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18 Marzo 2020Rivoluzione n°67
18 Marzo 2020Pubblichiamo online il nostro opuscolo su Gramsci e la Rivoluzione italiana. Il testo vuole ripulire questo rivoluzionario da tutte le letture distorte della sinistra istituzionale, per chiarire gli autentici aspetti del suo pensiero e rendere invece giustizia alle sue convinzioni profondamente rivoluzionarie.
di Sinistra Classe Rivoluzione
Gramsci e la rivoluzione italiana
Il 27 aprile del 1937 moriva Antonio Gramsci dopo dieci anni di sepoltura nelle carceri fasciste. Ma una sepoltura ancora peggiore doveva riservargli la successiva storiografia. I Quaderni del carcere risentirono inevitabilmente delle condizioni in cui furono elaborati. In condizioni mentali e fisiche instabili, nell’isolamento umano e politico, Gramsci non scrisse cosa e come voleva, ma come poteva. I Quaderni contengono notevoli intuizioni politiche e teoriche ma questa è e rimane la loro natura fondamentale. Eppure una vera e propria scuola di “esegesi” dei testi del carcere si è venuta sviluppando negli anni. La storiografia riformista li usò per svuotare il pensiero di Gramsci da ogni significato rivoluzionario, quella togliattiana per attribuirsi un contenuto rivoluzionario che non aveva. Entrambe li usarono in fin dei conti per oscurare Gramsci negli anni del pieno sviluppo della propria attività politica, dal 1919 al 1927. Sarà questo, al contrario, il periodo sul quale ci concentreremo. Chi cerchi in questo nostro scritto l’ennesima dissertazione filologica sull’egemonia gramsciana o sul termine casematte è perciò destinato a rimanere deluso. Politicamente non ci definiamo gramsciani e non vediamo che senso avrebbe farlo. Gramsci fu un marxista, un militante della Terza Internazionale. La forza del suo pensiero consiste prima di tutto nel tentativo di applicare il metodo leninista all’Italia degli anni ’20. Lo fece alcune volte in maniera convincente, altre meno. La sua vita non fu priva di errori, come non lo è quella di nessuno. Tuttavia non fece mai dei propri errori un sistema, come al contrario accadde con i successivi dirigenti stalinisti del Pcd’I.
L’arrivo a Torino e la Rivoluzione Russa
“Il popolano dell’Alta Italia pensava che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale…l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.”
A. Gramsci
Quando Gramsci arriva a Torino nel 1911 non è completamente a digiuno di politica. Tuttavia gli echi delle vicende nazionali e internazionali gli sono arrivati filtrati dalla luce particolare dell’ambiente sardo. Con il tempo questo si rivelerà tutt’altro che una debolezza. La sua origine sarda, unita all’esperienza torinese, sarà fondamentale per sviluppare le proprie idee attorno alla questione meridionale. Si tratterà prima di tutto di emanciparsi dalla visione maturata sull’isola. La Sardegna non era immune dai processi più generali della lotta di classe. Sono gli spari della polizia nel 1904 sugli operai di Buggerru (sulla costa meridionale sarda) a dare il via al primo sciopero generale della classe operaia italiana. Nel 1906 Cagliari è scossa dai moti insurrezionali contro il carovita. Gli sviluppi generali della questione di classe, però, si mescolano ad ogni passo con quelli peculiari della questione sarda. Lo stesso sviluppo del socialismo non fa eccezione. Nel 1896 il partito socialista conta appena 128 iscritti in tutta l’isola. Per moltissimi giovani il termine socialista indica un’idea vaga, a metà strada tra l’anticlericalismo e gli ideali tipici del sardismo. Come ricorderà lo stesso Gramsci: “Io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione. ‘A mare i continentali!’. Quante volte ho ripetuto queste parole!”.
Del resto sono i giornali dell’intellettualità borghese sarda spesso a denunciare le condizioni di sottosviluppo a cui è costretta l’isola e a dirigere il malcontento verso la figura generica del continentale. A Torino Gramsci incontrerà i pregiudizi che la borghesia ha diffuso riguardo all’arretratezza del meridione e delle isole. Insieme a questi pregiudizi, però, incontrerà anche la classe operaia che ne è involontaria portatrice. Il generico termine continentale sparisce soppiantato dal binomio borghesia continentale e sarda da un lato, e unità del proletariato con i contadini dall’altro.
L’iscrizione al partito socialista e la prima guerra mondiale
“Le idee non cadono dal cielo.”
A. Labriola
Nel 1913 in Italia si svolgono le prime elezioni con suffragio universale maschile. Con l’ammissione degli analfabeti al voto, la popolazione degli elettori in Sardegna passa da 42mila a 178mila. Secondo Tasca, Gramsci “era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell’ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista”1.
Subito la sua impostazione ha un impatto sulla sezione locale dei giovani socialisti. Quando ad ottobre dello stesso anno la rappresentanza di un collegio torinese rimane vacante per la morte di un parlamentare, i giovani socialisti torinesi offrono la candidatura al meridionalista Salvemini per affermare la solidarietà tra operai torinesi e contadini pugliesi in lotta.
Allo stesso tempo, però, la visione di Gramsci è tutt’altro che definita. Nel partito socialista vige un’enorme confusione in cui Hegel è spesso conosciuto meglio di Marx e il socialismo scientifico soppiantato da una miscela di sindacalismo rivoluzionario e anticlericalismo. Il settore più radicale del partito cerca a tentoni idee in grado di contrapporsi al vecchio leader riformista Turati, eroe dei moti operai del 1898, ormai completamente intriso di idee moderate. Per uno scherzo della storia, punto di riferimento di questo confuso sentimento di opposizione diventa il direttore del quotidiano socialista l’Avanti: Benito Mussolini. Intanto la borghesia italiana si avvia divisa e incerta ad entrare nella carneficina della prima guerra mondiale. Le divisioni ai vertici della classe dominante si riflettono in divisioni alla base della società, permettendo al partito socialista di mantenersi, almeno parzialmente, al di fuori dalla sbornia nazionalista. Sotto il peso delle proprie contraddizioni interne, il Psi finisce così per attestarsi su una posizione di ambigua neutralità. Lo slogan rispetto alla guerra diventa quindi “né sabotare, né aderire”, formula insufficiente che avrà però l’effetto di tenere il partito fuori dal crollo generale della Seconda Internazionale. Nell’ottobre del 1914 Mussolini pubblica su l’Avanti un articolo intitolato “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”, con cui inizia il suo rapido slittamento verso destra e verso una posizione di adesione al conflitto. Dai giovani torinesi la sua posizione è però scambiata per un primo passo verso un aperto boicottaggio della guerra. Ironia della storia, il primo articolo politico ufficiale di Gramsci sarà proprio in appoggio alla neutralità attiva di Mussolini. Questo articolo verrà utilizzato dalla burocrazia del Psi e della Cgl negli anni successivi per attribuirgli una posizione interventista. Tuttavia non è dai confini nazionali che verrà il fattore che deve porre ordine in tanta confusione. L’8 marzo del 1917, in occasione della giornata della donna, in Russia manifestazioni operaie di massa fanno traballare il potere zarista. È l’inizio della Rivoluzione Russa.
Torino e il 1917
“Ci sentiamo molecole di un mondo in gestazione, sentiamo questa marea che sale lentamente ma fatalmente e come l’infinità di gocce che la formano siamo saldamente aderenti; sentiamo che nella nostra coscienza vive veramente l’Internazionale.”2
A. Gramsci
All’estero le vicende della Rivoluzione Russa sono tutt’altro che di facile interpretazione. In Italia arrivano poche notizie e totalmente distorte. La Gazzetta del Popolo descrive così l’insurrezione d’ottobre:
“Una folla di massimalisti saccheggiò le cantine di vini del Palazzo d’Inverno, ubriacandosi, dispersa dalla forza armata”.
Quel poco che filtra è tuttavia sufficiente a conferire un’enorme autorità ai bolscevichi. Per le larghe masse sono coloro che più coerentemente si sono posti l’obiettivo della pace, per i socialisti più coscienti sono invece coloro che hanno avuto il coraggio di rompere uno schema gradualista del processo rivoluzionario. Già a fine aprile Gramsci scriveva:
“I giornali borghesi ci hanno detto come sia avvenuto che la potenza dell’autocrazia sia stata sostituita da un’altra potenza non ancora ben definita e che essi sperano sia la potenza borghese. (…) Eppure noi siamo persuasi che la Rivoluzione Russa è, oltre che un fatto, un atto proletario, e che essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista”3.
In estate i bolscevichi vengono ridotti alla clandestinità dal governo Kerensky. Eppure quando due rappresentanti governativi, Goldenberg e Smirnov, giungono a Torino nell’agosto del 1917 sono accolti da una folla di 40mila operai festanti al grido di “Viva Lenin!”. Dieci giorni dopo in città si combatte sulle barricate: il proletariato torinese protesta contro l’insopportabile aumento dei prezzi. La reazione della polizia è brutale: 50 morti e 200 feriti circa. Il comitato direttivo del Psi è agli arresti e viene sostituito da un comitato provvisorio di dodici membri. Tra questi troviamo per la prima volta con un ruolo dirigente lo stesso Gramsci.
La rivoluzione contro il Capitale?
“Il metodo comunista è il metodo della rivoluzione in permanenza.”4
A. Gramsci
La divisione tra menscevismo e bolscevismo era prima di tutto una divisione riguardo alla natura di classe della rivoluzione nei paesi capitalisticamente arretrati come la Russia. Tra i menscevichi, così come tra le correnti riformiste dei partiti socialisti europei, era largamente diffusa un’interpretazione meccanica e gradualista del pensiero di Marx: l’idea che ogni nazione dovesse necessariamente passare da due fasi di sviluppo distinte e distanti l’una dall’altra. Prima doveva essere il turno della borghesia e della sua rivoluzione; in seguito, dopo anni di lento sviluppo delle forze produttive capitaliste, sarebbe arrivato quello del proletariato e della rivoluzione socialista. In attesa della propria ora, proletari e contadini dovevano subordinare la propria azione alla borghesia e limitare le proprie rivendicazioni per non spaventarla. Marx veniva così ridotto ad un’icona inoffensiva, utile a consigliare passività alle masse. Poteva così accadere che nella Russia d’inizio secolo si sviluppasse il fenomeno del cosiddetto marxismo legale: un fiorire di pubblicazioni marxiste ad opera degli stessi circoli della borghesia. Allo stesso modo nel 1902 l’Avanti biasimava le lotte contadine del Sud Italia spiegando che rischiavano di spaventare la borghesia meridionale, sulla quale si doveva fare affidamento per sviluppare proprio il Sud del paese.
È contro questa concezione che Gramsci si scaglia quando il 24 novembre del 1917 pubblica su l’Avanti un articolo dal titolo “La rivoluzione contro il Capitale” in cui scrive:
“Il Capitale di Marx era in Russia il libro dei borghesi più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica (…) prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi (…) Se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente vivificatore. Essi non sono ‘marxisti’, ecco tutto (…) Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche”.
Si tratta di un articolo che testimonia l’enorme confusione che vige tra l’ala rivoluzionaria dello stesso Psi. Gramsci dimostra di aver compreso appieno l’insegnamento della Rivoluzione Russa ma inverte completamente gli obiettivi della propria polemica. Attribuisce a Marx colpe che non sono sue e all’idealismo meriti che non ha mai avuto.
Non c’è riscontro né in Marx né in Engels di alcuna concezione delle due fasi. Eppure simile interpretazione del loro pensiero era talmente diffusa da influenzare interi settori del partito bolscevico. Trotskij vi si era già opposto con la teoria della Rivoluzione Permanente. Le Tesi di Aprile di Lenin non sono nient’altro che la trasposizione della Rivoluzione Permanente sul terreno della lotta di partito. La Pravda, in mano a Zinoviev e Stalin, aveva giustificato così il proprio rifiuto delle Tesi:
“Per quanto riguarda lo schema del compagno Lenin, ci sembra inaccettabile nella misura in cui presenta come portata a termine la rivoluzione democratico-borghese e mira a una immediata trasformazione di questa rivoluzione in rivoluzione socialista”.
Più che contro il Capitale di Carlo Marx, la rivoluzione d’Ottobre avveniva contro la Pravda diretta da Stalin.
L’Ordine Nuovo e l’occupazione delle fabbriche
“È una caratteristica della classe operaia in generale, e del Partito socialista italiano in particolare, il fatto che un lavoratore acquisti fiducia nell’organizzazione che gli ha fatto prendere coscienza e lo ha formato.”5
L. Trotskij
L’onda d’urto della rivoluzione d’ottobre si espande rapidamente in tutta Europa. In Ungheria la creazione di una repubblica sovietica sembra cosa fatta, così come in Germania le basi del capitalismo appaiono irrimediabilmente compromesse. Ma ancora prima di infrangersi contro gli scogli della reazione borghese e del fascismo, l’onda sbatte contro le direzioni dei partiti operai europei. Tuttavia questo non è immediatamente chiaro in Europa e lo è ancora meno in Italia. Il Psi sembra di gran lunga più a sinistra del resto dei vecchi partiti della Seconda Internazionale.
Come sempre succede, quando milioni di persone passano da un livello di assoluta spoliticizzazione al primo istintivo tentativo di prendere in mano il proprio destino, lo fanno rivolgendosi alle organizzazioni che per tradizione ritengono essere “le proprie”. A dispetto delle loro direzioni, il risveglio rivoluzionario della classe si traduce in un incredibile afflusso verso le organizzazioni a cui il proletariato si sente legato per tradizione storica. Il Psi passa dai 24mila iscritti del 1918 agli 87mila del 1919 e ai 200mila del 1920. La Cgl passa dai 200mila iscritti dichiarati alla fine della Prima guerra mondiale ai 2 milioni dell’autunno del 1920. Si tratta di un moto che non tarda ad esprimersi anche sul terreno elettorale. Nelle elezioni del 1919 il Psi raccoglie oltre 1,8 milioni di voti e controlla il 24% dei comuni. Il movimento cooperativistico assume una forza crescente. Nel 1920 si calcola che 3,8 milioni di lavoratori facciano parte di qualche forma di cooperativa o associazione operaia. È qua che risiede la contraddizione, una contraddizione di cui nessuna corrente interna alle organizzazioni di massa è pienamente consapevole. Le masse si rivolgono alle proprie organizzazioni convinte di trovarvi uno strumento di cambiamento. Vi trovano invece un apparato burocratico che si è venuto consolidando negli anni e che è completamente assuefatto alla gestione dell’esistente.
All’ombra delle roboanti dichiarazioni di solidarietà alla Russia bolscevica, cresce così una schiera di amministratori di cooperativa, di consiglieri comunali e di funzionari sindacali ai cui occhi la rivoluzione non può che delinearsi come un obiettivo lontano a cui giungere gradualmente attraverso un processo di crescita lineare del consenso elettorale e del movimento cooperativistico. Una schiera di burocrati che, come ammetterà Nenni dopo anni, “non concepiva altra forma di lotta e di agitazione all’infuori della lotta parlamentare”. Lo stesso Gramsci li descrive come socialisti che non sanno fare altro che “aspettare di essere diventati la metà più uno” e che “aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri”. Tuttavia la polemica di Gramsci è rivolta esclusivamente alla corrente riformista di Turati e Treves, gli unici che rivendicano apertamente nel Psi la prospettiva elettoralistica o minimalista. Per il resto tutti i rivoluzionari nel Psi si riconoscono dietro al generico termine intransigente-massimalista . Quando nel novembre del ’17 si riunisce la frazione massimalista vi troviamo Gramsci, Bordiga ma anche Lazzari e Serrati: si tratta di una riunione di circa venti delegati da cui scaturiranno nel giro di pochi anni almeno quattro correnti diverse e due scissioni di partito.
I consigli di fabbrica
“La rivoluzione non è un Dio che crea dal nulla, ma un sole che fa schiudere i fiori.”
A. Tocqueville
In occasione del primo maggio del 1919 esce a Torino il settimanale L’Ordine Nuovo. Il segretario di redazione è Antonio Gramsci e sulla testata si legge “Rassegna settimanale di cultura socialista” e più in basso “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Il giornale ha un approccio totalmente militante, a partire dalla diffusione. L’attenzione verso l’autofinanziamento è assoluta. I primi numeri in particolare si aprono con un editoriale politico ed uno organizzativo in cui si spiegano i passi in avanti sul terreno della diffusione. Nel terzo numero leggiamo:
“I nostri abbonati sono ad oggi 179 di cui 21 sostenitori; gli ordinari sono 158 e di essi 136 vengono dal Piemonte. E ora voi direte che sono delle pedanterie, queste statistiche, che è un’inutile rassegna di forze appena nascenti. Inutile se si trattasse di una impresa giornalistica, di un affare che si cerca di lanciare. (…) Noi guardiamo più in là. (…) nei nostri abbonati vediamo dei collaboratori (…). Per questo piace contarci”.
La progressione della diffusione è inizialmente impressionante: 300 abbonati e una tiratura di 3mila copie a giugno, 500 abbonati e 3.200 copie a settembre e 650 abbonati e 3.500 copie di tiratura a novembre. Ma è il numero 25 dell’8 novembre a sorprendere la redazione, un numero dove esce l’articolo “Sindacalismo e consigli” e soprattutto il programma dei commissari di reparto approvato da una riunione di fine ottobre dei delegati operai di 32 stabilimenti, in rappresentanza di 50mila operai. Il numero 25 infatti tira 5mila copie e deve essere immediatamente ristampato per altrettante 5mila.
L’Ordine Nuovo è subito identificato dagli operai torinesi come “il giornale dei consigli”, ed è in effetti questa la sua ispirazione principale. Ad un anno dalla sua prima uscita così Gramsci ne ricorda la nascita:
“Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? (…) Fu detto – Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? Qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo; il Soviet è la forma in cui, dappertutto dove esistano proletari in lotta per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino? (…) Sì esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la Commissione Interna.”6
La Rivoluzione Russa aveva confermato ciò che Marx aveva già intuito analizzando la Comune di Parigi. Nessuna nuova società sorge dal nulla, ma deve necessariamente appoggiarsi su organismi sorti nel seno di quella vecchia e che costituiscono forme embrionali del nuovo potere. Per questo ogni sconvolgimento rivoluzionario tende a dare vita ad uno stadio di dualismo di poteri, una situazione dove il potere reale è nelle mani delle classi oppresse mentre quello formale rimane quello delle istituzioni rappresentanti la classe dominante. I Soviet erano nati nel 1905 senza avere altra funzione se non quella di comitati di sciopero formati dai delegati eletti dalle assemblee operaie delle diverse fabbriche di San Pietroburgo. Se come comitati di sciopero si erano posti l’obiettivo di paralizzare la produzione nella vecchia società, sotto la spinta del movimento rivoluzionario del 1917 iniziarono a porsi l’obiettivo di rimetterla in moto secondo i canoni del nuovo sistema. La nascita dei Consigli operai in Ungheria e in Germania confermava come non si trattasse di un fenomeno esclusivamente russo.
A Torino i padroni cercano di impedire la nascita di un processo simile con una concessione dall’alto.
Nel febbraio del ’19 nascono le Commissioni Interne, risultato di un accordo tra Fiom e associazione degli industriali torinesi. Il loro regolamento è profondamente antidemocratico e la scelta dei membri riservata praticamente solo al sindacato. Si prefigurano così più come appendici dell’apparato sindacale che come organismi di democrazia operaia. Spiega lo stesso Gramsci:
“Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata (…) Le commissioni interne sono organi di democrazia proletaria che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori (…) Già fin d’oggi gli operai dovrebbero procedere alla elezioni di vaste assemblee di delegati, scelti tra i migliori e più consapevoli compagni, sulla parola d’ordine: ‘Tutto il potere dell’officina ai Comitati di officina’, coordinata dall’altra parte ‘Tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini’.”7
Questo è scritto nel giugno ’19 in un articolo che non a caso è intitolato “Democrazia operaia”. Già ad agosto la stessa proposta viene approvata all’unanimità dai 132 delegati al congresso piemontese della gioventù socialista. Viene approvato anche un ordine del giorno che dice:
“I giovani socialisti piemontesi, riuniti in Congresso, plaudendo all’iniziativa dei compagni che hanno promosso la pubblicazione dell’‘Ordine Nuovo’ s’impegnano affinché venga diffuso nella regione tra le masse operaie e contadine”.
Per iniziativa dello stesso Ordine Nuovo si tiene ad ottobre una prima riunione dei Comitati esecutivi dei Consigli di Fabbrica. Vi sono rappresentati 30mila operai torinesi. Poco dopo se ne tiene una seconda, dove il numero dei delegati presenti è arrivato a 50mila. Vi si approva il “Programma dei commissari di reparto”. Lo stesso che viene votato a grande maggioranza dall’assemblea generale della sezione torinese della Fiom l’1 novembre.
Nonostante i primi a non rendersene conto siano gli stessi redattori dell’Ordine Nuovo, l’idea dei consigli ha iniziato una propria lotta di corrente all’interno delle organizzazioni del movimento operaio e senza inizialmente incontrare eccessive resistenze. L’illusione che domina il gruppo torinese è che la stessa dinamica sia destinata a ripetersi a livello nazionale, che sia sufficiente che i consigli si estendano a livello regionale e nazionale perché le direzioni del movimento operaio ne riconoscano la validità. Al contrario l’esperienza torinese dovrà presto vivere uno scontro frontale con l’apparato del Psi e della Cgl, uno scontro di cui gli ordinovisti ignorano la necessità e a cui non si sono preparati.
La lotta di frazione nel Psi e la questione sindacale
“Il capitale della rivoluzione prossima si dissipa in orge di parole.”
A. Tasca
Nell’ottobre del ’19 si tiene a Bologna il primo congresso del Psi dopo la guerra. Vi si presentano 3 mozioni: quella di destra dei riformisti di Turati e dei massimalisti-unitari di Lazzari raccoglie 14.880 voti, mentre quella dei massimalisti-intransigenti di Serrati 48.411. La novità però è rappresentata dalla presenza di una mozione che cerca di staccarsi da sinistra dal massimalismo. Si tratta della mozione astensionista di Bordiga, redattore del Soviet di Napoli, che raccoglie 3.417 voti. Il Psi è completamente inebriato dalla propria crescita. Vi domina la fraseologia rivoluzionaria senza alcuna attenzione per la sostanza. I richiami alla Russia in realtà coprono la mancanza di preparazione della rivoluzione in Italia. La distanza tra parole e fatti è tale che la stessa frazione riformista vota favorevolmente all’adesione del partito alla Terza Internazionale. La base del partito non riesce ancora a vedere tale distanza e l’Ordine Nuovo non fa eccezione. Nel dibattito precongressuale Gramsci scrive:
“Riteniamo doveroso prendere nettamente posizione in questa rivista, nel dibattito ora apertosi e che prelude al cozzo delle tendenze al prossimo Congresso. E senz’altro dichiariamo di aderire – e ciò non farà meraviglia a quanti ci hanno sinora seguito – al programma della frazione massimalista, quale è stato formulato dai compagni Gennari e Serrati.”8
Ancora dopo il Congresso descriverà il partito come “un organismo sano e forte”.
Il partito al contrario è già ampiamente infettato da uno spirito di adattamento alla democrazia parlamentare, un male che trova espressione lampante nella frazione riformista ma che non si esaurisce con essa. Sintomi dell’infezione sono più che riscontrabili nella corrente massimalista. A Bordiga va dato atto di essere il primo a cogliere simile malattia. Costruendo una corrente nazionale individua la forma con cui attaccarla, non però il contenuto da contrapporvi. La frazione bordighista, infatti, incentra tutta la propria polemica sulla proposta dell’astensione rivoluzionaria. Come un medico che cerchi di amputare la gamba per non doverla curare da una ferita, così i bordighisti individuano nell’astensione da qualsiasi partecipazione alla vita parlamentare la via per amputare il rischio burocratico. Si tratta di una proposta che non solo entra in contraddizione con Serrati, ma anche con lo stesso Lenin. Agli occhi degli ordinovisti si tratta poi di un doppio errore. Come Gramsci spiega:
“Osserviamo qui che a parer nostro la disputa sull’elezionismo e sull’anti-elezionismo minaccia di prendere nelle sezioni e forse anche nel Congresso una importanza che non meriterebbe (…) Oggi l’elezionismo e l’antielezionismo rappresentano per taluni i termini che separano la destra e la sinistra del partito; noi insistiamo invece che sarebbe una vera iattura che al Congresso la disputa si esaurisse entro quei termini, quando vi sono nel programma massimalista alcuni punti attorno ai quali veramente dovrebbe arrivare la netta separazione delle tendenze”.
In verità la mozione astensionista non ha da offrire un programma alternativo al partito, può al massimo rappresentare lo sfogo per il mal di pancia che inizia a serpeggiare tra un settore di militanti. Tasca pubblica sull’Ordine Nuovo un resoconto del Congresso dove descrive i bordighisti come
“un gruppo rumoroso, che si moltiplica con interruzioni qualche volta felici, spesso inopportune e fatte un po’ pel piacere innocente dell’eresia (…) Ce lo perdonino i nostri amici, ma ci pare che le illusioni d’ottica elettorale che essi ci rimproverano abbiano raccolto, sia pure in senso negativo, troppa parte della loro attività e della loro attenzione, e che sia venuta così a mancare da parte loro una seria, concreta, radicale differenziazione di principi che giustifichi il nome, secondo noi non ancora meritato di ‘frazione comunista’. Ritornando a Torino sul treno abbiamo parlato col rappresentante di una sezione piemontese che votò per essa, egli ci confessò che quel voto era la conseguenza dell’irritazione prodottasi colà per la non simpatica gara di due che chiedevano la candidatura del collegio.”9 Questo non toglie che le conclusioni a cui sono giunti gli ordinovisti siano altrettanto scorrette. Tasca continua il suo resoconto affermando:
“Ma allora si vedrà che non era proprio il caso di formare una frazione comunista, poiché comunista è oggi la maggioranza del Partito; ma il Bordiga piuttosto che aver ragione in compagnia preferisce aver torto da solo”.
L’Ordine Nuovo dichiara così inutile formare una corrente, mentre nei fatti è già l’organo di una tendenza specifica del movimento operaio. Settimana dopo settimana il gruppo entra in polemica con tutte le correnti nazionali del movimento operaio. Il terreno su cui coglie dapprima l’incoerenza della maggioranza del partito è quello sindacale. Nella Cgl vige un atteggiamento di quieto vivere tra massimalisti e riformisti. Lo stesso atteggiamento sembra prevalere complessivamente tra direzione del Psi e della Cgl. Tra le due organizzazioni è stato addirittura firmato un patto nel 1918 in cui il partito si impegna a non invadere il campo sindacale e viceversa. Così Gramsci commenta l’atteggiamento del Psi nel gennaio del ’20:
“Partito degli operai e dei contadini rivoluzionari lascia che l’esercito permanente della Rivoluzione, i Sindacati operai, rimanga sotto il controllo di opportunisti che ne incantano a loro piacere il congegno di manovra, che sistematicamente sabotano ogni azione rivoluzionaria e che sono un Partito nel Partito, e il Partito più forte, perché padroni dei gangli motori del corpo operaio. Due scioperi, che potevano essere micidiali per lo Stato, si sono svolti (…) senza che il Partito avesse nulla da dire, un metodo da affermare che non sia quello vecchio e logoro della più vecchia e logora Seconda Internazionale: il distinguo tra sciopero economico e politico.”10
Torino, Aprile 1920
“Nelle fabbriche non ci può essere che un’unica autorità.”
Manifesto della Lega Industriali di Torino
L’esistenza dei consigli di fabbrica comporta uno stato di perenne dualismo di potere all’interno delle fabbriche torinesi che non può essere tollerato a lungo dagli stessi padroni. Già nel novembre del ’19 il prefetto di Torino comunica al Ministero dell’Interno che “per dichiarazioni fatte da alcuni principali industriali di questa città che questa Lega Industriale ha intenzione di iniziare subito dopo le elezioni politiche una lotta contro le organizzazioni operaie ricorrendo, appena occasione si presenterà, alla serrata generale degli stabilimenti.”11 Di questa intenzione viene informata la stessa Fiom in un memoriale ricevuto dall’Amma (Associazione industriali metallurgici, meccanici e affini), ma i mesi che passano dal novembre del ’19 al marzo del ’20 sono interamente spesi a polemizzare con l’Ordine Nuovo riguardo alla natura dei Consigli di Fabbrica. Secondo la Cgl non bisogna concedere il voto ai non iscritti al sindacato e la direzione del Psi è d’accordo. Il Soviet di Bordiga, invece, accusa i consigli di essere organi di corruzione del movimento operaio che creano una forma di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda. Ognuno vi contrappone un proprio modello: la direzione della Cgl favoleggia di un parlamento del lavoro, i massimalisti progettano a tavolino le regole per i futuri soviet e Bordiga rimanda il problema ad un momento successivo alla presa del potere. Eppure i consigli di fabbrica vivono e si sviluppano, tanto che nel marzo del 1920 sono indette in tutta le aziende della città le elezioni generali per il rinnovo delle commissioni interne secondo le modalità democratiche indicate dallo stesso Ordine Nuovo. Le elezioni sono precedute da due settimane di intensa propaganda in ogni fabbrica, di volantinaggi e di comizi per spiegare le funzioni ed il significato dei nuovi Consigli di Fabbrica. Il padronato comprende di non poter più rimandare l’attacco.
Come racconterà in seguito Gramsci: “Il 7 marzo si tiene a Milano un Convegno Nazionale degli Industriali. (…) L’onorevole Gino Olivetti, segretario confederale, riferisce al Convegno sulla questione dei Consigli di Fabbrica e conclude proclamando che i Consigli operai torinesi devono essere schiacciati implacabilmente”.
Il 20 marzo Olivetti, De Benedetti e Giovanni Agnelli si presentano al prefetto annunciandogli la serrata imminente. 50mila guardie regie vengono ammassate attorno alla città, batterie d’artiglieria vengono piazzate sulle colline circostanti, mitragliatrici sui tetti. Il 28 marzo i lavoratori delle Industrie Metallurgiche (indotto Fiat) scioperano contro il licenziamento di tre membri della commissione interna. La risposta industriale è l’immediata serrata “per imporre la fine dello stato caotico in vigore nelle fabbriche”. I metalmeccanici non possono che rispondere con l’inizio di uno sciopero che durerà venti giorni. Come ammetterà Gramsci: “la classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto”. L’Ordine Nuovo sospende le pubblicazioni e viene inglobato nella redazione del bollettino del Comitato di sciopero formatosi per l’occasione.
La costante preoccupazione del Comitato è quella di espandere i confini della mobilitazione: dal 15 aprile l’agitazione è estesa al resto delle categorie. Chimici, tipografi, lavoratori dell’edilizia si sommano allo sciopero per un totale di 500mila lavoratori mobilitati. Il 19 lo sciopero viene invece esteso a tutto il Piemonte. Gli ordinovisti, però, non possono andare oltre, sono alla mercé delle decisioni degli organismi nazionali del Psi e della Cgl. Quest’ultima si è già dichiarata contraria allo sciopero, il Psi invece riunisce il proprio Consiglio Nazionale il 20-21 aprile. Originariamente la riunione è fissata a Torino ma la direzione del partito ne sposta la sede a Milano. Nota in maniera sprezzante Gramsci: “una città in preda allo sciopero generale sembrava poco adatta come teatro di discussioni socialiste”. L’atteggiamento del Psi è in realtà già abbastanza eloquente. L’edizione nazionale dell’Avanti quasi censura i fatti del Piemonte. Su diversi giornali socialisti locali lo sciopero torinese viene descritto come “un’insurrezione di carattere anarchico” (la Voce, giornale socialista di Empoli). Al Consiglio Nazionale a Milano vi partecipa per l’Ordine Nuovo Terracini che dichiara che i compagni torinesi “hanno un desiderio solo e per mia bocca lo manifestano: che il Consiglio Nazionale deliberi un programma d’azione”. La risposta è negativa. Lo è ovviamente da parte dei riformisti ma anche da parte di quella maggioranza del partito che Tasca aveva definito pochi mesi prima “comunista”. L’analisi di Bordiga, anche in un momento così decisivo, rimane astratta: i Consigli oggi danno fastidio agli imprenditori ma domani daranno fastidio alla rivoluzione proletaria. Di fronte al rifiuto dei vertici del Psi ad estendere l’agitazione non resta altra strada che quella di una ritirata ordinata. Lo sciopero si chiude con un accordo tra padronato e sindacato sul riconoscimento dei consigli di fabbrica in cambio di una limitazione dei loro poteri. È una sconfitta e Gramsci non lo nasconde:
“La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la superstizione, la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano (…) La vasta offensiva capitalista fu minuziosamente preparata senza che lo ‘Stato maggiore’ della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali (…) Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, bisogna impostare un piano organico di rinnovamento dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi.”12
La sconfitta di Torino e l’Internazionale Comunista
“Se dunque noi siamo stati sconfitti, è nostro dovere ricominciare da capo.”
K. Marx
La primavera a Torino anticipa ciò che nell’autunno successivo riguarderà tutta Italia. Passata la paura per lo scampato pericolo, la borghesia pretende ora di dominare con il pugno duro. Quando il primo maggio la classe operaia torinese torna a sfilare in modo massiccio e compatto, la polizia apre il fuoco provocando due morti. I fatti hanno dimostrato quanto il gruppo torinese abbia preparato la rivoluzione a Torino sottovalutando completamente la costruzione di una corrente su scala nazionale. Ancora dopo anni Gramsci lo giudicherà il proprio errore fondamentale:
“Nel 1919-20 abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia”.
Finito il movimento torinese, l’Ordine Nuovo cerca di rimediare il più rapidamente possibile alle proprie mancanze. Gramsci partecipa alla riunione nazionale della corrente bordighista per proporre un’unificazione sulla base della rinuncia alla tattica dell’astensionismo rivoluzionario. Torna a casa con un sostanziale rifiuto. L’8 maggio pubblica sull’Ordine Nuovo le tesi Per un rinnovamento del partito socialista che contengono contemporaneamente un bilancio della sconfitta torinese e il lancio di una frazione nel Psi. Si tratta probabilmente di uno dei suoi scritti migliori:
“La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: – o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario (…) – o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito Socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i Sindacati e le Cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese. (…) Il Partito Socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale Comunista, non lancia parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria. (…)”.
Il documento anticipa di fatto non solo l’imminente scoppio dell’occupazione delle fabbriche, ma anche la successiva reazione fascista.
A settembre si tiene in Russia il Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista. Si tratta di una riunione ancora profondamente viziata dalla mancanza di collegamenti e informazioni tra l’Italia e gli stessi bolscevichi. Vi prendono parte i dirigenti massimalisti del Psi e addirittura alcuni esponenti della mozione riformista. Il segretario della Cgl D’Aragona viene portato in trionfo dai lavoratori russi che lo accolgono come un dirigente rivoluzionario. Sono infine presenti Bordiga e la mozione astensionista. Le discussioni che riguardano più da vicino l’Italia si sviluppano attorno a due punti fondamentali: l’espulsione dei riformisti dal partito e la partecipazione alle elezioni parlamentari. Rispetto alla prima questione i dirigenti dell’Internazionale sono profondamente convinti che in Italia si stia avvicinando un momento rivoluzionario e sono guidati dalla preoccupazione di impedire che la frazione riformista di Turati possa immobilizzare il partito dall’interno. La formula proposta è quella di “scindersi da Turati per allearvisi” in un secondo tempo. L’Internazionale ribadisce contemporaneamente la necessità di utilizzare le istituzioni e le elezioni parlamentari per allargare la base di massa del partito, tesi brillantemente spiegata nello scritto di Lenin L’estremismo malattia infantile del comunismo. Di fatto si trovano in disaccordo con Serrati e i massimalisti riguardo al primo punto, e con Bordiga e gli astensionisti sul secondo.
Al Congresso non è presente Gramsci e nessuno degli ordinovisti, ma a Mosca sono state inviate le tesi “Per un rinnovamento del partito socialista” che abbiamo citato. Suscitando la uguale indignazione di massimalisti e astensionisti, Lenin le definisce il migliore documento scritto sulla situazione italiana. L’episodio è riportato dallo stesso Gramsci sull’Ordine Nuovo del 21 agosto:
“Ecco le parole del compagno Lenin: ‘Per ciò che riguarda il Partito Socialista Italiano, il Secondo Congresso dell’Internazionale comunista trova fondamentalmente giuste le critiche e le proposte pratiche, che sono state pubblicate – come indirizzo della Sezione torinese al Consiglio del Partito Socialista Italiano – nel giornale l’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920 e che corrispondono integralmente a tutti i principi fondamentali della Terza Internazionale. Per queste ragioni il Secondo Congresso della Terza Internazionale prega il Partito Socialista Italiano di convocare al più presto un congresso straordinario’”.
Si tratta però di una magra consolazione perché il 30 agosto, con l’occupazione della Romeo a Milano, scocca la scintilla che porta all’occupazione della maggioranza delle fabbriche italiane. Le decisioni dell’Internazionale Comunista non sono ancora conosciute in Italia e già è iniziato un episodio decisivo della lotta di classe di questo paese. Come già anticipato da Gramsci, ci si trova di fronte alla più grande delle vittorie o alla peggiore delle sconfitte.
Settembre 1920 l’occupazione delle fabbriche
“Lo ‘spontaneo’ era la prova più schiacciante dell’inettitudine del partito perché dimostrava la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili.”
A. Gramsci
La base della dinamica della lotta di classe del biennio ’19-’20 poggia innanzitutto sulla situazione economica disastrosa ereditata dalla guerra. L’Italia è uno dei paesi più colpiti. L’arretratezza economica si è riflessa prima in una palese inferiorità a calarsi sul terreno militare e poi in una maggiore difficoltà ad uscirne. Nel 1909 l’indice dei prezzi dei beni di prima necessità è pari a 100, nel 1919 è di 480, nel gennaio 1920 è di 637 e a giugno dello stesso anno è di 774, per poi raggiungere quota 832 a settembre. La guerra ha significato anche un’impennata di profitti per le aziende: tra il 1914 ed il 1917 la produzione siderurgica è raddoppiata, i profitti dell’Ilva passano da 30 milioni nel 1916 a 300 nel 1918, quelli della Fiat dai 17 del 1914 ai 200 del 1919. Si tratta di una crescita ampiamente finanziata dal debito pubblico. Con la fine della guerra tutte le contraddizioni che sono state scaricate verso l’esterno del paese ricadono sul fronte interno: il debito è completamente fuori controllo e passa dai 74mila milioni di lire del 1919 agli 86mila milioni del 1920. Contemporaneamente la produzione industriale, privata ormai dello sbocco bellico, subisce una brusca frenata. Ma la classe operaia è tutt’altro che domata. Nel 1919 la curva degli scioperi schizza alla cifra sbalorditiva di 14 milioni di giornate di lavoro perse contro le 600mila dell’anno precedente. Le giornate di lavoro perse saranno addirittura 16 milioni nel 1920.
In questa situazione si fronteggiano un padronato reso sempre più feroce dal declino dell’economia e delle direzioni sindacali costrette a posizioni radicali da una base sempre più spostata a sinistra. La vertenza chiave è quella contrattuale dei metalmeccanici, in stallo da almeno tre mesi. I dirigenti sindacali non possono permettersi di cedere, i padroni semplicemente non vogliono. I primi sono portati loro malgrado allo scontro, i secondi lo ricercano coscientemente. A metà agosto si rompono definitivamente le trattative. Buozzi, il segretario della Fiom, racconta:
“Quando la delegazione operaia ebbe terminata la confutazione delle affermazioni della delegazione padronale, il capo di questa, avvocato Rotigliano – allora nazionalista e in seguito divenuto fascista – pose fine al contraddittorio con questa dichiarazione provocatoria: ‘Ogni discussione è inutile. Gli industriali sono contrari alla concessione di qualsiasi miglioramento. Da quando è finita la guerra essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta e cominciamo da voi’”13.
La Fiom risponde dichiarando l’ostruzionismo nelle aziende: gli operai continuano a lavorare ma abbassano i propri ritmi. In diversi stabilimenti la produzione cala anche del 60% in una settimana. La risposta da parte dei padroni è nuovamente la serrata, a partire dalla Romeo di Milano che i lavoratori trovano chiusa il 30 agosto. Il 31 la occupano. Il Corriere della Sera descrive così la situazione:
“Gli ingressi venivano severamente guardati da gruppi di operai. Non l’ombra di un funzionario o d’un agente di forza pubblica. Gli scioperanti erano completamente padroni del campo”.
Come un sasso caduto nello stagno, l’occupazione si allarga a cerchi concentrici. Tra l’1 e il 4 settembre si estende a tutti gli stabilimenti metalmeccanici italiani e da metà mese riguarda la maggioranza delle fabbriche del paese. Tutto si svolge nella massima disciplina e in alcune aziende il lavoro viene ripreso sotto la direzione del consiglio di fabbrica. Non si tratta quindi di una vertenza sindacale, ma della rivoluzione. Secondo La Stampa, un fornitore di materie prime chiama la Fiat per avere conferma di una consegna: “Pronto? Con chi parlo?” – “Fiat Soviet” – “Allora scusi sarà per un’altra volta…”
Le forze della controrivoluzione sono completamente incapaci di fronteggiare la situazione. Sul piano militare l’apparato statale è impotente. Sarebbe necessario mettere una guarnigione di soldati davanti ad ogni azienda. Secondo un calcolo del primo ministro Giolitti le truppe sarebbero sufficienti a presidiare le principali 600 aziende metalmeccaniche. Rimarrebbero a quel punto da fronteggiare 500mila operai. Agnelli insiste per un intervento armato ma quando gli viene chiesto se l’artiglieria debba procedere con il bombardamento delle fabbriche, risponde ovviamente di lasciar stare. I gruppi fascisti sono già nati, ma rappresentano ancora un elemento di folklore. Questo stato di impotenza è ben espresso dallo stesso Giolitti che durante tutta l’occupazione delle fabbriche si ritira nella sua casa di villeggiatura a Bardonecchia. L’iniziativa ricade completamente sulle direzioni del movimento operaio: le uniche che possano portare a termine la rivoluzione e le uniche che possano impedirla. Questo è ben compreso anche dai settori più lungimiranti della borghesia. Il direttore del Corriere della Sera in una telefonata riservata suggerisce di dare il potere alla Cgl. A chi gli fa notare che questo significherebbe la rivoluzione risponde che al contrario “per non farla l’unico mezzo è di dare il potere alla Confederazione del lavoro.”
Dietro le frasi incendiarie, le direzioni del movimento operaio non possono e non vogliono offrire alcuna direttiva pratica ai lavoratori in lotta. La direzione riformista della Cgl ha sempre chiarito di non volere la rivoluzione. La sua posizione politica si fa addirittura paradossale quando il 4 settembre delibera che si procederà alla socializzazione dei mezzi di produzione se non vengono accolte le richieste sindacali. Una posizione che viene canzonata dal Corriere della Sera: “farete dunque la rivoluzione come rappresaglia al mancato accoglimento di rivendicazioni salariali di una categoria di lavoratori?”. I massimalisti sanno solo far piovere proclami sulla testa dei lavoratori. Nei volantini del Psi si leggono spesso frasi del tipo: “l’ora è vicina” o “si avvicina lo scontro decisivo”. La direzione della Fiom occupa tutte le proprie energie a cercare di riaprire le trattative piuttosto di spendersi per la vittoria della lotta. I lavoratori sono quindi “incastrati” all’interno delle proprie stesse aziende. All’interno degli stabilimenti sono i padroni, ma nessuno è in grado di organizzare una sortita verso l’esterno. Gramsci indica correttamente cosa andrebbe fatto: spostare la battaglia in altri campi, dirigere “le forze operaie contro le vere centrali del sistema capitalistico: i mezzi di comunicazione, le banche, le forze armate, lo Stato”. Ma ancora una volta, come spiegherà nel 1924, deve scontrarsi con la mancanza di “una frazione che avesse ramificazioni in tutto il paese; così nel 1920 non osammo organizzare un centro urbano e regionale dei Consigli di fabbrica che si rivolgesse, come organizzazione della totalità dei lavoratori piemontesi, alla classe operaia e contadina italiana al di sopra e, occorrendo, contro le direttive della Confederazione Generale del Lavoro e del Partito Socialista.”14 Manca quindi una direzione alternativa e questa non può essere semplicemente improvvisata nella lotta.
A metà settembre le direzioni del movimento operaio compiono il loro definitivo atto di viltà. La direzione Cgl vota un ordine del giorno in cui nega la necessità della rivoluzione e rassegna le proprie dimissioni, lasciando campo libero al Psi. Il Psi a sua volta non ritiene di poter procedere senza l’appoggio della Cgl. È un gioco di scarica barile che porta dritto alla sconfitta. Il Governo riapre le trattative con grosse concessioni sulla rappresentanza dei Consigli, mentre i lavoratori sono costretti a smobilitare a partire dal 20 settembre, presi dalla stanchezza e dalla delusione.
L’Ordine Nuovo ha sospeso ancora una volta le pubblicazioni durante il mese di mobilitazione. Il primo numero che esce ad ottobre non può nascondere la sconfitta. La prima pagina è composta da un breve editoriale in cui Gramsci scrive: “La nostra critica al partito e ai sindacati, l’uno e gli altri paralizzati dal verbalismo demagogico e dall’arteriosclerosi burocratica, ancora una volta purtroppo, ha avuto conferma dagli avvenimenti”. A fianco di queste considerazioni il solito editoriale politico generale è significativamente sostituito da un articolo di Trotskij dal titolo: “Soviet, partito, sindacati”. Se la sconfitta è chiara da subito, ancora non ne può essere chiara la portata.
La nascita del Pcd’I e l’ascesa del fascismo
“La coscienza di una classe, quando tale classe rompe col suo partito, è subito disorientata.”
L. Trotskij
Con la sconfitta di settembre, Gramsci rompe qualsiasi indugio: accetta la fusione con il gruppo di Bordiga per dar vita alla frazione comunista che a ottobre pubblica il primo manifesto e a novembre tiene la sua prima conferenza nazionale ad Imola. Formalmente Bordiga ha rinunciato alle proprie posizioni, in verità le sue idee rimangono assolutamente predominanti. Più che una fusione alla pari tra diversi gruppi, è il gruppo bordighista ad inglobare di fatto tutte le altre correnti sotto la propria direzione. Non si tratta tanto di una questione numerica, ma di una questione politica. Gli ordinovisti non hanno la necessaria omogeneità. Nei mesi precedenti hanno addirittura aumentato le proprie divergenze interne. Come ricorderà Gramsci sono “semplici individui o quasi, mentre nell’altro gruppo, quello astensionista, la tradizione di frazione e di lavoro in comune ha lasciato tracce profonde”15. Gramsci entra di fatto nella frazione subordinato all’impostazione di Bordiga. Subordinazione da cui non uscirà in maniera esplicita fino al 1924. Il partito nel suo complesso impiegherà ben sei anni per fare altrettanto.
Sin dall’inizio la frazione comunista ritiene indispensabile la scissione dal Psi. La fretta viene motivata con il rifiuto di Serrati e della corrente massimalista di dividersi dai riformisti di Turati. L’epurazione del partito viene vista al contrario dai comunisti come un passo necessario e urgente per prepararsi ad una nuova occasione rivoluzionaria. Ma il barometro della lotta di classe ha già segnato un brusco cambiamento dei rapporti di forza. La rivoluzione è per il momento alle spalle e non più di fronte. La sconfitta di settembre ha lasciato un proletariato profondamente disorientato politicamente e indebolito dalla crisi economica. Rispetto al 1919 il processo è inverso: alla fine del 1922 le organizzazioni di massa crollano. La Cgl passa da 2 milioni a 800mila iscritti, la Federterra da 1,5 milioni a 200mila. Il Psi entra al Congresso di Livorno con 200mila iscritti, ne registra 106mila dopo la scissione, 73mila nell’ottobre del ’22 e 10.250 nell’aprile del ’23.
Il crollo delle organizzazioni operaie è contemporaneamente la causa e l’effetto dell’affacciarsi di un fenomeno nuovo: il fascismo. Le nuove sezioni del Pcd’I non sono ancora nate e già devono lottare per la propria sopravvivenza. Tra il ’21 ed il ’24 l’ascesa del fascismo è impressionante per rapidità. Non si tratta tuttavia di un processo inarrestabile: in almeno due occasioni la teppaglia di Mussolini rischia di vacillare ed andare in crisi. Né il Psi né la Cgl sanno o vogliono coglierle. Il Pcd’I tuttavia non fa molto meglio. Il settarismo che guida l’azione del giovane partito si rivelerà un limite estremamente grave di fronte all’avanzata fascista.
La scissione di Livorno
“Serrati teme che la scissione indebolisca il partito, in particolar modo i sindacati, le cooperative, i comuni. (…) Quindi Serrati mette a repentaglio la sorte della rivoluzione per non danneggiare l’amministrazione comunale di Milano.”
V. Lenin
La corrente comunista, dopo appena tre mesi di lavoro di frazione, dà vita alla scissione. Lenin aveva spiegato ai comunisti italiani quale dovesse essere il loro atteggiamento: “fate la scissione con Turati, per poi allearvi con lui”. In queste parole è contenuta tutta l’essenza della tattica del fronte unico: l’indipendenza politica ed organizzativa dei comunisti era necessaria, ma altrettanto necessario era conquistare la maggioranza del proletariato al nuovo partito. Il Pcd’I in quei primi anni preferì non seguire i consigli del leader della Rivoluzione Russa.
Certo Gramsci non fu responsabile in prima persona degli errori di settarismo, tuttavia non ha nemmeno il merito di opporvisi. Ha lasciato la direzione completamente nella mani del gruppo di Bordiga. Se questo avvenga per convinzione, per stanchezza o per passività è difficile dirlo. È un fatto però che il suo ruolo diventa relativamente marginale per un dato periodo di tempo. Non prende la parola al Congresso di Livorno, entrerà a malapena nel comitato centrale del nuovo partito e sarà escluso dal comitato esecutivo. Dal ’21 l’Ordine Nuovo si trasforma da rivista teorica in uno dei quotidiani del Pcd’I.
Su quale base e con che propositi l’Internazionale Comunista spinge per la scissione? Innanzitutto la prospettiva è quella che l’Italia si trovi ancora di fronte ad un’imminente occasione rivoluzionaria. Da Mosca è impossibile valutare attentamente lo svolgimento degli avvenimenti e nessuno dall’Italia dà indicazioni in senso opposto. In secondo luogo i rapporti ricevuti dalla frazione comunista autorizzano a pensare che la scissione sarà altamente maggioritaria. Zinoviev dice nel novembre del ’20:
“I comunisti capeggiati da Bombacci, Bordiga, Terracini (…) affermano di avere con sé il 75-90% del partito (…) Io ritengo che nell’attuale situazione politica italiana qualsiasi compromesso con Serrati e i comunisti unitari sarebbe dannoso.”16
Ma il più grosso errore è rappresentato dalla modalità con cui la scissione viene portata avanti e soprattutto dall’atteggiamento che il Pcd’I terrà nel periodo immediatamente successivo.
Agli occhi di Bordiga la scissione è un atto unico, un ultimatum da lanciare in nome della Terza Internazionale di per sé sufficiente a smascherare i riformisti. Al Congresso nazionale che si tiene a Livorno nel gennaio del ’21 ribadisce a più riprese che si tratta di “stare con la Terza Internazionale, il che vuol dire nella Terza Internazionale, come vuole la Terza Internazionale”. Tutta la questione viene perciò impostata in maniera formale: per aderire alla Terza Internazionale è necessario accettare 21 punti e Serrati non ne mette in pratica uno, quello della scissione dai riformisti di Turati. L’illusione contemporaneamente è che il Psi abbia ormai i giorni contati. Lo stesso Ordine Nuovo scrive: “Prenda Turati il cadavere del fu Partito Socialista e se ne faccia sgabello per la sua ambizione senile. Comunisti avanti!”. I numeri del Congresso già smentiscono parzialmente questa prospettiva. La mozione dei riformisti di Turati e di Treves prende 14mila voti, quella comunista 58mila e i massimalisti di Serrati mantengono la maggioranza con 98mila voti. Di per sé non si tratta di un completo insuccesso: la Federazione Giovanile Socialista passa completamente in mano ai comunisti. Nelle elezioni politiche immediatamente successive, però, si comprende quanto il Psi mantenga una propria egemonia tradizionale sulla classe: ottiene 1,5 milioni di voti contro i 291mila del Pcd’I. Il legame che un partito ha stabilito con la propria classe di riferimento nel corso di decenni non può essere spezzato da tre mesi di lotta di frazione, neppure dopo una sconfitta di dimensioni storiche come quella del 1920.
La frazione comunista abbandona il congresso socialista al teatro Goldoni di Livorno il 21 gennaio e si ritira nel vicino teatro di San Marco per dare vita al Pcd’I. Tre anni dopo il giudizio di Gramsci sarà inequivocabile:
“Fummo sconfitti perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale, che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito Socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani del 1919-20”17. Sicuramente sbagliando si spingerà a definire la scissione “il più grosso trionfo della reazione”.
Ascesa e analisi del fascismo
“Purtroppo mentre tutti parlavano di rivoluzione, nessuno la preparava. (…)
La borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde e morde sodo.”
G. Serrati
Gli echi del congresso di Livorno non si sono ancora spenti che già si assiste al generalizzarsi della violenza fascista. Fino a quel momento gli attacchi erano stati isolati e circoscritti. A fine febbraio si registrano invece 20 morti, 150 feriti e 1500 arrestati solo a Firenze: i fascisti hanno dato vita alla caccia all’uomo, uccidendo il dirigente comunista e ferroviere Spartaco Lavagnini. Alla prima reazione operaia la città è stata messa sotto assedio dall’artiglieria. Stessa dinamica ad Empoli e Prato. Il 25 aprile viene assaltata la Camera del Lavoro anche a Torino. L’uccisione del giovane comunista Ferruccio Ghinaglia a Pavia sancisce l’arrivo del terrore in Lombardia. In sei mesi vengono saccheggiate e incendiate 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni e circoli socialisti e comunisti, 100 circoli di cultura, 28 sindacati di categoria. Dovunque i fascisti colpiscono e si ritirano lasciando che siano le forze dell’ordine a intervenire.
Ma che cos’è esattamente il fascismo? Sulla sua natura si sentono dire le cose più diverse ancora oggi. I comunisti di allora avevano il problema di trovarsi di fronte ad un fenomeno inedito, scusante che noi oggi non possiamo concederci. La confusione allora fu comprensibile, riprodurla oggi sarebbe imperdonabile. La violenza reazionaria nei confronti dei lavoratori non era in sé una novità. Secondo lo stesso Giolitti tra il 1919 ed il 1920 c’erano stati 140 conflitti tra polizia e socialisti con 320 operai uccisi. La novità, però, consiste nella composizione delle forze in campo e nella natura di simile violenza. Durante l’occupazione delle fabbriche la grande borghesia ha scoperto l’incapacità del proprio apparato statale a fronteggiare un movimento rivoluzionario e la necessità di basarsi su forze sociali più ampie. Sin dall’inizio il fascismo riceve l’appoggio e i finanziamenti del grande capitale, ma la sua natura non si esaurisce in questo dato.
Le squadracce fasciste agiscono di concerto con la repressione dello Stato, ma non ne sono una diretta emanazione. Il fascismo è a tutti gli effetti un movimento di massa. Come spiega Gramsci nel 1924: “il fatto caratteristico del fascismo consiste nell’esser riuscito a costruire un’organizzazione di massa della piccola borghesia”. La sconfitta del 1920 non ha avuto effetti solo sul proletariato, rendendolo apatico e insicuro, ma ha lasciato profondi strascichi sulla psicologia di tutte le classi. L’occupazione delle fabbriche è passata e la crisi economica si è approfondita: tra il dicembre del ’20 e il settembre del ’21 i disoccupati passano da 102mila a 400mila. Con la propria sconfitta, il movimento operaio ha perso di fronte agli altri settori oppressi della società la possibilità di candidarsi a far uscire la società stessa dalla propria crisi. La piccola borghesia, rovinata dalla concorrenza del grande capitale come dall’attività sindacale del proletariato, persa la speranza di liberarsi del primo si rende ora disponibile ad eliminare il secondo. Il sottoproletariato, confidando dapprima nei risultati della lotta operaia, si lascia ora andare alla più bieca guerra tra poveri. Scrive Gramsci:
“Questa classe, o meglio questa accozzaglia di classi, si era avvicinata nel ‘19-‘20 al proletariato, nella speranza di risolvere il suo problema economico con la vittoria degli operai e dei contadini. Venuto a mancare il moto rivoluzionario del proletariato italiano, la piccola borghesia si sposta verso quel movimento che promette la soluzione dei problemi che interessano particolarmente i ceti medi”18.
Ma il fascismo non si limita solo a spaventare o a reprimere il proletariato, il suo scopo è usare la “piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia” per frantumare il movimento operaio organizzato. Per mobilitare lo scontento sociale da destra, un grammo di demagogia vale più dei finanziamenti di qualsiasi banca e Mussolini ne porta a tonnellate. Quest’uomo, dice Gramsci, “era allora come oggi il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato, divenne il dittatore della borghesia”19.
Di fronte al pericolo
“Noi ci stacchiamo dalla massa: tra noi e la massa si forma una nuvola di equivoci, di malintesi, di bisticci complicati.”
A. Gramsci
Le direzioni del movimento operaio si dimostrano incapaci di comprendere la contraddittorietà del fenomeno fascista, sottovalutandone la portata. I dirigenti del Psi fanno della propria debolezza una bandiera. La consegna di fronte alla violenza squadrista è quella di non reagire. Turati sintetizza tale posizione nella frase: “bisognerebbe avere il coraggio della viltà”. Ogni tentativo di organizzare la resistenza operaia è sconsigliato o lasciato a se stesso. L’Avanti pubblica la Storia di Cristo, esaltando la qualità cristiana di porgere l’altra guancia. L’articolo si intitola: “Non resistere!”. La direzione del partito si barrica dietro alla richiesta di legalità, non fa che invocare l’intervento delle forze dell’ordine. Dovunque è invece chiara la connivenza tra apparato statale e fascisti. Immobilizzando la rivoluzione, i dirigenti riformisti si illudono di dimostrare alla borghesia l’inutilità dei servizi della controrivoluzione. Ma l’obiettivo fascista non è fermare questo o quello sciopero, chiudere questo o quel circolo operaio, ma farla finita con il movimento operaio organizzato in quanto tale. Il fascismo, come spiega Gramsci, si scaglia contro l’organizzazione operaia “colpendola come tale, non per ciò che essa ‘faceva’ ma per ciò che essa ‘era’, cioè come fonte in grado di dare alle masse una forma e una fisionomia”.
Nell’estate del 1921 si arriva addirittura alla firma di un patto di pacificazione tra Partito Fascista e Psi. Alla caduta del Governo Giolitti, infatti, Mussolini deve dimostrare la propria affidabilità alla grande borghesia. Dopo aver dimostrato di saper scatenare le proprie squadracce, deve ora dimostrare di saperle controllare. La firma del patto con il Psi e con la Cgl è funzionale a questa strategia. Una circolare prefettizia invita tutti i comuni a darne ampia pubblicizzazione. Mentre la base del Psi viene ipnotizzata dall’illusione di poter vincolare il fascismo con questo o quel patto legalitario, le squadracce utilizzano la pausa per rinsaldare la propria organizzazione. A meno di un mese dalla firma del patto una nuova ondata di violenza si abbatte sulle organizzazioni del movimento operaio.
Gli Arditi del Popolo
“Operai, impiegati, vecchi soldati delle trincee, rivoluzionari sinceri, accorrete ad ingrossare il nuovo esercito di difesa proletaria.”
Manifesto degli Arditi del Popolo
Il Pcd’I è nato sulla base dei 21 punti della Terza Internazionale, ciononostante i socialisti continuano a chiedere di poter aderire alla stessa Internazionale. La divisione è stata perciò vissuta in modo formalistico dalle larghe masse. Le elezioni dell’aprile 1921 lo hanno dimostrato. L’incapacità del Psi di fronteggiare il fascismo fornisce ora un terreno pratico al piccolo partito comunista per dimostrare di fronte alla classe la necessità della propria esistenza. I militanti del Psi non sono ancora disposti ad abbandonare il proprio partito, ma sono disposti ad abbandonarne la politica. Si tratta di dotarsi di strutture che permettano loro di sommarsi alla lotta contro il fascismo senza per il momento dover necessariamente aderire al Pcd’I. Le milizie armate di partito, le guardie rosse del Pcd’I, non corrispondono a tale scopo. L’organizzazione che risponde a questa esigenza nasce invece spontaneamente. Si tratta degli Arditi del Popolo. Vengono fondati nel marzo del ’21 da Argo Secondari, personaggio dal dubbio passato, a metà strada tra l’anarchico e l’avventuriero. Nonostante questo, vengono immediatamente circondati e permeati dalla simpatia di larghi strati del proletariato, una simpatia a cui non sono immuni né i militanti del Psi né quelli del Pcd’I. A Genova le unità degli Arditi si chiamano non a caso “Lenin” e “Trotskij”. A Vercelli sono i giovani comunisti a farsi da promotori della loro creazione. Gramsci intervista Argo Secondari, lo critica ma conclude: “Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt’altro essi aspirano all’armamento del proletariato”.
Lo stesso Gramsci spiega come la base del Psi avesse vissuto fino a quel momento la posizione della non resistenza come “una mascheratura tattica (…) ciò spiega il grande entusiasmo con cui furono accolte le prime apparizioni degli Arditi del popolo. Si credette da parte di molti operai che la predicazione della non resistenza fosse servita appunto al Partito Socialista e alla Confederazione per organizzare minuziosamente il corpo degli Arditi del popolo”.20
Il patto di pacificazione tra socialisti e fascisti arriva a spazzare via ogni illusione a riguardo. Quando gli stessi Arditi sono all’apice del proprio sviluppo, i militanti del Psi vengono invitati a firmare la pace con i fascisti. Ma una doccia altrettanto gelata cade sulla base del Pcd’I. Appena tre giorni dopo il partito minaccia di espulsione chiunque aderisca agli Arditi. Il gruppo dirigente bordighista ritiene infatti che l’inquadramento militare debba avvenire solo nelle milizie di partito. Motivazioni diverse per un solo risultato: gli Arditi del Popolo vengono lasciati a loro stessi. Dopo nemmeno due mesi sotto i colpi della repressione squadrista e poliziesca sono ridotti ad un fragile nucleo di qualche migliaio di militanti a livello nazionale. Il proletariato ha così assistito al boicottaggio frontale da parte dei propri partiti dell’unica struttura che sembrava aver garantito fino a quel momento una risposta efficace alla violenza squadrista. Due partiti sono nati a Livorno. Entrambi predicano la rivoluzione, entrambi la promettono, entrambi ora si chiamano fuori dagli Arditi del Popolo.
L’atteggiamento del Pcd’I viene sottoposto ad una critica impietosa dall’Internazionale:
“È chiaro che agli inizi avevamo a che fare con un’organizzazione di massa proletaria e in parte piccolo borghese che si ribellava spontaneamente contro il terrorismo (…) Dov’erano in quel momento i comunisti? Erano occupati ad esaminare con una lente d’ingrandimento il movimento per decidere se sufficientemente marxista e conforme al programma? Il Pcd’I doveva penetrare subito energicamente nel movimento degli Arditi (…) per il partito non c’è movimento a cui partecipino masse di operai troppo basso e troppo impuro”21. Si tratta del primo dissenso di rilievo tra il gruppo dirigente dell’Internazionale e il nuovo partito. Un dissenso destinato ad allargarsi inesorabilmente.
Fascismo, socialdemocrazia e fronte unico
“Secondo le informazioni pervenutemi dagli amici italiani, il Partito Comunista d’Italia, eccezione fatta per Gramsci, non ammetteva la minima possibilità di presa del potere da parte dei fascisti.”22
L. Trotskij
L’errore compiuto riguardo agli Arditi non è un abbaglio estivo ma il frutto di un’intera impostazione politica. Appena uscito dalla scissione, il gruppo dirigente del Pcd’I continua a ritenere il Psi il nemico principale. Il patto di pacificazione sembra confermare la concezione già espressa da Bordiga:
“Man mano che il Psi va denunziando i metodi rivoluzionari, il movimento fascista disarma le sue forme di violenta repressione e la distanza tra i due contendenti tra poco si ridurrà alla distanza che separa due contraenti (…) fascisti e socialdemocratici sono due aspetti dello stesso nemico di domani”.
Il parlamentarismo rimane quindi un sistema che la borghesia “non si sogna di sopprimere”. Ma anche in caso contrario l’ottica che domina la propaganda del partito è inspirata ad una logica del tanto peggio, tanto meglio:
“Se veramente la borghesia andrà fino in fondo e nella reazione bianca strozzerà la socialdemocrazia, preparerà – non sembri un paradosso – le migliori condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione”.
Qualsiasi verità generale applicata fuori dal contesto può diventare una falsità. Il Psi è stato il principale ostacolo sulla via della rivoluzione: non per questo è indifferente se simile ostacolo cada per mano fascista o per l’azione del Pcd’I. Quando il Comitato Centrale del Pcd’I lancia la formula “la rivoluzione passa sul cadavere del Partito Socialista”, i cadaveri ci sono veramente e sono quelli dei militanti socialisti e comunisti colpiti dallo squadrismo fascista. È Bordiga il principale ispiratore di tale linea, ma nessuno dei dirigenti se ne discosta. Togliatti è, come sempre gli capiterà, più realista del re: “costituito in partito, il fascismo avrà la sua parte al festino della democrazia, più o meno sociale. Tutti si metteranno facilmente d’accordo”23.
La concezione del gruppo dirigente del Pcd’I trova la propria ufficialità nelle Tesi che preparano il Congresso di Roma del ’22, il secondo ufficialmente ma il primo a tutti gli effetti. Le Tesi sono sottoposte ad una minuziosa critica da parte dell’Internazionale Comunista:
“Le tesi della Direzione del Partito dimostrano che essa non ha superato l’infantilismo, la malattia di un giovane sterile radicalismo, di un radicalismo il quale si risolve in una paura settaria del contatto con la vita reale, in una mancanza di fiducia nelle proprie forze e nelle tendenze rivoluzionarie della classe operaia quando questa entra in lotta, anche solo per scopi transitori”24.
Ed è su quest’ultimo punto che l’Internazionale insiste più chiaramente: il Pcd’I deve adottare una tattica di fronte unico con il Psi. Spiega Trotskij:
“Ebbene gli operai che non entrano nel nostro Partito e che non comprendono il nostro Partito – ed è il motivo per cui non vi entrano – vogliono avere la possibilità di lottare per il pezzo di pane, per il pezzo di carne. Essi vedono il Partito Comunista e il Partito Socialista, e non comprendono perché essi si siano separati”25.
La base del partito socialista va conquistata quindi invitando gli stessi dirigenti del Psi ad intraprendere azioni comuni su campagne che difendano gli interessi immediati della classe operaia. Se la direzione del Psi accetta simili inviti si troverà invischiata in una lotta che non può condurre fino in fondo, che inevitabilmente sarà portata a tradire.
“Se il Psi respinge la nostra proposta – scrive l’Internazionale – allora le masse si persuaderanno che noi gli abbiamo mostrato una via concreta, che il Psi invece non sa cosa fare.”26
Per non violare la disciplina internazionale, il gruppo dirigente del Pcd’I propone di dare alle Tesi di Roma un valore esclusivamente consultivo. Si tratta però di una misura formale. Consultive o no, le Tesi vengono spiegate, discusse e approvate dal Congresso. Alla fine dei lavori congressuali l’Internazionale si è ormai convinta della necessità di costruire un’alternativa alla direzione di Bordiga. Viene così richiesto al Comitato Centrale italiano di inviare un proprio rappresentante a Mosca. La scelta ricade immediatamente su Gramsci. Si tratta di un fatto significativo: la direzione del Pcd’I ritiene di potersene privare, mentre quella dell’Ic lo considera forse il dirigente che può rivelarsi più aperto alle proprie posizioni.
Dallo sciopero legalitario alla marcia su Roma
“Siamo entrati dopo la scissione di Livorno in uno stato di necessità (…) Dovemmo organizzarci in Partito nel fuoco della guerra civile.”
A. Gramsci
Gramsci parte per Mosca nel maggio del ’22. L’idea è quella di farlo lavorare a stretto contatto con il gruppo dirigente dell’Internazionale per fargliene comprendere a fondo metodi e idee. Nella Commissione italiana vi sono oltre a lui anche Trotskij, Zinoviev e Bucharin a dimostrazione dell’importanza che viene data alla questione. L’Italia viene considerato il paese più vicino ad una crisi rivoluzionaria ma anche alla vittoria della controrivoluzione. La lotta contro il settarismo di Bordiga viene per questo vista con urgenza e Gramsci la leva principale per condurla. Come ammette Trotskij: “Abbiamo dovuto premere molto per convincerlo a prendere una posizione di lotta contro Bordiga e non so se ci siamo riusciti.”27 È sopraggiunto nel frattempo uno di quei momenti in cui la salute sottrae Gramsci alla possibilità di svolgere un ruolo attivo. Arrivato in Russia deve ricoverarsi per sei mesi in un sanatorio. Amnesie, convulsioni e stati di incoscienza gli impediscono qualsiasi lavoro.
In Italia intanto la situazione subisce un’altra brusca accelerazione. Il gruppo dirigente del Pcd’I rifiuta la teoria del fronte unico politico, mentre in teoria accetta quella del fronte unico sindacale. Una posizione che si riduce in fin dei conti ad accettare un’alleanza con D’Aragona per rifiutarne una con Serrati, come se le stesse masse potessero vivere solo di sindacato e fuori da ogni vincolo politico. Ma anche il fronte unico sindacale è in realtà una posizione presa più per lavarsi la coscienza che per dargli un seguito effettivo. L’iniziativa viene lasciata totalmente in mano alla direzione della Cgl che a febbraio lancia l’Alleanza del Lavoro, un cartello tra tutte le forze sindacali dal carattere prevalentemente burocratico e sotto il ferreo controllo delle correnti riformiste. Gli stessi vertici della Cgl infatti si rifiutano di lanciare qualsiasi mobilitazione contro il fascismo. Si trincerano dietro una presunta neutralità sindacale e sperano in qualche intervento istituzionale. Eppure la corrente sindacale massimalista del Psi e quella del Pcd’I avrebbero la maggioranza assoluta degli iscritti, ma simile maggioranza non viene sfruttata per lanciare congiuntamente un appello allo sciopero generale contro il fascismo. L’iniziativa viene clamorosamente presa da Turati.
Quando cade il Governo Facta i riformisti si giocano l’ultima possibilità di entrare a far parte della coalizione governativa. Lo sciopero generale viene allora concepito come l’ultima arma di pressione per dimostrare alla borghesia l’inevitabilità del proprio coinvolgimento al potere. Dopo aver sistematicamente scoraggiato qualsiasi dichiarazione di sciopero, l’Alleanza del Lavoro compie una svolta improvvisa e repentina. Lo sciopero generale è proclamato dal 29 luglio per il giorno 31 senza alcun preavviso e senza alcuna preparazione. Turati dichiara che lo scopo principale deve essere rimettere in carreggiata “la barca dello Stato” e che gli operai devono astenersi dal commettere “atti di violenza che tornerebbero a scapito della solennità della manifestazione e si presterebbero alla speculazione degli avversari.” Gli avversari in effetti non speculano ma agiscono. Il proletariato è invitato ad uno sciopero in campo aperto contro la violenza fascista senza che alcuna risposta organizzata a una tale violenza sia stata preparata. Nelle principali città operaie lo sciopero cessa già il due agosto disperso da un’ondata di devastazioni fasciste. Solo a Parma, dove è ancora attiva un’unità degli Arditi del Popolo, la resistenza operaia viene organizzata. I quartieri popolari della città resistono all’assalto di più di 15mila fascisti e cadranno solo sotto i colpi dell’artiglieria regolare dell’esercito.
Il fallimento dello sciopero generale avvia la definitiva disgregazione delle forze operaie. Gli iscritti della Cgl crollano e il Psi subisce l’ennesima scissione. Sotto i colpi dei propri stessi errori il partito è ormai dilaniato internamente dalla lotta di corrente. Ne esistono quattro di cui due massimaliste e due riformiste. Al congresso il Psi si spacca in due: 32.106 voti vanno alle mozioni di sinistra, 29.119 a quelle di destra. Appena terminato il Congresso Turati, Treves e Menotti danno vita alla scissione di destra con la nascita del Psui (Partito Socialista Unitario). Si conclude così la parabola del massimalismo italiano. In nome dell’unità, Serrati si è rifiutato di scindersi da Turati mentre quest’ultimo ha spremuto il partito come un limone per poi abbandonarlo.
Quando si apre il Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista nell’ottobre del ’22 la posizione della direzione internazionale si è ulteriormente radicalizzata. Ormai non si tratta più solo di favorire il fronte unico tra Psi e Pcd’I, ma di portare avanti una fusione tra i due partiti. Gramsci arriva al congresso dopo sei mesi di sanatorio. Ancora una volta di fronte alla richiesta di farsi carico della lotta per le posizioni dell’Internazionale nel Pcd’I “anguilleggia” (come dice lui stesso). Un atteggiamento che la direzione dell’Internazionale non è più disposta a tollerare tanto che recapita alla delegazione italiana una lettera firmata dai principali dirigenti internazionali, Lenin, Zinoviev, Radek, Trotskij e Bucharin, in cui invita a prendere atto delle decisioni del Congresso e ad accettare di gestire la nuova linea. Bordiga rifiuta simile posizione e di fatto consiglia al gruppo dirigente del Pcd’I di porsi in una posizione di passività all’interno del partito. Gramsci è l’unico ad opporsi apertamente a tale prospettiva. Si tratta della prima divisone aperta tra i due dal 1920, ma è sicuramente una presa di posizione tardiva. Il Pcd’I esce immobilizzato e decapitato dal Congresso Internazionale. Bordiga si rifiuta di dirigere il partito senza che nessun gruppo dirigente alternativo sia stato preparato. Tutto questo mentre la repressione fascista dà vita ad un’altra brusca accelerata.
Il ritorno in Italia e l’Aventino
“Ora noi siamo pronti a trovare storicamente logico che il governo fascista ci tenga in carcere perché comunisti, e ci tratti anche peggio.”
A. Bordiga
All’apertura del Congresso Internazionale giunge a Mosca la notizia della marcia su Roma da parte dei fascisti. La cosiddetta borghesia democratica su cui Turati ha fatto tanto affidamento si schiera senza indugi con il fascismo. Il direttore del Corriere della Sera Albertini prega il re di affidare l’incarico a Mussolini che insedia il suo primo governo con l’appoggio di popolari e giolittiani. Da Mosca la situazione è complessivamente sottovalutata. Così Zinoviev la commenta: “da un punto di vista storico è una commedia. Fra qualche mese la situazione evolverà a vantaggio della classe operaia; per ora è un colpo di stato serio, una vera controrivoluzione”28. La marcia su Roma è sicuramente una commedia: qualche reparto dell’esercito sarebbe stato sufficiente a disperderla, ma da un punto di vista storico è una tragedia: è l’inizio del dominio fascista. Tornati in Italia i dirigenti del Pcd’I subiscono una nuova ondata di violenze e di arresti. A fine anno viene arrestato Bordiga e nel febbraio del ’23 i comunisti arrestati ammontano a oltre 5mila. Tutta la segreteria dei giovani comunisti finisce in carcere. Nell’estate del ’23 gli attivisti del Pcd’I ammontano forse a 7mila.
È uno stato di pessimismo generalizzato quello che cala sul movimento operaio. Dopo lo sciopero legalitario sono arrivati migliaia di licenziamenti politici (30mila solo tra i ferrovieri), mentre i salari continuano a crollare al ritmo vertiginoso del 20% e i disoccupati superano il mezzo milione. Il numero di ore di lavoro perdute per sciopero crolla nel 1923 a 259mila contro i 6 milioni del ’22.
Quando nel settembre del ’23 viene arrestato anche l’Esecutivo provvisorio del partito, l’Internazionale rompe qualsiasi indugio: chiede a Gramsci di trasferirsi a Vienna per ricostruire il partito dall’esterno. Nel suo periodo di permanenza in Unione Sovietica Gramsci ha trovato l’amore, vi lascia infatti la moglie in attesa di un figlio. Ha trovato anche però la convinzione di dover iniziare una lotta nel partito per affermare le posizioni dell’Internazionale. Comprendendo la necessità di svolgere simile lotta prima di tutto sul terreno della formazione e dell’educazione politica decide di dare vita ad una seconda edizione dell’Ordine Nuovo.
L’Urss e la lotta di frazione in Italia
“I diversi punti di vista, anche quando episodici, possono esprimere la lontana pressione di interessi sociali determinati e, in certe circostanze possono dar vita a gruppi stabili; questi a loro volta, prima o poi, possono trasformarsi in frazioni organizzate che, opponendosi in quanto tali al resto del partito, risentono ancora di più della pressione esterna.”
L. Trotskij
Quando nel marzo del ’24 esce il primo numero dell’Ordine Nuovo Lenin è morto da due mesi. Ma è totalmente inattivo dal dicembre del ’22. Proprio in quel mese detta il suo testamento: “Il compagno Stalin, divenuto segretario generale, ha concentrato nelle sue mani un potere immenso, ed io non sono sicuro che egli sappia sempre usare questo potere con sufficiente prudenza”. Nel corso del ’23 il burocratismo all’interno del partito bolscevico si è andato accentuando. La Nep (Nuova Politica Economica) adottata nel ’22 è stata una misura necessaria e momentanea di reintroduzione di rapporti capitalistici nelle campagne. La sua inevitabile conseguenza è stata però l’emergere di un settore di borghesi sia nelle campagne sia nel commercio. Un settore che non preme solo sull’economia della repubblica sovietica ma anche sulla composizione dell’apparato del partito. Alla fine del ’22 il 65% dei funzionari è caratterizzato come operaio mentre alla fine del ’23 la percentuale è invertita. L’elemento non operaio rappresenta già il 64% del funzionariato.
La morte di Lenin non è quindi l’inizio della burocratizzazione del processo rivoluzionario, ma sicuramente è il segnale per l’emersione delle correnti burocratiche. Quando Trotskij pubblica sulla Pravda del dicembre del ’23 una serie di articoli contro il rischio di burocratismo, poi raccolti a gennaio in un opuscolo dal titolo Il nuovo corso, è fatto oggetto di una serie di attacchi isterici. Le differenze si palesano così agli occhi del resto dell’Internazionale, ma la loro natura rimane tutt’altro che chiara. Gramsci ha lasciato da poco tempo l’Urss e si trova a Vienna quando scrive:
“Non conosco ancora i termini della discussione che si è svolta nel partito russo. Ho visto solo la risoluzione del Comitato Centrale sulla democrazia del partito, ma non ho visto nessun’altra risoluzione. Non conosco l’articolo di Trotskij e neppure quello di Stalin. Non so spiegarmi l’attacco di quest’ultimo che mi è sembrato assai irresponsabile e pericoloso”29. All’inizio di febbraio torna sulla questione in una lettera a Terracini:
“È noto che nel 1905 già Trotskij riteneva che in Russia potesse verificarsi una rivoluzione socialista e operaia, mentre i bolscevichi intendevano solo stabilire una dittatura politica del proletariato alleato ai contadini (…) è noto anche che nel novembre del ’17, mentre Lenin e la maggioranza del partito erano passati alla concezione di Trotskij (…) Zinoviev e Kamenev erano rimasti nella opinione tradizionale del partito (…) Nella recente polemica avvenuta in Russia si rivela come Trotskij e l’opposizione generale, vista l’assenza prolungata di Lenin dalla dirigenza del partito, si preoccupino fortemente di un ritorno alla vecchia mentalità, che sarebbe deleteria per la rivoluzione. Domandando un maggior intervento dell’elemento operaio nella vita del partito e una diminuzione dei poteri della burocrazia essi vogliono, in fondo, assicurare alla rivoluzione il suo carattere socialista e operaio e impedire che lentamente si addivenga a quella dittatura democratica involucro di un capitalismo in sviluppo che era il programma di Zinoviev e compagni ancora nel novembre del ‘17.”30
Per quanto ci è dato di sapere, però, si tratta di uno dei primi e ultimi riferimenti chiari di Gramsci alla sostanza delle divisioni nel partito bolscevico. In futuro le sue osservazioni sul tema appariranno quasi sempre superficiali, legate più a questioni di metodo e di forma. Nel contenuto professerà sempre una generica adesione alla corrente di maggioranza del partito. Ancora oggi chi vuole cercare segnali di distacco dal nuovo corso stalinista deve farlo rovistando tra le testimonianze, le lettere, gli episodi, ma non può appigliarsi a nessuna presa di posizione ufficiale. Dal ’24 Gramsci si lascia assorbire completamente dalla lotta di frazione del Pcd’I. Vede l’urgenza di strappare il partito all’egemonia delle concezioni bordighiste. Le armi ideologiche e organizzative che lo stalinismo sta forgiando contro Trotskij aderiscono completamente alla lotta che la frazione gramsciana sta conducendo contro Bordiga. Quest’ultimo segna sempre la stessa ora come un orologio rotto: dal 1920 va denunciando le deviazioni di destra dell’Internazionale. Le ha denunciate prima con Lenin e le denuncia ora con Stalin. In quest’ultimo caso Bordiga non può che sviluppare momentanee convergenze con lo stesso Trotskij, senza che però il pensiero dei due arrivi mai a coincidere.
È sotto questo prisma distorto che Gramsci vede le divisioni che si vanno sviluppando nel partito bolscevico. Non a caso afferma che “Bordiga si comporta come una minoranza internazionale, noi dobbiamo comportarci come una maggioranza nazionale”. L’ottica di un marxista, però, non può e non deve mai rinchiudersi nei confini di un partito nazionale. Commettendo un simile errore Gramsci farà uno dei torti peggiori al proprio pensiero e al futuro stesso del Pcd’I. Tra il 1924 ed il ’26 condurrà nel Pcd’I una lotta per affermare i contenuti dell’Internazionale di Lenin con i metodi scorretti dell’Internazionale di Zinoviev, i quali spianeranno la strada a quella di Stalin.
Il fronte unico e le elezioni di aprile
“Che differenza esisterebbe tra noi e il partito socialista (…) se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente, per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera?”31
A. Gramsci
Bordiga esce dal carcere nell’ottobre del ’23 e riprende da dov’era rimasto: dalle divergenze riguardo il fronte unico. Invita il resto del gruppo dirigente del Pcd’I a firmare un manifesto di contrarietà. Gramsci è il primo a rifiutarsi di farlo: così facendo si chiama per la prima volta ufficialmente fuori dalla cosiddetta maggioranza. Nasce quindi una nuova frazione nel partito che si pone tra la destra guidata da Tasca e la sinistra guidata da Bordiga. Ma su chi può contare inizialmente tale corrente? Non di certo sul vecchio nucleo dell’Ordine Nuovo. In una lettera a Leonetti (l’unico ordinovista a schierarsi subito con lui) Gramsci dice:
“Non condivido il tuo punto che si debba valorizzare il nostro gruppo di Torino formatosi intorno all’Ordine Nuovo (…) Tasca appartiene alla minoranza (…) Umberto [Terracini] credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amadeo [Bordiga] (…) Togliatti non sa decidersi com’era un po’ sempre nelle sue abitudini (…) In che cosa dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe nient’altro che una cricca raccoltasi intorno alla mia persona per ragioni burocratiche?”32.
La nuova corrente è quindi profondamente minoritaria. Eppure una serie di circostanze la portano nei fatti a dirigere il partito. Influisce su tale processo la passività in cui si è relegato per protesta Bordiga, così come pesa il fatto che da Vienna Gramsci sia l’unico a poter dirigere il partito libero dalla scure della repressione fascista. Ma pesa probabilmente più di tutto la paura opportunista presente tra diversi dirigenti di doversi schierare contro l’Internazionale. Togliatti, ad esempio, si lamenta che rompere con l’Internazionale significherebbe trovarsi “privi di un potente appoggio materiale e morale”. Diversi dei firmatari del manifesto di Bordiga subiranno un rapido ripensamento.
Le elezioni dell’aprile del ’24 vengono quindi impostate già secondo la linea di Gramsci. Il 12 febbraio viene fondato un nuovo quotidiano di partito che non a caso è chiamato l’Unità. Il Comitato Centrale approva una mozione a favore di un “fronte unico di difesa degli interessi economici e politici della classe lavoratrice di cui il fascismo è la negazione; respinge ogni criterio di blocco che fosse rivolto unicamente ad ottenere uno spostamento nei risultati numerici delle elezioni e che partisse da preoccupazioni esclusivamente elettorali (…) constatando che la borghesia si serve della conquista fascista dell’apparato dello Stato come dello strumento più perfezionato e più efficace della propria dittatura (…) delibera di proporre ai partiti proletari italiani di aderire ad un accordo per la presentazione di una lista comune di unità proletaria e per un’azione di cui la lotta elettorale non deve rappresentare che il momento iniziale”33. Non vi è nessuna enfasi sull’emergenza democratica né un generico appello alle forze “liberali e democratiche”. La tattica del partito è correttamente mirata a sottolineare il carattere di classe del fascismo e a stimolare un’unità delle forze operaie e contadine in alternativa ad un blocco con l’inesistente borghesia democratica. Si tratta quindi di una svolta rispetto alle posizioni di Bordiga ma anche di una concezione lontana anni luce dalle future posizioni del Pcd’I di Togliatti. Quest’ultimo è convertito per il momento in un convinto sostenitore della nuova maggioranza tanto da affermare:
“Il fascismo ha aperto per il proletariato un periodo di rivoluzione permanente e il partito proletario che contribuirà a nutrire tra gli operai l’illusione di una possibilità di mutare la situazione tenendosi sul terreno di un’opposizione liberale e costituzionale darà, in ultima analisi punti d’appoggio ai nemici della classe operaia”.
Come ci si attende il Psi e il Psui rifiutano l’offerta di blocco elettorale, ma questa volta le ragioni della divisione ricadono interamente sulle spalle dei riformisti. Gli unici che accettano di presentarsi in coalizione con il Pcd’I sono i rimasugli della vecchia corrente terzinternazionalista del Psi. Si tratta comunque di una corrente con alcuni legami con le masse come dimostra la presenza al suo interno del futuro segretario generale della Cgil Di Vittorio. Le elezioni sono ovviamente svolte in un clima di scorrettezze e brogli. Ciononostante danno alcune indicazioni significative: i fascisti vincono con 4 milioni di voti, i popolari ne raccolgono 637mila, il Psui 415mila e il Psi 341mila. Il Pcd’I ottiene 268mila voti. Si tratta quindi dell’unico partito operaio a non perdere voti, ma non è l’unico dato importante: in diverse circoscrizioni operaie i fascisti non ottengono la maggioranza. Si tratta di un primo segnale di controtendenza, un primo timido cenno di una qualche volontà di riscossa da parte della classe.
L’Aventino
“Sino a quando le più forti organizzazioni operaie non saranno conquistate dai comunisti, l’opera nostra non avrà nessun significato rivoluzionario ma un insufficiente significato critico.”
A. Gramsci
Gramsci lascia Vienna nel maggio del 1924. Essendo stato eletto nelle consultazioni di aprile può avvalersi dell’immunità parlamentare per tornare in Italia. Pochi giorni dopo partecipa a Como alla conferenza straordinaria del partito. Non si tratta di un congresso ma comunque di un appuntamento significativo. Alla discussione vengono presentati 3 documenti: uno della frazione di Bordiga, uno della corrente di destra di Tasca e uno di centro firmato da Gramsci. I risultati finali della votazione non lasciano dubbi: 35 dei 45 segretari di federazione presenti, 4 dei 5 segretari interregionali, il rappresentante della gioventù comunista e un membro del Comitato Centrale votano per Bordiga. La destra raccoglie il consenso di 5 segretari federali, uno interregionale e 4 membri del Comitato Centrale. La mozione di centro ottiene il voto solo di 4 segretari federali e 4 membri del Cc.
Mantenere il controllo dell’esecutivo del partito in questa situazione è una forzatura: anche ammettendo che la linea propugnata da Gramsci sia corretta, come si può pensare che venga applicata da un corpo militante che non la condivide? Ma questa è del resto la pratica a cui Zinoviev ha abituato l’intera Internazionale: la repressione amministrativa dei dissensi tra le sezioni nazionali e la direzione internazionale. Non si tratta ancora di stalinismo, ma sicuramente ne prepara il terreno. Zinoviev stesso cadrà, come il resto del gruppo dirigente bolscevico del 1917, sotto i colpi della repressione stalinista. Parte dei suoi metodi sopravvivranno con Stalin, sarà semmai Zinoviev a non sopravvivere ai propri stessi metodi. Gramsci non è immune da un simile errore. È lui stesso per la prima volta a Como a equiparare Bordiga e Trotskij:
“Quanto è avvenuto recentemente in seno al Pc russo deve avere per noi valore di esperienza. L’atteggiamento di Trotskij in un primo periodo può essere paragonato a quello attuale del compagno Bordiga”34.
Ad aumentare la confusione arriva il Quinto Congresso dell’Internazionale. Si tratta del primo dal ’22, il primo senza Lenin. Tutto il congresso è concentrato sulla questione della bolscevizzazione: l’idea della repressione delle frazioni interne, dell’inquadramento ideologico e organizzativo dei vari partiti comunisti. Si tratta di una serie di misure che in realtà preludono alla stalinizzazione dell’Internazionale. A simile operazione amministrativa si collega un’assenza totale di prospettive politiche. Zinoviev, già preoccupato di un possibile blocco tra Stalin e la destra del partito, sbanda pesantemente verso sinistra, verso posizioni settarie. Nei suoi discorsi la socialdemocrazia è di nuovo considerata “un’ala del fascismo”, così come si prevede per l’Europa una nuova ondata rivoluzionaria. La tattica del fronte unico è in parte rivista a favore di una concezione ibrida: il fronte unico dal basso. Si tratta dell’idea di poter coinvolgere nell’azione i militanti degli altri partiti operai senza contemporaneamente passare per un appello ai loro dirigenti.
Gramsci non è presente al Congresso. Deve rimandare la partenza per una brusca svolta nella situazione. Dopo un discorso di denuncia del fascismo, scompare a giugno il deputato socialista Matteotti. L’ennesimo delitto fascista determina questa volta un’improvvisa crisi del regime. Nelle strade si rivedono per la prima volta manifestazioni di protesta. L’Unità, uscita col titolo “Abbasso il governo degli assassini!”, triplica la tiratura in pochi giorni. “
I nostri compagni – scrive Gramsci – si sono posti a capo delle masse e hanno tentato di disarmare i fascisti, le nostre parole d’ordine sono accolte con entusiasmo e ripetute nelle mozioni votate nelle fabbriche”.
In parlamento le opposizioni decidono di abbandonare i lavori della Camera e di ritirarsi sul colle Aventino di Roma. I comunisti vi prendono parte proponendo subito lo sciopero generale. Ma nella raccogliticcia opposizione aventiniana prevale la paura dei partiti borghesi che uno sciopero contro il fascismo possa dar vita ad una rivoluzione socialista. I riformisti, privi di una visione propria, non possono che riecheggiare simile paura invitando ancora una volta i lavoratori all’inazione per non provocare l’avversario. L’Aventino si trasforma così in un’opposizione piagnucolante che altro non sa fare che approvare suppliche al re. La Cgl si prende solo la responsabilità di convocare uno sciopero generale di dieci minuti per il 27 giugno. I comunisti tentano di generalizzarlo scavalcando direttamente la direzione sindacale e invitando i lavoratori ad estendere lo sciopero a tutta la giornata. Si tratterà di un espediente con scarsissimo successo.
L’ascesa dello stalinismo e il Congresso di Lione
“Le opposizioni ebbero paura di essere travolte da una possibile insurrezione operaia.”
A. Gramsci
L’Aventino rimarrà nel dizionario italiano come sinonimo di passività. La cosiddetta borghesia liberale ha dimostrato una volta di più di temere più l’azione del proletariato che l’avvento del fascismo. è la stessa crisi internazionale del capitalismo a non permettere nemmeno una parvenza di democrazia qual’è quella borghese. L’inflazione è ormai fuori controllo: fatto 100 l’indice dei prezzi nel 1914, nell’ottobre del ’24 raggiunge quota 492,9. Il risveglio del proletariato, seppur inizialmente con obiettivi solo democratici, non potrebbe che dirigersi contro le fondamenta stessa del capitalismo. Da qui nasce l’immobilismo aventiniano.
Gramsci sa che “opposizioni e fascismo non desiderano ed eviteranno sistematicamente che una lotta a fondo si impegni”, ma non per questo ritiene che la prospettiva più probabile sia un accordo finale tra i due campi. “Il fascismo – scrive sull’Ordine Nuovo – per la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un’assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa subito un bivacco di manipoli o l’anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati”35.
Nel complesso però la linea del partito rimane piuttosto oscura. Alla passività dell’Aventino non si contrappone una chiara linea di indipendenza di classe, anzi il Pcd’I vi partecipa sulla base della rivendicazione del “governo repubblicano di tutte le forze antifasciste e antimonarchiche sulla base dei consigli operai e contadini”, rifiutata da tutti i partiti “democratici”. A livello di massa, la parola d’ordine della formazione di “comitati operai e contadini” rimarrà ugualmente lettera morta.
Quando a novembre le opposizioni licenziano un manifesto dove ci si appella all’intervento del re, il Pcd’i decide di staccarsi dall’Aventino e tornare in parlamento. Ma si tratta ormai di una formalità. Alla riapertura dei lavori della Camera nel gennaio del ’25, Mussolini prende su di sé la piena responsabilità storica: ”Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere io sono il capo”. È l’avvio dell’ultimo e definitivo giro di vite.
La questione meridionale
“La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale emancipando sé stesso dalla schiavitù capitalista emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione.”36
A. Gramsci
Nonostante le elezioni abbiano mostrato una lieve ripresa nel sud, il Pcd’I rimane sostanzialmente un’organizzazione settentrionale. Conta nel ’24 15mila iscritti al nord, 5mila al centro e 5mila al Sud. Eppure il Meridione è la zona d’Italia più colpita dalle misure economiche del fascismo, tanto che durante l’Aventino si è registrata una maggiore vivacità al Sud piuttosto che al Nord. L’incapacità del Pcd’I di analizzare le fondamenta dell’arretratezza del Meridione viene percepita da Gramsci come un male ormai irrimandabile. Per questo si applica alla stesura di un opuscolo che rimarrà incompleto dove riprende le analisi che ha già sviluppato nella prima serie dell’Ordine Nuovo.
L’arretratezza del Sud è vista da Gramsci come un aspetto dello sviluppo diseguale e combinato del capitalismo italiano. Arrivata tardi sulla scena della storia la borghesia italiana ha fatto del Meridione la propria colonia. In accordo con gli interessi latifondistici del blocco agrario del Sud, ha depredato il Meridione di capitali impedendone così un’industrializzazione e ricavandone contemporaneamente mano d’opera a basso costo e carne da cannone. L’arretratezza del Meridione non è quindi un elemento precapitalistico casualmente ereditato dallo Stato italiano: è una parte integrante del capitalismo italiano. E come tale può essere risolto solo all’interno della generale lotta del proletariato contro la borghesia. Il proletariato settentrionale deve contemporaneamente combattere contro i pregiudizi diffusi nella società nei confronti del Meridione, deve rendersi conto che lasciare le masse del Sud nel loro isolamento equivale a porre in pericolo la stessa rivoluzione. Se il proletariato non si sforza di offrire un blocco, di egemonizzare il consenso delle masse meridionali, si potrebbero aprire alcuni scenari: in caso di rivoluzione la borghesia potrebbe tentare di scindere il Sud dal Nord e fare del Sud contadino la propria retroguardia militare. Oppure le masse meridionali si potrebbero trasformare in una riserva di consensi della destra attraverso l’egemonia che su di loro possono giocare i notabili locali, quello strato di intellettuali (avvocati, dottori, professori universitari) democratici in viso e reazionari nello spirito. Non si tratta forse della brillante previsione di ciò che la borghesia americana cercherà di fare provando a scindere la Sicilia dal resto d’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale per farne una base militare da usare contro un’eventuale rivoluzione socialista? E non si tratta soprattutto della previsione dell’egemonia che la Democrazia Cristiana riuscirà ad esercitare sulle masse meridionali a causa delle mancanze del Pci?
La bolscevizzazione del partito
“In realtà il nostro partito si trovò ad essere staccato dal complesso internazionale, si trovò a sviluppare la sua ideologia caotica e arruffata sulla sola base delle nostre immediate esperienze nazionali.”
A. Gramsci
Il ritorno di Gramsci in Urss avviene in occasione dell’esecutivo allargato del marzo del ’25. è una riunione estremamente confusa dove Zinoviev ripropone l’analisi della socialdemocrazia come “ala del fascismo” e della situazione che “resta come per il passato oggettivamente rivoluzionaria anche se in certi paesi la situazione immediatamente rivoluzionaria sia sparita”. Tutti gli accordi pratici riguardano ancora una volta la bolscevizzazione dei partiti comunisti. Zinoviev si spinge fino ad affermare che Bordiga rappresenta ormai l’”estrema destra” dell’Internazionale, causando lo sgomento della delegazione italiana per una calunnia così grossolana. Forse è sulla base di uno spettacolo tanto pietoso che Gramsci al suo ritorno appare estremamente più cauto nei propri giudizi. Al successivo Comitato Centrale non ripropone l’accostamento tra Trotskij e Bordiga, ed ammette che il 90% degli iscritti è all’oscuro del dissenso interno all’Internazionale.
L’ultimo numero dell’Ordine Nuovo, quello del marzo del ’25, ne è una dimostrazione lampante. Il giornale si apre con un editoriale dal titolo: “Frazione e Partito” in cui le posizioni di Trotskij sono affrontate da un punto di vista meramente di metodo. Non vi è nessun riferimento alla questione del socialismo in un paese solo o alle critiche attorno all’applicazione della Nep. Ci si limita a commentare l’eventuale legittimità di una lotta di frazione: Trotskij ha presentato l’emergere di diverse frazioni come il risultato della pressione di diversi strati del proletariato e di diverse classi sociali sullo stesso apparato del partito. A riguardo sull’Ordine Nuovo si legge:
“Il problema è tra i più delicati della nostra dottrina (…) e vi è una parte della dottrina svolta o adombrata da Trotskij che deve essere accettata perché pienamente rispondente alla realtà. è la parte che riguarda appunto i rapporti che corrono tra il partito, la classe operaia e le situazioni oggettive in cui l’uno e l’altro si muovono. Il Partito è una parte della classe operaia. Esso è quindi soggetto a una serie di influenze esercitate da forze e correnti che in seno alla classe operaia si determinano”.
L’articolo continua spiegando, quindi, come il pensiero di Trotskij sia profondamente differente dagli errori contenuti nelle Tesi di Roma del ’22, le quali cercavano di preservare la purezza del partito stabilendo una serie di confini artificiali al suo esterno. Non si tratta di una distinzione di poco conto: nella lotta di frazione interna al Pcd’I le Tesi di Roma rappresentano l’impersonificazione stessa del pensiero di Bordiga. Eppure l’articolo si chiude con un’adesione piuttosto chiara alle tesi della maggioranza dell’Internazionale: “La lotta di frazione è incompatibile con un partito che sia partito rivoluzionario della classe operaia”. Sull’ultima pagina è poi pubblicizzata l’imminente uscita dell’opuscolo Leninismo e Trotskismo, uno dei primi risultati della campagna denigratoria contro l’opposizione di sinistra.
Si congeda così dalla storia l’ultimo numero dell’Ordine Nuovo. E non possiamo nascondere che si tratta di un congedo piuttosto ignobile. Rimarrebbe da chiedersi perché il settimanale marxista che meglio ha saputo analizzare e riportare in Italia gli sviluppi della Rivoluzione Russa, abbia atteso fino al marzo del ’25 per presentare il trotskismo come una corrente sostanzialmente aliena al marxismo. Nella prima serie, quella del ’19-’20, l’Ordine Nuovo ha pubblicato in ogni numero almeno un articolo di Lenin senza che mai si accennasse né alla minima divergenza con Trotskij né al termine trotskismo. Nello stesso periodo sono stati pubblicati 7 articoli di Zinoviev, 5 di Radek, 5 di Bucharin, 3 di John Reed e 3 di Trotskij e nemmeno uno di Stalin. Stalin a dire il vero non viene nemmeno mai nominato. Si dovrà attendere gli ultimi due numeri del giornale per trovare due suoi articoli contenenti per altro grossolani errori e falsità.
Il Congresso di Lione e l’ultima lettera a Togliatti
“I compagni Zinoviev, Trotskij, Kamenev hanno contribuito potentemente ad educarci per la rivoluzione.”
A. Gramsci
Nel gennaio del ’26 si apre a Lione il Terzo Congresso del Pcd’I. Sono passati ben quattro anni da quello di Roma, di cui gli ultimi due passati a minare in qualsiasi modo la corrente bordighista. Le Tesi che Gramsci presenta a questo congresso sono il coronamento di tutte le concezioni per cui ha lottato dal suo ritorno in Italia: fronte unico, soluzione della questione meridionale all’interno della rivoluzione socialista, analisi della natura di classe del fascismo e autocritica del settarismo infantile del Pcd’I. In buona parte sono uno dei migliori documenti che il Pcd’I abbia prodotto nella propria storia. Ma vi sono almeno due pesanti considerazioni da fare sul congresso: una di natura politica ed una di carattere democratico. Il Congresso di Lione avviene tra due pesanti ondate repressive, quella dell’inizio del ’25 e quella della fine del ’26. Si tratta degli ultimi colpi che il fascismo assesta al partito comunista e a tutte le organizzazioni del movimento operaio. Eppure tutto il dibattito sembra piegato su una confutazione astratta del bordighismo. Il pericolo continua ad essere complessivamente sottovalutato come dimostra la stessa facilità con cui Gramsci verrà arrestato in autunno.
Il regolamento congressuale è poi profondamente antidemocratico. La repressione impedisce lo svolgimento di una discussione alla luce del sole. Per diversi compagni presentarsi alle assisi congressuali significherebbe essere arrestati. Per questo viene stabilito che chiunque non esprima il proprio voto esplicitamente per Bordiga, dovrà considerarsi un votante per l’Esecutivo. Questo vale sia per gli assenti che per gli astenuti. Bordiga ha perso all’interno della direzione del partito parecchi consensi eppure il risultato congressuale non può non essere viziato da simile meccanismo: le Tesi presentate dalla direzione riceveranno così il 90% dei consensi.
La parte delle Tesi di Lione dove si critica il frazionismo cozza fortemente con le tradizioni del Partito bolscevico di Lenin. Vi leggiamo infatti:
“La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici i quali comprendono una grande varietà di gruppi e nei quali la lotta di frazioni è la forma normale di elaborazione delle direttive politiche e di selezione dei gruppi dirigenti.”37
La storia del Partito bolscevico dimostra proprio il contrario, perché è proprio una storia di lotta di frazioni. Lenin stesso non avrebbe mai potuto prevalere nel partito, allora attestato su una linea d’“appoggio critico al governo provvisorio” borghese, se tra l’aprile e il giugno del 1917 non avesse potuto ingaggiare una lotta di frazione per l’affermazione della propria prospettiva rivoluzionaria. Le frazioni furono proibite in maniera temporanea ed eccezionale nel Partito comunista russo in occasione del decimo congresso, nel 1920, per far fronte alla gravissima situazione economica e sociale successiva alla guerra civile, che stava mettendo a rischio l’esistenza stessa dello stato sovietico.
Non può esistere una dicotomia così grande tra una linea politica corretta nel suo complesso e proposte organizzative profondamente errate. Ciò pregiudicherà profondamente il futuro del Pcd’I.
Nel corso del ‘26 la situazione nel Partito bolscevico cambia nuovamente. Dopo aver usato il prestigio di Zinoviev, la frazione stalinista lo scarica per porsi in stretta alleanza con Bucharin e la destra del partito. Stalin si appoggia ormai apertamente sul nuovo strato di borghesi cresciuti all’ombra della Nep. Lo sviluppo industriale viene completamente sacrificato a favore dei rapporti capitalisti nelle campagne, si teorizza il socialismo “a passo di tartaruga” e la necessità di non porre freni all’arricchimento dei contadini. Il riavvicinamento tra Zinoviev e Trotskij in un’unica opposizione non può non avere effetti anche su Gramsci. Per questo su incarico dello stesso ufficio politico del partito Gramsci si decide a scrivere una lettera direttamente al Comitato Centrale del partito bolscevico:
“I comunisti italiani hanno sempre seguito con la massima attenzione le vostre discussioni. Alla vigilia di ogni Congresso e di ogni conferenza del partito comunista russo, noi eravamo sicuri che, nonostante l’asprezza delle polemiche l’unità del partito russo non era in pericolo. (…) non abbiamo più la sicurezza del passato; ci sembra che l’attuale atteggiamento del blocco di opposizioni e l’acutezza delle polemiche esigano l’intervento dei partiti fratelli (…) Ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito Comunista dell’Urss aveva conquistato per impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle questioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle questioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale”38.
La lettera poi continua con una professione di fede nella linea della maggioranza (“riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del partito comunista dell’URSS”), in una serie di attacchi alle opposizioni e nella semplice richiesta alla maggioranza staliniana di non voler “stravincere nella lotta” e quindi ad “evitare le misure eccessive”.
La lettera non è perciò un appoggio all’opposizione di sinistra, tutto il contrario. Eppure sono sufficienti quei pochi distinguo, quei richiami alla soluzione inevitabile delle questioni russe all’interno degli aspetti internazionali (una negazione implicita della teoria di Stalin del socialismo in un paese solo) perché la lettera venga ritenuta compromettente. Togliatti, rappresentante del Pcd’I presso l’Internazionale, la consegna a Bucharin ma non ai suoi naturali destinatari. Verrà poi sepolta fino al 1964, così come si dovrà attendere il 1970 per conoscere il carteggio che segue tra i due. Togliatti risponde a Gramsci giustificando così il proprio comportamento: “il vostro pessimismo dà l’impressione che voi non riteniate del tutto giusta la linea del partito”39. Nella risposta Gramsci non può che scagliarsi contro Togliatti: “tutto il tuo ragionamento è viziato da burocratismo”40. Eppure anche in questo caso Gramsci afferma di non essere stato capito, di aderire comunque alla linea della maggioranza dell’Internazionale.
Ma l’evoluzione del pensiero politico di Gramsci viene ostacolata dal carcere. La lettera spedita a Mosca ha messo in allarme l’esecutivo internazionale che spedisce il proprio rappresentante in Italia per tenere un Comitato Centrale a Milano in cui il Pcd’I ribadisca la propria fedeltà alla linea stalinista. Non vi partecipano né Bordiga, né Gramsci. A Milano quest’ultimo non può scendere dal treno e deve tornare a Roma. L’ennesimo attentato a Mussolini non riuscito (forse una provocazione organizzata dallo stesso regime) giustifica la definitiva recrudescenza della repressione fascista. All’inizio di novembre Gramsci è arrestato come buona parte del corpo attivo del partito. Il tribunale speciale istituito dal fascismo condannerà 4.030 comunisti per un totale di 23.000 anni di carcere.
Gramsci in carcere
“Confermo le mie dichiarazioni alla polizia (…) Sono comunista e la mia attività politica è nota.”
A. Gramsci
Durante l’istruttoria il pubblico ministero disse che al cervello di Gramsci andava impedito di funzionare per almeno vent’anni. Ed è infatti questa la pena carceraria a cui viene condannato. Dopo un breve soggiorno a Milano e a Roma, viene infine destinato a causa dei suoi problemi fisici alla Casa penale di cura Turi di Bari. Nel ’29 ottiene nuovamente il permesso di scrivere. Ne usciranno i famosi 32 quaderni. In carcere perde qualsiasi contatto con l’esterno. I rapporti personali si disgregano: la corrispondenza con la famiglia e la moglie è per varie ragioni sempre meno fitta. La morte della madre gli viene tenuta nascosta. E gli stessi rapporti con il partito diventano sempre più complicati e pieni di diffidenza reciproca. Diversi aneddoti contribuiscono a pensare che tra Gramsci e la direzione del Pcd’I fosse avvenuto un distacco politico e che questo distacco abbia influito negativamente sull’eventualità di una sua possibile liberazione. Non entreremo nel merito della questione, sarebbe necessario un lungo lavoro di indagine che non possiamo contenere nei limiti di lunghezza propri dell’opuscolo. Rimane un fatto che tanto fu osannato da morto, tanto fu lasciato isolato negli ultimi anni della sua vita. Quando Gramsci nel ’33 è di passaggio nel carcere di Civitavecchia Terracini racconta come il resto dei militanti lo considerasse un semi-sconosciuto:
“Cosa? Gramsci è qui? E pensai subito: ‘lo potremo vedere, lo incontreremo’. Poi vidi che anche i compagni qualificati, anche i compagni dirigenti del partito che erano lì con me, prendevano la cosa senza nessuna importanza o interesse; per cui anche il cercare di collegarsi con lui divenne impossibile”41.
La svolta dell’Internazionale
“L’opportunismo si era trasformato, come accade molte volte nella storia, nel suo contrario, l’avventurismo.”
L. Trotskij
Con la degenerazione burocratica la linea dell’Internazionale cessa di avere una coerenza propria. Non diventa nient’altro che il riflesso degli interessi immediati della burocrazia sovietica. La necessità di Stalin di appoggiarsi sui contadini ricchi (i kulaki) in Russia per affermare la propria tendenza nel partito si era riflessa in una linea opportunista sul terreno dei rapporti internazionali. In Cina il Partito Comunista era stato perciò sciolto all’interno di una formazione borghese, il Kuomintang. In Inghilterra il comitato anglo-russo aveva contribuito a rinsaldare le illusioni degli operai inglesi nelle direzioni sindacali burocratiche. Ad un cambiamento della situazione russa doveva perciò corrispondere un nuovo cambiamento nella linea internazionale.
Dopo aver acquisito un enorme peso nell’economia e nel partito, il contadino ricco doveva inevitabilmente giungere alla pretesa di plasmare la società sulla base dei propri interessi. Non avendo sviluppato la propria industria, lo Stato sovietico non poteva ricambiare adeguatamente la vendita di prodotti provenienti dalle campagne. I contadini agiati non potevano che iniziare a guardare al mercato internazionale e pretendere di vendere direttamente al capitale internazionale scavalcando il monopolio del commercio detenuto dallo Stato sovietico. Simile fenomeno si manifestò con l’improvvisa penuria di merci agricole nelle città russe: il kulak prendeva la rivoluzione alla gola e si rifiutava di vendere i propri prodotti ai prezzi stabiliti dal commercio sovietico. Dopo aver negato la necessità di qualsiasi lotta contro il kulak, la burocrazia sovietica fu costretta ad una svolta di 180 gradi applicando nelle campagne un’assurda collettivizzazione forzata. Ad un’assenza totale di pianificazione economica, seguì l’applicazione di un piano di sviluppo frenetico. Sul piano internazionale l’opportunismo fu sostituito dall’estremismo. Nei riguardi dei partiti operai non comunisti fu adottato il termine di “socialfascismo”: socialdemocrazia e fascismo erano da considerarsi sinonimi. Si teorizzò di essere in presenza di un “terzo periodo” dove la costante radicalizzazione delle masse doveva portare da lì a poco al crollo del capitalismo. Infine si abbandonava qualsiasi forma di rivendicazioni parziali: qualsiasi partito doveva lottare immediatamente per la presa del potere e per la creazione di soviet. Tutto questo si accompagnava con una definitiva stretta disciplinare nell’Internazionale e nelle varie sezioni nazionali.
Traslata al contesto italiano, la nuova linea internazionale diviene la diretta negazione delle posizioni di Gramsci e del congresso di Lione. Non solo si abbandona qualsiasi concezione di fronte unico ma si preannunciano imminenti movimenti di massa contro il fascismo, negando contemporaneamente che il partito debba avanzare alcuna rivendicazione di tipo democratico (ritorno ad elezioni libere ecc.).
Già Trotskij aveva messo in guardia nel ’22 sulla possibilità di una fase intermedia tra la caduta del fascismo e la dittatura del proletariato:
“Supponendo che Mussolini mantenga il potere per un periodo di tempo sufficiente a permettere che i lavoratori di città e di campagna si raggruppino contro di lui (…) non è impossibile che il regime di Mussolini sia direttamente spazzato via dalla dittatura del proletariato. Ma vi è un’altra eventualità probabile quanto la prima. Se il regime di Mussolini si infrange contro le contraddizioni interne della sua stessa base sociale (…) prima che il proletariato italiano arrivi alla situazione in cui si trovava nel settembre 1920 (…) è evidente che si assisterà di nuovo in Italia all’instaurazione di un regime intermediario”42.
L’ironia della sorte è che le posizioni assunte dall’Internazionale stalinista sono ormai estremamente simili a quelle del gruppo bordighista con cui Trotskij sta conducendo una polemica e a cui scrive nel 1930:
“Ciò vuol dire che l’Italia non può per un certo periodo di tempo tornare ad essere uno Stato parlamentare o diventare una repubblica democratica? Ritengo – in perfetto accordo con voi, penso – che questa eventualità non è esclusa (…) Ma allora essa non risulterà come un frutto di una rivoluzione borghese, ma come aborto di una rivoluzione proletaria insufficientemente matura. (…) Prevedendo la caduta dello Stato fascista per una sollevazione del proletariato (…) la Concentrazione si appresta a fermare questo movimento, paralizzarlo, e a privarlo della sua vittoria per far passare la vittoria della controrivoluzione rinnovata per una sedicente vittoria d’una rivoluzione borghese democratica. (…) Ma ciò significa che noi comunisti respingiamo a priori ogni obiettivo democratico (…) fermandoci rigorosamente alla dittatura del proletariato? (…) le grandi masse lavoratrici sia proletarie che contadine farebbero seguire le loro rivendicazioni economiche da rivendicazioni democratiche (quali la libertà di stampa, di coalizione, sindacale, di rappresentanza democratica nel Parlamento e nei comuni). Ciò significa che il Partito Comunista dovrà respingere simili esigenze? Al contrario”43.
Crediamo sia sufficiente paragonare queste parole a quelle espresse da Gramsci quando spiega nell’estate del ’26 che una crisi del fascismo
“Potrebbe portare al potere la coalizione democratico-repubblicana, dato che essa si presenterebbe agli ufficiali dell’esercito, a una parte della milizia e ai funzionari dello Stato in genere (…) come capace di frenare la rivoluzione”44.
Ed ancora, leggiamo nelle Tesi di Lione:
“Questa presentazione e agitazione di soluzioni intermedie – lontane tanto dalle parole d’ordine del partito quanto dal programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere – permette di raccogliere al seguito del partito forze più vaste, di porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza (esempio: antiparlamento).(…) Esse devono però essere tali da poter costituire un ponte di passaggio verso le parole d’ordine del partito, e deve apparire sempre evidente alle masse che una loro eventuale realizzazione si risolverebbe in un acceleramento del processo rivoluzionario e in un inizio di lotte più profonde.”45
Dopo anni di dittatura è inevitabile che parte delle masse provi qualche illusione nel ritorno alla democrazia borghese. Per questo il partito comunista non può lasciare alle forze borghesi il monopolio delle rivendicazioni democratiche (tra cui anche la richiesta di un’Assemblea Costituente) che le utilizzerebbero per frenare la rivoluzione. Ma allo stesso tempo queste rivendicazioni non devono essere utilizzate per spargere illusioni nelle sorti progressive della democrazia parlamentare, ma al contrario per distruggerle. Se il partito comunista non riuscisse ad impedire un intermezzo democratico, dovrebbe comunque lavorare per renderlo “più breve possibile”. La proposta dell’assemblea costituente è per Gramsci un mezzo per interloquire con le masse e non un fine. Si tratta quindi di una tattica che non ha niente a che vedere con il futuro feticismo che Togliatti nutrirà nei confronti del “fronte repubblicano” e soprattutto nei confronti della Costituente. Qualunque tentativo di presentare Gramsci come un sostenitore della teoria della “democrazia progressiva” elaborata nel secondo dopoguerra da Togliatti è del tutto fuori luogo. Nel momento in cui Trotskij e Gramsci scrivono queste righe, comunque, Togliatti è già diventato un fiero sostenitore della nuova linea dei Fronti popolari.
I Quaderni dal carcere
“Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.”46
A. Gramsci
In più di 10 anni passati in carcere la produzione letteraria di Gramsci fu molto ampia. I Quaderni pubblicati per la prima volta nel 1948 sono stati scritti da Gramsci sotto il controllo della censura fascista, il linguaggio che Gramsci è costretto a usare è spesso ambiguo e ha un carattere più sociologico che politico. Infatti quello dei Quaderni è un Gramsci molto diverso da quello dell’Ordine Nuovo o delle tesi di Lione. Ci sono comunque delle riflessioni nei Quaderni estremamente interessanti che sono state utilizzate (in particolare dai dirigenti del Pcd’I nel dopoguerra) per sostenere che Gramsci stesse maturando una concezione gradualista della conquista del potere politico. L’interpretazione più controversa in questo senso riguarda il concetto di egemonia. Va detto in primo luogo che il concetto di egemonia non è una prerogativa esclusiva di Antonio Gramsci ma faceva parte del patrimonio della socialdemocrazia russa già dall’inizio del secolo.
Anche nelle tesi del 3° congresso dell’Internazionale Comunista la parola egemonia viene utilizzata nel senso di direzione del proletariato sulle altre classi sfruttate nella lotta contro il capitale. In un passaggio delle tesi del 4° congresso il concetto viene esteso e si utilizza il termine egemonia per definire il dominio che la borghesia esercita sul proletariato in regime capitalista. Fu l’unico esempio in cui il termine egemonia venne utilizzato in questo senso e in un certo senso fu il punto di partenza di Gramsci che intorno all’egemonia borghese sulle classi proletarie svilupperà un approfondito ragionamento. Il problema che tenta di analizzare Gramsci è che carattere doveva avere la rivoluzione in Occidente, dove la borghesia era indiscutibilmente più solida di quella russa e aveva costruito una rete di strumenti tesi a esercitare il controllo sociale ma anche a conquistare il consenso dei lavoratori. Secondo Gramsci:
“In Russia lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”.
Che strategia rivoluzionaria è necessaria per l’Occidente? Gramsci considera impraticabile la guerra di movimento (utilizzata nella Rivoluzione Russa) e ritiene che la strada giusta sia quella della guerra di posizione, dichiara che Lenin aveva intuito questa necessità e la tattica del fronte unico fu la risposta a questo. Ma a parte che nella Russia prerivoluzionaria la società civile non era poi così “gelatinosa”, in realtà Gramsci si pone un problema a cui molto difficilmente può dare una risposta isolato com’è nel carcere di Turi, e infatti non darà mai una risposta definitiva al problema della rivoluzione in Occidente. È certo che uno dei punti centrali della sua riflessione riguarda la questione del consenso. A un certo punto nei Quaderni sembra sostenere (anche se per la verità ci sono dei passaggi contraddittori) che in Occidente il partito deve conquistare maggiore consenso che nella Russia del ‘17 perché l’avversario è molto più forte e governa più col consenso che con la coercizione. Questo è senz’altro vero in un certo senso, in regime di democrazia parlamentare, anche se consenso e coercizione sono due facce della stessa medaglia che la borghesia usa per mantenere il suo dominio alternandoli a seconda della situazione. Lo stesso vale per la rivoluzione. Nel processo rivoluzionario la classe operaia si fa forza egemone nella società ma la conquista del consenso deve necessariamente combinarsi con l’uso della forza (certamente di massa e non individuale, di una maggioranza contro una minoranza) contro la reazione e le forze ostili alla rivoluzione. Il fatto che la classe operaia debba conquistare il consenso della maggioranza della popolazione, anche in certi casi facendo concessioni alle classi medie una volta che giunge al potere (l’esempio della Nep lo dimostra) non significa che la trasformazione della società non debba avvenire per via rivoluzionaria attraverso una insurrezione. Questa concezione classica del marxismo sulla questione dello Stato in nessun momento venne messa in discussione nei Quaderni e questa è la dimostrazione della natura rivoluzionaria e comunista del pensiero di Antonio Gramsci.
Si aggiunga a questo come la concezione di Gramsci sul partito (intellettuale collettivo e partito inteso come “moderno principe”) è quella tipica del partito rivoluzionario composto da quadri marxisti intellettualmente preparati. Quando parla di un partito composto tutto da intellettuali, non intende dire, ovviamente, che le sue porte devono essere precluse agli operai o alle masse più in generale, si riferisce a un partito con un livello politico elevato composto non da semplici iscritti ma da militanti coscienti che partecipano e contribuiscono a od ogni aspetto della vita del partito. Ma Gramsci ebbe anche il grande merito di fornirci una storia del Risorgimento italiano da un punto di vista proletario contro la retorica sull’Unità d’Italia fornitaci dalla borghesia e soprattutto una critica al ruolo controrivoluzionario giocato nel Risorgimento dai democratici di Mazzini e Garibaldi (che come noto in una prima fase erano membri della Prima Internazionale). Gramsci fa una analisi spietata della subalternità di Garibaldi e dei democratici verso i liberali di Cavour e la monarchia. Il Risorgimento fu una rivoluzione borghese non completata per la codardia della borghesia italiana che non aveva il coraggio di sbarazzarsi del Re e della nobiltà. Per il suo ritardo storico sulla scena mondiale e per la sua inconsistenza economica la borghesia italiana era molto diversa dai giacobini francesi è invece di aprire lo scontro frontale con la nobiltà decise alla fine di allearsi con essa. I democratici si sottomisero a questa alleanza e ne furono alla fine esecutori. Infatti quando i contadini poveri, sull’onda dello sbarco dei Mille in Sicilia, decisero di occupare le terre dei grandi latifondisti portando a termine uno dei compiti principali della rivoluzione borghese, vennero massacrati non dai Borboni ma dalle truppe dello stesso Garibaldi e di Bixio. Questo “tradimento storico” stava alla base del sottosviluppo del Mezzogiorno, da cui ne conseguiva, a parere di Gramsci, l’incapacità della borghesia di risolvere il problema agrario. Esso poteva essere risolto solo nel corso della rivoluzione socialista in una alleanza tra il proletariato e i contadini appunto il “blocco storico” su cui doveva far perno la rivoluzione. Per Gramsci dunque i problemi di sottosviluppo del Mezzogiorno non potevano trovare soluzione in regime capitalista. Ed è sorprendente come oggi questi ragionamenti siano così attuali e così poco ascoltati dalla sinistra italiana che celebra Gramsci senza comprenderne il profondo messaggio rivoluzionario.
In carcere
“Mi pare che ogni giorno si spezzi un nuovo filo col mondo del passato e che sia sempre più difficile riannodare i tanti fili strappati.”47
A. Gramsci
Le posizioni assunte dalla cricca stalinista riecheggiano di fatto quelle di Bordiga. Questo però non lo salva dall’espulsione. Dopo aver fatto fuori l’ala sinistra, la burocrazia si volge ora contro la sua destra. Stalin attacca la frazione di Bucharin e in Italia è espulso Tasca. Ma il giro di vite non finisce qui. Nell’esecutivo del Pcd’I Tresso, Leonetti e Ravazzoli si oppongono alla svolta. Non c’è da stupirsi che parte del gruppo dirigente si opponga ad una linea che nega tutta la propria impostazione precedente. C’è da stupirsi semmai che parte vi si adegui senza fiatare. A Tresso, Leonetti e Ravazzoli (passati alla storia come i Tre) spetta lo stesso destino di Bordiga: nel ’30 vengono espulsi. Per Gramsci non può non essere un duro colpo. Leonetti era un ordinovista, uno di coloro che più sinceramente aveva aderito alle sue posizioni al ritorno in Italia. Tresso era stato letteralmente un suo allievo. Togliatti decide di provare a sondare le reazioni di Gramsci inviando a colloquio in carcere il fratello Gennaro. Al suo ritorno quest’ultimo dichiara a Togliatti: “Nino è completamente allineato con voi”. Dopo anni ammetterà di aver mentito, giustificandosi così: “se avessi riposto diversamente neanche Nino si sarebbe salvato dalla messa al bando”48. Tuttavia le divergenze che Gramsci nutre nei confronti della nuova linea non possono sfuggire alla direzione del Pcd’I. Nel ’30 rompe con il resto dei detenuti comunisti con cui sta svolgendo discussioni di formazione sulla base della vecchia linea di Lione. Per le nuove leve di partito, la sua linea è in contraddizione con quella ufficiale del partito, è tacciata di essere “socialdemocratica”.
Tutto questo significa che Gramsci fosse arrivato a sviluppare una critica complessiva allo stalinismo? Più di una sua affermazione mostra quanto fosse lontano dalla propaganda ufficiale del nuovo corso stalinista. Riguardo a Stalin disse:
“Bisogna tener presente che l’habitus mentale di Stalin è ben diverso da quello di Lenin (…) Stalin è rimasto sempre in Russia, conservando la mentalità nazionalista che si esprime nel culto dei Grandi Russi. Anche nell’Internazionale, Stalin è prima russo e poi comunista: bisogna stare attenti”49. Ancora una volta, però, dobbiamo affidarci a mezze frasi e testimonianze orali. La verità è che, piaccia o no, Gramsci non arriverà mai ad avere una visione complessiva ed organica del processo degenerativo che attraversa l’Urss. Su Trotskij infatti il giudizio sarà sempre negativo: per il comunista sardo il capo dell’Armata rossa è il “teorico politico dell’attacco frontale in un periodo [dal 1921 al ’26, ndr] in cui esso è solo causa di disfatta”50.
Abbiamo cercato di descrivere minuziosamente quanto una tale comprensione gli sia stata impedita da limiti oggettivi e quanto da suoi limiti soggettivi. L’unica affermazione che ci sentiamo di condividere è quella di Tresso che, da suo profondo conoscitore, amico intimo e compagno, disse alla sua morte:
“Noi non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci nel corso degli undici anni di prigionia, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività di Gramsci, tutta la sua concezione dello sviluppo del partito e del movimento operaio s’oppongono in maniera assoluta allo stalinismo, alle sue porcherie politiche, alle sue falsificazioni vergognose. Possiamo anche affermare che, almeno dopo il 1931 e fino al ’35, la rottura morale e politica di Gramsci col partito stalinizzato era completa (…) I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato anche, due anni fa (1935), che Gramsci era stato escluso dal partito, esclusione che la direzione aveva deciso di tenere nascosta almeno fino a quando Gramsci fosse stato nell’impossibilità di parlare liberamente”51.
Dopo gli ultimi spostamenti, segnato nel fisico da tisi, nella mente da arteriosclerosi, senza denti a causa della piorrea, Gramsci muore di emorragia celebrale il 27 aprile del 1937. Era appena stato scarcerato e sperava di raggiungere al più presto la propria Sardegna.
Conclusioni
Alla vigilia del processo Gramsci scrisse alla madre:
“Vorrei proprio essere tranquillo che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. (…) La vita è così, molto dura, e i figli devono dare grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”52.
La storia di Gramsci è parte della storia del movimento marxista, è la storia del tentativo di applicare l’analisi marxista e bolscevica all’Italia degli anni ’20. È la storia della prova di formare attraverso la lotta di corrente nelle organizzazioni di massa del movimento operaio un’avanguardia che sapesse porsi come punto di riferimento dei processi rivoluzionari. Quanto i comunisti furono incapaci a comprendere l’esigenza di una simile lotta all’interno del Psi nel ’19-’20, tanto furono impazienti nel condurre la scissione del ’21. Tanto Gramsci fu timido nello sviluppare il proprio dissenso nei confronti della linea del Pcd’I tra il ’21 ed il ’24, tanto si avvalse di metodi erronei nel recuperare il terreno perduto. Tanto si disinteressò della lotta di frazione nell’Internazionale, tanto ne fu involontariamente travolto.
Si può concordare o meno con queste nostre opinioni. Ciò che non si può fare è considerare la vita di Gramsci fuori dalla sua vita di militante bolscevico. Questo fu il partito a cui guardò come un modello e di cui scrisse:
“Per caso il partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa? La selezione è durata trent’anni (…) essa è avvenuta nel campo internazionale (…) nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la Seconda Internazionale prima della guerra. Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale rimasta almeno parzialmente immune dal contagio sociale patriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa sul territorio. Continua tutt’ora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere. Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi”53.
Gli insegnamenti di questa “selezione” non sono materia astratta della storia, ma ancora base viva della politica. È ancora il tempo di comprendere, prevedere e provvedere.
Note
1 Giuseppe Fiori, La vita di Antonio Gramsci, pag. 103, edizioni Laterza, 1966.
2 Il Grido del Popolo 13 novembre 1915.
3 Il Grido del Popolo 29 aprile 1917.
4 L’Ordine Nuovo, numero 15, anno primo; 1919.
5 Lev Trotskij, Scritti sull’Italia, pag. 45, Erre Emme edizioni, 1990.
6 L’Ordine Nuovo, numero 12, anno secondo; 1920.
7 L’Ordine Nuovo numero 7, anno primo; 1919.
8 L’Ordine Nuovo numero 16, anno primo; 1919.
9 L’Ordine Nuovo numero 22, anno primo; 1919.
10 L’Ordine Nuovo numero 35, anno primo; 1920.
11 Paolo Spriano, L’Ordine Nuovo e i Consigli di Fabbrica, pag. 81, Einaudi.
12 L’Ordine Nuovo numero 1, anno primo; 1920.
13 Paolo Spriano, L’occupazione delle fabbriche, pag. 43, Einaudi.
14 L’Ordine Nuovo, numero 1, seconda serie; 1924.
15 Giuseppe Fiori, Op. cit., pag. 167.
16 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 115, Einaudi 1976.
17 L’Ordine Nuovo numero 3, seconda serie; 1924.
18 L’Ordine Nuovo numero 5, seconda serie; 1924.
19 L’Ordine Nuovo numero 1, seconda serie; 1924.
20 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 145.
21 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 150.
22 All’opposizione nel Pci con Trotsky e Gramsci, Bollettino della Noi, pag. 215, Massari Editore 2004.
23 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 148.
24 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 185, Einaudi 1976.
25 L. Trotskij, Op.cit., pag. 61.
26 L. Trotskij, Lettera alla delegazione del PCd’I, Op. cit., pag. 90.
27 L. Trotskij, Op.cit, pag. 96.
28 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 239.
29 Giuseppe Fiori, Op. cit., pag. 193.
30 Lettera del 9 febbraio 1924 di Gramsci a Terracini, in Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924 pagg 187-188, Editori Riuniti 1984.
31 L’Ordine Nuovo numero 2, seconda serie; 1924.
32 Lettera ad Alfonso Leonetti del 28 gennaio 1924, in Palmiro Togliatti, Op.cit., pagg. 182-183.
33 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 327.
34 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Primo volume, pag. 361.
35 L’Ordine Nuovo, numero 5, seconda serie; 1924.
36 A. Gramsci, La questione meridionale, pag. 73, Editori Riuniti 1982.
37 A. Gramsci, Scritti politici, Terzo volume, pag. 297, Editori riuniti 1973
38 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Secondo volume, pagg. 52-54.
39 All’opposizione nel Pci con Trotsky e Gramsci, pag. 40.
40 All’opposizione nel Pci con Trotsky e Gramsci, pag. 41.
41 Testimonianza di Terracini contenuta nella raccolta Gramsci vivo, pag. 119, Feltrinelli Editore.
42 L. Trotskij, Op. cit., pag. 91.
43 L. Trotskij, op.cit., pag. 188-189.
44 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Volume secondo, pag. 35, edizione Einaudi.
45 A. Gramsci, Scritti politici, Terzo volume, pag. 304, Editori riuniti 1973
46 A. Gramsci, Lettere dal carcere, Volume primo, pag. 61, Editrice L’Unità 1988.
47 A. Gramsci, Lettere dal carcere, Volume primo, pag. 299, Editrice L’Unità 1988.
48 Giuseppe Fiori, Op. cit., pag. 292.
49 Testimonianza di Ezio Riboldi, compagno di carcere di Gramsci, citata anche da Giuseppe Fiori nell’introduzione al volume Gramsci vivo, pag. XIII.
50 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, pagg. 801-802, Editori riuniti, 1979.
51 Citazione da articolo di Pietro Tresso su Lutte Ouvrière del 1937, citata anche nell’introduzione di Giuseppe Fiori al volume Gramsci vivo, pag. XIV.
52 Giuseppe Fiori, Op. cit., pag. 337.
53 L’Ordine Nuovo, numero 1, seconda serie; 1924.