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Le elezioni del 4 marzo hanno definitivamente rotto il vecchio involucro politico parlamentare. Questa rottura era stata preparata lungo gli anni precedenti e c’erano stati numerosi segnali del processo in atto, come le elezioni politiche del 2013 e soprattutto la pesante sconfitta di Renzi nel referendum del 4 dicembre 2016. Le elezioni politiche hanno messo il sigillo finale a questo processo.
La crisi della sovrastruttura politica è stata un frutto della lotta di classe reale e delle forme che essa ha assunto nel nostro paese (e non solo). Questo concetto risulta incomprensibile ai formalisti di sinistra, sia quelli riformisti che quelli “radicali” o “rivoluzionari”, secondo i quali l’appartenenza di classe dovrebbe determinarsi in base a un atteggiamento ideologico e politico. Per tutti costoro la vittoria della Lega e del M5S è solo una manifestazione del “basso livello di coscienza”, della arretratezza delle masse che si fanno incantare dai demagoghi populisti e reazionari.
Ma per i marxisti la lotta di classe è ben altro: è il conflitto continuo e incessante, anche quando è silenzioso e non fa notizia, che le diverse classi sociali conducono sul terreno economico, politico, ideologico, per difendere o migliorare la propria condizione sociale. E questa lotta può assumere miriadi di forme le più svariate, contraddittorie, parziali. Se non si parte da questo assunto rimane impossibile capire alcunché di quanto è accaduto e accadrà nello scontro politico, tanto in Italia come a livello internazionale.
Il primo risultato del voto del 4 marzo è che la grande borghesia ha perso il controllo diretto del governo e della maggioranza parlamentare. È un fatto inedito che normalmente si verifica solo in situazioni di crisi profonda della società. È un fatto che già da solo testimonia la profondità della crisi in atto.
Come ha spiegato Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: “Eccezionalmente… vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe.”
Per circa due decenni la classe dominante ha potuto usare il comodo sistema dell’alternanza parlamentare tra i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra. Quando la crisi economica ha reso impossibile continuare con quel sistema hanno iniziato ad allargare sempre di più la base parlamentare dei governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni), che al di là delle diverse composizioni si basavano su una sostanziale non belligeranza o addirittura sulla collaborazione aperta tra Pd e Forza Italia, partiti che reggevano i rispettivi schieramenti. Ma più si allargava la base parlamentare dei governi, più questa base si restringeva nella società, fino alla situazione attuale nella quale i due principali partiti della grande borghesia sono relegati all’opposizione e in profonda crisi di consenso e di prospettiva.
Nonostante la grande borghesia costituisca una porzione ridottissima della società, nelle condizioni usuali della democrazia borghese essa riesce a controllare la maggioranza parlamentare attraverso la propria egemonia politica sulla media e piccola borghesia e, tramite la collaborazione delle burocrazie riformiste, sulla classe lavoratrice. Oggi però la piccola borghesia è stata sconvolta dagli effetti della crisi, ha perso fiducia nel potere costituito, contesta (sia pure in modo confuso) il ruolo del grande capitale, soprattutto finanziario, che è stato salvaguardato durante la crisi a spese della grande maggioranza della popolazione. C’è stata quindi una radicalizzazione, in parte anche in senso reazionario, di questi settori che in Italia comunque mantengono una dimensione non trascurabile, per quanto storicamente in declino.
Come è stato spiegato da Marx ed Engels la piccola borghesia coltiva il desiderio di mantenere i propri privilegi: “Il sogno di una trasformazione delle condizioni sociali, per cui la società attuale diventi per loro quanto più è possibile tollerabile e comoda” (K. Marx, F. Engels, Indirizzo del Comitato Centrale alla Lega dei comunisti) e fino a quando il grande capitale è in grado di garantirglieli non sorge alcun problema. Viceversa la piccola borghesia diventa un fattore di destabilizzazione del sistema di dominio capitalistico.
D’altro canto la classe operaia ha smesso di seguire le indicazioni dei riformisti, perlomeno sul piano elettorale, ma anche sul piano politico più generale e persino sindacale. Dopo decenni di sconfitte, cedimenti, tradimenti più o meno plateali, la massa dei lavoratori ha deciso che l’unico modo per provare a uscire da questa serie di arretramenti fosse quello di dare una spallata al governo, in un certo senso al “potere”, confermando nelle elezioni politiche il voto già registrato nel referendum del 4 dicembre 2016. Le masse hanno votato in modo tale da assicurarsi non solo che il vecchio governo venisse sconfitto, ma che risultasse impossibile riproporre le precedenti forme di coalizione parlamentare.
Questa contraddizione tra la base di classe e la sovrastruttura politica non può essere facilmente risolta sulla base delle condizioni odierne del capitalismo italiano e internazionale. Negli anni ’70 la classe operaia tentò di spingere le sinistre al governo per via elettorale nel tentativo di creare quelli che noi chiameremmo dei governi operai. Quella enorme spinta elettorale a sinistra, che in Italia raggiunse il suo apice nel 1975-76, era il risultato dell’ondata di lotte del biennio rosso 1969-70 e di una situazione prerivoluzionaria in molti paesi. In realtà le vittorie elettorali delle sinistre segnarono l’inizio della fine per i movimenti degli anni ’70 in quanto le burocrazie riformiste e staliniste usarono precisamente quell’enorme potere parlamentare per condurre il movimento su un binario morto, avviando contestualmente il loro stesso declino politico.
Oggi il processo è in qualche modo inverso: il voto “per il cambiamento” non è stato la fase culminante del processo, ma un primo tentativo di uscire da una situazione intollerabile per milioni di persone e di togliere il potere a chi lo ha gestito fino ad oggi. Inoltre le burocrazie riformiste, che negli anni ’70 incanalarono la spinta del movimento, oggi sono invece al loro punto minimo di credibilità e autorità fra le masse.
Il voto del 4 marzo è quindi il segnale di avvio di una fase di profonda radicalizzazione delle masse che cercheranno in tutti i modi una risposta ai loro problemi. È un processo contraddittorio e tutt’altro che lineare nel quale dobbiamo apprendere ad analizzare le diverse fasi, a distinguere gli elementi progressivi da quelli reazionari, gli avanzamenti dagli inevitabili momenti di stallo e anche di arretramento, ma che conduce inevitabilmente verso una situazione prerivoluzionaria.
Le contraddizioni fondamentali che si sono manifestate il 4 marzo sono insolubili e nei prossimi anni condurranno la classe lavoratrice nel nostro paese, e con essa tutti i settori sfruttati della società, a porsi il problema del potere come unica via d’uscita da una condizione altrimenti senza uscita. È questo l’elemento centrale di una situazione prerivoluzionaria, così come ha spiegato Lenin nel suo celebre testo sulle “quattro condizioni fondamentali” (dove la quarta è la costruzione del partito rivoluzionario): “Per il marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non sia possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sbocchino nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i segni di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare a indicare questi tre segni come i segni principali:
1 – Le classi dominanti non riescono più a conservare il loro potere senza modificarne la forma; una crisi negli ‘strati superiori’, una crisi nel sistema politico della classe dominante, che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che ‘gli strati inferiori non vogliano più’ continuare a vivere come prima, ma occorre anche che ‘gli strati superiori non possano più’ vivere come per il passato.
2 – Un aggravamento, maggiore del solito, dell’oppressione e della miseria delle classi oppresse.
3 – In forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali in un periodo ‘pacifico’ si lasciano depredare tranquillamente, ma in periodi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi ‘strati superiori’, ad un’azione storica indipendente.
Senza questi cambiamenti oggettivi, indipendenti dalla volontà non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti oggettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò nel 1905 in Russia e in tutte le epoche rivoluzionarie in Europa occidentale; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861 e 1879-1880 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata alcuna rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da ogni situazione rivoluzionaria, ma solo nei casi in cui, alle trasformazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, anche in un periodo di crisi, non ‘cadrà’ mai se non lo ‘si fa cadere’” (V.I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale).
L’opposizione liberale
Il Pd, grande sconfitto del 4 marzo, cerca ora di trovare una via per reagire. Ma quali sono le sue basi sociali? Per ora il Pd mantiene il sostegno di Confindustria, del grande capitale, della grande borghesia in Europa, della grande stampa, ecc. Ma questa non è una base di massa, tutt’altro. Le ex regioni rosse sono ormai terreno di incursioni sempre più profonde della Lega mentre al Sud il M5S ha raggiunto percentuali di voto “democristiane”. Una analisi del Cise-Luiss del voto di marzo definiva il Pd come “partito delle élite”, segnalando le seguenti percentuali di “propensioni al voto” per quel partito il 4 marzo: classe operaia 13,1, classe medio-bassa 19,4, classe media 18,3, classe medio alta 31,2.
Certo, rimangono lavoratori e pensionati che votano il Pd o Leu, ma si tratta soprattutto di quei settori economicamente più stabili e relativamente difesi dalle condizioni salariali e normative conquistate nei decenni precedenti. Sono lavoratori che non rappresentano certo il settore più attivo e combattivo e non sono in grado di connettersi ai settori più sfruttati e più giovani della classe.
C’è poi una base di consenso nell’intellighentsia e fra gli studenti universitari, che si aggrega soprattutto per motivi ideologici come l’opposizione al razzismo, all’oscurantismo, la difesa dei diritti civili. In parte questa opposizione “ideologica” al governo si fonda anche su interessi economici. Ci sono settori dell’economia nei servizi, nei media, nell’industria culturale, ma anche nella produzione, che vedono con ostilità i rischi di isolamento economico e culturale e che sono legati alla “globalizzazione”, ossia alla necessità della libera circolazione di merci, capitali e (entro certi limiti) persone come condizione preferenziale della loro attività economica.
Questo tipo di aggregazione ha determinato ad esempio il voto di Milano città sia nelle politiche che nel referendum, un voto che presenta somiglianze con quello di Londra nel referendum sulla Brexit. Non a caso il Pd cerca di fare di Milano il terreno di un suo rilancio di consenso di massa investendo molto attraverso la giunta Sala in eventi come i Pride o manifestazioni antirazziste dal taglio puramente umanitario.
Esistono ancora organizzazioni di massa come Cgil, Anpi e Arci, che possono essere utilmente impiegate per mobilitare questa base di consenso. Anche un settore dei centri sociali non è insensibile ai richiami di questo fronte.
Tuttavia questo non basta a fare uscire il Pd dalla sua profonda crisi di strategia. Come abbiamo analizzato a livello internazionale, il “centro” politico si è eroso come conseguenza della polarizzazione sociale causata dalla crisi. Si è ridotto numericamente ma soprattutto non è più in grado di porsi come riferimento politico per settori più vasti delle masse.
Inoltre per il Pd rimane insolubile il problema di allargare il proprio consenso nella classe lavoratrice. L’ala più chiaramente borghese (Renzi, Calenda, Gentiloni, Minniti ecc.) si schiera contro il governo difendendo a oltranza l’ortodossia borghese nella politica economica e l’integrazione nell’Unione europea. La sinistra viceversa avrebbe bisogno di incalzare i 5 Stelle sul piano delle politiche sociali, giocando anche di sponda con la Cgil su questo terreno, per cercare di ricreare un legame con la classe.
Ma c’è un gigantesco scoglio su questa strada: prendere posizione contro il Jobs act, la Fornero, ecc. risulta ridicolo, del tutto privo di credibilità per qualsiasi esponente politico abbia fatto parte del Pd o, peggio, ne sia tutt’ora membro.
La paralisi di questo partito è quindi destinata a continuare a lungo limitandone fortemente le possibilità di ripresa. Si aggiunga infine il problema costituito da Matteo Renzi, che torna in campo con l’obiettivo di riprendere il controllo del Pd (o di distruggerlo per fondare una nuova formazione), rendendo impraticabile qualsiasi tentativo di ricostruirsi una immagine diversa da quella, ormai odiata dalle masse, creatasi durante gli anni del governo. Su queste basi nuove divisioni non sono quindi da escludersi.
Le aspettative nei 5 Stelle
Il tratto distintivo di questo governo, e quello dalle conseguenze più esplosive, è il fatto che esso ha suscitato le aspettative di una parte maggioritaria della classe lavoratrice. Il fatto più rilevante politicamente è la fiducia e la speranza che si riversa su questo governo e in particolare sul capo dei 5 Stelle. I capi del Pd e del centrosinistra e gran parte dei dirigenti della Cgil irridono questi sentimenti e parlano con disprezzo dei lavoratori che si fanno incantare dai “demagoghi populisti”. Per costoro il popolo era saggio e responsabile solo fino a quando votava il Pd mentre ora, dopo avere assaggiato i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, sarebbe misteriosamente diventato ignorante ed egoista.
In passato l’espressione “governo amico” veniva usata dalle burocrazie sindacali per illudere e addormentare i lavoratori. Oggi moltissimi lavoratori pensano che questo possa essere per loro un “governo amico” che risolva i problemi che i sindacati non hanno combattuto: dalle pensioni, alla precarietà, alla disoccupazione e a seguire tutto il resto.
La presenza di un Ministro del lavoro che viene considerato diverso dai precedenti e permeabile dalle richieste della classe, e che inoltre è a capo del primo partito, incoraggia le aspettative, le richieste, le rivendicazioni compresse per anni. La distanza tra queste attese e quello che Di Maio potrà effettivamente concedere è abissale. Le dichiarazioni sono incendiarie: smontare il Jobs Act, introdurre il salario minimo, il reddito di cittadinanza, bloccare le delocalizzazioni, salvare l’occupazione nelle crisi aziendali, ecc.
Alla prova dei fatti tuttavia il comportamento del ministro ricalca da vicino quello dei governi di centrosinistra prima dell’avvento di Renzi: un colpo al cerchio e uno alla botte, cercare di coinvolgere le burocrazie sindacali, fare concessioni minime ai lavoratori riequilibrandole con concessioni ai padroni… Ma tutto questo ha già fallito negli anni della concertazione e fallirà molto più rapidamente in questa nuova versione.
Già le misure cosmetiche del “decreto dignità” hanno mostrato i limiti di questa politica. La borghesia ha scatenato una campagna isterica contro il decreto predicendo disastri e sciagure se non fosse stato cambiato e accusando i 5 Stelle di essersi piegati ai sindacati e di avere abbracciato i vecchi e obsoleti miti della sinistra. Questa campagna ha trovato una sponda in Salvini che subito ha dichiarato, parlando a una platea di piccoli imprenditori, che la “giusta volontà di combattere la precarietà” non doveva danneggiare le imprese e annunciando modifiche quando il decreto fosse arrivato in Parlamento. Di Maio a sua volta ha dovuto rispondere che non avrebbe accettato annacquamenti del testo.
Questo scontro si è prodotto sul primo provvedimento del nuovo governo e indica il copione per il futuro. La coperta già corta verrà tirata da tutte le parti: flat tax o reddito di cittadinanza? Soldi al nord o al sud? Ritoccare la legge Fornero o finanziare altre voci di spesa pubblica? E così via.
La vicenda del crollo del Ponte Morandi a Genova è la conferma della nuova situazione prodotta dal voto del 4 marzo. Fino al 14 agosto nessuno dei principali partiti parlava di nazionalizzazioni. La grande indignazione popolare prodotta dalla strage ha posto l’urgenza di nazionalizzare Autostrade al centro del dibattito politico nel paese nel giro di pochi giorni. Allo stesso tempo l’afasia che ha colpito i vertici sindacali e riformisti davanti alla questione nazionalizzazioni è la conferma del loro stato di paralisi e di incomprensione totali rispetto allo scenario apertosi con il governo M5S- Lega.
La questione del razzismo
L’ondata di razzismo che si è manifestata dopo il voto e rafforzata con l’insediamento di Salvini al Ministero dell’interno ha gettato nel panico l’opinione pubblica progressista e di sinistra, che grida al fascismo, alla barbarie e alla catastrofe.
In realtà non si tratta certo della prima volta che in Italia si sviluppano movimenti simili sia a livello di opinione pubblica sia, in casi più o meno sporadici, con veri e propri atti e aggressioni razziste. Aggressioni e incendi a campi nomadi, raid razzisti più o meno organizzati, campagne sui media, ecc. si sono ripetuti a intervalli da almeno una ventina d’anni e in particolare nell’ultimo decennio. L’assassinio di Sacko Soumaila ci ricorda quello di Jerry Masslo a Villa Literno (1989). Nel 2008 la camorra nel casertano organizzò violenti raid contro gli immigrati, culminati nella strage di Castel Volturno in cui vennero assassinati 6 immigrati africani. Nello stesso periodo ci furono numerosi raid razzisti in Lombardia, come ad esempio l’assedio durato vari giorni di un campo nomadi in provincia di Pavia.
Il razzismo è uno strumento potente che la classe dominante ha sempre usato, tanto più in periodi di crisi, e con il quale sappiamo di dover fare i conti per tutta la prossima fase. Quanto accade va però analizzato per capire quanto vi sia di radicato e quanto di temporaneo in questo fenomeno oggi.
È chiaro che la ossessiva ripetizione di una sorta di catechismo antirazzista da parte di quelle stesse forze del centrosinistra che si sono rese responsabili delle peggiori politiche antioperaie ha creato una forte reazione di rigetto per certi versi viscerale. Un lavoratore che si è visto togliere lo Statuto dei lavoratori, la pensione, che ha visto salvare le banche mentre gli tagliavano la sanità, e si potrebbe continuare a lungo, quando sente gli stessi responsabili delle sue disgrazie che gli intimano di essere solidale e che predicano l’accoglienza accusandolo di essere ignorante ed egoista, non può non restare schifato da tanta ipocrisia. Un settore, certamente quello politicamente e sindacalmente più arretrato, cade così nella trappola della guerra fra poveri e dà credito alla propaganda razzista. E un altro settore pur non aderendo necessariamente a una ideologia razzista, giunge alla conclusione che l’accusa di razzismo non è più sufficiente per negare automaticamente il consenso a un partito o a un leader politico.
Tuttavia questa corrente reazionaria incontrerà ben presto il suo limite quando si verificherà con i fatti che le promesse del governo sul terreno sociale ed economico non vengono realizzate. A quel punto si creerà una ulteriore divisione, con un settore minoritario che evolverà ulteriormente a destra mentre una parte assai più consistente cercherà risposte in un’altra direzione.
Quando in Gran Bretagna ha vinto la Brexit c’è stata un’ondata xenofoba diffusa, prima e ancora di più dopo il referendum. Ci sono state aggressioni, immigrati che si sentivano apostrofare verbalmente (e a volte non solo) per strada e in luoghi pubblici con frasi come “adesso abbiamo votato e dovete andarvene tutti da questo paese”, e simili. Sia dentro che fuori dalla Gran Bretagna la maggior parte della sinistra iniziò allora a lamentarsi che aveva vinto la xenofobia, il razzismo, ecc. Eppure nel giro di due anni abbiamo visto il partito xenofobo promotore del referendum, lo Ukip, entrare in una crisi profondissima che lo ha quasi cancellato, i conservatori a loro volta divisi e in crisi, e una nuova ondata di radicalizzazione a sinistra con la riconferma di Corbyn alla guida del Labour e successivamente la sua clamorosa rimonta elettorale che nessuno aveva previsto.
Questi bruschi spostamenti a destra e a sinistra non sono altro che l’indice della crisi politica senza uscita nella quale si dibattono le masse, cercando una via d’uscita ora in una direzione, ora nell’altra.
D’altro canto il razzismo di Stato e la politica repressiva di Salvini genereranno anche una risposta a sinistra, in particolare fra i giovani che sono meno permeabili alle campagne razziste, i cui settori più avanzati sono disgustati e vogliono reagire e che non vorranno limitarsi all’antirazzismo ipocrita del Pd e delle sue strutture fiancheggiatrici (Anpi, Libera, Arci, ecc.) ma saranno aperti a una prospettiva che leghi l’antirazzismo alla lotta di classe e all’anticapitalismo.
Il ruolo della Lega
Spinta da questa campagna razzista la Lega avanza con il vento in poppa e sembra fagocitare l’intera scena politica, dentro e fuori dal governo. Ma è una illusione ottica. Di certo Salvini ha conquistato l’egemonia a destra e consoliderà la sua presa, non avendo seri concorrenti in quel campo. Ma cercando di apparire come il vero capo del governo finirà col prendersi le responsabilità anche del suo fallimento.
Nel governo si manifesterà in forma spuria una contrapposizione tra destra e sinistra, tra una Lega sempre più partito dell’ordine, del manganello e dell’autoritarismo e un 5 Stelle che non potrà che rispondere agitando una demagogia “sociale”, che cerca di parlare ai lavoratori e ai disoccupati.
Dall’inevitabile esplosione di questa contraddizione è possibile che si esca per iniziativa dello stesso Salvini, che a un certo punto potrebbe decidere di staccare la spina e puntare a nuove elezioni per incassare il suo consenso elettorale e provare a conquistare il governo alla guida di un blocco reazionario, senza più dipendere dai grillini. È una delle possibili prospettive: fasi temporanee di reazione e di arretramento sono implicite in una situazione destabilizzata come l’attuale.
Il solito piagnisteo di sinistra già ora grida al fascismo, si lamenta dello “sdoganamento” del razzismo, e via lacrimando. Ebbene sì: in Italia, come altrove, si fa avanti una destra aggressiva, che parla un linguaggio brutale non solo contro gli immigrati ma domani anche contro i lavoratori, contro i disoccupati, contro i giovani, contro ogni forma di contestazione dell’ordine. E non si tratta solo del linguaggio: vediamo dove la destra governa che la maschera della demagogia “sociale” fa molto presto a cadere. Lo dimostra la traiettoria del governo del Pp in Spagna o il tentativo del governo austriaco di destra di riportare la giornata lavorativa a 12 ore.
Se si vuole chiamare le cose con il loro nome, per quanto tutto questo sia disgustoso e reazionario è anche una sveglia salutare per i militanti della sinistra, gli attivisti sindacali, i giovani, per il movimento operaio in generale. Il tempo delle belle parole, dell’ipocrisia politicamente corretta, del compromesso, del dialogo è finito e non tornerà più. Chi vuole lottare deve apprendere questa lezione. Da Trump in giù vengono sul proscenio personaggi e leader politici spregiudicati, aggressivi, che ci ricordano che la classe dominante quando lo ritiene indispensabile abbandona il guanto di velluto che ricopre il pugno di ferro, e non si fa scrupoli nel calpestare ogni regola, comprese quelle che essa stessa si è data, per difendere i propri interessi.
Il neo Ministro dell’interno esprime tutte le pulsioni più reazionarie che attraversano la società rivestendo molti dei tratti tipici del fascismo: un discorso demagogico contro il grande capitale a difesa della piccola borghesia, un nazionalismo esasperato intriso della peggiore xenofobia, un familismo ultra-tradizionalista, un cattolicesimo integralista.
Questo spettacolo che getta nella costernazione l’intellettualità progressista, è invece enormemente istruttivo per la classe, che non tarderà a prendere nota della lezione: chi vuole combattere è meglio che si attrezzi ai questi “tempi nuovi”.
Le condizioni per una nuova ondata di lotte
Una serie di fattori sta preparando il terreno per una nuova fase di lotte e mobilitazioni dopo anni di sostanziale silenzio. 1) La classe lavoratrice ha ormai assorbito lo choc della grande crisi e inizia a fare i conti con la “nuova normalità” fatta di precariato a vita, ricatto permanente, salari ai confini della sussistenza. 2) La “ripresina” sul piano economico da una parte riduce almeno in parte la ricattabilità dei lavoratori e permette di avanzare rivendicazioni economiche, dall’altra è causa di una pressione fortissima su ritmi, condizioni di lavoro e sicurezza, turnazioni impossibili, ecc. 3) Esiste un governo che viene considerato influenzabile dalla piazza. 4) La burocrazia sindacale non può fermare le mobilitazioni. 5) Un settore politicizzato è già all’opposizione da sinistra al governo, in particolare per il ruolo della Lega, ed è disponibile a mobilitarsi.
In generale dalle elezioni in poi si registra un ambiente di diffuso dibattito politico come da tempo non accadeva. Le misure del governo e le posizioni dei partiti sono oggetto di discussione e di scontro non solo fra attivisti e militanti ma in ampi settori della popolazione.
I detonatori per un movimento possono essere i più diversi: da crisi aziendali importanti, allo scontro su provvedimenti del governo, a episodi di repressione, incidenti sul lavoro, ecc.
Data la situazione politica qualsiasi movimento di massa sarà politicamente composito e anche contraddittorio, il processo di chiarificazione politica dovrà passare per tante fasi, tanti avvenimenti istruttivi, tante prove ed errori. Ma possiamo stare certi che più presto che tardi la stessa spinta di opposizione che si è rivelata nelle urne comincerà a manifestarsi in forma di azioni di lotta.