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ll secondo congresso del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), realmente il primo sulle prospettive e l’organizzazione del partito, dopo quello di fondazione a Livorno nel 1921, si svolge a Roma dal 20 al 24 marzo 1922. Le tesi su cui si basa il dibattito congressuale prendono le mosse dal processo di degenerazione della seconda internazionale – col voto dei crediti di guerra da parte della socialdemocrazia – e dalla nascita della Terza Internazionale Comunista (IC) nel marzo del 1919. Una parte rilevante è dedicata al tema del rapporto con il Partito Socialista Italiano (PSI).
I rapporti dell’Internazionale Comunista col PSI
L’Internazionale aveva accolto con favore la scissione di Livorno anche se, al sorgere della Terza Internazionale, la direzione del PSI aveva in realtà deciso di aderire.
Quando vennero però presentate le ventuno condizioni per farne parte, Serrati – capo della frazione massimalista allora maggioritaria tra i socialisti – si rifiutò di espellere l’ala riformista del partito, respingendo uno dei requisiti fondamentali per l’adesione alla IC.
Rimanendo irrisolta questa controversia, l’Internazionale Comunista, dopo la scissione di Livorno, procedeva ad espellere il PSI, riconoscendo, come sezione italiana ufficiale, solo il Partito Comunista d’Italia appena costituitosi. Già prima del 1921, il carattere astratto della presenza del PSI, come sezione ufficiale per l’Italia tra le fila della IC, esplose in maniera fragorosa durante l’occupazione delle fabbriche del ’19-’20, quando grande enfasi venne posta dall’agitazione socialista sulle parole d’ordine della dittatura del proletariato e del potere dei soviet. La classe operaia italiana prese sul serio queste parole d’ordine, in tutte le sue profonde implicazioni, e si preparò ad una lotta rivoluzionaria aperta. Ma proprio quando si sarebbero dovute trarre tutte le conseguenze operative e organizzative, il Partito Socialista abdicò alle sue responsabilità, lasciando scoperto il fianco della mobilitazione del proletariato, che rimase in balìa delle bande fasciste.
Abbiamo qui l’essenza del massimalismo: dipingere a parole la prospettiva rivoluzionaria senza compiere le azioni conseguenti per arrivare alla presa del potere.
Trotskij, nella relazione introduttiva alla situazione mondiale, durante i lavori del terzo congresso dell’Internazionale Comunista nel 1921, cinque mesi dopo la scissione di Livorno, ribadì senza esitazioni la correttezza della lotta contro l’opportunismo di Serrati e dei massimalisti, ma sì soffermò anche sulla necessità, da parte del giovane Partito comunista, di porsi l’obiettivo della conquista della maggioranza della classe operaia. Parole che indicavano la strada del fronte unico politico con i socialisti, come metodo per mantenere ben saldi i rapporti con la maggioranza della classe operaia organizzata, che era rimasta nel PSI.
Proprio in questo spirito, i bolscevichi accettarono la presenza di una delegazione socialista, composta da tre rappresentanti, ai lavori del terzo congresso internazionale, il primo dopo la scissione tra socialisti e comunisti.
Il gruppo dirigente socialista, con la sua politica, si era messo fuori dall’Internazionale ma i lavoratori che ancora militavano in quel partito – tra i quali enormi erano il prestigio e l’autorità di cui godevano i bolscevichi e l’Internazionale – spingevano i loro dirigenti a rimanere all’interno del dibattito internazionale, presentandosi a Mosca.
Spingendo per la presenza al congresso della IC, di personaggi estranei ai metodi comunisti, i lavoratori dimostravano di avere ancora una spinta rivoluzionaria (nonostante la sconfitta), senza possedere la necessaria comprensione dell’urgenza di superare la politica riformista.
La tattica del fronte unico doveva servire proprio a questo: smascherare, di fronte alle masse, il riformismo dei dirigenti, promuovendo l’unità con i comunisti e arrivando a quella chiarificazione politica che c’era stata in un settore consistente del proletariato, ma che ancora mancava tra le grandi masse.
Lenin e Trotskij spiegavano come, per quanto fosse importante, non ci si potesse accontentare del risultato ottenuto a Livorno: c’erano circa 50mila lavoratori che avevano aderito al PCd’I (Partito Comunista d’Italia) ma ne rimanevano più di 100mila che stavano ancora con Serrati.
I comunisti dovevano porsi l’obiettivo di conquistare l’avanguardia della classe operaia, con particolare riguardo agli operai che erano rimasti nel PSI.
Questi operai avevano guardato con molta attenzione alla scissione di Livorno ed ora cominciavano a scrutare le mosse dei comunisti che dovevano dimostrare, nei fatti, di essere di una pasta diversa rispetto ai dirigenti del movimento operaio che avevano fatto deragliare il biennio rosso del ’19-’20.
Più in generale, c’era da riconoscere il fallimento dell’ondata rivoluzionaria del dopoguerra e la necessità di ripiegare, a livello internazionale, nella lotta per conquistare la maggioranza della classe operaia.
Su questo tema c’era un primo attrito politico tra i dirigenti del PCd’I e l’Internazionale.
L’altro evento fondamentale, su scala internazionale, che ebbe luogo nel 1921, oltre alla scissione di Livorno, fu il fallimento dell’azione di Marzo in Germania, che molto inciderà sulle sorti della rivoluzione tedesca.
L’azione di Marzo fu qualcosa a metà tra una insurrezione e uno sciopero generale guidato dal solo partito comunista, e fu la dimostrazione del fallimento della teoria dell’offensiva rivoluzionaria, sposata dal partito comunista tedesco, e sulla quale si mantenevano illusioni anche tra i comunisti in Italia: la delegazione del PCd’I presente ai lavori congressuali dell’IC infatti negava la necessità della conquista della maggioranza della classe operaia e ragionava ancora sulla base dell’idea della dottrina estremista dell’offensiva rivoluzionaria di piccoli gruppi, su questo seriamente redarguita da Lenin.
Riguardo ai compiti del PCd’I, Trotskij spiegò come fosse necessario non farsi trascinare dall’idea di prendersi una vendetta sulla storia e sul tradimento del PSI. Occorreva mettere per il momento da parte l’idea di passare immediatamente all’offensiva rivoluzionaria, pensando di poter portare subito a termine i compiti che i socialisti avevano lasciato a metà.
Trotskij invitava i comunisti a non sostituire alla volontà delle masse le decisioni delle avanguardie.
Prima di poter scatenare una offensiva rivoluzionaria, i comunisti dovevano conquistare le simpatie delle larghe masse della classe operaia.
I comunisti dovevano imparare ad organizzarsi in partito, a preparare la rivoluzione.
“Supponiamo che (i comunisti) avessero detto: ‘Visto che il Partito socialista che abbiamo abbandonato, ha rivelato la propria bancarotta nel settembre (1920, ndr), ne segue che noi comunisti dobbiamo cancellare questa macchia ad ogni costo e guidare immediatamente la classe operaia ad una battaglia decisiva’. Da un punto di vista superficiale, questo potrebbe sembrare effettivamente il compito dei comunisti. Ma non è affatto il caso. (…) In breve, il Partito socialista ha fatto appello alla rivoluzione ma non si è preparato alla rivoluzione. Se i comunisti italiani facessero semplicemente appello alla rivoluzione, ripeterebbero lo stesso errore e in condizioni molto più sfavorevoli. Il compito del nostro partito fratello italiano è di prepararsi per la rivoluzione. Ciò significa prima di tutto conquistare la maggioranza della classe operaia e organizzare in modo adeguato la sua avanguardia. Chi frena il settore impaziente dei comunisti italiani e dice loro: ‘Prima di fare appello all’insurrezione, dovete conquistare gli operai socialisti, epurare i sindacati, eleggere comunisti al posto di opportunisti a posti di responsabilità, conquistare le masse’ chi dice questo, potrà apparire superficialmente come uno che tira indietro i comunisti, mentre in realtà indica la vera strada della vittoria della rivoluzione’.” [1]
La critica dell’Internazionale Comunista alle tesi del congresso di Roma
Le tesi del secondo congresso del Pcd’I seguivano questa linea suggerita da Trotskij? In nessun modo.
Vediamone alcuni stralci:
“Una parte del proletariato è maggiormente restia all’inquadramento nelle file del Partito comunista e attorno ad esso per essere organizzata in altri partiti politici o simpatizzanti con questi. Tutti i partiti borghesi hanno aderenti proletari, ma soprattutto qui ci interessano i partiti socialdemocratici e le correnti sindacaliste ed anarchiche.
(…) Dinanzi a questi movimenti deve essere svolta una incessante critica dei loro programmi, dimostrandone la insufficienza agli effetti della emancipazione proletaria.
(…) Nella polemica i comunisti distingueranno sempre tra capi e masse, lasciando ai primi la responsabilità degli errori e delle colpe, e non tralasceranno di denunciare altrettanto vigorosamente l’opera di quei dirigenti che pur con sincero sentimento rivoluzionario propugnano una tattica pericolosa ed erronea.
(…) L’avvento di un governo della sinistra borghese o anche di un governo socialdemocratico possono essere considerati come un avviamento alla lotta definitiva per la dittatura proletaria, ma non nel senso che la loro opera creerebbe utili premesse di ordine economico o politico, e mai più per la speranza che concederebbero al proletariato maggiore libertà di organizzazione, di preparazione, di azione rivoluzionaria. (…) E’ evidente che la utilizzazione di una simile esperienza avverrà in modo efficace solo nella misura in cui il Partito comunista avrà preventivamente denunziato tale fallimento, e avrà conservata una salda organizzazione indipendente attorno a cui il proletariato potrà raggrupparsi allorquando sarà costretto ad abbandonare i gruppi e i partiti che avrà in parte sostenuto nel loro esperimento di governo.
(…) Il Partito comunista solleciterà le masse ad esigere dai partiti della socialdemocrazia, che garantiscono delle possibilità di realizzazione delle promesse della sinistra borghese, il mantenimento dei loro impegni e colla sua critica indipendente ed ininterrotta si preparerà a raccogliere i frutti del risultato negativo di tali esperienze dimostrando come tutta la borghesia sia in effetti schierata su di un fronte unico contro il proletariato rivoluzionario, e quei partiti che si dicono operai ma sostengono la coalizione con parte di essa non sono che i suoi complici e i suoi agenti.
(…) Il fronte unico sindacale così inteso offre la possibilità di azioni d’insieme di tutta la classe lavoratrice, dalle quali non potrà che uscire vittorioso il metodo comunista, il solo suscettibile di dare un contenuto al movimento unitario del proletariato, e libero da ogni corresponsabilità con l’opera dei partiti che esibiscono per opportunismo e con intenti controrivoluzionari il loro appoggio verbale alla causa del proletariato.”
È evidente qui una incomprensione di fondo della tattica del fronte unico, che veniva concepita solo a livello sindacale, dal basso.
Se fosse possibile distinguere tra le masse oneste e i capi opportunisti, le questioni per i comunisti si presenterebbero in maniera semplice. Disgraziatamente, la realtà dello sviluppo della coscienza dei lavoratori non segue divisioni tracciate a tavolino. E se le masse avessero già tratto le conseguenze corrette dall’azione dei propri dirigenti, non ci sarebbe stato motivo per continuare a convivere in quel partito. Il fronte unico politico, rivolto all’insieme del partito riformista, serviva proprio a costringere quei dirigenti a dire dei NO, di fronte alle masse, all’azione rivoluzionaria dei comunisti.
A chi domandava se il fronte unico riguardasse solo le masse operaie o anche i dirigenti opportunisti, Trotskij replicava che il solo porre questo interrogativo dimostrava una incomprensione della questione.
Dal discorso sul fronte unico di Trotskij al terzo congresso della IC:
“Il fronte unico comporta, quindi, la nostra disposizione, entro certi limiti e su obiettivi specifici, a condizionare nella pratica le nostre azioni con quelle delle organizzazioni riformiste, nella misura in cui queste ultime esprimono oggi la volontà di settori importanti del proletariato in lotta. Ma, dopo tutto, non ci siamo scissi da loro? Sì, perché siamo in disaccordo sulle questioni fondamentali del movimento operaio. E, nonostante questo, cerchiamo un accordo con loro? Sì, in tutti i casi in cui le masse che li seguono sono disposte ad impegnarsi in una lotta congiunta con le masse che seguono noi e quando essi, i riformisti, sono costretti, in maggiore o minore misura, a divenire uno strumento di questa lotta. Ma non diranno che, dopo esserci scissi, abbiamo ancora bisogno di loro? Sì, i loro chiacchieroni potranno dirlo. Ma le larghe masse – anche quelle che non ci seguono e non hanno sinora compreso i nostri obiettivi, ma vedono che esistono parallelamente due o tre organizzazioni del movimento operaio – queste masse dal nostro atteggiamento trarranno la conclusione che, nonostante la scissione, stiamo facendo tutto il possibile per facilitare l’unità d’azione delle masse.“
Le componenti fondamentali che, in seno al PSI, diedero vita al PCd’I si ritrovano attorno alla frazione di Amadeo Bordiga (Il Soviet) e a quella dell’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci.
Bordiga è dirigente della federazione del Partito socialista di Napoli ed esponente principale della frazione astensionista (che vede nell’elettoralismo e nella partecipazione al parlamento borghese le basi del riformismo, ben espresse all’epoca dalle posizioni conciliatrici del gruppo parlamentare del partito) che si organizzava attorno al giornale Il Soviet.
L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci si forgiava nell’ascesa della lotta di classe in Italia, tra il 1917 e il 1920 (solo nel 1919 ci sono 1.871 scioperi tra agricoltura e industria) ed è generalmente identificato come il giornale dei consigli di fabbrica.
Amadeo Bordiga, la cui influenza sui militanti comunisti era all’epoca largamente maggioritaria, fu il primo segretario del partito ed estensore delle tesi di Roma.
Tutte le concezioni espresse nelle tesi del secondo congresso vengono messe a ferro e fuoco dall’Esecutivo Internazionale dell’IC che, in una lettera aperta al CC del PCI del marzo 1922, rigettava in toto le tesi di Roma in particolare su tre punti:
1) il problema della conquista della maggioranza del proletariato in Italia;
2) il fronte unico;
3) la parola d’ordine del governo operaio.
I lavoratori del PSI guardavano all’Internazionale per l’enorme prestigio che si era guadagnata dopo la rivoluzione russa.
“Se oggi dicessimo loro: ‘Non vogliamo avere rapporti con voi’, che impressione ne trarrebbero i vecchi membri del Partito, quei 40.000 che sono diventati scettici? Essi ci comunicano il loro desiderio di aderire all’Internazionale, ma noi diciamo loro: ‘No, non vogliamo avere rapporti con voi’. Tutto ciò faciliterà il vostro compito di conquistare le masse lavoratrici alla causa dell’Internazionale? Niente affatto! Questo atteggiamento rafforzerebbe solo il conservatorismo delle masse operaie, e proprio quei membri delle giunte municipali formerebbero un blocco contro di noi, contro Mosca. Infatti rifiutarsi di accettare nell’Internazionale quei lavoratori che desiderano entrarvi, equivarrebbe a far loro il peggiore degli affronti. È una caratteristica della classe operaia in generale, e del Partito socialista italiano in particolare, il fatto che un lavoratore acquisti fiducia nell’organizzazione che gli ha fatto prender coscienza e lo ha formato. Questo conservatorismo organizzativo ha i suoi effetti negativi e positivi. Se noi respingiamo un operaio, rafforzeremo l’aspetto negativo del suo conservatorismo organizzativo. No, con una linea politica simile, non conquisterete mai la maggioranza del proletariato italiano. Mai! Voi state parlando qui nello spirito del settarismo, non in quello della rivoluzione. [2]
Trotskij analizzava l’importanza della rottura con la socialdemocrazia, come primo passo per la costruzione del partito rivoluzionario. Come amava ripetere: “avere la spada non è sufficiente, bisogna che sia affilata, e non basta che sia affilata. Bisogna saperla usare”.
Sulla questione del governo operaio, Trotskij spiegava come, nella situazione di caos completo che regnava in Italia, e nell’incapacità da parte della borghesia di assicurare la benché minima stabilità al capitalismo in Italia – stato di cose che, sull’onda della sconfitta dell’occupazione delle fabbriche, avrebbe aperto le porte al fascismo – i comunisti non potevano limitarsi a lanciare la parola d’ordine del governo dei soviet. Occorreva lottare per lo scioglimento del Parlamento e per l’instaurazione di un governo operaio, sulla base di un programma di rivendicazioni sul quale chiedere l’appoggio del PSI. Se i socialisti avessero appoggiato la proposta, sarebbe iniziato un periodo di mobilitazioni che avrebbe presto lasciato il terreno parlamentare per scendere sul terreno della lotta di classe, se invece i socialisti si fossero rifiutati di appoggiare la linea proposta dai comunisti, allora le masse potevano persuadersi che i loro dirigenti avevano idee molto meno chiare rispetto a quelle del partito comunista.
Le tesi del congresso di Roma vengono votate ma si decise che questo voto avesse solo valore consultivo. Gramsci era critico, ma esprimerà queste riserve solo nel congresso provinciale torinese, durante il quale sostenne di accettare le tesi sulla tattica solo per una ragione contingente di organizzazione del partito. Gramsci in quel momento non voleva che, il risultato di una divisione della maggioranza di Livorno, favorisse la destra di Angelo Tasca (dirigente vicino agli apparati della Cgl e alle posizioni socialdemocratiche). Nello stesso tempo però si dichiarava favorevole al fronte unico, fino al suo normale approdo nel governo operaio.
La critica dell’IC alle tesi di Roma, e le diverse opinioni che su di esse maturarono Gramsci e Bordiga, sono alla base dello scontro che si aprì in seno al gruppo dirigente del PCd’I e che porterà, attraverso la conferenza di Como, ad un suo radicale cambiamento, che si definirà compiutamente col congresso di Lione del 1926.
Bordiga sentì allora la necessità impellente di intervenire, davanti al partito, nello scontro che si era aperto con l’Internazionale, per chiarire la sua posizione. A questo scopo, scrisse un manifesto in cui denunciava come le divergenze, che si erano aperte tra il partito italiano e l’Internazionale Comunista, avessero aperto una crisi interna nella maggioranza del partito.
La sua opposizione al fronte unico politico e alla parola d’ordine del governo operaio e contadino era ostinata.
Nell’opinione di Bordiga, la linea uscita dal congresso di Roma era corretta e, di conseguenza, redasse un manifesto per sgombrare i dubbi che potevano essere sorti nella testa dei militanti in seguito alle critiche dell’Internazionale.
“Solo con la politica sostenuta dal Partito comunista e con la direzione di questo il proletariato può battere la borghesia”, e “solo nella dittatura rivoluzionaria può costituirsi il potere proletario”, ed agiva di conseguenza nel “fronte unico sindacale” e coll’aperta campagna contro ogni sfumatura di opportunismo – non si seppe mai con precisione cosa invece voleva che si facesse l’Internazionale.”
Come conquistare gli operai che erano rimasti coi massimalisti?
“secondo noi il massimalismo è una forma di opportunismo tanto pericoloso quanto il riformismo, e nella sua tradizione, nel suo stato maggiore, non sarà mai rivoluzionario, ma eserciterà ancora il compito di sviare le masse col suo linguaggio ciarlatanesco che copre la più perniciosa coltivazione di uno stato d’impotenza e di inerzia.”
Bordiga ripeteva cose corrette in astratto ma che, nella pratica, non consentivano nessun passo in avanti nel movimento reale della classe operaia. Partendo dalla considerazione, sicuramente corretta, che ai lavoratori serviva un partito rivoluzionario, trascurava l’organizzazione effettiva dei lavoratori, per come si era concretamente realizzata nella situazione data. Che non assomigliava all’organizzazione operaia fatta e finita che esisteva solo nelle sue intenzioni.
Gramsci, dopo aver letto il manifesto di Bordiga, ne prese le distanze e cominciò a elaborare l’idea di costruire nel partito un gruppo di centro che si distinguesse tanto dalla sinistra di Bordiga, quanto dalla destra di Tasca.
Togliatti, al contrario, si posizionò su una linea emendativa del manifesto, discutendo con Bordiga per togliere le frasi più dure contro i massimalisti, ma non riuscì a convincere Gramsci, la cui posizione restava quella di non firmare il manifesto e di rigettarlo in toto.
La posizione di Gramsci era che:
“Rimane la negazione assoluta degli sviluppi portati avanti nella tattica del Comintern dopo il Terzo Congresso. Rimane obiettivamente inalterata la posizione assunta dal nostro partito di centro potenziale di tutte le sinistre che possono formarsi nel campo internazionale. Rimane lo spirito fondamentalmente contrario alla tattica del fronte unico, del governo operaio e contadino e di tutta una serie di deliberazioni nel campo organizzativo anteriori al Terzo Congresso o approvate dallo stesso Terzo Congresso” [3]
e prendeva spunto dalla sua avversione al Manifesto per lanciare la sua idea di partito per gli anni a seguire.
Sentiva inoltre l’esigenza di aprire un vasto dibattito teorico attraverso una rivista trimestrale, per il primo numero della quale si proponeva come autore per il manifesto di presentazione.
Nella proposta di primo numero c’erano articoli sul programma dell’Internazionale, sulle prospettive per un governo operaio e contadino in Italia, sulla struttura industriale italiana e sulla tattica proletaria, significativamente affidato a Bordiga.
La mancata fusione PSI-PCd’I
Il congresso del PSI del 1922 espelleva i riformisti (Turati, il leader di questa corrente, fonderà il Partito Socialista unitario) e rinnovava l’adesione alla Terza Internazionale. Il IV congresso della IC ne prese atto e, alla luce di questo, riconsiderò la posizione del PSI, spingendo per la fusione col Pcd’I.
Bordiga, e con lui la maggioranza della delegazione presente al congresso, si opposero, rendendosi disponibili solo ad adesioni individuali dei socialisti, il che equivaleva a chiedere la loro completa resa politica. La posizione di Gramsci era più articolata: voleva la fusione col solo gruppo dei socialisti di sinistra (i terzinternazionalisti, da qui in avanti denominati terzini).
Su queste basi, venne nominato d’autorità, da parte di Zinoviev (presidente del Comintern), un nuovo Esecutivo del PCd’I, di cui facevano parte tre componenti della vecchia maggioranza (Fortichiari, Scoccimarro, Togliatti) e due della minoranza di destra, Tasca e Vota. Venne così risolto da Zinoviev, in maniera organizzativa, un problema politico. Un metodo ben diverso da quello di Lenin e Trotskij, che avevano cercato (e cercheranno) di offrire una ricca gamma di argomentazioni politiche per convincere il gruppo dirigente del PCd’I sulla tattica del fronte unico e sui metodi più corretti per arrivare alla fusione col PSI.
Bordiga, che veniva ancora considerato il dirigente più influente sul partito e sui suoi militanti, venne invitato a far parte del Presidium dell’Internazionale Comunista, proposta che rifiutò, dimettendosi anche dal CC.
Ben diverso fu l’atteggiamento di Togliatti, che trasformò la vecchia maggioranza in frazione, una frazione di maggioranza.
Si arrivò così alla formazione della commissione di fusione, composta da Gramsci, Scoccimarro e Tasca per il PCd’I e da Serrati, Tonetti e Maffi per il PSI. La commissione raggiunse un accordo per la fusione, contro cui si schierò da subito il centro-destra del PSI guidato da Nenni. L’Esecutivo del PCd’I, che pure aveva accettato la fusione obtorto collo, con Bordiga, Grieco, Gnudi e Berti in carcere (dopo la costituzione del governo Mussolini), era nei fatti nell’impossibilità di funzionare.
La mediazione dell’IC portò a delineare un percorso di fusione al quale però adesso si opponeva un giovane dirigente socialista emergente, Pietro Nenni, contrario alla fusione e che ben presto si impossesserà dell’Avanti e della direzione del PSI.
La fusione si fece più complicata e questo costrinse Zinoviev a ripiegare sulla strada intermedia del blocco PCd’I-PSI.
La situazione ebbe poi una svolta nell’agosto del 1923, con la rottura definitiva tra l’Internazionale Comunista e la direzione socialista (che si rifiutò di seguire la linea del Comintern in politica estera e sulle questioni sindacali), la cui prima conseguenza fu l’espulsione dal PSI dei redattori della rivista massimalista Pagine rosse.
La reazione del Comintern a questo atto fu quella di iniziare la pubblicazione di un nuovo quotidiano, che provasse a pareggiare l’influenza sulle masse del giornale socialista (l’Avanti) e che fosse l’organo comune tra i comunisti e la frazione terzinternazionalista dei massimalisti appena espulsi. Svanita la possibilità di una fusione con tutto il PSI, si provava almeno a fare l’unificazione con i terzini.
“Io propongo – scrive Gramsci – come titolo L’Unità che avrà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’Esecutivo Allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale (…) Personalmente io penso che la parola d’ordine del governo operaio e contadino debba essere adattata in Italia così: Repubblica Federale degli operai e dei contadini.” [4]
Questa formula veniva criticata da Trotskij, poiché la proposta di Gramsci non coglieva come i comitati operai e contadini, fossero in realtà il corrispondente dei soviet operai e contadini. Organismi insurrezionali contro lo stato borghese, quindi, non la base di un nuovo organo democratico-borghese rispondente al termine di “Repubblica federale”.
Il 12 febbraio del 1924 usciva il primo numero de L’Unità, nel marzo dello stesso anno il primo numero de L’Ordine Nuovo, rivista teorica.
“Il partito conserva ancora la sua struttura illegale, conta 12.000 membri (di cui 2.000 ‘candidati’ e 500 donne) è composto per il 95% di operai e contadini, ha 815 sezioni territoriali, funzionanti quasi del tutto clandestinamente. I giovani reclutati alla FGCI – che si avvia alla fusione coi giovani terzini – sono 5.000. Non si danno cifre sugli operai raggruppati nel Comitato sindacale comunista: qualche decina di migliaia, forse due, dei 120.000 soci effettivi che ancora la CGL raccoglie.” [5]
Alle elezioni di aprile del 1924 i comunisti e i terzini presentarono una lista comune che ottenne un buon risultato, 268.191 voti, ed elesse 19 deputati (a fronte dei 22 eletti dai massimalisti e dei 24 dei socialisti unitari). Risultato che veniva salutato dal gruppo dirigente del PCd’I come: “una consacrazione dell’efficacia della tattica del fronte unico, quale risulta dalle tesi e da tutta la posizione politica dell’I.C.”
Il buon risultato elettorale, e l’ingresso all’interno del PCd’I di Serrati e della sua corrente dei terzini che avvenne nello stesso anno, ingenerano in Gramsci la sensazione di un movimento che si risvegliava e che potesse avere buone possibilità di radicarsi tra le masse.
“Credo che molti dolori e molte lotte attendano il nostro proletariato, più sanguinose di quelle del passato: ma oggi vi è una linea sicura di sviluppo e questa mi pare una consacrazione grandiosa per il nostro paese: oggi si possono fare previsioni con una certa sicurezza, si può lavorare con migliore lena che nel ’19-’20. Ecco il mio ottimismo che vorrei comunicare a tutti gli amici e compagni coi quali rientro in contatto e che mi paiono schiacciati dalla pressione spirituale del fascismo.” [6]
Spinto da una maggiore fiducia nelle prospettive di crescita del partito, Gramsci approfondiva le sue teorizzazioni sulla traduzione in Italia della parola d’ordine del governo operaio e contadino.
“O il proletariato attraverso il suo partito politico riesce in questo periodo a crearsi un sistema di alleati nel Mezzogiorno, oppure le masse contadine cercheranno dei dirigenti politici nella loro stessa zona, cioè si abbandoneranno completamente nelle mani della piccola borghesia amendoliana, diventando una riserva della controrivoluzione, giungendo fino al separatismo e all’appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione puramente industriale del Nord.” [7]
È questa la temperie politica che fa da cornice al dibattito che si svolgeva nella famigerata Conferenza di Como del maggio del 1924.
Alla Conferenza partecipano 67 militanti: 11 sono membri del Comitato centrale, 46 sono segretari di federazione, uno rappresenta la Federazione giovanile, uno la sezione centrale di stampa e propaganda, 5 sono i dirigenti dei rispettivi comitati interregionali e 3 sono indicati come personale tecnico. [8]
Si discutevano tre testi presentati da: Bordiga per la sinistra, Tasca per la destra e Togliatti per la frazione di maggioranza cui apparteneva anche Gramsci. La Conferenza di Como era un successo per la sinistra di Bordiga che otteneva il voto di 35 segretari di federazione sui 45 presenti.
Gramsci e Trotskij: un fitto rapporto di discussioni per quasi due anni
Gramsci era stato inviato a Mosca dal maggio 1922 fino al dicembre 1923 ed intrattenne con Trotskij un intenso rapporto di discussioni politiche.
Sono molti gli aspetti sui quali, in questo lungo periodo, emergeva un’influenza di Trotskij sullo sviluppo di Gramsci come teorico, tattico e organizzatore di partito.
Due sono quelli principali:
1) la concezione e la corretta applicazione della politica del fronte unico;
2) l’analisi del fenomeno fascista come una forma particolare e particolarmente violenta di reazione capitalista con la capacità di contendere e strappare al movimento operaio l’appoggio della piccola borghesia.
Su questo secondo punto c’è da aggiungere che Trotskij riteneva che ci fosse nel partito italiano una sottovalutazione delle possibilità di consolidamento del fascismo. Ci si aspettava una caduta imminente del regime trascurando che, per una fase, il fascismo era riuscito invece a conquistarsi una base di massa, soprattutto tra la piccola borghesia. La difficoltà ad afferrare l’importanza del fronte unico antifascista e anticapitalista, nell’idea di Trotskij, dipendeva anche da questo iniziale fraintendimento sulle radici che il fascismo aveva messo nella società italiana.
Al terzo congresso dell’Internazionale Comunista, tenuto nell’estate del 1921, Trotskij fu, con Lenin, il dirigente più inflessibile e determinato nel cercare di convincere il gruppo dirigente del Pcd’I, ad applicare la tattica del fronte unico, vedendo in Gramsci la persona più adatta a far uscire il partito dalle secche della politica settaria portata avanti da Bordiga.
Importante la discussione tenuta il 15 novembre del 1922 in una commissione sull’Italia del Comintern, nella quale Gramsci era sostanzialmente ancora sulle posizioni di Bordiga soprattutto rispetto al fatto che il partito socialista non fosse un vero e proprio partito operaio ma un partito piccolo borghese i cui dirigenti, incluso il massimalista Serrati, non erano in grado di afferrare il carattere proletario della rivoluzione russa.
È in questa circostanza che Trotskij dà una illuminante interpretazione su come portare avanti la tattica della fusione con il PSI, partendo con una sottolineatura dell’importanza assunta dall’espulsione dei riformisti dal PSI (appena avvenuta); un fatto che creava, con il rafforzamento della minaccia fascista, una situazione completamente nuova nella quale era necessario serrare le fila dei partiti operai.
Trotskij criticava la proposta di Bordiga di accettare dal PSI solo adesioni individuali.
“Sono sicuro che tra i massimalisti ci sono elementi che si oppongono all’Internazionale, elementi di cui dovremo liberarci. Ma il sistema delle adesioni individuali non ci consentirà di farlo. I migliori elementi sono attaccati al loro partito e non lo abbandoneranno facilmente. Il reclutamento individuale ci porterà solo dei dinieghi. Noi vi proponiamo di accettare innanzitutto una fusione collettiva e poi potrete scremare gli elementi migliori. I fascisti hanno annientato le organizzazioni, le sezioni dell’organizzazione socialista. Se non riuscirete a conquistare le simpatie delle larghe masse, non sarete in grado di condurre un’attività in clandestinità. Se il vostro scopo è quello di fare una selezione a monte, il risultato sarà che rimarrete del tutto senza base e sarete considerati una setta.”
Una lettera di Gramsci a Togliatti e Terracini del 9 febbraio 1924 segnava il punto di maggiore vicinanza tra Gramsci e Trotskij. Il dirigente sardo esprimeva in quest’occasione simpatia verso le posizioni dell’Opposizione di sinistra:
“Nella recente polemica avvenuta in Russia si rivela come Trotskij e l’opposizione, in generale, vista l’assenza prolungata di Lenin dalla dirigenza del partito, si preoccupino fortemente di un ritorno alla vecchia mentalità, che sarebbe deleteria per la rivoluzione. Domandando un maggior intervento dell’elemento operaio nella vita del partito e una diminuzione dei poteri della burocrazia essi vogliono, in fondo, assicurare alla rivoluzione il suo carattere socialista e operaio e impedire che lentamente si addivenga a quella dittatura democratica, involucro di un capitalismo in sviluppo, che era il programma di Zinoviev e compagni ancora nel novembre 1917.”
Un altro passaggio rifletteva l’influenza delle posizioni di Trotskij.
“Nel partito russo tutta la partecipazione delle masse alla sua vita interna, a meno che non siano giustificati da grandi occasioni e autorizzati con un’indicazione formale del centro, sono visti come un attentato all’unità e alla centralizzazione del partito. Il partito non è stato concepito come risultato di un processo dialettico in cui converge il movimento spontaneo delle masse e organizzato con le direttive del centro.”
In una successiva lettera al CE del PCI del gennaio del 1924 Gramsci affermava:
“È certo però anche che, appunto nelle situazioni come quella esistente in Italia, una particolare attenzione deve essere posta dal partito ai mezzi coi quali entrare in rapporto con le più larghe masse della popolazione operaia.”
dimostrando di afferrare il cuore del terzo e quarto congresso della IC.
Gramsci riconosceva un errore commesso durante l’occupazione delle fabbriche del 1919-1920:
“Abbiamo commesso un grave errore nel 1919 e nel 1920 a non attaccare più precisamente la direzione socialista e anche a correre l’alea di una espulsione, costituendo una frazione che uscisse fuori da Torino e fosse qualcosa di più della propaganda che poteva fare l’Ordine Nuovo. Oggi non si tratta di andare a questi estremi, ma mutato il rapporto, la situazione è quasi identica e deve essere affrontata con risolutezza e ardimento.”
“Non abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il Paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere prematuramente espulsi dal partito socialista.” [9]
Gramsci sentiva l’urgenza di riconoscere gli errori commessi durante l’occupazione delle fabbriche pensando (commettendo qui un errore) che la prossima occasione rivoluzionaria in Italia fosse molto vicina e che il regime fascista non si sarebbe consolidato.
Non sarà L’Ordine Nuovo il nucleo su cui si sarebbe basato il nuovo gruppo dirigente del PCd’I. È del resto, come riconosceva lo stesso Gramsci, un gruppo diviso (Tasca faceva parte dell’Ordine Nuovo ma, nel partito, era parte della minoranza di destra, portando alle estreme conseguenze le posizioni assunte nel 1920 contro un esito rivoluzionario dell’occupazione delle fabbriche).
In una lettera a Togliatti del 9 febbraio 1924 (archivio Feltrinelli), Gramsci esponeva nella maniera più compiuta il suo punto di vista sulle questioni politiche e teoriche lungo le quali si doveva sviluppare il Partito Comunista d’Italia. L’allontanamento da Bordiga era definitivo.
Gramsci, in virtù dell’esperienza e delle discussioni avute con Lenin e Trotskij, si era convinto della correttezza della tattica del fronte unico ed era sempre più lontano dal settarismo di Bordiga. Era però, allo stesso tempo, in procinto di mettersi alla testa del partito sull’onda della “bolscevizzazione” forzata dei partiti comunisti voluta da Stalin e Zinoviev, che segnava il trionfo dei metodi burocratici in seno all’Internazionale Comunista e che aveva, tra le sue principali vittime, Trotskij e i dirigenti dell’Opposizione di Sinistra, che si era costituita nell’autunno del 1923, dopo la sconfitta dell’Ottobre tedesco.
Il fallimento dell’ottobre tedesco: la linea di demarcazione tra il IV e il V congresso dell’Internazionale Comunista
La sconfitta definitiva della rivoluzione tedesca segnò uno spartiacque nella storia della Terza Internazionale, del movimento comunista a livello internazionale e del partito bolscevico. Quali considerazioni si fanno dopo la sconfitta del ’23 in Germania?
Nella regione della Sassonia a inizio anno, dopo la caduta dell’esecutivo socialdemocratico, i comunisti entrarono in un governo di coalizione con i socialdemocratici. Evento salutato dai comunisti sassoni come un passo verso il governo operaio e l’armamento del proletariato.
Nel frattempo, anche nel resto della Germania, si sviluppava una situazione pre-rivoluzionaria che portò alla conclusione che i tempi fossero maturi per l’insurrezione. La posizione dell’Internazionale era che, nella misura in cui l’attuale governo della Sassonia riusciva realmente a fare della Sassonia una regione socialista, il proletariato tedesco dovesse sostenere i loro sforzi, altrimenti i comunisti dovevano denunciare alle masse la mancanza di carattere dei dirigenti socialdemocratici di sinistra al governo in Sassonia.
Il 20 Ottobre del ’23 veniva presa la decisione che l’assemblea dei consigli operai convocata per il giorno seguente in Sassonia dovesse lanciare l’appello per lo sciopero generale, in occasione del quale vi sarebbe stata la sollevazione armata in tutto il paese.
I socialdemocratici di sinistra al governo in Sassonia avanzarono però dei dubbi rispetto al piano e non volevano porre il governo sotto l’autorità dei consigli di fabbrica.
Le loro perplessità paralizzarono i lavori della conferenza dei consigli del 21 Ottobre che doveva lanciare la parola d’ordine dello sciopero generale e quindi dell’insurrezione armata.
Il piano costruito attorno alla Sassonia rossa (se piano lo si poteva chiamare, visto il carattere estremamente difensivo e l’estrema indecisione di Brandler, segretario del Kpd – Partito comunista tedesco, nel portarlo avanti) crollava in pochi giorni. Dopo discussioni interminabili se mantenere lo sciopero generale e l’insurrezione o solo lo sciopero generale, venne chiamata la ritirata e insorse la sola città di Amburgo, in completo isolamento.
Era di fatto una sconfitta senza lotta, come veniva definita da Pierre Brouè nel suo libro sulla rivoluzione in Germania dal ’18 al ’23.
Il fallimento della rivoluzione tedesca, che come si vedrà in seguito come avesse avuto dei responsabili ben precisi a Mosca, prolungò l’isolamento di quella russa, all’interno della quale, cominciavano a farsi sempre più evidenti le distorsioni burocratiche.
L’8 Ottobre del ’23 Trotskij inviava al Comitato Centrale del partito una lettera nella quale denunciava l’ascesa della burocrazia e minacciava di portare il dibattito di fronte a tutti i militanti. Il 15 Ottobre, quarantasei dirigenti diffondevano una piattaforma che riprendeva i contenuti della lettera di Trotskij. La battaglia nel partito comunista russo sarebbe sicuramente cominciata prima se l’attenzione non fosse stata rivolta agli esiti della rivoluzione tedesca ma il primo terreno di scontro fu rappresentato da un’analisi sugli avvenimenti in Germania.
Trotskij imputava alla direzione dell’Internazionale (guidata in quel momento dal triumvirato Zinoviev-Kamenev-Stalin) la responsabilità della sconfitta in Germania.
Stalin aveva sempre sconsigliato il partito tedesco dall’intraprendere qualsiasi azione. Il risultato fu di aver perso l’occasione propizia per prendere il potere in Germania, presentatasi dall’agosto del 1923, un periodo che aveva visto un completo collasso della borghesia e dell’economia tedesca. Ma, come aveva scritto Lenin: “il successo della rivoluzione russa e mondiale dipende dalla lotta di due o tre giorni.” [10]
Il fallimento della rivoluzione mondiale e l’isolamento dell’Unione Sovietica portarono inevitabilmente ad una reazione all’interno dell’URSS. L’Internazionale, ormai sulla via della stalinizzazione, riversava tutte le responsabilità del fallimento dell’ottobre tedesco sul Kpd, di cui si apprestava a decapitare il gruppo dirigente.
Il V Congresso, il primo senza Lenin, lanciava la bolscevizzazione forzata di tutti i partiti dell’Internazionale, la lotta al frazionismo e al trotskismo, aprendo la strada alla degenerazione della III Internazionale che, dopo un’infinità di errori e tradimenti che la trasformarono in una caricatura di ciò che era stata nei primi quattro congressi, veniva definitivamente sciolta da Stalin nel 1943.
Nel V congresso, Zinoviev, con la coda di paglia per i fatti tedeschi, inauguravaà la lunga epoca dei zig-zag dell’Internazionale, riproponendo il tema del fronte unico dal basso:
“quella del fronte unico e del governo operaio sono tattiche della rivoluzione e non dell’evoluzione; sono mezzi di agitazione e mobilitazione delle masse e chiunque afferma che sono qualcosa di più cade nell’opportunismo.”
Trotskij era diventato il principale oppositore di Stalin il quale, dopo la morte di Lenin, si sentiva libero di candidarsi al ruolo di massimo rappresentante della burocrazia nascente con l’idea di costruire “il socialismo in un paese solo” e di dare, con l’aiuto di Zinoviev, una sterzata burocratica nell’Internazionale, equiparando ogni differenza di opinione con il frazionismo.
Sul piano economico si rafforzava la nuova burocrazia sovietica, che trovava alimento dalla Nuova Politica Economica, con enormi concessioni alla borghesia nascente e ai kulaki (contadini ricchi), che non a caso entravano nel partito e si facevano sostenitori della cricca staliniana, isolando ed emarginando i settori più proletari e rivoluzionari del partito.
Gli effetti della bolscevizzazione
La bolscevizzazione forzata lanciata dal V Congresso della Terza Internazionale sovvertiva definitivamente anche il gruppo dirigente del PCd’I e gli equilibri che erano usciti dalla conferenza di Como. A partire da una scorretta analisi degli avvenimenti in Germania, la socialdemocrazia veniva qualificata non come un avversario del fascismo, bensì un suo supporto. Il fronte unico veniva inteso solo dal basso e il governo operaio e contadino ridimensionato a puro argomento agitativo e di propaganda per la mobilitazione delle masse.
Il V Congresso internazionale fu però anche la tribuna dalla quale Togliatti apriva la strada a una concezione di sviluppo a tappe, che successivamente si sarebbe affermata nell’Internazionale, con la tattica dei fronti popolari.
“Se il IV Congresso commise un errore fermandosi sopra una formulazione equivoca di destra, il V Congresso commetterebbe un pari errore qualora si soffermasse su di una formulazione equivoca di sinistra… Se da questo Congresso dovesse uscire una posizione di sinistra ‘acritica’, una posizione di sinistra superficiale, il Congresso non avrebbe fatto un passo in avanti (…) Oggi le masse non si pongono più sul terreno della conquista del potere spontaneamente. Anche per portarle su questo terreno, per porre il problema dello Stato agli strati decisivi e agli strati più arretrati del proletariato, è necessario che i partiti comunisti compiano una manovra. È questo il significato preciso che noi diamo alla parola d’ordine del governo degli operai e dei contadini.” [11]
Così come altre sezioni dell’Internazionale, che subiranno ogni tipo di manovre burocratiche e amministrative, con il V Congresso si chiudeva anche la questione italiana. La sinistra di Bordiga veniva esclusa organizzativamente dalla Direzione nonostante fosse ancora maggioranza nel partito, come si era visto a Como.
Stalin, nel gennaio del 1925, avanzava per iscritto la teoria anti-marxista del socialismo in un solo paese. Alcuni mesi prima Trotskij aveva pubblicato (ottobre del 1924), Le lezioni dell’ottobre, contrapponendo alle concezioni staliniane la teoria della rivoluzione permanente.
Il 6 febbraio del 1925 il comitato centrale del PCI approvava una mozione di appoggio al partito russo nel suo complesso e di denuncia delle posizioni di Trotskij.
Bordiga, due giorni dopo, consegnava a L’Unità un articolo in cui prendeva le difese di Trotskij.
“La polemica contro Trotskij ha lasciato nei lavoratori un senso di pena e recato sulle labbra dei nemici un sorriso di trionfo. Ora noi vogliamo certo che amici e nemici sappiano che anche senza e contro Trotskij il partito proletario saprebbe vivere e vincere. Ma fino a che le risultanze sono quelle a cui oggi conduce il dibattito, Trotskij non è un uomo da abbandonare al nemico. Nelle sue dichiarazioni egli non ha cancellato un rigo di quello che ha scritto, ciò non è contro la disciplina bolscevica, ma ha anche dichiarato di non aver voluto formarsi una base politica e frazionista, e di essere più che mai ligio al partito. Non si poteva aspettare altro da un uomo che è tra i più degni di stare alla testa del partito rivoluzionario. Ma anche al di là della sensazionale quistione della sua personalità, i problemi da lui sollevati restano: e non devono essere elusi ma affrontati.” [12]
A maggio del 1925, Gramsci affermava che il partito aveva finalmente raggiunto una stabilizzazione leninista tra l’estremismo di sinistra di Amadeo Bordiga e le tendenze social-democratiche di Angelo Tasca.
Con la linea dell’Internazionale stravolta dall’avvento dello stalinismo, si arrivò al congresso del PCd’I di Lione nel 1926, congresso che veniva gestito secondo i dettami della bolscevizzazione contro cui si era battuto Trotskij. Dove per bolscevizzazione si intendeva una gestione totalitaria del dibattito interno e l’imposizione burocratica della linea decisa a Mosca verso i gruppi dirigenti dei partiti comunisti, che potevano solo prendere sbrigativamente posizione a favore di Stalin, nel dibattito interno al partito russo, o essere emarginati burocraticamente dal partito e dall’Internazionale.
Un aut aut a cui Gramsci non si sottraeva.
Nel resoconto sul congresso di Lione, Gramsci affermava che:
“La lealtà di tutti gli elementi del partito verso il Comitato Centrale deve diventare non solo un fatto puramente organizzativo e disciplinare, ma un principio generale dell’etica rivoluzionaria … È necessario (…) per infondere nelle masse del partito una convinzione profondamente radicata sulla necessità che le iniziative frazioniste e ogni tentativo in generale di turbare la compattezza del partito debbano trovare alla base una reazione spontanea e immediata che li soffoca proprio all’inizio. L’autorità del Comitato Centrale tra un congresso e l’altro non deve mai essere messa in discussione e il partito deve diventare un blocco omogeneo. Solo in tali condizioni il partito potrà trionfare sui suoi nemici di classe (…) Il partito non intende permettere ulteriori giochi indulgenti con il frazionismo e la mancanza di disciplina; il partito vuole raggiungere il massimo della leadership collettiva e non permetterà a nessun individuo, qualunque sia il suo valore personale, di opporsi al partito.” [13]
Dall’estate del 1925, fino al 1930 (quando nasceva la Noi – Nuova Opposizione Italiana, di Tresso, Leonetti e Ravazzoli), il solo e unico esponente nel Comitato Centrale del PCd’I a pronunciarsi energicamente in difesa di Trotskij, era stato Bordiga.
E si provò a mantenere un dialogo, pur nelle differenze che esistevano tra i due esponenti rivoluzionari, che erano state dibattute nel II, III e IV congresso del Comintern, e che rimasero invariate nel corso degli anni ‘30, quando Trotskij, anche grazie al sodalizio con i compagni della Noi (espulsi dal Pcd’I), tentò di riaprire, senza successo, un confronto con i bordighiani del gruppo Prometeo e con lo stesso Bordiga.
La lettera di Gramsci dell’ottobre 1926
All’inizio del mese di ottobre del 1926, Gramsci scrisse una lettera al CC del partito comunista russo nel tentativo di mediare nella discussione che si era aperta tra l’Opposizione di Sinistra e il gruppo di maggioranza guidato da Stalin. Togliatti rispondeva il 18 dello stesso mese asserendo di essere del parere che, consegnare la lettera al CC del partito russo avrebbe esacerbato le tensioni all’interno del partito.
Togliatti lasciò la lettera nelle mani di Bukharin (dirigente del partito russo che si alleava a Stalin dopo la rottura di quest’ultimo con Zinoviev e Kamenev), il quale decise di tenerla nascosta e non presentarla al Comitato Centrale russo.
Gramsci mostrò tutta la sua disapprovazione per il comportamento di Togliatti, insistendo che quello che era in gioco in Russia, non era più la presa e il consolidamento del potere da parte dei bolscevichi, che era un fatto acquisito, ma la possibilità che il proletariato, una volta preso il potere, potesse costruire il socialismo.
Le osservazioni di Gramsci erano però eminentemente di metodo, non andavano a fondo delle questioni principali in ballo. Sicuramente egli esprimeva la persuasione che l’unità e la disciplina del partito dovevano essere raggiunte attraverso la discussione, e l’intimo convincimento da parte dei compagni, e non imposte meccanicamente o con metodi coercitivi. La realtà però era che toccava solo lateralmente le questioni sostanziali della battaglia contro lo stalinismo condotta dall’Opposizione di Sinistra.
Purtroppo da lì a poco Gramsci venne arrestato dal regime di Mussolini.
Come si spiega nel testo di Francesco Giliani: “Il mito di Gramsci “l’Occidentale”, a cui si rimandano i lettori, nei Quaderni dal carcere, Gramsci commetteva altri errori e “sviste” nel trattare il tema di Trotskij e la teoria della rivoluzione permanente.
Concludendo, possiamo dire che la classe operaia italiana, dalla fine della prima guerra mondiale, e per tutti gli anni presi in considerazione da questo scritto, mantenne un orientamento rivoluzionario. L’occasione per la presa del potere si era persa nel 1919-1920 e l’opportunità di arrivare ad una trasformazione socialista della società si ripresentò solo con la Resistenza, dopo la caduta del fascismo nel luglio del ’43. Dopo l’arresto di Gramsci, il timone del partito passavaò nelle mani di Togliatti, il quale non mostrò scrupolo alcuno nell’allinearsi alle posizioni di Stalin, come dimostrò con grande solerzia in Spagna, contribuendo a soffocare la rivoluzione e, successivamente, con la svolta di Salerno, ottenendo lo stesso risultato con la Resistenza italiana.
Quella che è mancata in Italia, in quegli anni, è stata una autentica svolta bolscevica del partito, a cui aveva lavorato Lenin fin dal 1903, e si era unito Trotskij per lo meno dal ‘17, continuando quella battaglia dopo la morte di Lenin (nel gennaio del ‘24) e per tutto il corso degli anni ‘30.
Entrambi si sono dedicati con tenacia, senza però trovare, nei diversi gruppi dirigenti che si sono alternati alla guida del PCd’I tra il 1921-1926 (ma lo stesso si può dire di altri partiti europei, come il Kpd) una reale e conseguente comprensione delle idee, dei metodi e del programma che avevano portato i bolscevichi alla conquista del potere nell’ottobre del 1917.
Quando, nel 1930, un gruppo di dirigenti del Pcd’I (3 su 7 dell’allora Ufficio politico) si unirono a Trotskij, venendo quasi immediatamente espulsi dal partito, le condizioni erano molto più sfavorevoli per costruire una tendenza rivoluzionaria in Italia: il fascismo era stabilmente al potere, il partito era ridotto in clandestinità, ai minimi termini, e non c’era lo spazio per costruire una forza rivoluzionaria di massa che poteva e doveva essere costruita nel corso degli avvenimenti precedenti all’avvento del fascismo.
Il prezzo che avrebbe pagato la classe operaia per quegli errori fu estremamente salato.
Le nuove generazioni di militanti rivoluzionari hanno il dovere di apprendere le lezioni fondamentali di quella sconfitta.
Note
[1] Dalla Relazione Di Trotskij Al Terzo Congresso Della Terza Internazionale
[2] Trotskij – Scritti sull’Italia – Ed. Controcorrente, pag.45
[3] Lettera di Gramsci a Terracini del 13 gennaio 1924 – archivio Feltrinelli
[4] Paolo Spriano – Storia del Partito Comunista Italiano – Da Bordiga a Gramsci – Ed. Einaudi – pag. 298
[5] Paolo Spriano – Storia del Partito Comunista Italiano – Da Bordiga a Gramsci – Ed. Einaudi – pag. 338
[6] Lettera di Gramsci a Zino Zini, collaboratore dell’Ordine Nuovo negli anni 1919-1920 e citata nella rivista comunista Rinascita del 25 aprile 1964
[7] Testo di Gramsci riportato da Paolo Spriano nella Storia del Partito Comunista Italiano – Da Bordiga a Gramsci – Ed. Einaudi – pag. 346
[8] Paolo Spriano nella Storia del Partito Comunista Italiano – Da Bordiga a Gramsci – Ed. Einaudi – pag. 352
[9] Lettera di Gramsci a Leonetti del 28 gennaio 1924 – archivio Feltrinelli
[10] Articolo pubblicato sulla Pravda nel 1920 sullo sviluppo della rivoluzione russa
[11] Paolo Spriano nella Storia del Partito Comunista Italiano – Da Bordiga a Gramsci – Ed. Einaudi – pag. 372
[12] Paolo Spriano nella Storia del Partito Comunista Italiano – Da Bordiga a Gramsci – Ed. Einaudi – pag. 442
[13] Resoconto di Gramsci sul congresso di Lione pubblicato su L’Unità il 24 febbraio 1926