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I lavoratori hanno bisogno di un partito!

Il ribaltone dal governo giallo-verde al Conte bis ha messo in luce una volta di più l’assenza di una forza politica che rappresenti gli interessi della classe lavoratrice. Nel rumoroso concerto di accuse e controaccuse che tutti si sono scagliati addosso, mancava una voce che esprimesse il punto di vista dei lavoratori.

È bastato infatti che si aprisse la crisi di governo perché la sinistra parlamentare (Leu) si mettesse a dare lezioni a Zingaretti sulla assoluta necessità di evitare le elezioni e di formare una coalizione coi 5 Stelle, naturalmente in nome della “civiltà”, della “democrazia”, della lotta al razzismo e chi più ne ha più ne metta. Questo attacco di cretinismo parlamentare è stato così acuto da colpire perfino chi in Parlamento non è più presente da anni, ossia Rifondazione comunista, che alla lista dei desideri ha aggiunto la richiesta di una legge elettorale proporzionale “per fermare l’onda nera”.

Non è certo una novità: da almeno un decennio la sinistra nel nostro paese è stata relegata ai margini dello scontro politico e si è ridotta a vivacchiare sulle briciole delle coalizioni di centrosinistra. Una sconfitta decennale, preceduta da una lunga fase di rottura con la sua base sociale.

 

La forza potenziale dei lavoratori

Questo tuttavia non significa che in tutti questi anni la classe lavoratrice non si sia espressa nello scontro politico. Al contrario, lo ha fatto tutte le volte che ha potuto, usando gli strumenti che aveva a disposizione. I lavoratori hanno influito eccome sullo scontro politico, usando il voto modo “strumentale” per cercare di ottenere un risultato politico immediato. Questo è stato lampante nelle elezioni politiche del 2018 (sconfitta di Pd e Forza Italia) e anche nelle ultime europee (distacco dal 5 Stelle a fronte di un “cambiamento” inesistente).

Tuttavia c’è un limite evidente a queste “astuzie” che tanto fanno inorridire gli intellettuali progressisti: votare un partito per colpirne un altro, gettare nella polvere dirigenti politici che fino a poco prima erano sugli altari, può essere un modo di segnalare che la classe lavoratrice è una forza della quale bisogna in qualche modo tenere conto. Tuttavia non si va oltre a questo, e gli sviluppi successivi rimangono saldamente in mano a partiti e leader che rispondono a ben altri interessi sociali.

Entrambi gli schieramenti che oggi si contendono il campo, ossia la destra reazionaria capeggiata da Salvini e il ricostituito centrosinistra, che oggi comprende anche i 5 Stelle, implicitamente hanno riconosciuto questa realtà includendo nei loro programmi ampie promesse di miglioramento della condizione dei lavoratori: pensioni, salario minimo, lotta alla precarietà, ecc.

Demagogia elettorale? Certamente. Ma anche il riconoscimento indiretto del peso, non solo numerico ed elettorale, ma sociale, che il lavoro dipendente ha nella nostra società.

È importante ribadire questo concetto, se non vogliamo cadere nelle “analisi” disperate di chi pensa che il capitalismo abbia ormai distrutto la coscienza di classe, che i lavoratori non siano altro che una massa disgregata, atomizzata, incapace di far valere i propri interessi e facile preda delle campagne mediatiche del primo demagogo che passa.

Se non fosse per la situazione di pesante crisi, che riduce ai minimi termini lo spazio per ottenere delle riforme, uno scontro così acuto tra due schieramenti della borghesia sarebbe addirittura uno scenario favorevole, nel quale una mobilitazione di massa potrebbe, sfruttando precisamente questo scontro, ottenere dei risultati.

Agli albori del movimento operaio la classe operaia inglese poté sfruttare l’antagonismo tra borghesia industriale e commerciale da un lato e latifondisti dall’altro. I lavoratori appoggiarono la prima per ottenere l’abolizione dei dazi sul grano (che gravavano pesantemente sul bilancio delle famiglie operaie); sostennero quindi il libero scambio contro il protezionismo dei proprietari terrieri, per poi avvantaggiarsi anche della replica dei proprietari terrieri, che una volta sconfitti si “vendicarono” degli industriali appoggiando la legge sulle 10 ore, che fu la prima legge che limitava la giornata lavorativa. Questo accadeva in un contesto in cui la classe operaia non solo non era rappresentata in parlamento, ma neppure godeva del diritto di voto.

Si porta questo esempio storico (se ne potrebbero fare molti altri) non per rivangare storie vecchie di due secoli, ma per rispondere a tutti coloro che piagnucolano sull’impossibilità di fare alcunché, che seminano disperazione (la loro!) e la usano per giustificare ogni cedimento e ogni viltà.

La lotta di classe è il motore della storia, bisogna comprendere le forme che assume e non limitarsi a guardare le bandiere ideologiche che vengono sventolate dai vari partiti.

 

Cosa significa un partito di classe

Detto tutto questo, è chiaro il limite pesante della situazione attuale: la classe lavoratrice ha bisogno di un proprio partito per poter difendere efficacemente i propri interessi. Esistono partiti che rappresentano i padroni, e i loro diversi settori; esistono partiti che proclamano di difendere “il popolo” indistintamente, oppure che lo dividono in base alla nazionalità o al colore della pelle. Ma non esiste un partito che rappresenti i lavoratori dipendenti in quanto tali. Vale a dire che la classe sociale che costituisce la maggioranza della società e che produce la stragrande maggioranza della ricchezza, non ha un proprio partito politico. Costruirlo è una necessità storica, che diventa doppiamente urgente nel contesto della crisi profonda del capitalismo.

Un partito non significa solo un simbolo da votare alle elezioni. Significa costruire un’organizzazione che di fronte ad ogni problema sociale sappia analizzarlo e prendere posizione dal punto di vista di tutti i lavoratori, su scala nazionale e internazionale. Un partito che su questa analisi fondi il suo programma e la sua azione.

Nell’ultimo decennio come conseguenza del crollo della sinistra si è più volte manifestata una spinta ad attribuire un ruolo politico alle organizzazioni sindacali, in quanto uniche organizzazioni che mantengono un radicamento di massa fra i lavoratori. Nei primi anni 2000, durante la lotta contro il governo Berlusconi in difesa dello Statuto dei lavoratori, ci fu una grossa discussione, anche se non pienamente esplicita, sulla possibilità che la Cgil promuovesse un “partito del lavoro”. Il processo fu poi convogliato nel tentativo, fallito, di condizionare il congresso degli allora Democratici di sinistra, antesignani del Pd.

Di nuovo nel 2011, sull’onda della lotta contro la Fiat di Marchionne, la Fiom promosse una sorta di fronte politico, la “Coalizione sociale”, che tuttavia non decollò mai. Questi tentativi sono stati fallimentari e oggi la Cgil di Landini si trincera dietro la parola d’ordine dell’“autonomia del sindacato”, ossia rinuncia anche solo a porsi il problema politico, il che nella pratica significa adattarsi ad accettare la situazione esistente.

Rimane il fatto che il movimento sindacale è una delle sedi dove necessariamente questo problema va posto. Lo conferma indirettamente il fatto che anche sindacati di base molto più piccoli della Cgil, come l’Usb o il SiCobas, abbiano a loro volta tentato di promuovere qualche forma di aggregazione politica.

 

Il ruolo delle avanguardie

Un partito di massa dei lavoratori non nasce dal nulla. Nella storia italiana di fatto ne sono esistiti solo due: il Partito socialista, la cui formazione coincise con la formazione della classe operaia stessa, e il Partito comunista, come conseguenza della rivoluzione russa e della situazione rivoluzionaria del Biennio rosso (1919-20). Altri partiti come il Psiup o Rifondazione comunista, hanno rappresentato realtà significative di settori radicalizzati, ma sono rimasti minoritari nella classe e in realtà hanno seguito, sia pure con qualche variante, la traiettoria dei partiti maggiori fino a cadere nell’irrilevanza o a scomparire.

Un nuovo partito di massa può nascere solo sull’onda di grandi avvenimenti, di movimenti di scioperi, manifestazioni e proteste di piazza, che pongano in modo chiaro la sua necessità. Ma questo non significa che basti attendere passivamente che la soluzione di questo problema storico venga spontaneamente dal corso degli avvenimenti. Al contrario, è essenziale il ruolo di chi oggi comprende questa necessità, ossia di quei settori di militanti, oggi necessariamente minoritari, disposti a lavorare per questa prospettiva.

Per noi la parola avanguardia non indica la minoranza cosciente (che si ritiene tale) che tiene prediche al popolino ignorante sulla necessità di comportarsi bene, di non inquinare e di amare il prossimo. Indica al contrario chi comprende che tutte le contraddizioni della società in ultima analisi si riconducono alla divisione tra sfruttatori e sfruttati, e agisce collettivamente in coerenza con questa analisi.

Il ruolo delle avanguardie è imprescindibile:

1) Perché il punto di vista di classe va elaborato, va continuamente affinato di fronte ad ogni svolta della situazione oggettiva attorno a noi. Una posizione di classe non significa “solo” rivendicare più salario o contratti di lavoro migliori. Significa capire qual è l’interesse collettivo dei lavoratori di fronte all’insieme delle contraddizioni della società, dall’immigrazione ai problemi ambientali, alle guerre commerciali, ai conflitti della politica internazionale, e a una infinita altra gamma di questioni che in un determinato momento possono assumere un’importanza cruciale. Per questo è necessaria una organizzazione che formi quadri, militanti capaci di conoscere e discutere collettivamente su tutti questi problemi e di consolidare su questa base un programma coerente.

2) Perché il terreno va dissodato e preparato, il raccolto di domani si prepara con la semina di oggi. Se è vero che solo un grande movimento della classe può far nascere un nuovo partito di massa, è vero che questo partito avrà bisogno di militanti, quadri, attivisti capaci di prospettarsi tutti i compiti relativi alla sua costruzione. Un lavoratore o un giovane che si forma oggi come attivista può sentirsi politicamente isolato in un’azienda dove la maggior parte dei suoi compagni ha votato 5 Stelle o Lega, o magari si stanno ritirando nell’astensionismo vedendo tradite tutte le promesse elettorali. Ma quello stesso militante domani può diventare il punto di riferimento per decine o centinaia di suoi colleghi, una volta che questi giungono alla conclusione che non possono più delegare la difesa dei propri diritti e che devono mobilitarsi in prima persona.

3) Perché quando scende in campo un movimento di massa, al suo interno esisteranno necessariamente idee confuse di ogni genere, idee incomplete o sbagliate; esisteranno le idee riformiste che derivano direttamente dalla classe dominante, e la lotta contro queste idee deve essere combattuta in modo organizzato. Se questo non avviene, anche il più ampio e promettente dei movimenti alla lunga si esaurisce e viene risucchiato nel campo di questo o quel settore della borghesia.

 

Il compito dei marxisti

La crisi prolungata della sinistra nel nostro paese ha creato l’impressione che tutto questo significhi “ricominciare da zero”, che tutto vada reinventato. Tuttavia gli strumenti teorici, che possono dare risposta a questo grande problema non sono affatto inesistenti. L’analisi marxista per noi è uno strumento di azione che ci permette di comprendere le cause dell’attuale situazione e di trarre le lezioni necessarie dall’esperienza del movimento operaio nella sua storia e in tutto il mondo. Di conoscere processi storici simili a quello che viviamo oggi, che ci possono aiutare a stabilire dei paragoni e a tracciare delle ipotesi credibili su come agire. A collegare la costruzione di un nuovo partito dei lavoratori nel nostro paese alla lotta che in tutto il mondo, ogni giorno, la classe conduce per affermare i propri interessi. A portare avanti questo compito non su scala nazionale, ma su scala internazionale, ossia attraverso una organizzazione che agisca in tutto il mondo.

Indubbiamente non siamo gli unici che si pongono questo problema, e molti altri lo faranno con lo svilupparsi delle contraddizioni insolubili che la crisi del capitalismo riversa sulle masse. Contraddizioni economiche e sociali che avranno necessariamente un’espressione politica nel futuro, con lo sviluppo di nuovi movimenti di massa e di nuovi raggruppamenti politici.

Sarà questo processo reale a fare emergere centinaia e poi migliaia di nuovi militanti, in particolare fra i giovani, capaci di organizzarsi in una direzione del movimento operaio all’altezza delle necessità poste da questa crisi storica. E sarà questo processo anche a operare l’ultima selezione all’interno di quella che, per quanto ridotta, rimane la militanza della sinistra, separando ciò che è morto da ciò che può trovare una nuova vita in una fase diversa.

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