubblica, cercando di evitare che una nazionalità acquistasse potere sulle altre, il problema era passato in secondo piano; le tensioni fra serbi e croati declinarono significativamente. Questo fu possibile come conseguenza di un tasso di crescita annuo del tenore di vita del 10-11%, poiché, come spiegava Lenin, la questione nazionale è in sostanza una questione di pane.
Con la crisi dello stalinismo, il riemergere in Jugoslavia dell’inflazione e della disoccupazione di massa, tutti i vecchi demoni cominciarono a riemergere. Se ora guardiamo alla storia degli ultimi 50, la conclusione a cui giungiamo è che né la borghesia, né gli stalinisti possono risolvere la questione nazionale. Tito vi riuscì per un periodo, ma lo sciovinismo è parte integrale dello stalinismo, è il suo tallone d’Achille, come si vide in Etiopia, dove il regime di Mengistu crollò precisamente su questa questione.
Tito stabilì le differenti repubbliche, ciascuna con la propria burocrazia nazionale, ognuna delle quali utilizzava la questione nazionale come mezzo per rafforzare il proprio potere e i propri privilegi. C’è una logica ineludibile in questo, che discende direttamente dalla teoria del socialismo in un paese solo. Questa teoria antimarxista, nazionalista fino al midollo, giocò un ruolo fatale nella disintegrazione della Jugoslavia. Le tendenze nazionaliste delle burocrazie serba, croata, slovena e delle altre rivali, abbracciarono entusiasticamente questa “teoria”, ciascuna per la propria repubblica. Deliberatamente alimentarono le differenze nazionali: se si può avere il “socialismo” russo, il “socialismo” cinese, e così via, perché non può esistere il “socialismo” anche in Slovenia, Croazia, Macedonia? Con la crisi economica del regime burocratico in Jugoslavia, le tensioni fra le repubbliche crebbero. Ogni cricca regionale tentava di migliorare la posizione della “sua” repubblica a spese delle altre. Questo gettò i semi della frantumazione della Jugoslavia.
Particolarmente mostruoso fu il ruolo delle burocrazie reazionarie e privilegiate della Croazia e della Slovenia. Anche se la loro industria era stata costruita sul lavoro e sulle risorse collettive di tutta la Jugoslavia, volevano tenere tutto per loro. Ma questo era solo un elemento dell’equazione. La storia della Jugoslavia e dei Balcani in generale mostra come tutte le lotte nazionali per la cosiddetta autodeterminazione che hanno avuto luogo nel XX secolo hanno visto implicata l’una o l’altra delle grandi potenze. Lo zarismo russo, l’imperialismo tedesco, francese e inglese, tutti usarono la lotta delle piccole nazioni come moneta di scambio nei loro intrighi.
Trotskij sui Balcani
Qual’era la posizione dei marxisti all’epoca delle guerre balcaniche del 1912-14? Nonostante che, almeno inizialmente, ci fosse un aspetto parzialmente progressista nella lotta degli slavi balcanici per l’emancipazione nazionale contro i turchi, cercherete invano negli scritti di Lenin e Trotskij una riga di appoggio per una qualsiasi di queste nazioni. Trotskij, che era nei Balcani come corrispondente di guerra, scrisse molti articoli sulle guerre balcaniche nei quali denunciò la condotta barbarica di tutte le potenze belligeranti. Ma non c’è ombra di appoggio per nessuna delle bande nazionaliste rivali. Erano guerre predatorie e reazionarie da tutti i lati. Se questo era vero allora, cosa avrebbe detto Lenin della situazione odierna in Jugoslavia?
Le sette che si professano marxiste sembrano soffrire di una sorta di tic nervoso. Appena esplode una guerra, cominciano immediatamente a gridare: “Quale parte appoggiate?” Come se i marxisti fossero sottoposti a un obbligo assoluto di prendere le parti di questa o quella cricca dominante! La posizione del marxismo sulla guerra è già stata chiaramente spiegata da Lenin. La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Il fatto che appoggiamo questa o quella parte in conflitto dipende dal fatto che la guerra abbia un contenuto progressivo o reazionario. Questo giudizio non è determinato da proclamazioni generiche del “diritto all’autodeterminazione”, ma esclusivamente dagli interessi generali del proletariato e della rivoluzione mondiale.
La posizione dei marxisti nelle guerre balcaniche del 1912-13 era di non prendere le parti di questo o quel gruppo, ma di lottare per una federazione democratica dei Balcani. Questa era la posizione di Lenin, di Trotskij e del grande marxista e internazionalista balcanico Christian Rakovsky, che in seguito divenne un dirigente trotskista e venne processato e fucilato per ordine di Stalin nel 1941. Rakovsky aveva una lunga storia di dirigente del movimento socialista nei Balcani. Nel 1903, lo stesso anno in cui la socialdemocrazia russa si scisse fra bolscevichi e menscevichi, ci fu una scissione simile nel partito bulgaro fra le tendenze degli “aperti” e degli “stretti”. L’ala sinistra (“tesnyaki”) era guidata dal veterano marxista Blagoev, assieme alla eccezionale figura di Christian Rakovsky. Dopo la rivoluzione d’Ottobre l’Internazionale comunista difendeva la posizione della Federazione socialista dei Balcani. Questa idea era stata sviluppata da Christian Rakovsky già prima del 1917.
I marxisti hanno sempre combattuto contro la frammentazione dei Balcani in una moltitudine di staterelli che inevitabilmente diventavano pedine di questa o quella potenza imperialista. Lottavano, cioè, contro la balcanizzazione e per la federazione. Prima della Prima guerra mondiale, quando era corrispondente nei Balcani e seguiva da vicino la situazione basandosi su fonti di prima mano, Trotskij scrisse:
“Non è la diversità nazionale, ma la frammentazione in molti Stati, che pesa [sui Balcani] come una maledizione. Le barriere doganali li frammentano in parti separate. Le macchinazioni delle potenze capitaliste si intrecciano con gli intrighi sanguinosi delle dinastie balcaniche. Se permangono queste condizioni, la penisola balcanica continuerà ad essere un vaso di Pandora” (Trotskij, Le guerre balcaniche).
Quando l’Austria-Ungheria si impadronì della Bosnia e dell’Erzegovina, e la Serbia venne catturata dalla febbre bellica e dalla sete di vendetta, la socialdemocrazia serba mantenne il sangue freddo e si oppose fermamente all’isteria sciovinista. Allo stesso modo i socialdemocratici bulgari si opposero alla propria cricca governante e alle intromissioni della Russia nei Balcani. Nel gennaio 1910 venne tenuto a Belgrado un congresso dei partiti socialisti balcanici, con rappresentanti dei partiti socialdemocratici di Serbia, Romania, Bulgaria, Turchia, del partito socialdemocratico Jugoslavo dell’Austria-Ungheria, e di un piccolo gruppo di socialdemocratici del Montenegro.
Nel suo programma, il congresso stabilì gli obiettivi della socialdemocrazia balcanica: “Liberarci del particolarismo e della ristrettezza; abolire le frontiere che dividono popoli che sono in parte identici per linguaggio e cultura ed economicamente legati l’uno all’altro; infine, spazzare vie ogni forma di dominazione straniera, sia diretta che indiretta, che priva i popoli del loro diritto a determinare da soli il proprio destino“.
E ancora: “Le esigenze dello sviluppo capitalistico si scontrano di continuo nei Balcani con i limiti ristretti dei particolarismi, e la federazione è divenuta un’idea che gli stessi circoli dominanti fanno circolare. Più ancora: il governo zarista, incapace di giocare un ruolo indipendente nella penisola, cerca di emergere come patrocinatore e fomentatore di una lega bulgaro-serbo-turca, con la punta diretta contro l’Austria-Ungheria. Ma questi sono solo piani generici per un’alleanza temporanea fra le dinastie balcaniche e partiti politici che per la loro stessa natura sono incapaci di garantire ai Balcani pace e libertà. Il programma del proletariato non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Esso è diretto contro le dinastie balcaniche e le cricche politiche, contro il militarismo degli Stati balcanici non meno che contro l’imperialismo europeo; contro la Russia ufficiale non meno che contro l’Austria degli Asburgo. Il suo metodo non sono le combinazioni diplomatiche, ma la lotta di classe, non le guerre balcaniche, ma le rivoluzioni balcaniche.“
Quanto sono moderne queste righe, e quanto attinenti all’attuale crisi dei Balcani!
I Balcani erano divisi in staterelli e schiacciati dal peso del militarismo. Nel suo articolo La questione balcanica e la socialdemocrazia, Trotskij scrisse: “L’unica via d’uscita dal caos delle nazioni e degli Stati, e dalla confusione sanguinosa dei Balcani è l’unione di tutti popoli della penisola in una sola entità politica, sulla base dell’autonomia nazionale delle parti costituenti. Solo nel quadro di un solo Stato balcanico i serbi di Macedonia, del Sangiaccato, della Serbia e del Montenegro possono unirsi in una singola comunità nazionale-culturale, godendo allo stesso tempo dei vantaggi di un mercato comune dei Balcani. Solo uniti i popoli balcanici possono respingere le svergognate pretese dello zarismo e dell’imperialismo europeo.“
E Trotskij aggiunse un avvertimento profetico: “L’unità statale della penisola balcanica può essere raggiunta in due modi: o dall’alto, espandendo uno degli Stati balcanici, quello che si dimostrasse più forte, a spese degli altri; questa è la strada delle guerre di sterminio e dell’oppressione delle nazioni deboli, una strada che consolida il militarismo e le monarchie. Oppure dal basso, attraverso l’unione degli stessi popoli; questa è la strada che significa rovesciare le dinastie balcaniche e spiegare la bandiera della repubblica federale balcanica.”
Questa è da sempre la posizione dei marxisti in relazione alla questione balcanica. Non la posizione di appoggiare questa o quella cricca nazionalista sulle basi di una presunta “autodeterminazione”, ma il programma rivoluzionario della federazione balcanica. Ciascuno dei gruppi nazionali nei Balcani da sempre ama presentarsi come vittima e parte aggredita, che lotta contro l’ingiustizia per difendere presunti “diritti nazionali” e “sovranità”. In realtà, tuttavia, dietro lo slogan dei “diritti nazionali” si celano gli interessi della cricca dominante, interessata solo a conquistare territori di altri Stati e a opprimere altre nazioni più deboli. Così, quelli che sono “diritti nazionali” per alcuni si trasformano in oppressione nazionale per altri. Per di più, dietro ogni cricca nazionale c’è sempre un “grande fratello” o l’altro. Così la presunta lotta per la “sovranità nazionale” si trasforma sempre nella subordinazione della nazione a una delle grandi potenze straniere.
“La politica seguita da ciascuna di queste monarchie in sedicesimi, con i loro ministeri e i loro partiti di governo, ha il fine dichiarato di unificare la maggior parte della penisola balcanica sotto un re. “Grande Bulgaria”, Grande Serbia”, “Grande Grecia” sono le parole d’ordine di tale politica. In realtà, nessuno prende sul serio questi slogan. Sono menzogne semiufficiali messe in giro per conquistare popolarità. Le dinastie balcaniche, installate artificialmente dalla diplomazia europea e prive di qualsiasi radice nella storia, sono troppo insignificanti e troppo insicure sui loro troni per avventurarsi in una politica a vasto raggio, pari a quella di Bismarck quando unificò la Germania con il ferro e il sangue. Il primo serio colpo potrebbe fare piazza pulita dei Karagoergevic, dei Coburgo e degli altri lillipuziani incoronati dei Balcani. Come in tutti i paesi che hanno imboccato troppo tardi la strada dello sviluppo capitalistico, la borghesia balcanica è politicamente sterile, codarda, incapace, priva di talento e corrotta sempre più dallo sciovinismo. Le masse contadine sono troppo disperse, troppo ignoranti e troppo indifferenti alla politica per considerare un’iniziativa politica che provenga da esse. Di conseguenza, il compito d.i creare rapporti condizioni di vita nazionale e statale nei Balcani cade, con tutti il suo peso storico, sulle spalle del proletariato balcanico” (ibid.)
La questione nazionale nei Balcani può essere risolta solo dal proletariato, ponendosi fermamente su un programma di indipendenza di classe, rivoluzione socialista e internazionalismo. Come scrisse Trotskij: “La garanzia storica dell’indipendenza dei Balcani e della libertà della Russia sta in una collaborazione rivoluzionaria fra gli operai di Pietroburgo e Varsavia e quelli di Belgrado e Sofia.” E ancora: “Precisamente come in Russia l’urto maggiore nella lotta contro il regime patriarcale-burocratico viene sopportato dal proletariato, così nei Balcani solo il proletariato si sta assumendo il compito immenso di stabilire condizioni normali per la coesistenza e la collaborazione fra i molti popoli e razze della penisola” (ibid.).
Per una federazione socialista dei Balcani!
L’esperienza della Jugoslavia conferma completamente la posizione marxista spiegata in precedenza. Basta porre concretamente la questione, per trovare la risposta corretta. Otto anni dopo l’inizio delle ostilità, qual è il vero bilancio dello smembramento della Jugoslavia? Ha portato forse a un rafforzamento della classe operaia e del movimento rivoluzionario? Ha avvicinato i popoli gli uni agli altri? Ha risolto uno qualsiasi dei problemi esistenti? Ha sviluppato i mezzi di produzione? Queste domande si rispondono da sole. La rottura della Jugoslavia è una catastrofe assoluta e un disastro, dal punto di vista della classe operaia. E questo crimine contro la classe lavoratrice non può in nessun modo essere giustificato riferendosi al diritto di qualsiasi nazione all’autodeterminazione. E ora abbiamo questa lotta mostruosa che prosegue in Kosovo. Ovviamente appoggiamo il diritto all’autodeterminazione per i kosovari. Hanno diritto a un proprio territorio, a non essere oppressi e massacrati. Ma le cose non sono così semplici. Bisogna dire tutta la verità, e la verità è questa: che, una volta di più, il destino di un piccolo popolo è stato cinicamente manipolato e sfruttato dall’imperialismo per i propri fini. Come abbiamo previsto fin dall’inizio, dopo aver usato i kosovari la Nato li abbandonerà e li tradirà. Così è stato, e sarà sempre così.
Se si permettesse al Kosovo di essere indipendente, tenderebbe inevitabilmente a fondersi con lo Stato albanese, creando così il mostro di una Grande Albania. Il piccolo Stato macedone è molto fragile, e ha una grossa minoranza albanese. Se la Macedonia si spaccasse, cosa che in queste circostanze sarebbe inevitabile, questo significherebbe una nuova guerra, e sarebbe una guerra differente da quelle che abbiamo visto finora nei Balcani. La guerra in Jugoslavia è stata in prevalenza uno scontro di milizie. Se la Macedonia si frammenta, serbi, albanesi, greci, bulgari e infine anche i turchi sarebbero coinvolti. Una guerra fra Grecia e Turchia – due membri della Nato – sarebbe una catastrofe per i popoli e un incubo per gli americani. Washington non può tollerarlo. Cercherebbero di fare pressioni a Milosevic per fare concessioni, e una volta che questo fallisse, si troverebbero coinvolti in una nuova guerra, senza né piani, né prospettive. Clinton era stato informato dalla Cia che i bombardamenti avrebbero messo in ginocchio Milosevic in pochi giorni. Quel piano fallì, e gli Usa vennero salvati solo dall’intervento della Russia, che fece pressioni su Milosevic per arrivare a un compromesso. Ma con quali risultati?
I kosovari hanno il diritto all’autodeterminazione, allo stesso modo dei serbi, dei bosniaci, dei kurdi, dei macedoni o dei palestinesi. C’è solo un piccolo problema: come raggiungere questo obiettivo? Come esercitare nella pratica questo diritto? I serbi non rinunceranno volontariamente al Kosovo, che considerano parte inalienabile del territorio serbo. Il problema è che i kosovari – o perlomeno l’Uck – hanno cercato aiuto dall’imperialismo americano. Cosa ha risolto l’avventura militare della Nato in Kosovo? Nulla. Ha peggiorato mille volte la situazione, gettando i semi di nuove guerre e incubi.
Il nazionalismo e lo sciovinismo, come sempre, giocano un ruolo pernicioso e portano a uno stallo sanguinoso. Dopo essere stati messi al potere dall’imperialismo Usa, i dirigenti reazionari dell’Uck giocano ora il ruolo più mostruoso. Mentre assassinano e opprimono lavoratori e contadini serbi, stanno occupando tutte le posizioni chiave si riempiono le tasche attraverso saccheggi, estorsioni, traffico di droga e crimini vari. Ma ci sono dei limiti a quello che l’Uck può ottenere. Gli albanesi del Kosovo avranno il tempo di rimpiangere la fiducia che così ciecamente hanno posto nella buona fede degli imperialisti.
Anche se Washington vuole disperatamente abbandonare il Kosovo, ormai sono là e ci dovranno restare per un certo tempo. C’è poi l’altro “grande fratello” nascosto sullo sfondo, la Russia, che ha interessi nell’area. Le contraddizioni tra Russia e Usa stanno aumentando. Di conseguenza, Mosca incoraggia Milosevic a sollevare ancora la questione del controllo serbo sul Kosovo. A dire il vero, secondo il diritto internazionale, il compromesso raggiunto tra Belgrado e la Nato per concludere le ostilità prevede che il Kosovo rimanga formalmente parte del territorio jugoslavo. Per parte sua, la Nato (cioè l’imperialismo Usa) non vuole un Kosovo albanese indipendente perché teme, non senza ragione, che questo porterebbe alla formazione di una Grande Albania, che immediatamente destabilizzerebbe la Macedonia e il Montenegro, innescando nuovi e più distruttivi conflitti. Queste contraddizioni inevitabilmente significano che in una fase successiva gli albanesi entreranno in conflitto con le forze della Nato. Questo lo avevamo previsto in passato, e sta già cominciando a realizzarsi, come dimostrano gli scontri di Mitrovica. Così l’intervento non ha risolto assolutamente nulla e si è trasformato in un incubo per tutti quelli coinvolti. Una volta di più, il tentativo di risolvere la questione nazionale su basi capitalistiche si è concluso con una catastrofe.
Molto tempo fa, Engels spiegò che la condizione preliminare per risolvere la questione nazionale nei Balcani era l’eliminazione dell’interferenza delle potenze straniere. Quell’epoca, Engels si riferiva principalmente alla Russia zarista. In seguito la Germania e l’Italia hanno giocato lo stesso ruolo pernicioso. Ora sono gli Usa e la Germania. Solo rovesciando il capitalismo è possibile rompere la presa soffocante dell’imperialismo sui Balcani e aprire la strada ad un’alternativa realmente democratica alla mostruosità che la storia ha conosciuto con il nome di “balcanizzazione”. Solo in questo modo sarà possibile giungere a una situazione nella quale, come scrisse Engels: “magiari, rumeni, serbi, bulgari, arnauti (il nome turco che indica gli albanesi. NdR), greci, armeni e turchi siano, infine, in condizione sistemare le loro differenze reciproche senza l’intervento di potenze straniere, e stabilire da soli le proprie necessità e desideri.”
C’è solo una via d’uscita, ed è tornare alla posizione di Lenin. Nel 1916 Lenin non ebbe paura di dire ai Polacchi che l’indipendenza non era la soluzione, che era utopistico, e che l’unico modo per ottenere una vera indipendenza era la rivoluzione in Russia e la rivoluzione in Germania. La stesa verità deve essere detta ai kosovari oggi. Il tentativo di risolvere i loro problemi su ristrette basi nazionaliste non porta da nessuna parte. L’unica via d’uscita consiste nello stabilimento di un potere operaio in Serbia e nell’insieme della ex Jugoslavia. Questo si può ottenere solo attraverso l’unità nella lotta dei lavoratori e dei contadini della Jugoslavia.
I lavoratori e i contadini di Serbia, Croazia, Macedonia, persino del Kosovo probabilmente staranno pensando con rimpianto al periodo di Tito, che deve sembrare un sogno se paragonato all’attuale caos. La restaurazione di una federazione di tutti i popoli, basata su un’economia nazionalizzata e pianificata è una necessità assoluta. Ma questa federazione deve essere democraticamente controllata e amministrata dai lavoratori stessi, non da cricche di burocrati privilegiati, con interessi nascosti ad alimentare le differenze nazionali, nel loro interesse egoistico; deve essere quindi una federazione socialista dei Balcani. Solo i lavoratori non hanno interesse all’oppressione delle altre nazionalità. Per questo motivo Lenin ripeteva così spesso che la soluzione della questione nazionale può essere raggiunta solo se il proletariato prende in mano il potere. Qualsiasi altra soluzione porterà nel migliore dei casi a passi avanti parziali e instabili, nel caso peggiore ad una catastrofe totale. Da questo punto di vista, il destino della ex Jugoslavia è un cupo avvertimento a tutti i lavoratori.
Per una politica internazionalista!
“Ha una patria solo chi è proprietario, o perlomeno ha la libertà e i mezzi per diventarlo. Chi non ce l’ha, non ha patria.” (Weitling)
“I lavoratori non hanno patria” (Il Manifesto del partito comunista)
La questione nazionale è un argomento così vasto che questo documento non pretende altro che di riassumere i punti fondamentali della posizione marxista. È un punto di partenza per un dibattito più ampio sulla questione, attraverso il quale il movimento operaio può arrivare ad una posizione chiara e di principio. Attraverso una seria discussione della questione nazionale possiamo alzare il livello politico dei lavoratori e dei giovani più avanzati, e possiamo gettare le basi per la costruzione di un movimento internazionale sulle fondamenta granitiche della teoria marxista. Nel Manifesto del Partito comunista Marx ed Engels sottolineano come il primo compito del proletariato sia di fare i conti con la “propria” borghesia, rovesciare la borghesia del proprio paese, e mettersi alla testa della nazione. Ma aggiungevano: “Se non nella forma, nella sostanza, la lotta del proletariato con la borghesia comincia come lotta nazionale“. Cosa significa? È ovvio che la classe operaia deve conquistare il potere nel proprio paese. “Poiché il proletariato deve in primo luogo acquistare la supremazia politica, deve elevarsi ad essere la classe dirigente della nazione, deve costituire esso stesso la nazione, è esso stesso nazionale, anche se non nel senso borghese della parola.”
Ma secondo Marx, questa è solo la forma e non la sostanza della rivoluzione socialista. Una volta conquistato il potere in un paese, i lavoratori dovranno affrontare l’opposizione della borghesia degli altri paesi. Il significato più profondo della rivoluzione proletaria non è, quindi, nazionale, ma internazionale, e può avere un successo definitivo solo allargandosi ai principali paesi capitalisti.
L’intransigente internazionalismo del Manifesto emerge da ogni frase: “Le differenze e gli antagonismi nazionali tra i popoli svaniscono ogni giorno di più, a causa dello sviluppo della borghesia, della libertà di commercio, del mercato mondiale, dell’uniformità dei modi di produzione e delle corrispondenti condizioni di vita.“
“La supremazia del proletariato le farà svanire ancora più velocemente. L’azione congiunta almeno dei principali paesi civilizzati è una delle prime condizioni per l’emancipazione del proletariato.”
“Allo stesso ritmo con il quale si porrà fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, si porrà fine anche allo sfruttamento di una nazione sull’altra. Come sparisce l’antagonismo fra le classi, l’ostilità di una nazione verso l’altra finisce.”
Certo, per i marxisti la teoria è una guida per l’azione. È un obbligo elementare combattere contro ogni manifestazione di oppressione nazionale, razzismo, discriminazione e ingiustizia. Da questo punto di vista, è necessario elaborare un programma concreto di rivendicazioni. Senza la lotta quotidiana per ottenere miglioramenti sotto il capitalismo, la rivoluzione socialista sarebbe un’utopia. Le masse possono essere temprate e formate per la battaglia finale solo attraverso la partecipazione a una lunga serie di battaglie parziali: scioperi, manifestazioni, ecc. È ovviamente necessario partecipare alla lotta per qualsiasi passo avanti, non importa quanto parziale, che tenda a migliorare le condizioni delle masse. Questo si applica non solo alle riforme sociali, all’istruzione, la sanità, il diritto alla casa, le pensioni, ecc. ma vale anche per le rivendicazioni democratiche, nella misura in cui queste mantengano la minima vitalità.
In Gran Bretagna, per esempio, è necessario lottare per l’abolizione della monarchia e della Camera dei Lord, che sono reliquie reazionarie del feudalesimo. In ogni paese lottiamo per i diritti delle donne e per la legislazione più avanzata in campi come l’aborto e il divorzio. Questo vale anche per la questione nazionale. I marxisti britannici danno un appoggio critico all’autonomia per la Scozia e il Galles. È una rivendicazione democratica elementare, ed è ovviamente obbligatorio per i marxisti appoggiare qualsiasi rivendicazione democratica che abbia anche un minimo contenuto progressivo. La concessione dei parlamenti per Scozia e Galles naturalmente non risolverà nessun problema fondamentale, ma era tuttavia una parziale riforma democratica che nessun socialista poteva osteggiare.
Questo tuttavia non basta. Nelle condizioni moderne, nessuna riforma, che sia economica, sociale o democratica, può essere durevole se non porta a un cambiamento fondamentale della società. Già nel lontano 1920, al secondo congresso dell’Internazionale comunista, Lenin sottolineò come la questione nazionale poteva essere risolta solo dalla vittoria del proletariato, e per renderlo più evidente fece togliere dal programma dell’Internazionale l’espressione movimento democratico-borghese, sostituendolo con “movimenti di liberazione nazionale”. Il significato di questo è completamente sfuggito a quei poveri “marxisti” che hanno capitolato alla pressione dei dirigenti nazionalisti borghesi e piccolo-borghesi che domandano che la classe operaia metta da parte la sua lotta per il socialismo e si subordini dalla “lotta nazionale”, cioè accetti la direzione di elementi borghesi o delle classi medie. Al contrario, Lenin spiegò che nell’epoca moderna la borghesia è incapace di risolvere la questione nazionale. Trotskij riassunse così la posizione leninista: “Il diritto all’autodeterminazione nazionale è, naturalmente, un principio democratico, e non socialista. Ma i principi genuinamente democratici sono sostenuti e realizzati nella nostra epoca solo dal proletariato rivoluzionario: è proprio per questa ragione che si legano ai compiti socialisti“.
Questa è la posizione dell’autentico marxismo che noi difendiamo. Nelle condizioni odierne è necessario in ogni fase legare strettamente la lotta per le rivendicazioni democratiche alla prospettiva della trasformazione socialista della società, all’esproprio dei banchieri e dei capitalisti. E la condizione prioritaria per questo è l’unità incondizionata della classe operaia e delle sue organizzazioni. Il nostro slogan non è “nazione contro nazione”, ma “classe contro classe!” Inoltre, il nostro obiettivo non si ferma ai confini di un singolo paese. È il socialismo mondiale. Questa era la posizione di tutti i grandi marxisti nel passato. Nel 1916, in un periodo di reazione nera, quando l’Europa soffriva una guerra catastrofica, Lenin scrisse: “Lo scopo del socialismo non è solo quello di mettere fine alla divisione del genere umano in staterelli, e all’isolamento delle nazioni in tutte le sue forme, è anche il riavvicinamento delle nazioni e la loro fusione.”
Nonostante l‘evidenza, gli apologeti del capitalismo non vogliono riconoscere quello che è sempre più evidente a tutte le persone pensanti: che lo Stato nazionale gioca oggi lo stesso ruolo retrogrado che giocavano in passato i vecchi particolarismi feudali, le barriere locali e i pedaggi stradali. Lo sviluppo ulteriore della cultura e della civiltà umana sarà possibile solo attraverso la totale distruzione di queste barriere arcaiche, e la loro sostituzione con uno sviluppo armonioso delle forze produttive su scala mondiale. Non il nazionalismo superato, ma l’internazionalismo socialista è la sola speranza per la razza umana. Come spiegò Trotskij, lo scopo dei socialisti non è elevare nuove frontiere – cioè nuove barriere allo sviluppo umano -, ma l’abolizione di tutte le frontiere e la creazione di un nuovo ordine socialista mondiale:
“Tutte le frontiere di Stato sono solo intralci per le forze produttive. Il compito del proletariato non è di preservare lo status quo, cioè di perpetuare le frontiere, ma al contrario di lavorare per la loro eliminazione rivoluzionaria, con l’obiettivo di creare gli Stati uniti socialisti d’Europa e del mondo intero.”
Londra, 25 febbraio 2000