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Governi, monopoli, case farmaceutiche e la crisi del Covid-19. La pandemia che minaccia il futuro dell’umanità si chiama capitalismo

Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo apparso sul sito di Lucha de Clases (http://www.luchadeclases.org), sezione spagnola della Tmi.

 

di Joseba Blanes

Sono trascorsi cinque mesi, da quando, in uno dei mercati tradizionali destinati alla vendita di animali vivi a Wuhan, la settima città della Cina, emersero i primi casi di un nuovo tipo di polmonite atipica. Dopo l’isolamento del virus, i ricercatori cinesi, come i loro colleghi dell’Oms arrivarono alla conclusione che si trattava di un nuovo patogeno della numerosa famiglia dei coronavirus, ampiamente diffusi in natura e che infettano la maggioranza degli animali; e che in qualche caso, in particolare quelli del genere beta coronavirus, facciano il cosiddetto salto di specie, dagli animali agli esseri umani.

Da allora, come se un terremoto avesse scosso il pianeta, il mondo intero è finito sottosopra. Dalla notte alla mattina, in tutti i paesi del mondo, il regime capitalista, i suoi Stati e i suoi governi di ogni colore politico, si sono ritrovati a dover affrontare la crisi sanitaria, sociale ed economica più grande che si ricordi. Ora, tutti pensano che la prospettiva più favorevole sia uno scenario simile a ciò che accadde negli anni ’30, prima della Seconda Guerra Mondiale e, nel peggiore dei casi, potremmo avere la più grave crisi della storia del capitalismo.

L’incapacità di tutti i governi del mondo di combattere la pandemia del Covid-19 si è resa evidente fin dal primo momento, riflettendo l’anarchia che caratterizza l’economia di mercato, la sua incapacità di previsione ed il suo esaurimento storico. La prima reazione, cominciando dal regime cinese, è stata quella di nascondere e minimizzare il rischio associato all’epidemia. Probabilmente le autorità cinesi hanno stimato che il contagio poteva essere contenuto, analogamente a quanto accadde nel 2003 con il Sars-Cov, che causò la cosiddetta Sindrome respiratoria acuta grave. Allora la trasmissione non si sarebbe estesa in maniera massiccia e il virus di conseguenza venne debellato. Questa fu l’esperienza avuta con il Sars. In quella occasione, dal primo caso registrato a Guangdong nel novembre del 2002, l’epidemia si diffuse in 29 paesi colpendo l’Asia, il Nordamerica, il Sudamerica e l’Europa. Il numero dei contagiati stimati dall’Oms furono 8.403, con 775 decessi. In seguito, l’epidemia scomparse e da dicembre del 2003 non sono stati registrati altri casi.

Sfortunatamente, questa volta, il nuovo virus si è diffuso in maniera molto più significativa – tra le altre ragioni – perché a differenza del Sars, molti degli infetti in grado di contagiare sono asintomatici. Quando, dopo un mese di continuo occultamento delle prove, le autorità cinesi cominciarono a prendere misure drastiche di isolamento, prima a Wuhan e poi in tutta la provincia dell’Hubei, il virus si era già diffuso nel resto del pianeta. Lontani dall’apprendere dagli errori commessi in Cina, la maggioranza dei governi delle principali potenze mondiali inizialmente ha seguito lo stesso percorso di improvvisazione minimizzando il pericolo, e solo quando la crisi ha raggiunto dimensioni incontrollabili ha cominciato a reagire e a pensare che la lotta contro la pandemia non poteva essere altro che considerata come una guerra globale.

Sicuramente, come sempre accade nelle guerre, anche in quella che oggi si sta combattendo contro il coronavirus, la prima vittima a cadere è stata la verità. In un paese dopo l’altro, la classe dominante e i suoi governi hanno utilizzato l’apparato dello stato e tutti i mezzi a loro disposizione per cercare di nascondere la loro incapacità e quella del loro sistema nel combattere la pandemia. Pretendono di nascondere le loro responsabilità criminale, con il diversivo secondo cui questa lotta sarebbe di tutti e che il virus non distingue i ricchi dai poveri.

Nulla di più lontano dalla realtà! Questa lotta, come tutte quelle che si sviluppano nella società, ha un chiaro carattere di classe, come dimostrano i dati oggettivi. Siamo noi lavoratori e le nostre famiglie a dover soffrire le più dannose e terribili conseguenze sanitarie, economiche e sociali della pandemia. Siamo noi salariati a dover porre in rischio la nostra salute, senza poter contare con i dispositivi di protezione necessari, siamo noi a garantire che la società continui a funzionare.

I miliardari che controllano la ricchezza del pianeta e il loro gruppo di funzionari privilegiati non risparmiano le risorse per garantire la propria protezione e quella dei loro cari. A noi lavoratori dicono che, nonostante non esistano mezzi di protezione sufficienti e si metta in rischio la nostra salute e quella delle nostre famiglie, la produzione non può fermarsi. Il loro obiettivo è garantire che i profitti continuino a crescere e che la pandemia si trasformi in un’opportunità commerciale.

Il messaggio che ci ripetono a tutte le ore, secondo cui le conseguenze di questo virus riguardano tutti allo stesso modo, è una grande bugia. L’autentica realtà è che siamo noi lavoratori quelli che stanno soffrendo le conseguenze di questa crisi, vedendo seriamente minacciato il nostro futuro e quello delle nostre famiglie. Per la borghesia ciò che realmente interessa in questa guerra contro il virus, allo stesso modo che in qualsiasi altro conflitto del passato o di quelli che saranno provocati domani, è raggiungere il massimo profitto possibile e rendere assolutamente proficua, per i loro interessi, questa crisi.

L’Imperialismo nel secolo XXI, concentrazione della produzione e dominio dei monopoli

Nel suo libro L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo pubblicato nel maggio del 1916, Lenin concludeva che dal punto di vista economico:

“L’Imperialismo è il capitalismo nella fase di sviluppo nella quale ha preso corpo il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, ha acquisito grande importanza la esportazione di capitali, è iniziata la distribuzione del mondo tra i trust internazionali ed è finita la distribuzione di tutta la terra tra i paesi capitalisti più importanti.”

Oggi, analizzando la situazione economica mondiale, la sua tesi non solo è stata confermata dai fatti, bensì il processo che lui anticipò ha avuto uno sviluppo esponenziale. Secondo il rapporto Global 500 della rivista nordamericana Fortune, dall’inizio del secolo XXI, i 500 maggiori gruppi imprenditoriali del mondo producono e vendono il 40% di tutta la ricchezza che si genera nel pianeta. I dati sono chiari: nel 2018 le vendite di questi enormi conglomerati capitalisti di carattere globale ammontarono a 32.700 miliardi di dollari, il 38,12% del PIL mondiale – stimato in 85.700 miliardi – con dei guadagni netti di 2.150 miliardi di dollari. Nell’ultimo decennio, le vendite del G500 hanno avuto un incremento di quasi 10.000 miliardi – da 23.000 a 32.700, un +39,65% – e i profitti aumentano di 650 miliardi di dollari – da 1.500 a 2.150 miliardi, un +43,33%. Il numero di lavoratori impiegati arriva a 69,3 milioni. Questi dati indicano in modo palese, come questa enorme concentrazione della produzione viene generata da una piccola parte dei salariati nel mondo – 69,3 milioni su 3.000 milioni – appena il 2,4% della mano d’opera a livello mondiale.

Tabella 1: Anno 2018 – Distribuzione del G500 per settore. Fonte: Fortune

Il monopolio sanitario

Analizzando i dati della Tabella 1, si vede che quello sanitario è il quinto settore per fatturazione e profitti del G500. I 26 gruppi monopolistici che lo integrano hanno fatturato 2.000 miliardi nel 2018 e guadagnato 112.076 milioni di dollari. Tra queste grandi multinazionali troviamo assicurazioni, fornitori di servizi medici, fabbricanti di materiale medico e chirurgico, grossisti della distribuzione di materiale sanitario, e i grandi laboratori farmaceutici con 13 gruppi rappresentati.


Tabella 2: Aziende del settore della salute che fanno parte del G500 (EE.UU. = USA). Fonte: Fortune Nota: nelle vendite di 81.581 milioni di dollari di Johnson&Johnson, include le vendite di prodotti di consumo di massa che arrivano al 50% della fatturazione totale. La fatturazione di Jansen –la loro divisione di medicinali– ammonta a 38,8 miliardi di dollari, con profitti per 8 miliardi di dollari. 

 

La prima cosa che salta all’occhio guardando i dati della Tabella 2 è il predominio schiacciante del capitale nordamericano; di fatto le multinazionali degli USA sono 15 dei 26 maggiori gruppi del settore, fatturano 1.485 miliardi di dollari – 73,90% del totale – con guadagni per 66.822 milioni, il 59,74% del totale. Gli altri paesi rappresentati sono: Germania con 3 aziende, Cina e Svizzera con 2, Gran Bretagna, Francia, Irlanda e Giappone con una.

Il predominio delle aziende Usa riflette in primo luogo l’enorme peso del mercato sanitario nordamericano nel mondo: 2.930 miliardi di dollari nel 2018, un 17% del Pil degli Usa e quasi il 40% del mercato mondiale. Il sistema sanitario statunitense si basa sulla gestione e il controllo dei privati, ed è una pietra angolare del sistema capitalista in quel paese, come dei due partiti che lo sorreggono. Con grande differenza è quello che risucchia più risorse in tutto il pianeta, il terzo nella spesa procapite, 9.403 dollari a persona, superato solo dalla Svizzera (9.674 $) e dalla Norvegia (9.522 $). Ed è quello che assicura più profitti al monopolio sanitario. Paradossalmente, questo enorme flusso di risorse non garantisce buone prestazioni sanitarie.

Solo i ricchi e i settori della popolazione con più potere d’acquisto, che sono in grado di pagare prezzi assurdi (l’insulina, che in Canada si vende a 25 dollari, negli Usa può arrivare a costare 200 dollari) hanno garantita un’attenzione sanitaria di qualità. I lavoratori, quando va bene, riescono ad ottenere un’assicurazione sanitaria attraverso il contratto di lavoro. Ma ci sono molti tipi di assicurazioni e spesso devono pagarsene una aggiuntiva di tasca propria. Questo significa che decine di milioni di lavoratori hanno prestazioni sanitarie limitate e che in fondo al pozzo, il sistema lascia senza prestazioni e assicurazione medica oltre 30 milioni di persone che devono andare a farsi curare alle strutture dei poveri.

Tabella 3: Spesa sanitaria in miliardi di dollari, percentuale del PIl e spesa per capita nelle principali economie del mondo. Fonte: Expansión

Le Grandi Farma

Un’altro aspetto che risalta studiando il settore sanitario è l’importante peso dei grandi laboratori farmaceutici, i cosiddetti Big Pharma o le Grandi Farma, che sia per numero – 13 gruppi, la metà dei 26 del settore che integrano il G500 – che per fatturazione – 624.464 milioni di dollari, il 31,08% del totale – sono il sottogruppo con più peso e con maggiori margini di profitto – 71.991,50 milioni di dollari, il 64,25% del totale del settore che ammonta a 112.076 milioni di dollari. Le vendite mondiali di medicinali nel 2017 rappresentano tra il 20% e il 25% della spesa sanitaria mondiale, 1.100 miliardi di dollari, distribuite nei seguenti mercati:

 

Nello stesso anno, i 50 più grandi laboratori del pianeta hanno venduto 642.478 milioni di dollari con profitti per 121.259 milioni di dollari, con un tasso di profitto sulle vendite del 19%.

L’origine dei brevetti e il suo significato oggi

Non a caso, la comparsa e regolazione legale dei brevetti – cioè il diritto concesso dai governi a un inventore di usare il copyright sul brevetto da lui creato in esclusiva durante un periodo di tempo determinato – è strettamente legata alle origini del capitalismo. La prima legge sui brevetti conosciuta nella storia fu approvata nella Serenissima repubblica di Venezia nell’anno 1474. Si fissava una scadenza di 10 anni. Posteriormente, dopo il trionfo della rivoluzione borghese nordamericana nel 1787, il diritto vincolato ai brevetti venne previsto nella costituzione statunitense, articolo 1, sezione 8, paragrafo 8, secondo il quale il Congresso degli Usa può: “promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi limitati a autori e inventori il diritto esclusivo sui rispettivi scritti e scoperte.”

L’importanza di una regolamentazione legale sui brevetti, accettata a livello internazionale, è stata una costante soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che inaugura un periodo nel quale il peso del commercio mondiale diventa decisivo per l’insieme dell’economia capitalista. Così, in uno dei suoi primi allegati, il 1-c, l’Accordo col quale si crea nel 1994 l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), si stabiliscono gli Apdics dove si dettagliano i principi basilari sulla proprietà intellettuale, tendenti ad armonizzare questi sistemi tra i paesi firmatari e nella relazione con il commercio mondiale.

Negli Usa, nel caso dei medicinali, i brevetti sono regolati dalle disposizioni della Hatch Waxman Act del 1984, che stabilisce una durata del brevetto di 20 anni, prorogabili altri 5 anni dalla data di scadenza. Nel caso dell’Europa, dal 2004, si può sollecitare la produzione di medicinali generici 8 anni dopo l’autorizzazione del medicinale originale. Il generico si può commercializzare dopo 10 anni.

Un sistema che agli albori del capitalismo aiutò a incoraggiare la concorrenza tra i singoli capitalisti, promuovendo nuove scoperte e applicazioni tecnologiche che rivoluzionavano in modo permanente lo sviluppo della tecnica e delle forze produttive, si trasformò nel suo contrario, promuovendo la concentrazione della produzione in aziende sempre più grandi, che unendosi tra loro e con il capitale finanziario, la cui concentrazione è anche più intensa e veloce, generarono il monopolio. Oggi, nell’industria farmaceutica, la lotta per avere nuovi brevetti di terapie innovative, invece di spingere per accrescere la conoscenza e migliorare la lotta contro le malattie, garantisce solo il controllo dei prezzi ed enormi profitti monopolistici che questo comporta.

Brevetti, I+D e prezzi dei medicinali

Nel gergo del marketing farmaceutico, i medicinali si dividono in due grandi gruppi:

a – I cosiddetti Essential Health; cioè medicinali già collaudati e usati massicciamente, il cui brevetto è scaduto e verso i quali chiunque può sintetizzare i principi attivi, e i cosiddetti farmaci biosimilari a un costo minore.

b – I nuovi medicinali che il monopolio farmaceutico denomina blockbusters, il cui sviluppo e brevetto garantiscono il controllo monopolistico della terapia e il diritto esclusivo di produzione e commercializzazione fino alla scadenza del brevetto.

Tra questi blockbusters, l’investimento dei grandi laboratori si indirizza a quelle patologie che vengono più redditizie, in particolare alle terapie oncologiche, VIH, epatite, malattie autoimmuni e croniche. In base alle stime del settore, l’investimento medio in Ricerca e sviluppo, per arrivare a rispettare i requisiti legali necessari, registrare il brevetto e commercializzare un nuovo medicinale chimico o biologico, suppone tra 1.000 e 2.000 milioni di dollari. La maggior parte degli investimenti del monopolio vanno alla produzione dei cosiddetti medicinali biologici. A differenza dei farmaci chimici non si producono per proceso di sintesi chimica, ma sono molecole molto più complesse che derivano dagli esseri viventi. Sono proteine come gli ormoni, o anticorpi che in condizioni normali sono prodotte dal corpo umano, che però in caso di malattia vede ridotta questa capacità, specie nei casi di patologie croniche gravi come il cancro, il diabete, l’asma e le malattie infiammatorie dell’intestino, tra le altre. A differenza dei medicinali chimici, quelli biologici non si producono nella forma di pasticche ma spesso per iniezione. Alcuni esempi dei biofarmaci più conosciuti sono l’ormone della crescita, l’insulina e quelli che si utilizzano per i malati sottoposti a chemioterapia, per alzare il livello dei globuli rossi (la cosiddetta Epo) e di globuli bianchi G-Csf (fattore stimolante di colonie di granulociti); questo tipo di medicinali sono cruciali per il trattamento di molte patologie gravi, e potervi accedere è vitale per i malati.

Per l’industria farmaceutica, i medicinali biologici costituiscono la fonte principale dei profitti, e ciò per varie ragioni. In primo luogo, perché i prezzi che impongono finchè dura il brevetto sono astronomici. Secondo uno studio dell’associazione nordamericana Patients for affordable drugs, i farmaci destinati al trattamento oncologico sono tra i più cari negli Usa, e negli ultimi 15 anni i loro prezzi si sono moltiplicati per dieci.

Anche se in Europa dal 2006, e negli USA dal 2015, si è definito legalmente, che una volta scaduto il brevetto di un biofarmaco, qualsiasi laboratorio può produrre un medicinale biosimilare, la realtà è che questi medicinali, per la loro complessità, sono molto più difficili e cari da copiare e anche se da 11 anni diversi laboratori stanno sviluppando versioni biosimilari più economiche, gli esemplari continuano ad essere molto limitati. Sviluppare un medicinale biosimilare è molto più costoso in termini di tempo e di denaro che sintetizzare il generico di un medicinale chimico. Infatti per produrre un generico l’investimento medio oscilla tra i 600mila e i 4 milioni di dollari e il tempo necessario pe produrlo è attorno ai 3 anni. Nel caso di un biosimilare l’investimento sale in una forchetta tra i 100 e 300 milioni di dollari e sono necessari dai 6 ai 7 anni. Ciò significa che, mentre al mercato dei generici possono accedere anche aziende di medie dimensioni dei cosiddetti paesi in via di sviluppo – il 26% dei generici che si consumano in Europa e il 24% degli USA, si producono in India – nel mercato dei biosimilari la guerra si combatte solo tra i grandi monopoli del settore.

I profitti in gioco in questo mercato sono così elevati, che la Grande industria farmaceutica destina centinaia di milioni di dollari a finanziare convegni medici e articoli nelle riviste specializzate, che mettono in dubbio la sicurezza dei biosimilari, mettendo in discussione il criterio delle autorità sanitarie che affermano che il farmaco biosimilare ha gli stessi effetti terapeutici del medicinale originale. Con argomenti del tipo che se si inizia un trattamento con un medicinale biologico originale, sarebbe pericoloso seguire trattando il paziente con un biosimilare meno costoso, si propongono di generare incertezza e paura tra i malati e i loro familiari.

Tutto il loro arsenale mediatico e giuridico si indirizza ad assicurarsi che, dopo la fine del brevetto, si riduca al minimo la concorrenza dei biosimilari per mantenere gli alti tassi di profitto che gli vengono garantiti da elevatissimi prezzi di monopolio. In contrasto con la propaganda della lobby sanitaria, che suggerisce di retribuire adeguatamente l’investitore, la realtà secondo la maggioranza degli studi realizzati dalle autorità sanitarie e dalle organizzazioni in difesa della sanità pubblica è che almeno il 60% della ricerca e sviluppo di base dei nuovi medicinali, si realizza nelle università e istituti di ricerca pubblici. Ma non appena si trova una molecola suscettibile di diventare un medicinale redditizio, i Big Pharma comprano i diritti di sfruttamento e continuano per conto proprio la ricerca su questo possibile farmaco. Se il processo va in porto, il laboratorio che compra l’idea vende il farmaco al settore pubblico che ha contribuito in maniera così decisiva a scoprirla, ma al prezzo che loro impongono. Il margine di profitto che il monopolio ottiene con questo circolo vizioso, pubblico-privato-pubblico, raggiunge cifre miliardarie.

Tabella 4: Le 20 maggiori Big Farma del mondo nel 2017, fatturazione, profitti in milioni di dollari e % sulle vendite, fatturazione in milioni di dollari dei principali marchi di medicinali commercializzati. Fonte: vendite nel mercato di prescrizione PMFarma-Pharmaceutical Executive

 

In questa tabella, si evidenzia, come pochi marchi di medicinali concentrano la maggior parte delle vendite e dei profitti nel settore. La svizzera Roche, terza casa farmaceutica nel mondo, nel 2017 ha guadagnato 8.717 milioni di dollari, solo con i 3 medicinali più venduti, Rituxan, Avastin e Herceptin, tutti destinati al trattamento oncologico – tumori rettali di colon e di mammella – fatturando 21.179 milioni di dollari, il 53,55% del totale. Questo fenomeno arriva a livelli estremi in alcuni dei grandi laboratori degli Usa. Questo è il caso di Abbvie, dove le vendite di un unico medicinale, il Humira – destinato al trattamento di patologie del sistema immunologico come la colite ulcerosa, artriti reumatoidali o la artriti psoriasica – arrivarono nel 2017 a 16.078 milioni di dollari, il 63,55% della fatturazione complessiva. La stessa situazione la vediamo nel caso di Celgene con le vendite del Revlimid – indicato nel trattamento di cancri ematologici come mieloma e linfoma – che arrivano a 6.974 milioni di dollari nel 2017, su una fatturazione totale di 11.114 milioni; cioè, il 62,75% del totale.

Profitti monopolistici, la fusione del monopolio sanitario con lo Stato

La produzione mercantile è inerente al capitalismo, si produce per il mercato e per ottenere il più alto tasso di profitto possibile. Questo è il leitmotiv in tutti i settori produttivi, non si tratta né di soddisfare i bisogni vitali o sociali dell’umanità, né di migliorare o prendersi cura della salute dell’homo sapiens. Come ha spiegato Laura Marcos – dell’associazione Salud por Derecho – in un articolo pubblicato un anno fa, 9 delle 10 aziende che hanno ricevuto il maggior numero di sussidi in Europa per progetti sanitari tra il 2010 e il 2016, erano grandi aziende farmaceutiche e tutto questo nonostante il fatto che Il 75% dei nuovi medicinali approvati in Europa nel 2015 non abbia contribuito in alcun modo perchè c’erano già migliori alternative terapeutiche sul mercato. La situazione raggiunge l’estremo che, secondo le stime, lo spreco di Ricerca e sviluppo in sanità può raggiungere l’85% delle risorse totali investite. Nella loro ricerca del massimo pofitto, contando sulla collusione delle agenzie di controllo della salute pubblica, che chiudono un occhio o agiscono in aperta complicità con il monopolio, le grandi aziende farmaceutiche non esitano a mettere a rischio la salute e la vita di milioni di malati.

Bayer e gli effetti secondari del Xarelto

Nel 2008, la multinazionale tedesca Bayer, con tutti i permessi delle autorità sanitarie tedesche ed europee, ha rilasciato la prima molecola sintetizzata di Rivaroxaban. Questo farmaco viene utilizzato per fluidificare il sangue e prevenire la formazione di coaguli, che possono causare ictus. La sua nicchia di mercato mirava a sostituire i due anticoagulanti già esistenti da anni, Sintron – il cui principio attivo è l’acenocumarolo – e Aldocumar – un composto derivato dal warfarin. Il marchio con cui il nuovo farmaco iniziò a essere commercializzato in tutto il mondo si chiama Xarelto e per la sua distribuzione in Nord America, Bayer raggiunse un accordo con Jansen, la divisione sanitaria di Johnson & Johnson. Attraverso una campagna di marketing aggressiva, riuscirono ad ottenere una posizione dominante sul mercato, diventando il trattamento prescritto per oltre 42 milioni di pazienti nel 2017, con vendite che ammontavano a 2.698 milioni di dollari, nel caso di Bayer, e altri 2.288 milioni di dollari nel caso della multinazionale nordamericana.

Non avevano mai detto che, in alcuni pazienti, l’uso di Rivaroxaban poteva causare grandi emorragie. Appena iniziata la sua distribuzione commerciale migliaia di pazienti hanno subito gravi problemi o sono morti a causa delle emorragie. Solo negli Stati Uniti, Bayer e J&J hanno dovuto affrontare congiuntamente più di 25.000 cause legali da parenti di persone che sono morte per aver usato lo Xarelto e alla fine di marzo 2019 hanno dovuto stanziare 775 milioni di dollari per pagare le persone colpite. Negli Stati Uniti la stessa situazione si è verificata con il Dagigatran, un anticoagulante sintetizzato lo stesso anno 2008 dalla multinazionale tedesca Boehringer Ingelheim, commercializzato con il marchio Pradaxa. Nel 2014, hanno dovuto stanziare 650 milioni di dollari per far fronte a oltre 4.000 cause legali per gli effetti collaterali letali del loro anticoagulante. Paradossalmente, quando i casi di decesso dovuti all’uso di Xarelto iniziarono a essere resi pubblici, la prestigiosa rivista medica britannica British Medical Journal avvertì in un articolo che gli studi clinici che erano serviti a giustificare l’autorizzazione all’immissione in commercio di Rivaroxaban erano pieni di errori e carenze.

Purdue Pharma, la famiglia Sackler e la crisi sanitaria per il consumo di oppiacei negli Usa

Nell’ottobre 2017, il neo eletto presidente Donald Trump ha dichiarato un’emergenza sanitaria pubblica per far fronte all’ondata di dipendenze da oppiacei che ha colpito milioni di americani. Il precedente allarme sanitario era stato decretato nel 2009 per combattere lo scoppio dell’influenza causata dal virus dell’influenza A-H1N1.

La gravità della situazione aveva raggiunto il punto in cui i decessi per overdose sono diventati la principale causa di morte per adulti negli Stati Uniti, tanti come quelli uccisi da armi da fuoco e da incidenti stradali messi insieme. Di fatto, dei 16.849 decessi per overdose nel 1999, si è passati a 36mila nel 2007, 60mila nel 2016 e oltre 70mila nel 2017.

Nel suo discorso per giustificare la dichiarazione di emergenza sanitaria, Trump ha sostenuto che il fattore decisivo nella lotta contro l’epidemia di dipendenza era la lotta contro il traffico di droga e il modo più efficace per realizzarla, era costruire il muro lungo il confine messicano. Naturalmente, come spesso accade nel caso del signor Trump, la realtà dietro le migliaia di morti per abuso di droghe non aveva nulla a che vedere con quanto dichiarato dal presidente.

La vera causa che ha scatenato negli Stati Uniti oltre 400mila decessi per overdose negli ultimi 20 anni, ha origine a metà degli anni ’90, quando le autorità sanitarie statunitensi, sotto la pressione della lobby Healthcare-Pharmaceutical, hanno stabilito che il dolore cronico dovrebbe essere considerato il quinto segno vitale, vale a dire la sua valutazione, gestione e trattamento, dovrebbero essere considerati importanti dal punto di vista della salute, come la temperatura corporea, la pressione sanguigna, la frequenza respiratoria e la frequenza cardiaca. La conseguenza immediata di questa decisione fu l’approvazione di regolamenti meno stringenti, che avrebbero facilitato la produzione di antidolorifici molto più forti di quelli esistenti.

Nel 1996, le autorità sanitarie autorizzarono l’uso di due oppiacei, ossicodone e idrocodone, principi attivi ottenuti dal papavero da oppio – Papaver Somniferum -. Ciò che né i laboratori né le autorità hanno spiegato è che la maggiore potenza negli effetti analgesici di questi nuovi farmaci era direttamente proporzionale al rischio di provocare una forte dipendenza tra i pazienti ai quali venivano prescritti.

La prima decisione presa dalla Fda – l’agenzia farmaceutica statunitense – nel dicembre 1995 era autorizzare l’uso e la distribuzione di Oxycontin, un antidolorifico della società Purdue Pharma di proprietà dei fratelli Sackler. La piena subordinazione delle agenzie statali agli interessi del monopolio fu resa pubblica solo 3 anni dopo, nel 1998. Quell’anno, il direttore che aveva concesso l’autorizzazione dei Sacklers, il dottor Curtis Wright, si dimise dalla sua posizione presso la Fda per lavorare come alto esecutivo presso Purdue Pharma. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione del governo, la società farmaceutica ha lanciato un’intensa campagna di marketing per promuovere la massiccia vendita del suo antidolorifico, che si basa sul principio attivo ossicodone – sintetizzato per la prima volta nel 1916 in Germania – un derivato della tebaina, la stessa molecola da cui si ottiene l’eroina, con effetti tre volte più potenti di quelli della morfina.

Fin dal primo momento, tutta la strategia commerciale della Farma è stata orientata verso la nicchia di mercato rappresentata dagli abitanti della cosiddetta Rush Belt (“cintura arrugginita”, l’area del Midwest devastata dalla chiusura delle industrie) e dalle aree rurali del interno del paese. Si sono concentrati sugli Stati più poveri e con maggiori problemi sociali, dove la distruzione di posti di lavoro, con le sue conseguenze di bassa autostima e disgregazione delle famiglia, costituivano un terreno fertile per creare la dipendenza dell’Oxycontín. Per raggiungere i loro obiettivi, non risparmiarono alcun mezzo; e da un budget pubblicitario di 187.500 dollari nel 1996, passarono a 4 milioni nel 2001 continuando a crescere anno dopo anno. Nel 2016, diversi media hanno riferito che, tra agosto 2013 e dicembre 2015, i quattro maggiori produttori dei tre analgesici derivati dall’oppio più venduti negli Stati Uniti, Oxycontin, Vicodin – a base di idrocodone – e Percocet – una combinazione di ossicodone e paracetamolo – avevano pagato 46 milioni di dollari in banchetti, viaggi e spese varie a oltre 68mila medici per incoraggiarli a prescrivere i loro oppiacei.

La loro strategia, finanziata con milioni di dollari, era molto semplice: l’uso degli oppiacei doveva diventare una cosa normale, e il modo migliore per farlo era quello di avere dei medici altamente qualificati che attestassero le virtù dell’Oxycontin e di altri farmaci. Nel caso dei Sacklers, tra i loro collaboratori più attivi avevano il supporto dell’Aapm – American academy of pain medicine – e dell’Aps – American society of pain -. Perciò furono generosamente finanziati e diversi membri di entrambe le associazioni furono assunti come consulenti del laboratorio. In effetti, il dott. David Haddox, presidente del comitato Aps e un’entusiasta difensore dei benefici terapeutici degli oppiacei, fu assunto da Purdue nel 1999, rimanendo in azienda fino al 2019.

Il risultato pratico dei suoi piani fu immediato: le vendite di Oxycontin, che erano state di 80 milioni di dollari nel 1997, aumentarono a 2,1 miliardi di dollari nel 2001, e anno dopo anno, le vendite e gli utili continuarono a crescere. Nel 2010, il fatturato superò i 3 miliardi di dollari, rappresentando l’80% delle vendite e dei profitti del laboratorio. Si stima che tra il 1996 e il 2016, con le vendite di Oxycontin, Purdue abbia guadagnato oltre 35 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, la ricchezza dei fratelli Sackler, proprietari del laboratorio, è cresciuta in modo esponenziale, rendendoli una delle famiglie più ricche del club esclusivo dei miliardari americani, con una fortuna che, secondo la rivista Forbes, supera i 13 miliardi di dollari.

Le conseguenze sanitarie e sociali nelle città degli Stati Uniti sono state devastanti. Milioni di americani, a partire da quelli di mezza età più soggetti a subire dolori cronici, hanno iniziato a prendere gli oppioidi prescritti per loro nei servizi medici, senza che nessuno spiegasse che erano potenti droghe dalle quali potevano diventare dipendenti. La situazione è arrivata al punto che nel 2012 ci sono state oltre 286 milioni di prescrizioni di Oxycontin, Vicodin e Percocet; cioè, quasi una per ogni abitante degli Stati Uniti. Stati come la Virginia dell’Ovest con poco più di 1.800.000 abitanti sono stati letteralmente inondati di pillole, come riportato da Eric Eyre sulla Charleston Gazzette Mail nel 2013. Secondo la Dea, il Dipartimento federale della droga, nel quinquennio 2007-2012, laboratori e distributori di prodotti farmaceutici hanno spedito oltre 780 milioni di pillole di oppioidi, 87 pillole pro capite all’anno, nella Virginia dell’Ovest. Solo nella piccola città di Williamson – 3.000 abitanti – la dott.ssa Katherine Hoover ha prescritto 333mila prescrizioni di oppiacei tra dicembre 2002 e gennaio 2010; cioè 14 per abitante all’anno. La situazione arrivò al punto in cui la città iniziò a essere conosciuta come “Pillianson” (“Pill” significa “pillola” in inglese). La pandemia di dipendenza ha raggiunto un livello tale che nel 2017, secondo la rete televisiva Nbc, i servizi di emergenza di Williamson hanno trattato in media 50 casi di overdose al mese. Sin dall’inizio, le autorità statali e il governo federale erano consapevoli della crisi sanitaria che si stava generando.

Nel 2006, il Dr. Leonard Paulozzi del Cdc – Center for Disease Control – ha pubblicato un articolo in cui ha avvertito che nei 3 anni dal 1999 al 2002, i decessi correlati agli oppiacei erano aumentati del 91%. Una conseguenza diretta dell’aumento esponenziale delle dipendenze da questi antidolorifici è stata la crescita parallela del consumo di droghe illegali, come l’eroina, più economica delle pillole.

A seguito dell’allarme sollevato da questa e altre denunce simili nel 2007, lo Stato della Virginia ha citato in giudizio Purdue Pharma e tre dei suoi dirigenti per la prima volta. Per evitare un processo pubblico, la società ha raggiunto un accordo in cui si sono dichiarati colpevoli di aver truffato medici, pazienti e autorità di regolamentazione nascondendo i gravi effetti di dipendenza da Oxycontin e accettato di pagare una multa di 635 milioni di dollari. Niente in paragone ai profitti incassati! Dopo l’accordo del 2007, Purdue ha continuato a battere i record di vendite e profitti con Oxycontin e dal 2013-2015, quando i suoi problemi legali hanno iniziato a crescere e le vendite sono diminuite nel mercato nordamericano, la società si è rivolta alla consociata Mundipharma, con sede in Gran Bretagna, per promuovere il trattamento del dolore con la stessa tattica pubblicitaria, nei mercati di Brasile, Cina, Russia, Gran Bretagna, Spagna. In Italia si commercializza col marchio Ossicodone.

Prima che il governo federale fosse costretto a riconoscere la gravità della situazione – che secondo i calcoli di alcuni economisti solo nel 2015 aveva comportato una spesa pubblica di 504 miliardi di dollari – e dichiarare l’emergenza sanitaria nell’autunno del 2017, oltre 500 città e contee in Alabama, California, Illinois, Kentucky, Massachusetts, Wisconsin, Virginia, Utah, Tennessee, Missouri, New Hampshire, New Mexico, Indiana e Michigan, e 8 delle tribù indiane originarie avevano già presentato migliaia di cause legali contro i laboratori responsabili: Purdue, Jansen, Teva Pharmaceutical, Abbott Laboratories e i distributori Mckesson, Cardinal Health e Amerisource Bergen, chiedendo danni per oltre 50 miliardi di dollari. Due anni dopo la dichiarazione di emergenza sanitaria, nonostante tutte le prove delle terribili conseguenze che questi farmaci hanno per la salute pubblica, l’affare continua a funzionare senza intoppi visto che vengono ancora prescritte 58,7 oppiacei all’anno ogni 100 abitanti negli Stati Uniti.

Alzheimer, Parkinson e l’anti-infiammatorio Enbrel di Pfizer

A gennaio 2018, Pfizer, la principale azienda farmaceutica al mondo, ha annunciato la chiusura del suo dipartimento neurologico e il licenziamento dei suoi 300 dipendenti. Nella sua dichiarazione, Pfizer ha spiegato che la decisione di abbandonare la ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci, volta a curare il morbo di Parkinson e l’Alzheimer, era stata adottata per riallocare tali risorse nelle aree di investimento in cui il suo portafoglio di prodotti e competenza scientifica, erano molto più importanti. Un anno dopo, il 5 giugno 2019, il giornalista Christopher Rowland del Washington Post, rese pubblico che dal 2015 Pfizer aveva nascosto all’opinione pubblica che uno dei suoi team investigativi, sulla base dell’analisi statistica (Big Data) di centinaia di migliaia di richiami degli assicuratori nel settore sanitario, aveva fatto un’importante scoperta, che collegava l’assunzione del suo farmaco antinfiammatorio Enbrel – destinato al trattamento dell’artrite reumatoide – con una riduzione del rischio di contrarre l’Alzheimer di almeno il 64%.

I ricercatori hanno raggiunto tale conclusione contrastando l’incidenza di questa grave malattia neurologica, tra un numero simile di persone che assumevano il farmaco antinfiammatorio e lo stesso numero di coloro che non lo avevano fatto. Per verificare i potenziali effetti terapeutici di Enbrel, nella prevenzione, nel trattamento e nel ritardo dell’Alzheimer, coloro che hanno condotto lo studio proposero ai dirigenti della multinazionale di condurre una sperimentazione clinica su un campione di 3.000-4.000 persone, trattate o meno con l’anti-infiammatorio. Il costo stimato era di 80 milioni di dollari. Il consiglio di amministrazione di Pfizer decise di non condurre la sperimentazione clinica, e neanche rendere pubbliche le conclusioni dello studio da parte dei loro ricercatori.

Una volta che il Post ha scoperto lo scandaloso comportamento, i direttori della multinazionale sono stati costretti a dare una spiegazione. Hanno così affermato che la decisione dipendeva dalle valutazioni degli esperti che avevano concluso che Enbrel non era una terapia che offriva risultati nel trattamento dell’Alzheimer. Secondo loro, il principio attivo di Enbrel era contenuto in una molecola troppo grande per superare la barriera ematoencefalica in modo da agire sulle infiammazioni del tessuto cerebrale. Perciò avevano rinunciato alla sperimentazione clinica. Dichiaravano inoltre di non aver reso pubblica la notizia per impedire che scienziati esterni all’azienda orientassero i loro sforzi nella direzione sbagliata.

I loro “argomenti” non hanno convinto nessuno, e molti ricercatori di prima linea sull’Alzheimer di università come Harvard, John Hopkins, Southampthon, hanno chiesto che gli studi fossero resi pubblici in modo che fossero gli scienziati a valutarne l’utilità o meno. Ciò che i dirigenti Pfizer non hanno detto è che il brevetto Enbrel scadeva nel 2018; in effetti, da anni commercializzavano il loro nuovo medicinale per l’artrite, Xeljanz. Ciò che ha motivato la loro decisione è stato il basso numero di profitti che un eventuale risultato positivo, avrebbe prodotto per il loro investimento visto che sarebbe entrato in competizione fin dal primo momento con medicinali generici molto più economici.

Il rifiuto di diffondere informazioni che potevano aprire un promettente campo di ricerca nella prevenzione dell’Alzheimer è stato motivato dalla stessa ragione che altre volte li ha portati a nascondere gli effetti collaterali dannosi di un nuovo farmaco: la ricerca del massimo profitto, indipendentemente dall’idoneità terapeutica del medicinale da lanciare sul mercato.

Alla ricerca di Eldorado – la corsa per trovare il vaccino del Covid-19

Diversi giorni dopo che si sono verificati i primi casi di Covid-19 a Wuhan, le autorità cinesi hanno identificato il nuovo coronavirus e informato l’Oms. Studiando il nuovo patogeno i ricercatori cinesi e quelli dei laboratori di riferimento dell’Oms, hanno scoperto che era molto simile al Cov della Sars che nel 2002-2003 ha causato l’epidemia della cosiddetta sindrome respiratoria acuta grave.

Il nuovo virus condivide con la Sars tra l’80% e il 90% del suo materiale genetico e sua somiglianza è tale che gli scienziati lo hanno chiamato Sars-CoV2. C’erano anche alcune somiglianze con il cosiddetto Mers-CoV, che nel 2012 ha causato i primi casi della cosiddetta sindrome respiratoria acuta del Medio Oriente, in Arabia Saudita. La somiglianza tra i due virus si riflette nel fatto che alcuni dei sintomi e delle caratteristiche di Covid-19 coincidono con quelli sviluppati dagli infetti della Sars all’epoca. La somiglianza è maggiore nei casi più gravi, in cui è stato scoperto che entrambi i patogeni causano polmonite e infiammazione acuta nei polmoni che smettono di funzionare correttamente. Le differenze più significative sono note. Nel caso della Sars, si sapeva fin dall’inizio quale era l’animale da cui veniva fatto il salto al contagio degli umani, la civetta. Tali dati sono ancora sconosciuti per la Sars-CoV2.

In secondo luogo, il tasso medio di mortalità per la Sars è stato del 9,2% – 775 decessi su 8.403 infetti – e tra quelli di età superiore ai 65 anni o affetti da precedenti ipertensione, disturbi cardiaci, respiratori o immunitari, si arrivava fino al 50%. Nel caso di Covid-19, con i dati parziali e incompleti disponibili, l’aliquota media oscilla tra l’1,5% e il 4% e, come nella Sars, aumenta molto tra gli over 65 e i malati cronici, in cui si concentra il 20% dei casi gravi che richiedono il ricovero in ospedale.

Infine, la differenza qualitativa tra i due consiste nella diversa efficacia tra i due nella diffusione del contagio. Nel caso della Sars, la prevalenza del contagio era di 10 giorni e i pazienti asintomatici non erano contagiosi. Nei pazienti Covid-19 la prevalenza può arrivare fino a 28 giorni e quelli asintomatici contagiano. L’efficienza molto maggiore di Sars-CoV2 nella sua trasmissione tra umani, facilita il contagio massiccio ed è ciò che rende il nuovo virus molto più pericoloso.

Qual’è stato in passato il motivo che ha spinto i grandi laboratori a investire nell’indagine sulla sindrome respiratoria acuta grave? Quello di avere succosi profitti se l’epidemia si fosse diffusa e allungata nel tempo con il brevetto per il vaccino e degli antivirali per il trattamento della SARS. Ma lo stesso motivo è stato quello che mesi dopo li ha spinti ad abbandonare le indagini una volta che è emerso il relativamente basso potenziale di estensione dell’epidemia. Ora che la pandemia, una eventualità su cui i ricercatori avevano avvertito inascoltati per anni, è una crudele realtà, i governanti del mondo non si stancano di ripeterci che solo unendoci tutti sconfiggeremo il virus. Se ci fosse un solo atomo di verità in queste dichiarazioni, la prima misura che avrebbero dovuto prendere era quella di coordinare gli sforzi dei ricercatori di tutti i paesi mettendo a loro disposizione tutte le risorse economiche e tecniche necessarie. Indubbiamente, un tale appello, avrebbe avuto il sostegno entusiasta di tutta la comunità scientifica e in tempi record, si sarebbe potuto ottenere un prototipo praticabile del vaccino, con farmaci efficaci per combattere la malattia. Potendo fabbricarli e distribuirli in tutto il mondo. Invece della collaborazione invece, lo scenario reale che si cela dietro la nuvola tossica della propaganda è lo scontro aperto tra i diversi paesi.

L’obiettivo è difendere il loro prestigio e gli interessi delle rispettive borghesie, che competono per assicurarsi il primo posto nella corsa a ottenere il vaccino e gli antivirali necessari per il trattamento di Covid-19. Rafforzare il potere e il prestigio nella sfera internazionale e ottenere per le proprie case farmaceutiche la maggior parte degli affari e dei potenziali profitti. Questo e solo questo, e non certo la difesa della salute di milioni di persone, sono gli interessi che sono veramente in gioco!

A metà marzo, quando iniziarono ad essere adottate le prime misure di confinamento in Spagna e in Italia, molti leader hanno continuato a mettere in discussione la serietà della pandemia, tra gli altri il loquace Mr.Trump. Tutti i suoi discorsi erano orientati a scagliarsi contro il maledetto virus cinese, il cui cinismo non conosce limiti! Mentre in pubblico negavano la gravità della crisi, per settimane alla Casa Bianca c’erano incontri tra il potere esecutivo, le amministrazioni regolatorie e l’industria farmaceutica, e lo stesso avveniva nei ministeri delle altre potenze.

Il 23 marzo, il quotidiano spagnolo La Vanguardia, riportava i dati pubblicati il giorno precedente dall’Organizzazione mondiale della sanità. Secondo l’Oms in quel momento c’erano almeno quaranta, tra istituzioni, enti pubblici e multinazionali farmaceutiche, coinvolti nella lotta contro il tempo per sintetizzare il vaccino. Esistevano già quattro prototipi che avevano iniziato i test clinici sugli animali e altri due avrebbero cominciato ad aprile. I due progetti più avanzati in fase di sviluppo si trovavano in Cina e negli Stati Uniti. In Cina, la ricerca era diretta dal Ministero della difesa attraverso l’Accademia militare delle scienze mediche in collaborazione con la società biotecnologica Cansino Biologics. A metà marzo, The South China Morning Star ha riferito che erano già stati condotti numerosi studi clinici di successo con primati. Stavano progettando di iniziare le prove umane, con 108 volontari, ad aprile. Nel progetto statunitense sono implicati il Niaid – National institute of allergy and infectious diseases-, Nhi – National institute of health -, CEPI – Coalition for innovations and preparation for epidemics -, and Moderna Therapeutics che è il laboratorio che sta sviluppando il vaccino, utilizzando una nuova tecnologia di ingegneria genetica chiamata Messenger Arn.

I primi test umani dovevano iniziare il 14 marzo con 45 volontari sani di età compresi tra i 18 e i 55 anni. Il principale svantaggio del progetto Moderna è che fino ad ora le autorità sanitarie non avevano autorizzato nessuno dei farmaci basati su questa tecnica, in quanto non soddisfacevano gli standard di sicurezza richiesti dalle normative. Ma “casualmente”, pochi giorni dopo, si è tenuto un incontro a cui hanno partecipato l’Icmra-International coalition of medicines regulatory authority-, la Fda- US Drug Agency – e l’Ema, agenzia europea della droga. In questo incontro, si è deciso – in considerazione della natura eccezionale della crisi di Covid-19 – di allentare i criteri e i requisiti che sono stati applicati fino ad ora.

Tutto vale alla ricerca di Eldorado! Tutto vale alla ricerca del massimo profitto per un pugno di capitalisti e di case farmaceutiche. Questa emergenza sanitaria sta facendo emergere con ancora più evidenza come sia marcio e corrotto il sistema sanitario mondiale e come sia quanto mai necessario nazionalizzare sotto il controllo dei lavoratori le grandi compagnie farmaceutiche garantendo il controllo esclusivamente pubblico sulla ricerca medica. Questi aguzzini delle compagnie mediche e farmaceutiche che hanno fatto miliardi sulla pelle dei lavoratori, dei pensionati e della povera gente vanno semplicemente espropriati, senza indennizzo e le loro proprietà personali requisite. Sono solo degli sciacalli e come tali vanno trattati, per il bene dell’umanità.

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